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Didascalie: la Biennale di Venezia

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Fabio Mauri Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.  Valigie, borse, bauli, materiale da imballaggio, tessuto e legno. 400 × 400 × 60 cm.
Fabio Mauri
Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.
Valigie, borse, bauli, materiale da imballaggio, tessuto e legno. 400 × 400 × 60 cm.

Con Esplicitazione del rimosso
Das Kapital alla Biennale di Venezia

di

Giulio Ciavoliello

La Biennale d’arte Venezia è incredibile. Tutta la città è un pullulare di mostre e iniziative legate alle arti visive, ben al di là dell’ente Biennale che già di per sé propone moltissimo, ai Giardini, all’Arsenale, con i padiglioni nazionali interni ed esterni. E il fenomeno nel corso degli anni aumenta sempre di più. Nei giorni della vernice ogni due passi si scopre un luogo dove inizia una mostra, spesso con un cocktail, occasione di incontro per addetti ai lavori e curiosi. Si ha la sensazione di beneficiare di tante proposte mentre permane un dubbio come sottofondo. Ci si sta perdendo qualcosa di meglio da un’altra parte? Non mi trovo nel posto giusto al momento giusto? Certo per il visitatore professionale esistono delle linee guida, riguardo a dentro e fuori Biennale. Ma limiti di tempo, l’ubiquità impossibile, fanno vivere l’angoscia della perdita, nello stesso momento in cui nel muoversi per mostre si decide di arrendersi, quando bisogna fermarsi. Non si può più immagazzinare informazioni. La mente non ce la fa più a comprendere. E’ necessario rimandare all’indomani.

Il senso di incompletezza aumenta fino all’esasperazione se si pensa alla continuazione di attività dal vivo e temporanee che si tengono all’interno della Biennale, per i quasi sette mesi della durata complessiva. Qui, giorno dopo giorno, soprattutto nella cosiddetta Arena, una struttura d’impianto teatrale appositamente costruita nell’edificio principale ai Giardini, si tengono letture, conferenze, dibattiti, spettacoli. In effetti l’incompletezza rientra nelle intenzioni del curatore, Okwui Enwezor, perché è prevista, dichiarata, con una esplicita contraddizione fra staticità di ciò che viene proposto in modo fisso e vitalità di ciò che accade in svariati momenti, con risvolti prefigurabili solo in parte.
Si tratta di un modello espositivo non nuovo, ma che a Venezia trova la sua originale articolazione in un fondamento: la lettura e rilettura quotidiana da parte di attori de Il Capitale di Carlo Marx. La pervasività del capitale, intesa come economia e profitto, costantemente rimossa dai riti del mondo dell’arte, diventa centrale nella Biennale di Enwezor. Tutta la mostra, in alcuni casi con il concorso di padiglioni nazionali che rinunciano all’autonomia prevista dallo statuto, si declina tenendo conto di conflitti, sperequazioni, migrazioni, emergenze ambientali, implicazioni della globalizzazione, legati ai rinnovamenti del capitale, alle sue capacità di adeguamento a nuove prospettive di profitto.

Terry Adkins
Terry Adkins

Ha una posizione primaria ai Giardini l’opera di Fabio Mauri. Il suo muro di valigie quasi sbarra la strada ai visitatori per ricordarci le diaspore dell’umanità, che nel caso di Mauri rimandano in primis a l’Olocausto.
Allo stesso modo, alle Corderie il cannone di Pino Pascali può essere assimilato  alla volontà di un fuoco di sbarramento nei confronti del pubblico.
In questa zona si trovano ben collocate le sculture di Terry Adkins, realizzate con l’assemblaggio di strumentazioni musicali, in base a suggestioni provenienti soprattutto dalla cultura afro-americana.
Im Hueng-Soon ha ottenuto il Leone d’Argento per il suo documentario sul lavoro precario femminile in aziende asiatiche.
From the Horde to the Bee è un libro di Marco Fusinato che accoglie una selezione di copertine di pubblicazioni di controcultura e underground italiani custodite nell’Archivio Primo Moroni, attualmente ospitato al Cox 18 di Milano.
Fusinato in proposito ha rilasciato la seguente considerazione (Simone Mosca, Laguna rossa, in “La Repubblica”, 12 maggio 2015, pagina della cronaca milanese): «Per me è un’operazione da Robin Hood, direi anzi proprio di riciclaggio di denaro sporco. Ho stampato 10mila copie, se le venderemo tutte verranno raccolti 100mila euro che usciranno dalle tasche gonfie degli inutili fan dell’arte e riempiranno quelle vuote ma pure dell’archivio».

Marco Fusinato From the Horde to the Bee (2015) 10496 pagine di documenti stampati, tavoli, banconote, telecamera in time-lapse. Dimensioni variabili
Marco Fusinato
From the Horde to the Bee (2015)
10496 pagine di documenti stampati, tavoli, banconote, telecamera in time-lapse. Dimensioni variabili

È noto il Padiglione dell’Islanda, perché ne è arrivata notizia sulle prime pagine dei giornali: Christoph Büchel ha trasformato in moschea la chiesa di Santa Maria della Misercordia, chiusa al culto da più di quarant’anni e di proprietà privata. Questo naturalmente ha suscitato proteste. Ancora una volta è una questione di memoria corta. Autorità impegnate nella manutenzione opportunista dell’esistente, oltre a cronisti che leggono come provocazione qualsiasi azione non conforme, convergono nel non ricordare che la storia dell’umanità è colma di inversioni di segno, anche religioso. In tutta l’area mediterranea sono numerosi i casi di trasformazioni di edifici da luoghi di culto di una dottrina a luoghi di culto di altre dottrine. La storia reale di luoghi e genti ha visto avvicendarsi tante volte chiese, moschee, sinagoghe.

Dopo aver visto molto e aver perso sicuramente qualcosa di buono e interessante, a distanza di giorni nasce una considerazione. La proposta di Enwezor è essa stessa una manifestazione della pervasività del capitale, del suo livello più alto e sofisticato. A Venezia il capitale fa un triplo salto mortale, non neutralizza ma amplifica criticità e opposizione, facendole proprie, in una delle manifestazioni artistiche più accreditate sul piano internazionale. Questa edizione della Biennale è costituita dal riconoscimento di differenze, alterità, percorsi originali e nello stesso tempo è un’espressione della magnanimità dell’establishment artistico mondiale. Del resto la realtà economica ci sta abituando a connubi fino a qualche tempo fa inimmaginabili. Valga per tutti il capitalismo comunista cinese.

Veniamo al Padiglione Italia. Vincenzo Trione che se ne è occupato, appena nominato aveva tenuto a dichiarare la non appartenenza alla categoria dei curatori ma a quella dei critici. La distinzione è apparsa bizzarra e contraddittoria, dal momento che essere critici o curatori è una questione oggettiva di ruoli e non di volontà soggettiva. Non si comprende perché il critico ha proposto un progetto di mostra al ministero dei beni culturali, cui spetta la nomina, o non ha respinto l’incarico a curare il padiglione italiano. Chi se ne occupa assume almeno temporaneamente il ruolo del curatore.
Trione ha scelto «artisti di varie formazioni che incarnano il “codice genetico” dello stile italiano, pensato come combinazione tra il bisogno di sperimentare e il desiderio di riabitare momenti talvolta marginali della storia dell’arte, attingendo a quell’immenso giacimento che è la memoria». Purtroppo tale prospettiva, che può essere feconda, si è tradotta in una mostra piuttosto cupa, dal sapore cimiteriale: luce fioca, per cui molto si fruisce in penombra, netta separazione degli spazi equivalenti (a ognuno la sua cappella).È come se il rapporto col passato potesse esistere solo in accezione necrofila. Alcuni artisti invitati hanno assecondato l’impostazione, altri hanno resistito. Alis Filliol e Marzia Migliora non ne sono stati soggiogati.

Im Heung-Soon Factory Complex, 2014 Installazione con video in HD, colore, suono. 81’.
Im Heung-Soon
Factory Complex, 2014
Installazione con video in HD, colore, suono. 81’.

Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures

Photo by Alessandra Chemollo

Courtesy: la Biennale di Venezia

 

Palmira. Tra verità e menzogne

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di Alberto Savioli*

11157518_10206402671206712_9171213090329810753_oNel dicembre del 2010 mi congedavo da un caro amico residente nell’oasi di Palmira, affidandogli parte dei miei bagagli e anche una sella da dromedario e un tappeto beduino in feltro, chiamato ceben o lubbad, ricordi personali della mia vita tra le tende e tra i beduini che ho frequentato per quattordici anni.

Doveva essere un breve distacco di soli tre mesi, ma purtroppo è diventata un’assenza di più di quattro anni. Ogni volta che chiamavo il mio amico a Palmira mi diceva: “La tua sella, il tuo feltro e la valigia sono sempre qui da me, non ti preoccupare quando tornerai saranno sempre qui”.

Dopo la recente conquista dello Stato Islamico (Is) dell’antica oasi carovaniera di Palmira, il cui nome arabo è Tadmor, so che non vedrò più i miei bagagli, il mio tappeto e la mia sella da dromedario, il mio amico è scappato e di lui non ho più notizie, alla vigilia dell’attacco dell’Is le comunicazioni telefoniche sono state interrotte.

Se quest’amico è scappato alla conquista dello Stato Islamico, un secondo si trovava detenuto da tre mesi nel famigerato carcere di Palmira, dove negli anni sono stati rinchiusi anche dissidenti politici e oppositori al regime.

L’hashtag #SavePalmira viene rilanciato come un mantra all’avanzata delle bandiere nere del califfato e vengono snocciolati numeri e dati senza verifica di fonti e fatti, per questo motivo va fatto a riguardo un po’ di ordine, per vedere cosa realmente succede alla città, agli abitanti e al sito archeologico.

Lo Stato islamico distruggerà Palmira?

Anche io, come archeologo, sono allarmato per la conquista dell’Is della città, ma Palmira è realmente in pericolo? Perché è in pericolo? I miliziani dello Stato Islamico la distruggeranno come hanno fatto i siti iracheni di Nimrud e Hatra?

Secondo la stampa nazionale Palmira è già stata distrutta, ma naturalmente ciò non è avvenuto, e a mio avviso questo allarmismo preventivo mette ulteriormente a rischio le rovine della città.

Palmira non è il primo sito archeologico di rilievo che si trova nei territori conquistati dallo Stato islamico, sia in Siria che in Iraq, e solamente alcuni siti archeologici sono stati danneggiati, la distruzione non è stata sistematica.

Per fare degli esempi concreti voglio citare dei siti di rilievo presenti in Siria e non distrutti dall’Is. Dura Europos situata sul corso dell’Eufrate a sud di Deir ez-Zor presso il villaggio di Salhiyeh, fondata da Seleuco I Nicatore attorno al 300 a.C. e posta ai confini orientali dell’Impero romano, a contatto con il mondo Partico e Sasanide è attualmente conservata.

L’importante sito archeologico di Mari (Tell Hariri) nei pressi di Abu Kamal, posto sempre lungo l’Eufrate, raggiunse il suo massimo splendore nel II millennio a.C. e venne distrutta da Hammurabi di Babilonia nel 1759 a.C.

La città di Halabiyah, un tempo nota come Zenobia, posta sulla riva dell’Eufrate a nord di Deir ez-Zor, fortificata da Zenobia la regina di Palmira nel III secolo d.C., è un sito di 12 ettari protetto da mura massicce e con una cittadella nel punto più alto.

Ma potrei citare altri siti come Qasr el-Heir al-Sharqi, a nord di Sukhne, costruito dal califfo omayyade Hisham ibn Abd al-Malik nel 728-29 come castello di caccia nella steppa siriana; o gli stessi monumenti che si trovano all’interno della “capitale” siriana dello Stato islamico, Raqqa, risalenti al periodo abbaside, quando per tredici anni (dal 796 all’809) la città divenne di fatto capitale dell’Impero e sede del califfo Harun al-Rashid.

DuraEuroposPurtroppo la maggior parte dei siti siriani sottoposti all’influenza del califfato sono stati depredati e scavati illegalmente in modo sistematico, questo almeno dicono le immagini satellitari che mostrano un incremento degli scavi clandestini a Dura Europos e Mari dalla conquista dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) nel 2013.

Tuttavia i monumenti e i siti non sono stati distrutti in quanto tali. Perché ciò è successo ad alcuni siti iracheni?

Perché lo Stato islamico distrugge le immagini delle divinità.

Alcuni video tristemente noti hanno mostrato la distruzione di alcune statue (oltre che di alcuni calchi in gesso) dal sito partico di Hatra e un toro androcefalo assiro (lamassu) conservati al Museo di Mosul, di un secondo toro androcefalo che si trovava sul sito di Ninive nella porta di Nergal, il Palazzo Nord-Ovest a Nimrud che conservava una serie di rilievi assiri, e alcune sculture sul sito di Hatra.

Tutte queste distruzioni hanno in comune le immagini di divinità o che vengono interpretate come divinità dai miliziani dell’Is. Secondo la visione dello Stato islamico tutte le immagini di divinità all’infuori di Allah, interpretate come falsi dei, vanno distrutte. Allo stesso modo vengono distrutti santuari di santi locali (spesso si tratta di santuari sciiti o sufi) considerati da loro connessi alla pratica del shirk, il politeismo, perché compromettono l’assoluta devozione a Dio.

71L’Is nel fare ciò utilizza un hadith in cui il profeta Muhammad ordina ai suoi compagni di “non lasciare alcun idolo senza cancellarlo e qualsiasi tomba senza livellarla”, tuttavia innumerevoli esempi dei primi conquistatori della storia dell’Islam, mostrano come l’Islam inducesse a distruggere i “falsi dei”, dunque le immagini ancora adorate di altre divinità.

I siti distrutti fino ad ora hanno seguito questa linea dettata dall’Is, quindi Palmira non dovrebbe venire distrutta in quanto città antica, eventualmente a rischio sono le immagini di divinità, o immagini interpretate come tali dai miliziani dello Stato islamico.

Naturalmente questo non significa che vi è la certezza che la distruzione non avverrà, tuttavia a mio avviso questo allarmismo preventivo potrebbe fornire una motivazione all’Is per distruggere le antiche rovine. Uno dei motivi che inducono l’Is a mostrare i video delle distruzioni, realizzati con le tecniche più moderne e sofisticate, utilizzando droni e la tecnica dello slow-motion, è l’intento di colpire e impressionare, e cosa c’è di meglio che distruggere un sito su cui sono puntati gli occhi del mondo.

Fa bene l’Unesco a preoccuparsi per Palmira, tuttavia questa attenzione spasmodica che porta la stampa a scrivere che l’Is avrebbe già distrutto le rovine, non solo è cattiva informazione ma mette anche ulteriormente a rischio il sito archeologico, senza poi potere fare nulla di concreto per salvarlo.

Il pericolo reale per le rovine può venire da uno scontro tra lo Stato islamico e l’esercito siriano come è appena accaduto (1, 2, 3).

I danni a Palmira prima dell’avvento del califfato.

palmyra1Se veramente la stampa nazionale è preoccupata per Palmira, mi chiedo perché in questi ultimi due anni non abbia posto l’attenzione ai danni causati al sito archeologico e messo a rischio dal regime siriano che ha militarizzato l’area archeologica e il castello di Fakhreddine ibn Maan che sovrasta le rovine.

Il sito Apsa2011 fornisce documentazioni video e fotografiche relative a Palmira dal 2013, queste mostrano lo scavo di trincee nell’area archeologica, il posizionamento di lanciarazzi, l’installazione di armamenti pesanti, carri armati posizionati nell’area archeologica, il danneggiamento del colonnato nell’agosto 2013 a causa degli scontri tra l’esercito governativo e i ribelli.

Inoltre è dal 2014 che la Direzione generale delle antichità e dei musei di Siria (DGAM) intercetta busti e statue in calcare trafugate dalle necropoli romane di Palmira, mentre la città era saldamente nelle mani dell’esercito siriano (1, 2, 3).

1384034_591290174272644_1331698259_nIl 15 maggio un attivista ha accusato il generale Wafiq Nasser a capo dell’intelligence militare di Sweida di avere saccheggiato i busti di una tomba di Palmira.

E non va dimenticato infine che tutte queste opere d’arte trafugate, indipendentemente di chi sia la responsabilità, vengono vendute dalla case d’aste occidentali e finiscono nelle collezioni private europee, americane, giapponesi e cinesi.

Recentemente è stata sequestrata alla dogana americana una testa di toro androcefalo di epoca assira proveniente dall’Iraq, il suo valore è di un milione e duecento mila dollari, il trasportatore sosteneva che venisse dalla Turchia e che il valore fosse di 6.500 dollari.

Nella primavera scorsa la casa d’asta Bonham’s di Londra fu costretta a ritirare dalla vendita la parte inferiore di una stele assira raffigurante il sovrano assiro Adad-ninari III, la cui base d’asta era di un milione di euro, il proprietario risultava un anonimo collezionista svizzero.

La statua proveniva da scavi clandestini sul sito siriano di Tell Sheikh Hamad, l’identificazione è stata possibile poiché la parte superiore della stele era stata scoperta nel 1879 in questo sito e ora è conservata al British Museum.

Lo Stato islamico sta trucidando i civili?

Il 24 maggio la Reuters, quindi una fonte informativa seria e attendibile, ha scritto di 400 civili uccisi dallo Stato islamico a Palmira, “in maggioranza donne e bambini”, tuttavia la fonte originaria è la tv di stato siriana, una fonte che non si è dimostrata attendibile fino ad ora in quanto di parte.

Questo non significa che queste uccisioni non siano possibili o non siano avvenute, ma non vi sono fonti attendibili che al momento lo confermano.

Secondo la pagina facebook “rivoluzionaria” e i tweet di Revo.Palmyra (1, 2), non certo un organo di informazione favorevole al regime siriano, ma nemmeno allo Stato islamico, queste 400 persone non sono state uccise, si parla invece di quasi 300 morti tra membri dell’esercito, della sicurezza e di chi lavorava per il governo siriano. Altri tweet di un profilo favorevole all’Is parlano di un alto numero di uccisi tra i soldati governativi, con l’intento di esaltare l’operazione militare.

Secondo questo profilo i contingenti Is sarebbero di 400 unità, mentre i soldati governativi 4000 con una milizia di 200 unità. Tutti numeri difficili da verificare e probabilmente del tutto propagandistici, tuttavia si evince la nazionalità dei “conquistatori” di Palmira: ceceni, afghani, africani, europei, e arabi.

Del tutto probabile quindi che i 400 giustiziati, se la notizia verrà confermata, siano soldati e collaboratori del regime; non per questo accettabile come fatto, ma che si inserisce in una dinamica di una guerra truce e non di uccisioni gratuite di civili.

I giornali scrivono di “Quattrocento vittime civili dell’Isis, i cadaveri allineati per le strade di Palmira”. Le uniche foto che sono disponibili a riguardo mostrano i corpi di nove combattenti uccisi e decapitati appartenenti al gruppo tribale degli Sheitaat che hanno difeso la città accanto alle truppe governative.

Altre foto mostrano venti soldati dell’esercito siriano catturati dall’Is, si nota chiaramente che sono stati percossi e hanno i volti spaventati, sembrano soldati di leva e nulla hanno a che fare con i corpi speciali che stazionano a Damasco o con le forze speciali iraniane o di Hezbollah che non vengono mandate in queste aree periferiche.

11265302_674061582726326_4488267617859196623_nL’unica notizia confermata e quasi taciuta dai media, è il bombardamento della città da parte dell’aviazione conseguentemente alla conquista dell’Is. Nella sola mattina del 25 maggio si sono registrati quindici raid aerei e in un bombardamento aereo sarebbero state colpite le rovine archeologiche a ovest della base della sicurezza militare.

Molti attivisti con i loro tweet hanno diffuso le foto e video delle case bombardate dall’aviazione siriana (1,2). Lo stesso organo di informazione parla didanneggiamenti al Tempio di Baal Shamin e al Tetrapylon di Palmira causati dai bombardamenti dell’aviazione siriana. Certo anche queste sono notizie da confermare che tuttavia parlano di danni a settori precisi della città.

Salvare Palmira senza salvare i siriani.

Molti amici siriani che ho sentito in questi giorni, pur amando Palmira che prima di essere patrimonio dell’Umanità è un loro patrimonio, è un patrimonio dei siriani, hanno espresso indignazione per l’attenzione esclusiva rivolta al sito archeologico.

Come dice Eva Ziedan in un’intervista a Radio Vaticana: “Quando diciamo ‘save Palmira’ a chi ci rivolgiamo? Palmira è una città che è stata consegnata sotto gli occhi di tutti”.

Si può scindere la preoccupazione al patrimonio storico di una nazione dall’attenzione alla vita delle persone?

CFwgp4YWAAAsb39Perché parlare dei morti non confermati dello Stato islamico, e non di quelli accertati da parte del regime? Dal primo al 20 maggio sono morti 150 civili ad Aleppo a causa dei bombardamenti dell’aviazione siriana, quotidianamente arrivano foto e video di corpi di donne e bambini sepolti sotto alle macerie dei palazzi, con le membra straziate e sporchi di sangue distesi su barelle improvvisate, senza braccia, piedi, o gambe.

Secondo i dati forniti da Amnesty International gli attacchi con barili bomba, riempiti di esplosivo e frammenti di metallo, lanciati dagli elicotteri governativi hanno ucciso 3.124 civili nel solo governatorato di Aleppo tra gennaio 2014 e marzo 2015, e solo 35 ribelli (672 civili sono morti invece a seguito dei colpi di mortaio lanciati dai ribelli).

I civili uccisi in questo modo sono più di 11.000 dal 2012.

Il presidente Bashar al-Asad, in un’intervista del febbraio 2015, ha negato categoricamente che i barili bomba documentati con centinaia di video siano mai stati utilizzati dalle sue forze, e i giornali non ne parlano più (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7).

Scindere il patrimonio dell’umanità dalla vita umana, non solo non è un atto di giustizia ma vuol dire consegnare queste persone stanche e disilluse tra le braccia del califfato, e indurle a distruggere quanto a noi sta più a cuore dal momento che noi non abbiamo attenzione alle loro vite.11160576_10206243111257813_8438532072380598400_n

Un recente sondaggio indetto da Al Jazeera chiede ai lettori se siano favorevoli alle vittorie ottenute dallo Stato islamico, l’82% (27.015 persone) hanno risposto affermativamente.

Con tutta la passione che ho per il mio lavoro, e la sofferenza che provo nel vedere i monumenti distrutti dalla guerra, mi rifiuto di chiedere alla comunità internazionale di intervenire per Palmira come fanno molti, senza chiedere allo stesso tempo corridoi umanitari per i civili assediati o una no fly zone che li protegga dai barili bomba.

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*questo articolo è uscito su “Sirialibano

Amiche mie

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ballestra di Gianni Biondillo

Silvia Ballestra, Amiche mie, Mondadori, 2014, 272 pagine

La vita sociale ci mette a disposizione per ogni età luoghi di aggregazione. I bambini hanno la scuola, i loro genitori il bar di fronte. Aggregazione informale, ma centrale per la vita di molti, perciò scenario ideale per raccontare storie. Il tempo di un caffè e di una chiacchiera al Bar Golden Palomino e le storie di quattro donne diventano, nel romanzo Amiche mie di Silvia Ballestra, materia di narrazione.

Ci sono Sofia, Carla, Norma, Vera, e tutti gli altri comprimari a fare da coro greco ai monologhi interiori delle protagoniste. Un anno di tormenti metropolitani: ossessioni igieniste, nevrosi, ironie, sarcasmi, tragedie incombenti, esistenze cupe, spesso disfatte. Quattro racconti all’apparenza legate appena dall’unità di luogo (il bar) che però retrospettivamente diventano, finita la lettura, un’unica storia.

La scrittura sa cambiare modulazione in funzione di come lo sguardo indugi su una o l’altra protagonista. Sa far ridere e coinvolgere, sa essere caustica e compassionevole. Attenzione però: non ostante la presenza di quattro protagoniste non si creda che questo sia un romanzo “al femminile”. L’autentico personaggio principale di questa narrazione è la generazione, di donne e uomini, che oggi veleggia spossata fra i quaranta e i cinquant’anni. Generazione tenuta compressa, quand’era adolescente negli anni Ottanta, in un edonismo smodato, inchiodata ad una gioventù obbligatoria, nell’attesa beckettiana di poter trovare finalmente il tempo e lo spazio per potersi esprimere, e che ora si ritrova, dopo il crollo delle illusioni, senza punti di riferimento. Alle spalle una giovinezza infinita, di fronte la vecchiaia fin troppo vicina, senza aver mai trovato il modo e lo spazio di sentirsi per davvero adulta e necessaria alla società stessa.

Silvia Ballestra diventa così l’eminenza grigia, la quinta amica, la anonima testimone di queste vite affaticate e sconfitte da una città, Milano, che ormai non sa neppure più illudere, o persino ingannare, i suoi abitanti.

(pubblicato su Cooperazione n° 17 del 22 aprile 2014)

il Sottofondo italiano di Giorgio Falco

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coverdi Francesca Fiorletta

“Avvertivo tutta questa infinita cupezza, e così, non volendo suicidarmi alle scuole elementari, pregavo in spiaggia, a otto anni invocavo bisbigliando sotto l’ombrellone, inventavo una lingua che non fosse l’italiano per farmi ascoltare da un dio straniero. Portami via, imploravo nella lingua inventata che doveva uccidere l’italiano; portami via da qui, dalla mia famiglia, da questa nazione, da coloro che scrivono in questo Paese e riescono a commentare e giustificare qualsiasi cosa.” 

Un giardino di resistenza

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Di Mariano Bàino

 Sul libro di Alessandro Tarsia, Perché la ‘ndrangheta?(Antropologia dei calabresi), Pungitopo, 2015.

 “La Calabria è una regione povera, con un livello disastroso di occupazione, di evasione fiscale e di altri parametri. È la patria di una delle organizzazioni criminali più estese e pericolose al mondo, che registra la presenza di cosche armate ricche e violente in più continenti. Non c’è forse un rapporto tra la cultura popolare calabrese e questo tipo peculiare di mafia?”.

Dal rito al ritmo: leggere Muro di Casse e non prendere congedo dal sogno collettivo

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di Francesca Matteoni

Anni fa Vanni Santoni mi girò un suo lavoro inedito incentrato su una mappa di Europa riscritta dallo sguardo di due giovani, fratello e sorella, i cui viaggi o vagabondaggi per teknival o i più borghesi club delle capitali erano il fuoco in cui il passato si consuma mentre i luoghi e le storie sopravvivono ben oltre i singoli destini. Da quella lettura uscivano alcune domande fondamentali e interconnesse: cosa tiene vivo il vecchio continente sopra un mucchio di stereotipi e richiami ipocriti alle comuni radici culturali? Cosa resta del percorso esperienziale quando incontra il suo momento più estremo e deve decidere se abbandonarvisi, attraversarlo o voltarsi altrove? Quale rito ci farà credere che siamo stati vivi una volta? Quale libertà non si può istituzionalizzare, categorizzare perché è pre e post verbale, ha il ritmo di quell’anima del mondo che ci tiene inconsapevolmente insieme? E, in sunto, come si racconta tutto questo, cioè, ciò che resta sempre fuori dalle mappe?

Tracce di quel manoscritto riemergono da Muro di casse, il romanzo con cui finalmente l’autore affronta l’esperienza dei free party, le feste ritmate dalla musica tekno (o, in tempi più recenti, psytrance), tenutesi nell’arco di oltre vent’anni in località liminali del continente: campi incolti, vecchie fabbriche, edifici dismessi – paesaggi squallidi nella luce diurna, capaci di trasformarsi in terre iniziatiche nella notte, sotto la cattedrale del soundsystem. Ed è appunto con una cartina sentimentale di quest’Europa che si apre il libro: nessun confine politico, nessuna caratterizzazione fisica – solo la sagoma bianca al cui interno spiccano i nomi dei luoghi di raduno: Portalegre, Altopascio, Uxbridge, Tuzla, Beauvais, Odessa, per citarne alcuni.

La categoria “romanzo” permette a Santoni di scegliere una forma ibrida, che varia dal romanzo-documento al romanzo-intervista e al saggio-narrativo, fornendo apparati, note e bibliografia in chiusura, ma sfruttando il potenziale di immersione che solo l’atto del racconto può offrire. La voce narrante muta dalla prima persona al tu di un dialogo serrato, tramite una struttura tripartita che sembra evocare  visioni platoniche e rinascimentali dell’io e dell’universo, dipanandosi in Corpo, Intelletto, Spirito, ovvero tre personaggi con cui l’autore si immedesima (Iacopo) o interagisce (Cleo e Viridiana) facendo emergere la dimensione sensuale, lo sguardo teorico-politico e infine l’adesione profonda all’esperienza dei festival quale scelta di vita.
L’ibridazione continua nella potenza della lingua, che mescola slanci lirici, inflessioni gergali, scambi sincopatici di battute e flussi, seguendo proprio la progressione della musica elettronica e portando, come una scrittura algida e puramente saggistica non potrebbe fare, traccia della natura sincretica dei teknival, dove si fondono  elementi della sovversione punk, delle culture hippie e freak, dello ska e del reggae.
La cultura rave non si esaurisce infatti nella partecipazione a una festa illegale: si tratta (o si trattava: i voli low cost hanno inevitabilmente compromesso l’idea di distanze europee e di viaggio), di arrivarci via terra, su furgoni e camper, spostandosi quindi come i traveller, corrispettivo irlandese e scozzese degli zingari slavi; di perdersi per strade e sentieri polverosi, rischiando di scoprire all’ultimo cambiamenti di data o destinazione, dovuti a sgomberi e incursioni delle autorità locali. Si tratta ancora di fondere il puro godimento estetico e perfino lo “sfascio”, unica attrazione per alcuni dei partecipanti, ad un momento di trance collettiva, regolata, come nei rituali sciamanici, dalla ripetitività della musica. Si tratta di chiamarsi fuori dalla cultura dominante attraverso le sostanze stupefacenti e il loro uso, troppo facilmente stigmatizzato dagli allarmismi del senso comune, della cattiva informazione, della più ottusa legalità che di buon grado si accompagna alla legge di mercato, vero demone di ogni atto libero. Si tratta di rifare la geografia del continente, disegnandola nei suoi spazi desolati, abbandonati, periferici, reliquiari della contemporaneità più selvaggia, la cui bellezza “quindi la speranza”, luccica nei corpi e nella danza dei raver, di un collettivo che travalica confini nazionali, etnici e linguistici. Si tratta infine di tirar dentro anche il più estraneo dei lettori nell’utopia autorigenerante di questo unisono, niente affatto commercializzabile. Si capirà bene che un saggio non poteva funzionare.

Grazie al suo strano, appassionato romanzo Vanni Santoni riesce a chiudere il cerchio aperto anni fa con Gli interessi in comune, di cui qui ritroviamo il narratore, Iacopo Gori: dal particolare della provincia, che è la cifra di una giovinezza, siamo trasportati nell’universale dei festival internazionali, che sono la giovinezza, intesa senza alcun moto condiscendente come quell’energia vitale (e sì, nella sua forza, anche distruttiva e destabilizzatrice), che dà senso al tentativo di raggiungere se stessi, perché si situa sempre oltre ogni domanda, ogni spiegazione, ogni costrutto sociale – è un qui e ora umano e celebrativo. E se la giovinezza anagrafica dei personaggi e del loro sogno di festival sfuma, si fa nostalgica e dubbiosa, perché le feste non sono più quelle di una volta –  frase che colei che scrive questa recensione ha sentito esclamare e ha a sua volta esclamato svariate volte su altre esperienze sorelle, come il blues di Pistoia e il suo mai troppo rimpianto campeggio al Parco della Rana o il festival di Pelago -,  è pur vero che la giovinezza quale ideale e tensione, non viene meno: si trasforma, ricomincia da capo, si scrolla di dosso ogni lamento e delusione, balla imprendibile sui margini.

Inizialmente avrei voluto dire che questo è un libro coraggioso, fra le altre cose, per l’onestà sulle droghe,  un libro da citare nella battaglia per la loro definitiva liberalizzazione contro le speculazioni economiche, contro la morte che l’ipocrisia, il perbenismo e il cinismo si portano appresso; coraggioso perché rende dignità a una parte della storia estatica dell’umano, che pare andar bene in un testo di antropologia o storia delle religioni, ma non va giù quando è pacificamente non codificata e contemporanea. Ma in realtà è un libro bello e coraggioso perché schiude la giovinezza in un atto d’amore e, tornando alla provincia (perché se alcuni moriranno goani invece che teknusi, altri democristiani invece che comunisti, noi dopo aver girato mezzo mondo, moriremo toscani), di toscanissima irriverenza.

Nota conclusiva

Altre recensioni, sicuramente, sottolineeranno questioni tecniche, bibliografiche, sociologiche – la mia purtroppo non può perché viene dal disordine del cuore, quel cuore che si è riconosciuto leggendo questo estratto che volentieri vi riporto:

“Ed è mentre Cleo mi stacca un pezzetto di calendario maya, mentre mi alzo e me lo metto nella tasca davanti della giacca a vento, e intanto lei parla di chissà che festa o problema legato alle feste, lei che alla fine non ce la fa a non sistematizzare, analizzare, a non vedere tutto sotto un’ottica politica, lei che sulle feste ci ha fatto addirittura la tesi, al sound intanto – perché quel tir sulla cui scaletta stavamo seduti conteneva un soundsystem, che era dispiegato lì accanto, non visto perché ancora muto, scuro nella notte – ora si accendono due
luci, qualcuno grida qualcosa in francese, si sente un rumore a mezzo tra un fischio e un frullio, e partono i primi battiti, e con Cleo sorridiamo,
è lì,
fu lì, che una mano prese la mia e mi portò a ballare, una mano che faceva capo a una testa di capelli mezzi arruffati, a caschetto, turchesi, con una frangia troppo cresciuta, e due occhi sottili e in qualche modo – oh, così mi sembrarono, allora? – saggi, come quelli che a volte hanno i bambini, e insieme prendemmo a ballare e senza che nulla fosse fatto o detto dai visi e dai corpi se non la celebrazione di noi e di tutti lì intorno, lei mi baciò e fui mondato.
Fui mondato da quando a sei, sette otto anni mille e mille volte andavo a giocare a casa della Laurina e mi chiedevo se davvero avrei dovuto provare ad appoggiare le mie labbra sulle sue.
Da quando vidi la Masini e il Lapi, in seconda media, chiavarsi delle gran lingue in bocca.
Da quando strappai un bacio, finalmente, quindici anni avevo, dalla Dania, grazie a un “obbligo o verità”. Da quando baccagliai la Federica, la Chiara, la Beatrice, Katia, la Candice, fino a ottenere un coito da quest’ultima, diciannove anni avevo, quanta fatica.
Mondato da infiniti discorsi, palle su palle raccontate per strappare un bacio, o al massimo una toccata di billo, da serate “per chiarire”, da cene a quattro da pompini senza ingoio da scopate venute male perché troppo sbronzi, da “one night stand” che costringono poi a scappare nella notte, da relazioni lasciate crescere solo perché lei era bella e allora mi piaceva portarla in giro, da relazioni sessuali invece coltivate al buio, al riparo, perché lei aveva qualcosa che non mi andava giù ma non volevo rinunciare a una tacca sull’aereo prima (mondato da quando, a ventitré anni, fui felice per l’essere finalmente entrato “in doppia cifra”) e a una trombata sempre pronta dopo, a tutta una corda di pochezze su cui avevo costruito un’esistenza, un’idea interiore di me.
Fui mondato da tutta la merda che avevo dentro, boccate e boccate di merda, merda che scorreva profonda, e se qualche volta qualcosa da allora cercai, fu sempre e solo un riflesso di quell’allora, di noi, qualche ora dopo, che facevamo l’amore nel camper di una sua amica e le baciavo il viso e gli occhi mentre un tosa inu guardava dal posto guida, dalla rete che separava il posto guida da noi lì dietro, e io provavo a sillabare due parole in francese e lei mi prendeva in giro dicendo Arezzo, Arezzo, e io ma che Arezzo, Figline! e lei Arezzo, Arezzo, e mi guardava stringendo gli occhi a fessura e mi stupivo della nostra nudità, mi riappropriavo di quello che mi avevano tolto a sette, quattordici, diciannove, venti, ventitré anni; e sarei andato per feste, mille e mille volte ancora, l’Italia, l’Europa, credendo a volte di star cercando lei, ma in realtà cercando ancora
un’altra
rinascita”

Orson Welles – Davanti alla legge

0

di Alberto Brodesco

i.
“Siamo ricondotti al paradosso cruciale del Reale il quale, lungi dall’essere semplicemente l’In-sé inaccessibile, è simultaneamente la Cosa-in- e l’ostacolo che impedisce l’accesso alla Cosa-in-” (Slavoj Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico).

ii.
Orson Welles apre il suo Processo (Le Procès, 1962) raccontando e mostrando il celebre apologo kafkiano Davanti alla legge. Il regista commissiona l’illustrazione del racconto all’inventore della tecnica dello schermo di spilli Alexandre Alexeieff. Una serie di diciotto quadri mette in scena quello stallo lungo quanto una vita.

iii.
Il racconto è narrato dalla voce di Orson Welles. Come ne L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), essa appare prima di qualsiasi personaggio. Il regista anticipa il racconto all’inizio del film, per poi riprenderlo e rimodularlo anche nella scena ambientata all’interno della cattedrale dove appare nel libro.

iv.
Del confronto tra guardiano e viandante le illustrazioni con lo schermo di spilli restituiscono immagini grigiastre, a bassa definizione. Marshall McLuhan l’avrebbe definito un medium freddo. Anche in questo caso, come McLuhan insegna, l’attrazione per l’occhio esercitata dalla bassa definizione sta nel fatto che rimane allo spettatore il compito di completare l’immagine, in perfetta risonanza con l’enigma costituito dal racconto di Kafka.

v.
La tecnica dello schermo di spilli combina semplicità e sofisticazione: è primitiva, così come l’opera che genera, ma richiede pazienza, precisione, lavoro, uno sforzo che sembra perdersi o volatilizzarsi in un prodotto finale incerto. Una tecnica fondata sull’evanescenza dell’oggetto illustra un racconto il cui senso continua da un secolo a sfuggire a ogni tentativo di cattura.

vi.
Tutto si colloca sotto il segno della vanità e dello spreco: vanità, spreco di vita da parte del viandante; vanità, spreco di vita da parte del guardiano, custode di una porta ad personam che non sarà mai varcata da colui che ne è titolato; e poi, a livello rappresentativo, vanità del tentativo di Alexeieff e Welles: nonostante la tensione artistica li spinga a sfidare con il loro genio visivo quel racconto, entrambi sembrano in definitiva arrendersi all’impossibilità di rappresentarlo o semplicemente “vederlo”.

vii.
Anche il tempo di riflessione cui questo apologo costringe il lettore e lo spettatore sembra porsi sotto il segno dello spreco – Medusa letteraria che paralizza davanti alle porte dell’interpretazione.

viii.
Nella parte ambientata nella cattedrale il film ritorna davanti alla legge. Joseph K. si confronta con il suo avvocato, il quale gli narra la storia del viandante e del guardiano. K. la conosce già e lo dimostra all’avvocato, completando egli stesso il racconto. K. vorrebbe dare per risaputa la parabola, ma non è possibile, e lui lo sa, essendo una storia che cambia a ogni ascolto.

ix.
Mentre Davanti alla legge viene di nuovo evocato, un proiettore riproduce le immagini di Alexeieff mostrate in apertura, sovrapponendole agli spazi della cattedrale e al corpo stesso di Joseph K. La parabola viene applicata al protagonista del Processo sia a livello di enunciato (l’avvocato esplicita verbalmente la pertinenza del racconto rispetto alla vicenda di K.) che di enunciazione (la figura di K. è intrappolata in quelle immagini).

x.
Installazione, performance, compressione degli spazi tra le arti. Come nel labirinto di specchi de La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai, 1947) il gioco di rifrazioni disorienta e affascina.

xi.
Il ritorno delle illustrazioni di Alexeieff ha di nuovo a che fare con la loro evanescenza. Ma qui cambia la chiave di lettura, non c’è più niente di vano e di inutile. Si tratta di un mistero che descrive con precisione la ragnatela fragile ma tenace che intrappola Joseph K. Il paradosso interno al racconto non appartiene solo alla forma del sogno – come sostiene Orson Welles nel commento che segue la sua prima lettura della parabola –, ma espone in modo razionale e incomprensibile la trama della realtà. Non per niente, nella citazione che apre queste note, Slavoj Žižek si sta riferendo alla meccanica quantistica.

xii.
Se Kafka riesce problematicamente ad accettare il dato di una realtà che concede cittadinanza al paradosso, Orson Welles non lo consente. Il suo finale anti-kafkiano mostra un’esplosione che fa saltare in aria non solo K. ma anche quel suo mondo da incubo.

xiii.
Agli occhi di Orson Welles il guardiano della porta della legge può certo assumere la familiare fisionomia del produttore cinematografico.

xiv.
La grande domanda di Quarto potere (Citizen Kane, 1941): questo è ciò che Kane (K.) ha fatto. Ma chi era? È una domanda solo apparentemente meno kafkiana di quella del Processo: questo è ciò che K. non ha fatto. Ma chi era?

xv.
1915-2015: centenario della nascita di Orson Welles e della prima pubblicazione di Vor dem Gesetz.

Biagio Cepollaro, Per moti di dire e Ballata postmediale (1995)

0

 

aldilàdelbianco-3-2009

Per moti di dire (1995)

un moto a dire

un moto a dire è sempre l’inizio del verso

ma ora che ovunque è perso il mondo a dire

scrive lo scriba per moti di fatto moti cioè

dal gran mondo di dire sparsi e ridotti a nulla

o fatti

è moto di fatto la rivolta anche se incerta

resta e locale anche se cieca o umorale

è moto a dire la tua passione che fa del moto

nuovo stile e al chiaro punta tra lo sgomento

realistico è così quel moto a dire che s’apparta

dall’unico racconto e dal telemondo che il mondo

sotto modi di dire i suoi moti di fatto ha seppellito

 

per moti di dire

 per moti di dire per mondi sfatati sfrontatamente fri

abili ai cinque sensi perduti ai programmi ai compromessi

per moti avvelenanti e nubi tossiche aleggianti fetide

sull’europa immoti cubi di debiti sugli alti tassi e modi

per ammortizzare i costi con triplicati orari con turni

festivi e con straordinarie cancrene in organici e venti

con abbassamenti di coste e allagamenti con friabile dighe

nei diritti negli elementi con trasformazioni di vene in vane

vele di rendite finanziarie vele incolumi elusive procellarie

mentre da casa in isolatissimi isolati si fanno ordini elenchi

commissioni ed inventari e così accordari spostari di capitali

si fanno così anche telematici solitari e tristi amari immoti

 

per incontri lussuosi

 per incontri lussuosi lodando gli elfi gli enfiati

pronti a bucarsi

i conti sulle punta delle dita i fertilissimi

frati

disseminanti tra gli ovuli tra gli scampati tra contorti

conti della sproporzione tra l’infima terra macerata e

dissolta in appositi vasi

nominati e l’altra più vasta

porzione che sotterra i suoi quando può

sennò lascia

all’aria il suo fetore all’aria il suo commercio

povero di missili gloriosi di trafugate testate finchè

odoroso l’olezzo

si sparge

 

per mondi di dire

 per mondi di dire oggi accatastati in onda lievemente

variati stockati rifilati a trecce a bande

culminanti in differita vendita in ventagli di tracciati

nella notte lucciole e contraerea

per mondi aerei globali ridotti a solo puzzo di ascella

in mezzo a piscio e a vermi su questi mondi tenerelli

galleggianti sui fiumi accanto ai morti i salvagente

 

per moti di dire finchè

 per moti di dire finchè diremo l’essenziale

a partire dal basso dal sotto dallo scotto

del fatto che dicono natura lo scambio solo

in forma di mercato e che ciò sia un dato

come lo scoppio di aneurisma o l’ineluttabile

del vulcano-cielo del sempre-stato da sempre

avvenire e passato

 

per incontri lussuriosi

 per incontri lussuriosi tentando con le calze di fare

affronto di scontare lo scarso rendimento o l’impiccio

del cuore la ridda al super mercato quando perde ogni

potere l’acquisto e si fa stanco lo svuotamento nostro

serale

per incontri lussuriosi che siano argine all’inflazione

veleggiante e oasi e ologramma nel ripetersi del programma

in cui ogni lavoratore trova il suo prodotto di fronte

a sé come estraneo e per questo ci dà contro per questo

ci dà sotto

 

chiudiamo il contatto

 chiudiamo il contatto che appesi restino e muti

che pendolino stesi finalmente e muti

franiamo una volta per tutte il contratto

dicendo un conto è la forma del patto

altro è sostanza

l’abbondanza oggi affama perciò facendola

chiara chi ci guadagna non lavora chi bilica

svidea e sgrama

 

per moti di fatto

 a sorpresa a sondaggio per voti e cani

all’arrembaggio

ma cani grossi e motivati per cani sciolti

e arrabbiati

facciamoli i moti

finchè a conti e a moti fatti opposti ai cani

mondi nuovi verranno a dire i nuovi

fatti


 

Ballata postmediale (1995)

1.

pubblico era anche quello che si sfaceva negli ottanta

tra discoteca e galleria tra chagall galleggiando e lacoste

costeggiando saint-simon

bon, intanto cresceva debole e nuova la faccia del pensiero

col sindacato per lotte ammainato

2.

per mondi mediali quando assisi scampati scorrono sgozzati

un poco sgusciano dai vestiti violentemente altri anche vicini

incappati nel fato nuovo che vuole baciare la bomba i casuali

gli avventurati nei troppi aperti

spazi invece che protetti in cuniculi rimasti domestici stesi

torbidamente afasici gli invece presi da letali smanie smaniosi

di bere mangiare che ostinati pretendono perfino insieme

ogni giorno come gli altri i chiusi gli a secco fatti e strafatti

 3.

bon, intanto cresceva

mentre bonomi aldo diceva che uno ci deve parlare e farci conti

ma il fatto è che non passi che al di fuori della brevissima tua

cerchia

non conti abbastanza

che vuoi che sia la sensibile esperienza a fronte dell’iterata mediale

consistenza?

prendi la procellaria

o anche la finanziaria uno dice se brucia qualcosa

succede ma è il quadro che manca d’insieme e la persuasa

urgenza d’opposizione

globale

bon, intanto cresceva heideggerianamente anche rammemorante

ed era lo stesso vento l’antico pneuma d’occidente

 4.

mondo di viluppo dall’asse inclinato in volatili tasche

a lui s’attorciglia rosicchiato e bombesco il tempo

nostro

e intanto menano duro ora ch’è sfatto l’ultimo spettro

del patto tra capitale e lavoro né altro si vede girare

c’è solo il muro crollato e uno più alto in fretta

rifatto è dentro lo stesso viluppo ma più compatto

5.

mondi nuovi nel giallo che due secoli abbaglia e ricaccia

al punto dei primi mutui soccorsi ai primi arresti e ai fasti

delle piazze

con cannoni

qua in molti si è ridotti ad incudine sotto una stampa che campa

e capra e tutto concerta pur che compatibile faccia ogni feccia

fu prima un ritardo di testa poi il grande imbroglio della forma

che impera e al colmo del deliquio la sola virtuale esistenza

qua in molti fanno dell’unico padronale pensiero gemmazione esclusiva

che scongela dalla necrosi in vivida osmosi smith che rilancia

locke

e lombrosi e lombrichi

6.

non mi è chiaro il mondo in un chiaro pensato né m’aggiusto

o trastullo col virtuale coll’appeal dell’inorganico sex né

conto come fa perniola su di un perno fracido sulla stagnola

né faccio comoda sublimazione verbale della troppo subìta

cosificazione corporale

7.

non mi è chiaro il mondo in un chiaro pensato né l’aggiusto

apposta in un verso chiuso usando il verso con naso tappato

non c’è solo il mercato

c’è sopra tutto una grande procurata dispersione e lo stesso

privato è falla e cede di trito in giorno in ogni più spenta

motivazione

in ballo è sempre gioia condivisa ma va prima di pelle provata

scommessa va scontrata finchè matura d’un botto e trasferita

in cruda forza

argomentativa

cucinata poi mangiata in piazza lievita in gioia condita

incendiata e fattiva è tutta collegata finchè smuove una

specie di base

comunicativa

8.

non mi è chiaro il mondo in un chiaro pensato né m’aggiusto

e trovo una qualche collocazione non è più solo questione

di pubblico

o di editore è che pubblico in occidente oggi è innanzi

tutto un vento fetente un peto che sale dal culo di de maistre

 

Da Fabrica (1993-1997), Zona Editore, 2002

Note

E’ possibile scaricare il testo completo di Fabrica  in pdf qui

La lettura di Giuliano Mesa come postfazione del libro è leggibile qui

Fermiamo la strage subito! L’Europa nasce o muore nel Mediterraneo

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Un gruppo di associazioni (vedi promotori e firmatari sotto) lancia un appello per fermare la strage di migranti nel Mediterraneo, e invita a una mobilitazione il prossimo 20 giugno 2015. Di seguito il testo dell’appello, che riproduciamo integralmente.

Fermiamo la strage nel Mediterraneo

La regione del Mediterraneo è una polveriera ed il mare è oramai un cimitero a cielo aperto. Dall’inizio del 2015 nel mediterraneo sono morte più di 1700 persone. L’Europa, per storia, per cultura, per geografia, per il commercio, è parte integrante di questa regione ma sembra averne perso memoria.

Il dramma di profughi e migranti, il loro abbandono in mano alle organizzazioni criminali, il dibattito su come, dove e chi colpire per impedire l’arrivo di uomini e donne che cercano rifugio o una vita dignitosa in Europa, non è altro che l’ultimo atto che testimonia l’assenza di visione politica da parte dei governi dell’UE.

Questa drammatica situazione ha responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi europei che non consentono nessuna via d’accesso sicura e legale nel territorio dell’UE e costruiscono di fatto quelle barriere che provocano migliaia di morti nel Mediterraneo, nel Sahara, nei paesi di transito, nella sacca senza uscita che si è creata in Libia. Scelte coscienti e volute che configurano un crimine contro l’umanità.

La risposta dell’UE, confermata nell’Agenda Europea sull’immigrazione, ripropone soluzioni che hanno già dimostrato di essere miopi e di produrre effetti opposti agli obiettivi dichiarati.

Aumentare le risorse per avere più controlli e più mezzi per pattugliare le frontiere, anziché salvare vite umane, è sbagliato e non fermerà le persone che vogliono partire per l’Europa. I conflitti irrisolti e le guerre hanno prodotto ad oggi, oltre 4 milioni di profughi palestinesi, circa 200.000
saharawi accampati nel deserto algerino, 9 milioni di siriani tra sfollati e profughi, 2 milioni di iracheni sfollati. Il flusso di uomini e donne dall’Afghanistan e dall’inferno della Libia, le persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Sudan e da altri paesi africani, da anni è continuo. Dietro le storie di queste persone oltre a povertà, malattie, dittature e guerre, ci sono interessi politici ed
economici internazionali.

Guerre, povertà, saccheggio delle risorse naturali, sfruttamento economico e commerciale, dittature, sono le cause all’origine delle migrazioni contemporanee. Essere liberi di muoversi, migrare, deve essere una conquista dell’umanità non una costrizione. L’Europa deve costruire una risposta di pace, di convivenza, di democrazia, di benessere sociale ed economico, ispirandosi al principio di solidarietà e abbandonando le politiche securitarie, dell’austerità, degli accordi commerciali neolibertisti., di privatizzazione dei beni comuni. L’Europa deve investire sul lavoro dignitoso, sulla giustizia sociale, sulla democrazia e sulla sovranità dei popoli.

L’Europa siamo noi. Noi dobbiamo fare l’Europa sociale solidale.

  • Le nostre dieci priorità per uscire dall’emergenza e costruire l’Europa del futuro sono:
    1. La UE attivi subito un programma di ricerca e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo.
    2. Si ritiri immediatamente ogni ipotesi di intervento armato contro i barconi che, oltre a non avere alcuna legittimità, come ribadito dal Segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, rischia di produrre solo altri morti e alimentare ulteriori conflitti. Si rinunci all’ennesimo strumento di una più ampia strategia di esternalizzazione delle frontiere europee.
    3. Si aprano subito canali umanitari e vie d’accesso legali al territorio europeo, unico modo realistico per evitare i viaggi della morte e combattere gli scafisti. Si attivi contestualmente la Direttiva 55/2001, garantendo così uno strumento europeo di protezione che consenta la gestione dei flussi straordinari e la circolazione dei profughi nell’UE.
    4. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta ai profughi di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente, con un fondo europeo ad hoc, l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Ciò nella prospettiva di arrivare presto ad un sistema europeo unico d’asilo e accoglienza condiviso da tutti i Paesi membri.
    5. In attesa di un sistema unico europeo, si metta in campo, in tutti i Paesi membri, un sistema stabile d’accoglienza, unitario e diffuso, per piccoli gruppi, chiudendo definitivamente la stagione dell’emergenza permanente e dei grandi centri, che ha prodotto e produce corruzione e malaffare. Un sistema pubblico che metta al centro la dignità delle persone, con il coinvolgimento dei territori, dei comuni, con soggetti competenti, procedure trasparenti e controlli indipendenti.
    6. Si intervenga nelle tante aree di crisi per trovare soluzioni di pace, senza alimentare ulteriori guerre, o sostenere nuovi e vecchi dittatori, promuovendo concretamente i processi di composizione dei conflitti e le transizioni democratiche, la difesa civile e non armata, le azioni nonviolente, i corpi civili di pace, il dialogo tra le diverse comunità.
    7. Si sospendano accordi – come i processi di Rabat e di Khartoum – con governi che non rispettano i diritti umani e le libertà, bloccando subito le forniture di armamenti.
    8. Si programmino interventi di Cooperazione per lo sviluppo locale sostenibile nelle zone più povere, dove lo spopolamento e la migrazione sono endemici e non si consenta alle multinazionali di usare per interessi privati i programmi europei di aiuto allo sviluppo.
    9. Si sostenga un grande piano di investimenti pubblici per l’economia di pace, per il lavoro dignitoso e per la riconversione ecologica.
    10. Si sostenga la rinegoziazione dei dei debiti pubblici ed annullamento dei debiti pubblici non esigibili o prodotti da accordi e gestioni clientelari o di corruzione.

Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini!

Le organizzazioni firmatarie di questo appello invitano a partecipare alla giornata di mobilitazione internazionale il prossimo 20 giugno 2015:

ACLI, ACTION, AMM – Archivio delle Memorie Migranti, ANSI, Antigone, ARCI, ASGI, Centro Astalli, CGIL, CIAC, CILD, CIPSI, Cittadinanzattiva, CNCA, COSPE, European Alternatives, FIOM-CGIL, FOCSIV, GUS, LasciateCIEntrare, Link – Coordinamneto Universitario, , LUNARIA, NAGA, NIGRIZIA, Rete della Conoscenza, Rete della Pace, Rete degli Studenti Medi, SEI-UGL, SOS Razzismo, Unione degli Studenti, UDU-Unione degli Universitari, UIL, Verità e Giustizia per i nuovi Desaparecidos.

Scuola, feticci e bugie

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di Renata Morresi

Il riordino della scuola in atto non crea lavoro ma lo precarizza, non affronta i problemi degli alunni ma li rimanda, non riguadagna autorevolezza al sapere e alla professione docente ma accentra l’autorità. Eppure abbiamo assistito a scene di commozione alla Camera, abbracci, giubilo. Perché? Chi governa e legifera è davvero così avanti, così illuminato circa le sorti della scuola italiana? Prosegue imperturbabile a costruire un futuro migliore per tutti? O non è – come sostiene chi a scuola ci vive ogni giorno – che semplicemente ignorante? O non è che invaghito della nuova, dilagante, sindrome efficientista? O non fa che rispondere al risentimento di una società in crisi, che ancora crede di vedere negli insegnanti dei privilegiati? Sì, io credo che vi sia una arroganza illusa, l’allucinazione presuntuosa di essere i punitori dell’improduttività, i guaritori del disagio sociale e della depressione (in termini quasi psichiatrici), nonché gli autori delle arcinote, ormai quasi mitiche, RIFORME. Quelle moderne, quelle che yes, we can, quelle che nessuno finora ha avuto il coraggio di bla-bla. Quelle che nemmeno la Gelmini… la quale si era “limitata” a tagliare risorse, far classi pollaio e sbandierare l’importanza del grembiulino. Invece qua, caspita: la smania utilitarista si è splendidamente fusa al controllo biopolitico. Il feticcio del “merito” viene ribadito ad ogni piè sospinto; giusto ieri Renzi a Mentana: “lei non ha incontrato un insegnante più bravo di un altro? Siamo d’accordo che ci vuole un po’ di merito?” Come se il merito fosse una entità trascendentale che sta oltre il lavoro, le lauree e i titoli (pur emanati dallo Stato), come se ci fossero parametri superiori, come se il prof dovesse essere unanimemente adorato, ogni prof trasfigurato in un ineccepibile John Keating, che ispiri i suoi alunni, li instradi al “mondo del lavoro”, somministri test Invalsi e obbedisca al POF. E il rendimento, che diamine, ci dimostri il suo rendimento!

L’ossessione della valutazione continua, ravvicinata, ipercodificata si innesta alla pervicacia del modello scuola-azienda. L’impostazione tecnicistica e aziendalista messa a punto da estensori privi di consapevolezza fa il paio con lo slancio futur-riduzionista in stile lavagnetta renziana. La miscela è micidiale. In un rovesciamento quasi surreale la crisi economica e la disoccupazione giovanile vengono imputate al non adeguamento dell’insegnamento ai bisogni del capitalismo globale, da qui una legge sulla scuola che non solo si rassegna alla proletarizzazione del ceto medio, ma crede che sia l’unica speranza, sottraendo ore di scuola ai ragazzi per mandarli ad “imparare un mestiere” e investendo tutto sul rinnovamento della gestione e nulla in un progetto di società in cui i giovani siano i protagonisti del futuro, non i muli che dovranno pagare il costo sociale di scelte scellerate.

Ne viene una riforma che taglia, cancella, priva, umilia, e mente, semplicemente mente. E con estrema convinzione. Tanto spudoratamente che nessuno, nemmeno una opinione pubblica abituata al malaffare e una classe dirigente adusa all’ipocrisia come sono quelle italiane, nessuno riesce davvero ad avvertire l’enormità delle menzogne. O forse sì? O, forse, davvero, a nessuno più importa?

Per esempio. Le tanto sbandierate centomila persone che saranno assunte a settembre lavorano già da anni. Da 6, 10, 13 anni a volte. Albi territoriali dove i docenti sono classificati in base al merito (esperienza, titoli di studio, abilitazioni, specializzazioni) esistono già: si chiamano graduatorie. “Ma come? Vi diamo lavoro e non siete contenti?” – protesta il governo. Di cosa dovrebbero essere contenti, in termini professionali, economici o di ruolo sociale, visto che guadagneranno meno, saranno meno tutelati, dovranno in tanti casi fare un lavoro diverso dal loro, saranno perpetuamente instabili? I soliti cinici diranno che la precarietà oggi riguarda tutte le forme del lavoro – come non saperlo? Vi sono oramai enti di formazione che chiedono la partita IVA agli aspiranti docenti. Che sono, sì, professionisti, nella fattispecie professionisti della relazione, ma la cui professionalità non può essere rilanciata dall’agonismo o misurata in base al fatturato. I risultati formativi non sono calcolabili nei termini numerici del profitto economico, l’appagamento degli alunni non è paragonabile alla retribuzione dei dipendenti, né quello dell’insegnante ai ricavi della gestione. L’unica similitudine aziendalista che posso tollerare è quantitativa: un insegnante di inglese ha sei classi, mediamente composte da 25 studenti, per un totale di circa 150 persone. Come un’azienda di grandezza media, insomma. Il suo stipendio è comparabile a quello di un manager? Ahah! No, è lì fermo da sette anni. Il paragone comunque è fuorviante, non solo perché gli insegnanti non guadagnano quanto i dirigenti, ma soprattutto perché la loro opera non può, non deve essere determinata da criteri meramente utilitaristici. Si impone loro di appiattirsi sul modello concorrenziale capitalistico, quando chiunque abbia letto anche solo un manuale di didattica sa che la collaborazione, l’ascolto, il rispetto, la progettualità comune sono le azioni cruciali per migliorare la qualità dell’insegnamento. La verità è che non si chiede agli insegnanti di essere migliori, solo più competitivi, spendibili, comunicativi, acchiappanti. Di produrre, insomma, una performance più appetibile (e misurabile) di quella dell’insegnante concorrente. E di accontentarsi delle soddisfazioni simboliche (di certo non economiche) che tutto codesto “merito” dovrebbe indurre. Si ignora che gli insegnanti, in quanto esperti, programmatori ed educatori, e gli studenti, in quanto discenti inesperti e giovani esseri umani, vivono in una comunità educativa, dove si ha quanto più possibile cura dello sviluppo armonioso dell’individuo in mezzo agli altri, e dove la convivenza giornaliera, i rapporti, gli atteggiamenti psicologici, i genitori, il personale tecnico, le attrezzature disponibili, l’attività extrascolastica e così via, chiamano in causa aspetti culturali, personali e sociali che quella comunità contribuiscono inevitabilmente a modellare.

Al di là degli slogan vuoti, lo scopo primo dell’educazione non è procurare gente che faccia girare l’economia e paghi i contributi, non è solo la trasmissione di un patrimonio di saperi dati, non solo il raggiungimento di alcuni fini condivisi prestabiliti, ma soprattutto la promozione autenticante della personalità degli alunni. Vogliamo esseri umani liberi, autocoscienti, eticamente consapevoli, responsabili del loro futuro. Questa è la preparazione che creerà il lavoro. Pensiamo davvero di poter valorizzare gli educandi avvilendo di continuo la categoria degli educatori? Schiacciando le discipline sulle urgenze della competizione? Facendo vivere 28 ragazzi in un metro quadro a testa? Proponendo un riordino della gestione delle scuole che le mette in mano a dirigenti che si ritroveranno a dover stilare piani, fare selezione del personale, attirare contributi in denaro, rendere l’offerta didattica accattivante (attività per cui, peraltro, non sono stati formati)? Come fanno a credere che in questa riforma vi sia una visione? Mentono. Ma sanno di mentire?

Per esempio. Perché il preside dovrebbe chiamare i docenti non per i punti che si sono guadagnati in questi anni (punti dati dall’esperienza, dall’università, dal Ministero stesso), ma per la loro (presunta) compatibilità con gli obiettivi specifici, espressione dell’autonomia dell’istituto? Una norma troppo simile all’articolo 27 della riforma firmata Vittorio Emanuele, Mussolini, De Stefani, Gentile: “Le supplenze ai posti di ruolo e gl’incarichi di insegnamento di qualunque specie sono conferiti dal preside”. (Allora il dirigente sceglieva “tenendo conto, anzitutto, del servizio militare in reparti combattenti”, oggi chissà.) E cosa saranno mai questi obiettivi specifici, questa tanto ostentata autonomia, questa offerta formativa ad hoc, personalizzata a seconda dei famigerati bisogni del territorio, ecc.? Perché mai la chimica di Trento dovrebbe essere diversa da quella di Catania? O lo spagnolo di Biella diverso da quello di Campobasso? O non è questa dell’autonomia una scusa, che finisce per accettare, anzi promuovere, la differenziazione delle scuole in “sedi di primaria importanza” e “sedi di secondaria importanza”, proprio come da regio decreto del 1923? Perché chi ci governa ha ceduto a questa ideologia della diseguaglianza?

In ultimo, vorrei spendere due parole sulla distruzione della fiducia. È difficile capire. Non ho mai incontrato qualcuno che potesse capire senza esservi direttamente coinvolto. I percorsi della formazione docente sono così divisi, frammentati, screditati che arrivati a questo punto anche i più volenterosi di solito si arrendono. Le innumerevoli identità (prima, seconda, terza fascia, abilitati, specializzati, congelati, idonei, ecc.) in cui si è frantumata la professione non fanno che stancare. Stancano persino gli attori stessi, spesso fatalisticamente arresi al sarà quel che sarà. Per farla breve: gli aspiranti insegnanti sono ripetutamente ingannati.

Un esempio concreto: fino a ieri si è investito su corsi abilitanti a numero chiuso per selezionare e formare i futuri professori, i cosiddetti TFA. D’ora in poi, per quanto siano del tutto assimilabili, nella selezione e nei risultati, alle vecchie scuola di specializzazione (SSIS), essi non permetteranno più l’accesso alla professione, ma solo ad un ulteriore concorso, che precederà un ulteriore periodo di prova (3 anni!) senza stipendio e col rimborsino spese. Con lo stesso titolo di chi li ha preceduti, insomma, costoro (che al momento sono spesso già docenti supplenti a stipendio pieno) l’anno prossimo ripiomberanno indietro allo stato di stagisti. Dopo non una, ma due selezioni concorsuali. In tanti casi, dopo anni già spesi a scuola. Il nuovo percorso di formazione di chi vorrà insegnare (nuovo? ancora? negli ultimi 7 anni è cambiato già 4 volte) si paventa come un intricato labirinto di pedagogismi, tasse, tirocini, burocrazie, e anni senza paga. Vedete la truffa? Vedete la menzogna? Di anno in anno vengono tradite migliaia di persone, e su questi tradimenti si vuole riformare il paese.

Ma qui non si tratta di una legge sull’occupazione – lo dice anche Renzi: mica possiamo assumere tutti! Ma già lavorano, signor Presidente, già lavorano – qui ci si chiede come tutelare lo spazio di libertà, crescita e conoscenza dei ragazzi italiani. Uno spazio di cui gli insegnanti – non i genitori, non i funzionari, non gli pseudo-manager votati alla politica – sono i custodi. Eppure le norme che riguardano gli alunni con bisogni speciali, il problema della dispersione scolastica, il diritto allo studio, non esistono: si è solo votato per darle in delega al governo. Tutto è rimandato, niente sarà dibattuto in Parlamento.

Perché crediamo che questo sia giusto? A molti conviene credere. In primo luogo ad un governo che sbandiera il cambiamento ma deve far portare i conti fino all’ultimo spicciolo: risparmiare sul comparto scuola, così vasto (e, tutto sommato, ahimè, inerte) aiuta. Altri vogliono credere. Non potendo accettare la propria progressiva riduzione ad ingranaggi preferiscono immaginarsi protagonisti del grande efficientismo che ci porterà avanti, fuori, lontano da ogni crisi brutta e cattiva. Altri non credono affatto. La guerra civile cellulare imperversa e ognuno cerca di salvare la pelle o almeno la pensione. “Francia o Spagna, basta che se magna” sembra riecheggiare. È la paura che serpeggia in Italia che fa prevalere il fatalismo e, assieme, la voglia di legge del più forte. Avremmo bisogno non di una politica del fare ad ogni costo, ma di un pensiero rigoroso e visionario insieme, che abbia a cuore l’equità e il paese che viene.

Seia uno : Livia Manera Sambuy

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Otto interviste per un’autobiografia sentimentale

di

Seia Montanelli

 

Diceva Longanesi che «l’intervista è un articolo rubato» perché a scriverlo è l’intervistato con le sue risposte. Questo vale ancora oggi, forse anche di più, perché la maggior parte delle interviste avviene per email, o sono cotte e mangiate alla fine di avvenimenti sportivi o conferenze stampa, o rincorrendo politici fuori dai palazzi.

Che sia di tipo sportivo, politico, economico, letterario, l’intervista è sempre un modo veloce per riempire le cartelle a disposizione e se l’interlocutore ha anche un nome che pesa, è buona per vendere spazi pubblicitari. E anche per il lettore medio, con una soglia di attenzione sempre più bassa, è più semplice seguire un botta e risposta veloce che un lungo articolo di commento o una vera e propria conversazione tra un giornalista e il suo soggetto.

Quella dell’intervista è però un’arte sottile e se fatta bene assurge a vero genere letterario, poco praticato nel nostro paese, soprattutto se d’argomento culturale, nonostante esempi illustri come l’Arbasino di “Parigi, o cara”.

Per questo è curioso vedere ben collocato in libreria un testo   che attira subito l’attenzione per la copertina di Adrian Tomine, illustratore del “New Yorker”, e offre otto interviste ad altrettanti grandi autori stranieri: “Non scrivere di me” (Feltrinelli, pp. 203, 16 €) è il titolo, di Livia Manera Sambuy, giornalista culturale del Corriere dalla Sera (ma anche ex consulente per la casa editrice Einaudi, traduttrice, talent scout editoriale, autrice di due libri e un documentario su Philip Roth).

Il libro in realtà è una lunga narrazione, frammentaria perché scandita in otto capitoli ciascuno dedicato a uno dei protagonisti che accompagnano l’autrice nel suo percorso: Mavis Gallant, Judith Thurman, David Foster Wallace, Joseph Mitchell, Richard Ford, James Purdy, Paula Fox, Philip Roth (ma non si può parlare di (e con) uno scrittore senza richiamarne un altro e un altro ancora, e allora compaiono anche Karen Blixen, Nicole Krauss, Edmund Wilson, Alexander Stille, Raymond Carver, Don DeLillo…).

Da antidoto alla frammentarietà del testo fa un sottile fil rouge: la passione di Lidia Manera Sambuy per la letteratura e per le storie, la sua profonda conoscenza della materia, nonché il rispetto per i soggetti delle sue interviste, tanto da rendere quest’ultime delle vere e proprie conversazioni, spesso protratte nel tempo, talvolta sullo sfondo di vere e proprie amicizie.

Il libro viene concepito nel 2008, quando la crisi economica sta travolgendo i giornali italiani e la cultura è la prima a farne le spese. L’autrice decide quindi di trasferirsi a Parigi, una città dove le storie d’amore pare «finiscano tra le sette e le otto di sera» e in cui non conosce nessuno, e della quale non parla la lingua.

Che rievochi la nascita del suo rapporto ormai quasi ventennale con lo schivo Philip Roth, a cui si deve il titolo del libro, si commuova con Paula Fox o si stupisca di dover incontrare un diffidente David Foster Wallace in uno squallido autogrill fuori Chicago, la giornalista non smette di seguire la storia che si cela dietro ciascuno di questi personaggi, continua a ricercarne il mistero, come «la scheggia di ghiaccio nel cuore» che Richard Ford le confessa di avere, parafrasando Graham Greene. Del resto dice di sé Manera Sambuy: “Scrivo di libri e di scrittori. Eppure non mi piace raccontare le trame di quello che leggo”, da cui il tentativo inesausto di andare oltre la pagina e oltre l’autore.

È la ricerca dell’uomo e della donna dietro il letterato a muovere l’autrice, la volontà di scoprire da dove arrivi il talento come pure la spinta alla scrittura, e infine il desiderio di penetrarne l’unicità, quella singola caratteristica che li rende grandi. Per quanto non tradisca mai il rapporto di fiducia «che si pone tra chi scrive e il suo soggetto», e sul quale si interroga soprattutto nel capitolo dedicato a Philip Roth data la natura della loro relazione, e possieda evidentemente quella capacità di contrattazione di cui parla Hillman, che è alla base delle interazioni umane – e da cui discende direttamente la capacità di ascolto – Manera Sambuy non fa sconti ai suoi “personaggi”, li presenta nella loro realtà, alterati dalla vecchiaia, arroganti, sbruffoni, teneri, ironici, indifesi.

Divertente e commovente è il paragrafo intitolato «una storia d’amore che comincia e finisce in un giorno di dicembre del 1993», in cui incontra Joe Mitchell, giornalista e scrittore che ha anticipato di qualche decennio il New Journalism di Truman Capote e Tom Wolfe; mentre particolarmente intenso è il capitolo dedicato al suo incontro con David Foster Wallace, l’unico con cui non si creerà un feeling duraturo, non solo per le note idiosincrasie dello scrittore o la sua morte prematura, ma anche per la lontananza culturale tra l’autrice e l’opera di Wallace, che le impedisce forse di entrare in sintonia diretta con lui, nonostante il riconoscimento dei suoi meriti e del suo genio.

Ironico e brioso è invece il resoconto del suo rapporto con Mavis Gallant, nonostante il gioco di specchi tra la vita e l’opera della scrittrice canadese e le vicende personali della giornalista italiana. Laddove rude e tenero al tempo stesso è il legame con Richard Ford, generoso con gli amici e poco incline al perdono con i critici del suo lavoro.

Intimo e più difficile da imprimere sulla pagina, e per questo forse lasciato per ultimo, è il capitolo sull’amicizia con Philip Roth, il più famoso degli autori citati nel libro, ma sicuramente non meno outsider degli altri, per il temperamento, l’opera e la biografia.

Rievocando gli incontri con questi otto scrittori, scelti per passione, per il mistero che si portano dietro, ma anche per ciò che hanno lasciato nella sua vita, l’autrice racconta se stessa, intrecciando stralci di conversazioni e aneddoti non inseriti prima nelle interviste pubblicate sui giornali, a momenti della sua vita intima – quando, ancora ventenne, leggeva Hemingway; e poi il trasferimento a New York, la crisi del suo matrimonio, l’arrivo a Parigi – rendendo la sua ricerca non solo letteraria, ma personale. E, come in un cortocircuito tra letteratura e realtà, tutti diventano personaggi di una storia.

Una storia che, scrive Lidia Manera Sambuy si identifica con la sua vita: «la vita di una persona che ha fatto del leggere il proprio mestiere e che nel corso del tempo ha coltivato la convinzione che abbiamo bisogno di storie perché le storie ci aiutano a vivere».

Nota

di Effeffe

Con questo primo set si inaugura una rubrica interamente dedicata ai libri a cura di Seia Montanelli. Due volte al mese sarà la sua quinzaine. A lei i miei ringraziamenti per aver accettato il mio invito.

Ida Vallerugo (poeti friulani # 2.2)

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testi di Ida Vallerugo e fotografie di Danilo De Marco

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Côru mut

 Si tu vedés indurmindìda rôsa

ce mout che al mont a si davierç la rôsa

 

Si tu vedés ce mout c’a s’impîinin

a una a una li bieli nêstri citâs.

Carmen Gallo: Paura degli occhi

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Come avere paura degli occhi
come sapere che tutte le bocche
professeranno il falso
e per prima la tua
dirà cose che non vuole
vedrà cose che non sa
ma il vero più del falso
resta nelle parole che non riconosco
perché non hanno la tua forma
la calce bianca dei tuoi sensi
deformati per l’occasione
parole annerite, scartavetrate
cercano rifugio tra le mie
ma non trovano
che una pace fatta di spilli
di mura che non tengono
di soldati che non parlano la tua lingua

*

Come abitare in un paese straniero
ogni notizia che giunga da te
abbatte aerei, rovina raccolti
costruisce mura intorno
a un cielo bucato

*

Barcollare sulle tue facce distese
inciampare nella tua fronte
farsi largo tra le voci
e chinarsi a raccogliere solo le mani più mature
lasciare le acerbe a macerare sugli occhi
chiusi, sempre chiusi
avanzare tra ciglia nere
aggrappandosi al ricordo
dell’Orsa, cancellare sguardi
ammutolire salive
e rimettere al loro posto le labbra cadute
gli zigomi divelti

*
È arrivato il dono, il fuoco
il rosso
è arrivata la terra, la città
che non conosco
e dovrebbe essere facile
a questo punto
sistemarvi al centro
la trama visibile dei polsi
la schiena curva delle parole
e lasciare che gli occhi sentano
che la pelle infine veda
ma qualcosa ancora trema
ed io resto immobile
a guardare la trama
che hai scelto per me
la sollevo e penso
scegli me
scegli me

*
Non restare buchi neri
fondi fedeli al vuoto
affilare la lama che separa
i lati bianchi della strada
nel paese che nasconde
il cielo nelle cave
essere terra non chiamata
invocazione senza nome
distanza da percorrere sottovoce

*
Prima degli occhi, al posto degli occhi
le palpebre al muro
e la sfilata delle ciglia divelte
poi i capelli da incendiare all’alba
dei nostri migliori propositi
contarsi in segreto le dita
incollando i palmi
alle regioni dei vivi
prima degli occhi, al posto degli occhi
dividere le mani
in vagoni da espatriare

*

Non basteranno gli anni
gli involucri di vuoto
in cui affondano le braccia
per ogni parola
che resta in gola e che si fa
alone umido intorno agli occhi
e sguardo cavo
nel petto ancora umano
*

Abitarsi nelle mani e addormentarsi
a poche bocche di distanza
al riparo della corteccia
della sua forma improvvisata
c’è un vento che ci ascolta
arrivare da lontano
da dove è profondo e non si tocca
da dove si resta vivi a guardare
a largo, ancora più a largo ci teniamo
la terra si fa grido fermo, e non ci vede
noi soli la sentiamo
nelle sere che non riempiamo
nelle facce che risalgono il fondo
crespo di ogni superficie
la luce ci sorprenderà estranei
da ciò che non abbiamo scelto
nella perdita degli occhi
tutto sembrerà inseguirci
ma noi impareremo a vivere
a essere senza di noi
polmoni pieni d’aria
sotto il vetro dell’acqua

*
E mai più cercare ragione del torto
perché il torto lo portiamo al collo
come una pietra levigata nella stretta
un silenzio da osservare da vicino
allentare la presa non è ancora
respirare ma entra l’aria lo senti
nelle spalle che accolgono il colpo
nelle braccia liberate in dispersione
come se gli occhi fossero finalmente
da un’altra parte come se la fronte
non stesse lì a dividere il soffitto dalla gola
e la caduta è rivendicazione silenziosa
di ogni cosa al di qua della visione
una domanda che scende dagli occhi
e non si riempie e non si svuota

*

Portarsi i pazzi a casa
dare loro da mangiare
la nostra lunghissima sera
togliere il nome alle cose che non tornano
prima che sia troppo tardi anche per noi
afferrarsi le maniche e chiedere ragione
di questi occhi che non si chiudono
di queste risa strette contro il giorno
oggi si accendono le luci
i cani non girano più armati

*

Nella gravità delle cose
che non cadono
sostenere lo sguardo
del disastro

 

Nota

Le poesie sono tratte da Paura degli occhi, edito da L’arcolaio Editrice nel 2014.

Carmen Gallo è nata e vive a Napoli, dove al momento insegna Letteratura inglese.
Nel 2014 ha pubblicato con L’Arcolaio, Forlì, la sua prima raccolta, Paura degli occhi.
Ha scritto sulla poesia di John Donne. Traduce dall’inglese poesia contemporanea, e collabora con riviste e lit-blog di poesia.

Con Bernardo De Luca e Alice Colantuoni ha curato la rassegna “Poeti all’Asilo”, all’ex Asilo Filangieri di Napoli.

[Una mia lettura di Paura degli occhi, si può trovare qui. B.C.]

La cena del verbo

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di Marina Pizzi*

Per ognuno di noi che acconsente
vive un ragazzo triste che ancora non sa
quanto odierà di esistere.

– Franco Fortini, “Complicità” (1969)

1.
Unica tregua somigliare al fango
Alla migliore traccia di sangue
Per sconfiggere speranza con l’anemia
Del balzo tenerissimo con la concreta
Realtà di andarsene finalmente superstiti
Bonari. Di te non credo la vitalità più bella
Né la cometa azzima di luce
Perché la ressa delle rondini è soqquadro
Sul finire dell’ultima cimasa.
Non resta che pagliaccio la sirena
Irrisa da soldati di conquista.

2.
Annuncio di chitarra vederti all’angolo
Dove la sposa cieca ti sorride
Coriandolo e malessere per sempre.
L’ausilio del gemello francescano
Non consente libertà di scelta
Ma esuli le palpebre di brevetto.
Dimmi perché piange la baldoria
Del fiume dotto di non tornare mai
Quasi del secolo il messaggio a dio.

3.
Dio della notte il mio sospiro
Sparuto quanto un indice di nebbia
La crudeltà del sale sfatto palmo
Con il mistero che deride la faccia
Faccenda senza resine di baci.
Il male barricato sulla fronte
Dissolve l’ossigeno geniale
La gente sugli spalti delle tombe.
Tu dimmi quale rondine corsara
Sapienza di dio non sapere
Perché le baracche da sole spopolano
Esatte bramosie cercare dio.
Capitomboli di sabbie volerti bene
Dietro la rotta tragica del guado
O di domani la speranza d’essere.
Pagliaccio al grado Generale
Questo fantasma d’anima malarica
Dove intercede il regno del cipresso.

4.
La notte dell’abaco quando più nulla conta rimanere
Al bacio dell’algebra bravura
O sotto teca ricordare il nonno
O la maretta insita alla darsena.
Inverno bello quanto un calamaio
Felice pagliaccio della poesia
Barriera al maestrale colma vendetta.
Materna la briciola che sogna da sola
La grande pagnotta della patria
Sgominata con un soffio di penuria.

5.
Ho una critica al rito perché non piange
Parla e recita cinge l’altare
Sulla truppa delle lacrime di altri
E questa piccolina aria di asilo
E’ vicina al mio collo gracile come un biscotto
La meringa di madre che mi fu amorosa gara
Qualora giungi in ritardo e il dondolo del sole
M’insegnò la rima con la luce pietosa
Dentro le tombe con gente che se ne va
Bruciata o sottoterra oltre i santi che non ci sono
Giammai vicini nonostante il calendario o a
Decine di copie per festeggiare il nuovo anno.
Le medicine delle nuvole piangono disperano
Su tutti, le resine non bastano per Natale
La fanga è ennesima maligna agro.
Tu graziosa mungi per l’anima marina e d’ara.
Addio, puoi morire da Capitano gentile.

6.
qui nel pianto che rottama chi fosti
si stipola la sporta delle lacrime
nel crimine del giglio che si oscura.
l’ennesima malizia della ruggine
germoglia girandole di pargoli
dove la madre è un astio di bestemmia.
biblioteca di aceri rossi le tue guance
stipendiate da dio per una riserva d’ àncora
o almeno in coro ripetere l’enigma
di fausti almanacchi creduli al pompiere
di fuoco l’acqua piccolina in pozze
tombale l’anemia di chi fosti.

7.
Viltà del tarlo il crollo ben tradente
Quanto la logica di perdere la vita.
Matassa di elemosine vederti
Sotto la vana statua la tua venere.
Ebbene adesso il secolo vanesio
Sibila silenzi dentro gli sguardi ebeti
Delle maestre fatue oltre il vento.
Ben oltre dio ho scoperto l’astro
Valente quanto un calice di stimmate
Immacolate madri di ben alte stature.
Il Carso di Ungaretti è raso al suolo
Per rendere maligne le retate
Tanto bacate le lignee strade fatue.
Intorno alla marea di guardare il cielo
Si sviluppa un popolo di lutto
Vano del tutto in pasto alla fanghiglia.

8.
L’età felice un granello di sabbia
Sotto gli esposti papaveri di niente
Con la morte del cielo non sedata
Lugubre attivista quale un rantolo
Bacato dalla resina di resistere.
La mia spoliazione rimprovera le spose
Le taniche vecchie senza fiori attorno
E’ così che piange il mio gendarme
A me tenuto stretto come un ciondolo
Una ripetizione che sa di arsenico
Buono lo sciroppo per i bimbi superstiti.
Nel lento sprofondare della palude di casa
Ho perso il ludo di guardarmi attorno
Tu presente maschia agonia che il lo sia.
Tutta una civiltà di panico
Anche l’agonia lo sarà nonostante tu
Creda alle sbarre alle terre dei morti.
Libri d’infami lettori stare a casa e non capire
Le pagine miliardarie di parole.
Un libro dopo l’altro ho perso il fare
La lunga cattedrale del portone che schiavi
Speciali trattiene. Intorno ai poveri senza parola
Si getta dalla finestra il lessico la sposa senza rima di bontà.

9.
La rondine nel passo
Nel lutto della foce giacché morente
Sono trappola vivente verso il so
La culla ennesima del falò
Però non brucio anzi ritorno
Fantoccio di sangue velenoso
Si dipana il libro che nessuno capirà
Ma poco importa tracciare il fantoccio
Della sapienza. Il postino all’orizzonte
Calcola gli zeri che incontra e la marina amorosa
Dove s’intana il coma di pargoli
Gotici. Padre di alta messa per perdonare i lupi
E le gentaglie alle prodezze degli assassini.
In fondo i colori amano i piangenti
I fagotti dei poveri che non sanno amare
E il carro funebre con la rodine in cima
Somiglia il paradiso che non c’è.

10.
Le bambole di pane ebbero tempo
di frangere aurore per gli abiti
quali un manipolo di baci.
Sto quaggiù dove piange il sale
le rotte nude di trovare il giorno
mancato per abitudine al cadavere.

_______________

*
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri di versi: “Il giornale dell’esule” (Crocetti 1986), “Gli angioli patrioti” (ivi 1988), “Acquerugiole” (ivi 1990), “Darsene il respiro” (Fondazione Corrente 1993), “La devozione di stare” (Anterem 1994), “Le arsure” (LietoColle 2004), “L’acciuga della sera i fuochi della tara” (Luca Pensa 2006), “Dallo stesso altrove” (La camera verde, 2008, selezione), “L’inchino del predone (Blu di Prussia, 2009), “Il solicello del basto” (Fermenti, 2010), “Ricette del sottopiatto”(Besa, 2011) “Un gerundio di venia” (Oèdipus, 2012), “La giostra della lingua il suolo d’algebra” (Edizioni Smasher, 2012); “Segnacoli di mendicità” (CFR, 2014); “Plettro di compieta” (Lietocolle, 2015). Altre raccolte inedite in formato cartaceo, complete e incomplete, rintracciabili sul Web: “La passione della fine”, “Intimità delle lontananze”, “Dissesti per il tramonto”, “Una camera di conforto”, “Sconforti di consorte”, “Brindisi e cipressi”, “Sorprese del pane nero”; “Staffetta irenica”, “Il solicello del basto”, “Sotto le ghiande delle querce”, “Pecca di espianto”, “Arsenici”, “Rughe d’inserviente”, “Ricette del sottopiatto”, “Dallo stesso altrove”, “Miserere asfalto (afasie dell’attitudine)”, “Declini”, “Esecuzioni”, “Davanzali di pietà”, “L’eremo del foglio”, “L’inchino del predone”, “Il sonno della ruggine”, “L’invadenza del relitto”, “Vigilia di sorpasso”, “Il cantiere delle parvenze”, “Soqquadri del pane vieto”, “Cantico di stasi”; il poemetto “L’alba del penitenziario. Il penitenziario dell’alba”. Ha inolttre pubblicato le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura.

Premio Nazionale Elio Pagliarani

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Il Premio Nazionale Elio Pagliarani  ha lo scopo di promuovere e valorizzare, nello spirito sperimentale del poeta, la scrittura poetica e la ricerca letteraria che dimostrino qualità creative ed espressive originali nell’innovazione linguistica.

La vita in tempo di guerra

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foglie-di-autunnodi Sergio Garufi

Per capire un libro non serve leggerlo da cima a fondo. I libri, più saggi degli uomini o forse solo più scaltri, cedono prima l’anima del corpo, tanto quella, si sa, è immortale. A volte la esalano così in fretta che non si fa neppure in tempo a toccarli. Non è difficile. Per cogliere lo spirito di un libro basta sfogliarlo, annusarlo un po’, leggerne qualche brano, e se vale davvero ne saremo subito conquistati. Succede così con La Vita Gueresca, le memorie dal fronte dell’agricoltore trentino Giacomo Beltrami. All’apparenza è il classico diario di un reduce della Prima Guerra Mondiale, che racconta i bombardamenti e gli assalti con una lingua elementare, ma è sufficiente scorrerne poche righe in un’antologia e fra mille errori si scoprirà un verso immortale, di quelli che si studiano a memoria nella scuola dell’obbligo. La perla è la celebre similitudine della poesia Soldati, solo che Beltrami la scrisse due anni prima di Ungaretti, nel 1916, osservando che il nemico “cadeva come le foglie deli alberi lautuno”. Non si tratta di plagio, sebbene l’analoga circostanza bellica autorizzi il sospetto, intanto perché il manoscritto di Beltrami non fu mai pubblicato, e poi perché i versi di Ungaretti valgono più per la struttura, con i due settenari ritmati dall’enjambement, che per la similitudine, tutto sommato ovvia; se no anche mio nonno anticipò Yves Klein quando pitturò di blu la porta della cantina. Però è il segno evidente di una sensibilità estetica non comune, dell’appartenenza a una grande tradizione, difatti la stessa immagine si trova, con motivazioni diverse, in Omero, Virgilio e Dante, volendo citare solo i maggiori. Per Ungaretti il motivo dell’accostamento tra uomini e foglie era la precarietà umana, quel “si sta” sempre in bilico tra la vita e la morte, mentre per Beltrami significava la caduta, la sconfitta, non a caso riservata al nemico; e il nemico di un suddito dell’impero austroungarico erano anche gli italiani, tanto che i trentini venivano mandati a combattere lontano, contro i Russi, temendo che lo scontro coi fratelli di lingua li potesse indurre a disertare.

Ma il ricorso alla similitudine in Ungaretti e Beltrami non fu un caso isolato. A leggere le tante testimonianze dal fronte pubblicate per il centenario, come quelle incluse nella Storia intima della Grande Guerra di Quinto Antonelli (Donzelli editore), fu soprattutto con la similitudine, la più semplice e diretta delle figure retoriche, che i poeti nei versi e i fanti nelle lettere provarono a raccontare gli orrori del conflitto. Evidentemente, una violenza così cieca e distruttiva, frutto della prima guerra davvero mondiale per dimensione, uomini e Stati coinvolti, doveva essere ricondotta a qualcosa di noto per renderla comprensibile a chi era rimasto a casa. A parte questo tratto comune però, la scrittura dei soldati e quella degli ufficiali appartenevano a due mondi totalmente diversi. Gli ufficiali si arruolarono volontari, perché fu il partito degli intellettuali e dei giornalisti, come i futuristi di Marinetti e i seguaci di D’Annunzio, a trascinare in guerra una nazione titubante. Secondo loro l’Italia era fatta ma non compiuta, e serviva un lavacro di sangue per riconquistare le terre irredente e cementare lo spirito identitario del popolo. Nel voluminoso epistolario degli ufficiali curato da Antonio Monti, la retorica patriottica della bella morte che anima quelle lettere è finalizzata a sostenere la bontà della causa italiana. Anche considerando la mano pesante della censura, i veri destinatari sembrano essere i posteri, più che i familiari. Le similitudini usate dagli ufficiali restano lugubri e angosciose ma sono sempre riscattate dallo scopo eroico, dal sacrificio consapevole, al punto che a volte, come nelle parole del sottotenente Annibale Calini, s’invitano i genitori a benedire la guerra perché “come il fuoco mi ha distrutto, ma ha coronato di luce la mia fine”. Al contrario, il soldato semplice in genere era un contadino, un artigiano o un manovale obbligato a combattere. Molti ufficiali lo ritrassero in modo paternalistico e indulgente, come fosse un bambino sperduto, in alcuni casi lodandone addirittura la beata ignoranza.

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Giani Stuparich (in Guerra del ’15, fresca ristampa di Quodlibet), notando un contadino sul treno per il fronte, ne rimarcava l’espressione terrorizzata e ammutolita da animale condotto al macello; e forse fu proprio per ridargli voce che l’interesse degli storici col tempo s’è concentrato sulla scrittura popolare dei combattenti. L’emersione di uno sterminato corpus di epistolari e memorie ha favorito una storiografia “dal basso” che intendeva porre l’accento sui veri protagonisti della guerra. Sembrerà strano che in quelle condizioni bestiali, dentro trincee infestate da topi e pidocchi e in mezzo a cadaveri insepolti, i soldati sentissero ugualmente il bisogno di scrivere, ma quello era l’unico modo che avevano per fuggire l’orrore del presente. Filippo Guerrieri, un giovane tenente, in una lettera ai genitori spiegò l’importanza di quel rapporto: “Difficilmente mandiamo delle maledizioni, perché a tutto siamo abituati, non ci si arrabbia se piove e non abbiamo da cambiarci, se il rancio non arriva, se il fuoco infuria, siamo alla guerra e deve essere così, ma guai se la posta non arriva, è l’ira di Dio che si scatena”. Molte lettere esprimono la nostalgia di casa, la paura di morire, la speranza in una rapida fine delle ostilità; ma in alcune regna lo sconforto più nero, come le parole agghiaccianti che il fante Andrea Pistoia rivolse alla moglie: “non pensare troppo a me, considerami perso, io non sono più niente, non esisto più, non spero neanche più di vederti”. La sintassi è spesso impacciata, rasenta l’afasia, quasi che la necessità e l’impossibilità di raccontare l’inferno non fossero due principi opposti, bensì due facce di un unico processo. In una lettera del calzolaio trentino Angelo Poli, coinvolto nella terribile battaglia di Rawa-Ruska, questo ossimoro suggella un lungo elenco di atrocità. Dopo aver tratteggiato dettagliatamente un panorama apocalittico da “finizione del mondo”, Poli conclude dichiarando: “era una roba che non si può nemmeno deschrivere”. In queste lettere si avverte spesso lo sforzo di abbandonare il dialetto, e tuttavia è grazie a quei goffi tentativi che la lingua risulta più aderente ed efficace nel registrare lo choc della guerra.

Anche la scrittura di Beltrami risente della sua formazione vernacolare, oltre al fatto che compila le sue memorie a quarant’anni, ben lontano dai ricordi scolastici, eppure i frequenti errori non affaticano il lettore, che si sente totalmente immerso nella storia grazie allo stile diretto e partecipe. Spedito nell’agosto 1914 a combattere in Galizia, Beltrami scrisse queste memorie due anni dopo, durante la prigionia in Uzbekistan. Da quel gelido finisterrae raffigurò il tramonto della sua civiltà con grande tenerezza ma senza infingimenti, sapendo che le contraddizioni di quella civiltà erano insuperabili, ma sapendo pure di affondare le proprie radici in quelle contraddizioni. In questo senso, La Vita Gueresca è il resoconto di una disfatta personale e collettiva, il testamento di un’esistenza che si scopre infine abbandonata a se stessa. Al ritorno a casa, dissolto l’impero asburgico, Beltrami diventerà il suo nemico fraterno: un cittadino italiano. Farà in tempo a sposarsi, ad avere una figlia, a vedere un’altra guerra e a morire poco dopo, nel ’48, senza più riprendere in mano la penna. Quel bellissimo manoscritto resterà un unicum, tenuto nascosto perfino ai familiari. Consegnato postumo all’Archivio della scrittura popolare di Trento, oggi lo si può leggere integralmente solo in rete, in allegato alla bella tesi di laurea che Federico Manica gli ha dedicato. Descritto dai discendenti come un uomo basso e schivo, dedito unicamente ai frutti del suo orto e alla coltivazione del tabacco, Beltrami visse l’esperienza della scrittura come una breve parentesi, qualcosa che cominciò e finì con la guerra. Fece come le nespole che danno il meglio di sé e acquistano le ali cadendo, quelle che maturano nel breve spazio tra il ramo e il suolo, che si staccano acerbe e trasmigrano come anime nel tempo di un respiro, lasciando sul terreno soltanto una piccola poltiglia silenziosa.

Miti Moderni/15: tempo massimo

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ponti-spettacolari-9di Francesca Fiorletta

Sei sempre fuori tempo massimo, mangi un panino, non hai voglia di spostarti dall’oblò, fumi una sigaretta, ti dovrai arrangiare, ti consigliano severi, infila al collo la cordicella, penzola al vento il cartellino, sei un impiegato, sei una massaia, bisogna accontentarsi, ti ripetono, troppo seri, che a questo mondo siamo sempre soli, in mezzo a tutti, non si riesce a stare da soli mai. 

L’Amalassunta, animale strafottente

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di Giacomo Verri

È un romanzo che ha la pazienza di perdersi. Che va e viene e torna sui propri passi. L’Amalassunta di Pier Franco Brandimarte, vincitore del Premio Calvino 2014 (ora in libreria per i tipi di Giunti), racconta l’anima inquieta di un io narrante, Antonio Accurti (il nome è svelato solo a pagina 51), che tanto sa d’alter ego da assottigliare pericolosamente la linea che separa la persona reale dell’autore dalla finzione-funzione di narratore.

Antonio molla tutto, quasi improvvisamente, per inseguire una specie di sfilacciata amenza, la passione forse insana, certo ineludibile, per la “storia del pittore”: è Osvaldo Licini, fiorito all’Accademia di Belle Arti di Bologna, astrattista in bilico sempre tra sottili chimere e periclitanti e liriche geometrie. Era originario di Montevidone, il buon Licini, un paesino dell’entroterra marchigiano, a forma di P, adagiato al colle, neniato in cima alla sella che scandisce la valle: lì torna dopo gli studi bolognesi, dopo il soggiorno parigino, dopo le delusioni incassate qua e là lungo la groppa movimentata della penisola (i primi importanti riconoscimenti gli verranno solo a fine carriera, alla Biennale veneziana, nel 1958). Anche Antonio torna, rimette i piedi a Torano, quaranta chilometri a sud di Montevidone. Ci torna per una fantasmatica e potentissima “forma di inconsistenza”, lascia la morosa, Nina, lascia Torino, lascia le vuote certezze della vita. Non che quella di prima fosse un’esistenza falsa, e quella di ora sia autentica. Com’era nella sensibilità del pittore, la vita è marcata dal bilico silenzioso e assolutizzante di chi sta per lanciarsi nel vuoto, di chi “rimane così, spiovente sulle leggi di Euclide”. E il ritorno ha un significato al limite dell’ermetismo, un significato attorno al quale l’io narrante preferisce non essere assillato.

Nelle vallate fermane, tra Torano e Montevidone, Antonio parla di Licini con l’amico d’infanzia Germano, con Marcello, che comanda un drappello di giovani archeologi venuti a “cercare i reperti nella valle”, e con altre donne o uomini che lo conobbero – anni Trenta – quando l’artista tornò al paese a braccetto della moglie straniera. Antonio va a vivere nella vecchia barberia del nonno: e lì respira quell’aria stantia, diroccata, ma ricca e sofferente e estremista, perfino, che diede corpo alle tramutanti idee del pittore.

Il pittore, sì. Il romanzo lo rincorre, come si rincorrono i miti finite le esaltanti prime sensazioni. La passione ossessiva che ci sconvolge, per un uomo, una donna – badate bene: non parlo d’amore –, per un’idea, per un’opera, vive dapprima di slanci ubriacanti, di impazienti estremismi. Ma quando poi si è superato l’iniziale strato di familiarità, il contatto con il nostro mito diventa più intimo, e più difficile, a un tempo. Che può dire, ancora? Fino a dove? Fino a dove ciò che io posso sapere di lui – nel nostro caso, ‘il pittore’ – può invaderci, intriderci, levigarci? Brandimarte di Licini ripercorre, con una struttura a spirale che agglutina di continuo, e di conserva, passato e presente, le tappe della vita, quelle grandi e quelle minori, gli studi, la guerra, le ferite, l’amore delle infermiere e l’altro, le delusioni e le passioni e la rabbia. Dalla china dei lustri, risalgono all’oggi tanti insegnamenti sempre validi, tante impressioni sempre dorate. Lo stesso trattamento stilistico – dal lessico alla sintassi – che il narratore dispone per la propria materia ha echi che affondano in quel passato: dai primi dei decenni del secolo breve discendono le pagine di Brandimarte, punteggiate come brevi poemi lirici che ricordano tanto le prose bellissime e impareggiabili di chi scriveva a cavallo del primo conflitto mondiale, quando cioè la regola era che la singola parola, nell’inconsutile tessuto testuale, affiorasse alle carte solo dopo attente meditazioni, con una persuasione quasi superstiziosa. È bello da leggere il libro di Pier Franco Brandimarte, perché, con una sguardo nel presente, smuove rumori antichi, i passi spirituali di chi era partito volontario per le trincee e aveva scommesso l’intera propria esistenza sul fango.

Lo scavo nel passato è qui sempre un dialogo: esaltante, sulle prime, qualunque cosa ne sorga: “la parte più eccitante viene quando si scava, allora prima di riesumare un vecchio tappo di birra si può immaginare un tesoro disperso, una moneta romana o un bracciale piceno”. Un dialogo, certo, a volte inconcluso, spesso labirintico, eppure l’impressione è che tutto si tenga come nelle architetture dei trabocchi che si protendono in mare. L’Amalassunta, che è la luna, – e assieme a lei altre tante tele di Licini – sono come “estensioni della capacità umana di toccare e prendere”, sono portolani e mappe dell’esperienza; e Licini medesimo è “il cacciatore-pittore” che “delinea i percorsi noti fin dove conosce, e dove non conosce arriverà la sirena, il drago, l’abisso o l’Amalassunta”. L’Amalassunta è una enorme e struggente lassa testuale che s’avvinghia, come fanno i sogni, attorno al mistero della vita, soprattutto della vita adolescente, dove un senso d’eternità percuote le vicende di tutti i giorni.

Così, in ogni alba di Antonio Accurti, in ogni alba di Osvaldo Licini c’è un senso di lontana ripetitività che “inganna il tempo, lo mescola come lo zabaione, lo rende cremoso e denso”. È un romanzo colmo, come pochi se ne leggono oggi, in cui le vite seguono una linea che non è sempre quella segnata dalla volontà, ma spesso è quella comandata dalle venature del materiale di cui è fatta, come avviene nel marmo. Perché la vita è composta di tanta realtà, e di essa una creatura umana ne può sopportare solo una certa misura. L’Amalassunta è allora il viaggio interiore che conduce a trovare quella misura e a superarla, dando sfogo alla “voglia d’indeterminato, d’inconcluso, voglia di giocare eternamente coi possibili, di evadere la forma”, trasformando l’esistenza in un continuo palinsesto di se stessa. “Mi accorgo che tutte le similitudini fabbricate in questi mesi non valgono a fermare quella luna che come un animale strafottente non appena inquadrato cambia forma, si riavvolge, si tramuta in qualcos’altro”. Sì, è così.

EN SOLIDARITÉ AVEC ERRI DE LUCA

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domani pomeriggio, 20 maggio, in una libreria di Nantes (café-librairie Les Biens-Aimés, 2 rue de la Paix) verranno letti dei passi di “La parole contraire” (traduzione di “La parola contraria”), di Erri De Luca;

ci sembra una cosa bella e opportuna; se ci fossero iniziative del genere anche in Italia, o altrove, vi preghiamo di segnalarcele, che le publicizzeremo volentieri (GS);

questo il testo diffuso dagli organizzatori:

“En solidarité avec Erri de Luca, accusé d’incitation au sabotage dans le cadre du projet de construction ferroviaire de la ligne à grande vitesse Lyon-Turin, qui comparaîtra en justice le mercredi 20 mai, nous lisons son livre La parole contraire, dans lequel il défend sa liberté de parole, notre liberté de parole. Erri de Luca refuse de voir son procès confiné dans une salle d’audience. Il veut un débat public. Partout, dans le val de Suse en Italie, à Sivens, sur la ZAD de Notre-Dame-des-Landes, il s’agit de défendre notre droit à la désobéissance face aux grands projets inutiles. C’est pourquoi nous lisons son livre, aussi à Nantes.”

http://nantes.fr.eventsdroid.com/ici-ailleurs-en-solidarit%C3%A9-avec-erri-de-luca-les-16-20-mai-%C3%A0-nantes.html

Ida Vallerugo (poeti friulani # 2.1)

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testi di Ida Vallerugo, fotografie di Danilo De Marco

Ida Vallerugo che guarda  copy

 

 

 

 

 

 

Alba sull’Acropoli

 Ma mi assale il tempo. Non qui, non ora

in quest’alba calma fra queste colonne.

Non qui, non ora, in questo silenzio vivo, fra le voci

Critica del lavoratore culturale

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di Andrea Inglese

[Di tutta la faccenda scandalosa e sintomatica riguardante i mancati pagamenti della casa editrice Isbn nei confronti di autori, traduttori & collaboratori a vario titolo, la cosa che io trovo più scandalosa e sintomatica è il fatto che la denuncia esplicita e mirata sia venuta da un signore straniero, quando è evidente che, in termini numerici, le vittime di queste condotte ciniche siano state innanzitutto persone italiane. Non si tratta di rigirare il coltello nella piaga, ma di cominciare a fare i conti anche con l’omertà delle vittime che rafforza giornalmente quella dei carnefici. Certo, è tempo di dare forma politica, e ancor prima sindacale, alla rabbia e alla frustrazione che lo scandalo suscita. Ma varrebbe anche la pena di riflettere in una prospettiva più ampia sulla figura del lavoratore culturale, sulla cultura del precariato in cui s’inserisce, sulle ambiguità del suo posizionamento etico e politico. Quello che segue è un mio contributo a questo tipo di riflessione. Esso è raccolto nel volume Le culture del precariato, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi,  Ombre corte, 2015. Un altro intervento qui. a. i.]