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La costruzione del due

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di Ivan Campesi

zero – Ai margini di una stretta di mano, celati dai vetri appannati di un bar, costruiamo con fatica reti di relazioni sociali, in cui ci avvolgiamo in cerca di conforto. Ritroviamo ogni volta, nella velocità di un messaggio istantaneo o nella chiarezza con cui facebook riassume i punti salienti delle nostre vite, nuovi bisogni di solitudine da esacerbare: in quei momenti, siamo sempre abbandonati su un divano a scrutare inganni di stupefacente bellezza – brandelli di telegiornale, tribune politiche e talkshow, pezzi di realtà pericolosamente estranee e distanti –. La nostra presenza riempie alla perfezione il vuoto degli spazi domestici, ma non sembra avere nessun’altro senso.

 

uno – Durante notti d’insonnia e d’attesa, PQ amava costruire elaborate geometrie immaginarie, dentro cui collocare la ragione della sua esistenza. Era una disciplina meticolosa che scaturiva dall’osservazione minuta di particolari insignificanti – la pubblicità che interrompeva un film d’azione scadente, trasmesso a tarda notte; le esitazioni della barra di avanzamento di un aggiornamento di sistema; o altri piccoli momenti di dolore inspiegabili, che PQ distillava con la sua scienza esatta –. Aveva da tempo capito che il problema erano le sue scelte, che vedeva intessersi lungo lo svolgersi delle sue costruzioni mentali: era soprattutto la vita in un altro luogo, con altri ritmi, con altre sicurezze e soddisfazioni, a lusingare la sua fantasia cartesiana. Un costruttore di futuro, a cui il presente non sembrava altro che lo spazio inerme oltre la finestra della sua stanza, dove fremevano le luci della città notturna.

 

uno e 1/2 – Il bagliore discreto di un crepuscolo amaranto, diffuso tra la densità prospettica dei palazzi e delle strade. Ele camminava immersa nel tramonto sfavillante di smog, senza riuscire a esprimere un pensiero che la liberasse dallo stato di sospensione di cui si sentiva prigioniera. Non aveva mai una meta precisa, o se l’aveva, cercava di relegarla in uno stadio rarefatto e sfilacciato del pensiero, mentre il suo corpo la guidava verso di essa con gesti automatici – l’università, il centro o casa di PQ: erano le destinazioni di percorsi tracciati dalla bicicletta di Ele tra le abitudini dei passanti –. Solo così poteva sopportare la bellezza che si intrufolava sotto forma di luce, tra le sagome della città, e scacciare la convinzione che quello spazio, in realtà, non fosse adatto alla vita umana.

 

uno e 2/3 – Dispersa nei raggi di luce rossa, che filtravano dal vetro di una finestra, la presenza discontinua di Ele incrinava la perfezione dei sistemi di PQ: nel rapporto che aveva costruito con lei PQ avvertiva qualcosa di inspiegabile, che non riusciva a posizionare nelle geometrie in cui racchiudeva le possibilità del futuro. Così, PQ tornava a essere lo schermo della tv o le pagine di un libro, sondando con i polpastrelli la superficie irregolare del tappeto. In realtà, PQ aspettava. Durante serate piovose e prive di luce, aspettava che Ele tornasse, per poter riprendere a studiarne le grinze di una cicatrice su un ginocchio, o il neo scuro sotto un capezzolo: una mappatura estesa di Ele come fenomeno fisico sembrava essenziale a PQ per poter comprendere la sua realtà sfuggente, all’interno di quel vuoto inarticolato in cui si consumavano una dopo l’altra le giornate.

 

uno e 3/4 – Non che Ele immaginasse un altrove, in cui fosse possibile conciliare i frammenti difformi della sua esistenza – malinconie improvvise come flash, solitudini aperte come schermi –; eppure, mentre si dirigeva verso casa di PQ, Ele avvertiva sempre qualcosa di sbagliato, una frattura che era necessario ricomporre e suturare. In quei momenti, vedeva se stessa e le persone che incontrava come improvvise interruzioni del paesaggio continuo della città al tramonto – c’era un legame sottile ma evidente tra i cassonetti dell’immondizia e il nitore abbacinante delle automobili; tra le vetrine iridescenti e la nausea grigia assembrata nel cielo –. Ele era certa che fosse proprio la sua presenza a costituire l’inessenziale, un grumo di realtà superflua e invadente, di cui il resto del mondo avrebbe fatto bene a disfarsi. Tuttavia, a volte, nei discorsi che PQ le faceva durante serate di noia, quando anche il sesso era qualcosa di laterale e sfuggente, aveva la sensazione di scovare, dietro l’attesa che scandiva le giornate, dei percorsi di senso su cui parevano avviate le loro presenze accessorie tra le linee asciutte della città.

 

quasi due – Durante mattine arse di luce, stretti nell’abbraccio del sonno, ci sussurriamo frasi lette nei libri e ci stupiamo dell’esattezza delle parole – «a volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane» –; poi restiamo in silenzio, a osservare quei profili netti disegnati tra di noi dalle parole e incapaci di aderire alla superficie porosa delle nostre vite. In quei momenti, aspettiamo il segnale improvviso di un cambiamento.

les nouveaux réalistes: Fabio Ermoli

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Dimensioni-Campo-Basket

playoff

di

Fabio Ermoli

Sabato vado verso l’Iper per necessità, con lo scooter attraverso Piazzale Accursio, guardo il campetto da basket che una volta era territorio del Pitone di Via Nansen, l’attuale Avv. Ranzoni, quando per la prima volta insieme ai soliti ragazzini filippini ci vedo un ragazzetto bianco bianco lungo e dinoccolato che in realtà si sta allenando da solo.
Nell’altro canestro.
Il semaforo rosso mi consente di osservare 4 tiri.
Il semaforo diventa verde ma non me ne vado pur di vedere il quinto. 
Tira da molto lontano, con la palla che schizza tra le gambe in arretramento, raccolta con la sinistra e tirata a canestro in sospensione cadendo all’indietro, come a liberarsi di un avversario che ha già affrontato.
Un movimento che conosce.
Non è roba da tutti, ve lo garantisco.
Nel campetto di Piazzale Accursio la retina del canestro si gonfia e la palla fa quel rumore che ci piace tanto, ciafff.
 Metto la moto sul marciapiede, ci penso un attimo, voglio solo chiedere al tipetto dove ha imparato a fare quei tiri. 
Uscito di casa ho addosso i jeans e le Champions da € 19,90 finte Converse, bianche, con le calze blu filo di Scozia che non c’entrano un cazzo. 
E una polo grigia di Robe di Kappa sfigatissima sotto il giubbotto nuovo di pelle.
Praticamente sembro uno sbirro da telefilm. 
Vabbè, al limite sembrerò un vecchio adescatore.
Mi avvicino al campo ed al ragazzetto che dimostra un 15 –16 anni, mi paleserò e lui si domanderà probabilmente che cazzo voglio.
E infatti mi dice: 
 – Cazzo vuoi?
 – Il pallone – rispondo io. – Guarda saran vent’anni che non faccio un tiro. Faccio solo due tiri e poi vado all’Iper a fare la spesa.
Fa tre passi in avanti tranquillo con la palla tra le mani, una Wilson di cuoio, bella.
Troppo bella per un playground della Bovisa.
Mi accorgo che complessivamente è alto come me, e io sono circa 1,90.
Mi tolgo in giubbotto, lo metto per terra, mi giro e lui mi passa la sfera.
La ricevo, faccio un paio di palleggi per capire, esco dall’area arretrando e faccio lo stesso tiro che gli ho visto fare per ultimo.
Diciamo saltando meno, ma quello è il concetto.
Che lui recepisce.
– Ah… ho capito, sei brutto cliente, tu, lo so – prende la palla che scende dal canestro e me la passa ancora.
Accento balcanico, quasi turco.
Niente preamboli.
– Vuoi giocare? Uno contro uno? Poi tu vai a fare tua spesa all’Iper.
Al che mi sono domandato.
Se uno decide intorno ai 50 anni di farsi deliberatamente del male in un campetto della Bovisa, che male c’è? 
Giochiamo, allora.
Palla a me, passaggio a terra.
La prendo mentre rimbalza, lui non si avvicina.
Aspetto un attimo, non viene.
Tiro. 
Canestro.
 Se non difendi, io segno.
Palla a me, all’americana.
Stavolta apro il palleggio per farlo muovere. Fermo il palleggio, lui non difende.
 Tiro. 
Canestro.
– Non difendi? – gli chiedo.
Lui sorride e mi fa:
 – Adesso tu ha voglia di giocare, vero?
Ha ragione.
Gli ridò la Wilson.
Mi porta a sinistra per entrare a destracercando un tiro dal limite dell’area, finta, sgamba sulla linea di fondo e al momento del contatto cerca di farmi un controllo del corpo spingendomi con la gamba destra.
Bellissimo movimento, ma io l’ho imparato nel 1983.
Più o meno alla tua età.
Fisso la mia linea difensiva con un piede sulla linea di fondo e lo fotto.
Esce dal campo con la palla in mano, non poteva tirare da dietro il tabellone.
– Dove hai imparato a giocare a basket? Sei forte, giochi bene – devo chiederlo, ha una preparazione tecnica che non c’entra niente con il campetto di Piazzale Accursio.
Dovrebbe stare in una palestra tutto il giorno a tirare a canestro finché non va alle Olimpiadi
Da dove spunta questo alieno?
I filippini dell’altra metà del campo si sono fermati e ci guardano.
Si sono ingolositi, lo chiamano e gli parlano, evidentemente lo conoscono.
Vorrebbero per una partita, almeno una volta, due giocatori nel ruolo di centro di 1,90 circa, uno per squadra, loro che generalmente arrivano al 1,70.
Ecco perché giocava da solo. 
Era troppo forte, o lungo, in ogni caso non giocava con gli altri nel multirazziale campetto di Piazzale Accursio, con la Wilson ci tira solo lui, infatti la mette sotto il canestro.
Il capo dei filippini mi convoca nel suo quintetto
 – Tu giochi con noi.
Fanno le squadre eccitatati e intanto gli chiedo: 
 – Come ti chiami?
 – Armin.
Armeno o giù di lì, dunque.
Io dovevo fare la spesa all’Iper, i miei gatti e mia figlia aspettano rifornimenti, ma sono troppo curioso.
Giochiamo, allora, mi stringo meglio le stringhe, sennò a cosa servono, se non a stringere?
Le Champions gemono, i piedi pure.
Abbiamo giocato per una mezz’oretta e passa.
Hanno vinto loro.
Armin ci ha fatto vedere tutta la pallacanestro che si può fare, e io ho difeso per fargli sudare ogni punto.
Totalmente rilassato, alla fine della partita ai 24 punti abbastanza concitata, il giovane espatriato ci ha regalato uno show di precisione, tirando quasi da fuori il campetto illuminato dagli ultimi raggi di sole di questo Aprile.
9 su 12, statistiche da Pro.
Dopo gli ho chiesto:
– Cosa ci fai qui oggi?
– Sono armeno e albanese, ho giocato per 3 anni in Turchia e ho vinto il campionato europeo Under 17 ma dopo sul confine a casa mia un casino, avevo un contratto a Istanbul con grande squadra, ma la mia famiglia è anche mezza siriana e ho dovuto aiutare, altri parenti hanno cercato fortuna, mio fratello era un campione di basket, per venire in Italia ci siamo fidati delle persone sbagliate, tutti i nostri soldi sono spariti, siamo arrivati tutti vivi solo perché io avevo dei soldi nascosti e abbiamo preso camion, tutti quelli che cercano di arrivare qui con il mare forse muoiono, ma forse sono già morti prima che partono.
– Come fai a dirlo?
– I nostri cugini sono morti in mare tanti anni prima di adesso, in mare.
– In che senso?
– È normale, se vuoi andartene, qualcuno della famiglia muore.
– È una cosa che pensate? È necessaria? Non c’è scelta?
Lui rimane zitto, mi guarda come se fossi un vecchio rincoglionito.
– Tutti i governi accettano che loro popolo scappi dalla loro terra perché vogliono soldi dagli altri paesi che devono prendere queste persone. Se muoiono tante persone è meglio, in giro per il mondo si muore di fame, anche vicino alla tua porta di casa e non te ne accorgi, ma adesso stanno venendo tutti in Europa.
– In Europa?
– Dalle altri parti del mondo non ci vanno, non si può, non li accettano più e li mandano indietro, fanno come tutti, aspettano che muoiono.
– Che lavoro fai?
– Il muratore in nero, con mio cugino.
– Ti faranno fare i controsoffitti senza la scala, vero?
– Non capisco…
– Scherzavo, quanti anni hai?
– 17.
– Anche no.
– 17 a ottobre.
– Giochi in una squadra?
– Niente documenti, niente squadra.
– Continua a giocare, sei veramente bravo.
– Lo so.
– Ciao Armin.
– Ciao.

 

700

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di Gianni Montieri

Settecento diviso sette
fa cento. Sette file da cento.
No, non va bene, ritento
Settecento diviso cento
fa sette. Cento file da sette
sul lungomare, non ci stanno.
Divido settecento per dieci:
fa settanta, sono morti
dieci volte settanta, ordinati
sette volte cento, ammassati
cento volte sette paga pegno
di sale e aritmetica è il regno.

Intervista a Pepe Mujica

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presidente_pepe_mujica
José Alberto “Pepe” Mujica Cordano è stato presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 e, secondo lo statuto di quel paese, come di altri dell’America Latina, non può effettuare due mandati di seguito. Sul quotidiano madrileno El Paìs del 6 maggio scorso è apparsa (qui l’originale) un’interessante intervista che vi propongo qui tradotta dal mio vecchio amico. dal titolo “La corruzione uccide la sinistra. Ciò che sta succedendo in Brasile è inspiegabile”: Mujica era in Argentina alla presentazione del libro “Una pecora nera al potere”, ove parla di Cuba, di Nicolás Maduro (presidente del Venezuela) e di Podemos. L’intervista è firmata da Carlos E. Cué, Buenos Aires, 6 maggio 2015.

Domanda: Sta per recarsi in Spagna a ritrovare le sue origini basche. Un cerchio che si chiude?

Risposta: Si. Andrò a Muxica in memoria della famiglia di mio padre, e poi mi recherò in un paesino della Liguria, vicino a Genova, dove vive la famiglia di mia madre. Vado perché ho un’età tale che se non lo faccio ora potrei non farlo mai più.

D. Dicono che sarà di nuovo presidente dell’Uruguay, che è sempre lei il punto di riferimento.

R. Si, continuo ad essere il punto di riferimento, ma ho 80 anni. È difficile pensare a come sarò quando ne avrò 85 e potrei ripresentarmi come candidato alla presidenza. Non le pare?

D. Lei segue la situazione politica della Spagna. Il partito Podemos rivendica di ispirarsi alla sinistra latinoamericana. Lei vede similitudini?

R. Mi pare che quando una nazione patisce una crisi profonda, come è successo alla Spagna la cosa migliore che può succedere sia che le tensioni trovino un alveo nella politica. Che la crisi spagnola abbia prodotto un fenomeno come Podemos mi sembra altamente salutare. È un fenomeno più maturo. E pertanto più governabile. Proviamo ad immaginare la Francia che non ne vuol più sapere della Unione Europea, e che si chiude e caccia fuori i neri. Dove andremmo a finire? Io sempre preferisco e scommetto sulle soluzioni politiche.

D. Pensa che ci sia un ritorno della politica?

R. La crisi della politica solamente accentua l’individualismo. Io preferisco che le persone non si allontanino dalla politica: meglio non essere di sinistra che allontanarsi dalla politica. Sono disposto a pagare questo prezzo. L’antipolitica è avventurismo o fascismo. Preferisco comunque la politica, anche se politica conservatrice.

D. Teme il populismo?

R. Temo i senza partito, coloro che non rispondono a nessuna disciplina. I partiti sono il primo elemento di controllo degli individui. Che si chiamino PP, socialismo, o Podemos. Sono comunque qualcosa di collettivo. Però attenzione: se il populismo è la lotta per alzare il livello di vita o la politica di uguaglianza allora evviva questo peccato. Il limite di questo populismo è quando si prendono provvedimenti che paralizzano l’economia, perché vuoi redistribuire tanto che alla fine ucciderai l’interesse per il lavoro e per gli investimenti. Se uccidi questo, se superi questo limite, non avrai niente da dividere più equamente. Ecco direi che il populismo è superare questo limite.

D. Sta pensando al Venezuela?

R. Il Venezuela ha la disgrazia del petrolio. È il paese più saccheggiato dell’America Latina. Come può sopravvivere una società dove costa di più una bottiglia d’acqua che un litro di benzina? [100 volte di più, N.d.T.]

D. Ha suggerito a Maduro di evitare di mettere in carcere gli oppositori?

R. Credo che ci sia una opposizione in Venezuela che aspira ad essere incarcerata. È un modo di essere di parte dell’opposizione, una tecnica, una forma di lotta. Spingono il governo a superare i limiti (costituzionali) in modo da creare una patente contraddizione ed una situazione internazionale insostenibile. E questi tonti ci cascano. Gliel’ho detto (a Maduro). È un errore.

D. La gente protesta e si allontana dalla politica in Brasile ed in Cile per via della corruzione. Crede che le nuove generazioni siano più esigenti?

R. È un vero flagello di carattere etico. Quando il desiderio di far soldi si fa strada nella politica è un vero disastro per la sinistra. Perché è tanto diffusa la corruzione? Le sembra sensato che gente di 60 o 70 anni si insozzi per quattro luridi denari? Eppure sanno bene di non aver molta vita davanti a sé. Far denaro può essere importante come strumento di progresso nel mondo del commercio o dell’impresa dove ci sono rischi elevati , ma quando entra nel mondo della politica allora siamo fritti. È successo in Italia, e in parte in Spagna , in Brasile è addirittura incomprensibile. E qui in Argentina il vicepresidente è sotto processo.

D. Nel libro dice che sembra impossibile far politica in Brasile senza cedere alla corruzione.

R. La democrazia moderna è molto costosa, ed il Brasile è molto grande. Ci sono Stati [il Brasile è una repubblica federale, N.d.T.] grandi come nazioni. Ci sono forze locali e il Governo nazionale deve mediare con queste forze locali. Lì comincia il problema della corruzione.

D. Si annuncia un periodo difficile per la sinistra latino americana?

R. Non lo sappiamo. D’altra parte non mi sembra che la destra abbia molte risposte. Non credo che sia capace di fare cose meravigliose. Direi che la sinistra in Europa vive un momento di arretramento, mentre in America Latina vive un momento di stasi.

D. Come vive l’avvicinamento di Cuba e Stati Uniti uno che è stato guerrigliero?

R. Era un residuo della guerra fredda e che andava eliminato. Negli Stati Uniti molta gente pensa che questo produrrà grandi cambiamenti nella società cubana e i cubani pensano che resisteranno. La storia deciderà. I cubani hanno un punto forte: mandano migliaia di medici all’estero con un tasso di diserzione bassissimo. Potranno resistere? Non lo so. Perché bisognerà vedere l’effetto che avrà su Cuba la il “fascino del mercato” per dirlo con Trockij.

D. Sta svolgendo un ruolo di mediazione nel conflitto in Colombia?

R. Non sto svolgendo nessuna mediazione, pero devo parlare con la gente della FARC per via delle difficoltà del negoziato. Non posso dirle nulla altrimenti mando tutto all’aria, però devo parlare.

D. È ottimista?

R. Mai si è stati cosi vicini (a un accordo). Vale la pena impegnarsi. Mantenere un conflitto eterno non è una strategia. E la geografia della Colombia è tale che sconfiggere la FARC sulle montagne è impossibile. La guerriglia non potrà mai vincere però annientarla è impossibile. È una guerra permanente, infinita. Il presidente Santos è in buona fede ma affronta grandi resistenze e vorrei vedere se ciò che viene negoziato dalla FARC a Cuba viene accettato sul terreno da tutta la FARC. Quando si hanno le armi in mano la politica passa per il mirino del fucile. È il problema di sempre degli uomini armati. Tendiamo a vedere sempre la strategia politica attraverso le armi e non abbiamo fiducia nel resto.

D. Lei è la prova che si può arrivare al potere dopo aver lasciato le armi.

R. Sì, però conosco il problema, la malattia di tenere le armi in pugno. Alle organizzazioni armate costa molta fatica avere la capacità politica di negoziare. Però ormai viviamo in un’altra epoca.
Con il progresso tecnologico la guerra è un’illusione ottica che viene risolta dalla tecnologia. Non c’è nulla che abbia a che fare con l’eroismo. Significa accettare di essere uccisi da un telecomando. Oggi si possono mettere in gravi difficoltà i governi senza sparare un colpo. E non c’ è bisogno di andare sulle montagne.

[Nota dell’intervistatore: Pepe Mujica È stato guerrigliero per metà della sua vita, è stato in carcere per 15 anni, ha vissuto alla macchia e in clandestinità, e adesso dice che è vecchio e non può dire come starà tra cinque anni, quando potrebbe ripresentarsi per un nuovo mandato come presidente dell’ Uruguay. Però ascoltandolo, nessuno direbbe che Pepe Mujica è al capolinea della sua traiettoria politica. Strabordante, influente come nessun altro in Sud America, attento a tutte le situazioni del continente e a tutti i protagonisti, Pepe Mujica è venuto a Buenos Aires per la presentazione del libro sulla sua presidenza “Una pecora nera al potere” (Una oveja negra al poder) che Andres Danza e Ernesto Tulbovitz hanno scritto e che uscirà presto in Spagna per i tipi di Random House Mondadori.]

didascalie: Ma Dan

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Muro di casse

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di Vanni Santoni

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…e dalle case di pietra sotto cui passi prima di arrivare, le vecchie sbirciano; sulla strada i vigili danno mano, addirittura. È esistita un’epoca, ricordo adesso, in cui sui giornali si potevano prendere per quello che erano, semplificando al massimo, quei ragazzi: appassionati di musica, solo un po’ strani. Tra i lampi tremolanti dei fari di chi cerca di far manovra incroci facce che vengono da lontano e altre che invece arrivano certamente giù da basso; per un Claust di Innsbruck e una Marystelle di Roubaix ecco un Baldo, un Colle, una Sarina.
E seguirò proprio te, Sarina: tu che procedi all’apparenza sicura verso il monte, con le calze smagliate e gli scaldamuscoli rivoltati sopra le scarpe da skate, con la felpetta nera su cui hai cucito, o lo hai fatto fare a tua mamma?, una toppa col logo dei Narkotek, quante volte hai fatto su e giù, in questa settimana? Chi ti ha dato uno strappo fino a mezza strada, stavolta? Che fai, ti metti da parte, ti fermi a giocare con un cane? Se fai così ti supero…
Servono capsule?
O Sara, sono Iacopo, il Gori.
Ah mi’, ciao Iacopo. Vuoi capsule?
Con tutto il ben di dio che ci sarà lassù…
Bo vabbè cioè te le mettevo a dieci, è md francese…
Immagino.
Senti Iacopo… Che ce l’hai mica una sigaretta?
Tieni, Sarina, e prende la sigaretta, se la mette sull’orecchio, poi ci ripensa, la accende, intanto arrivano altri tre, piccoli come lei, due ragazzine e un tizietto con una visiera da tennis sulle ventitré.
Ciao… Lucy?, fa alla prima del gruppo, ci prende, ottiene riconoscimento; si affianca, allora, e ritrova la voglia, finalmente, di fare strada: ti seguo, Sara, hai visto cosa hanno messo su? Proprio qui da noi. Tu che per la prima volta hai visto una vera festa cinque settimane fa, che dalla loia impestata del campeggio di Arezzo Wave qualcuno ti ha caricata su, e ti ha portata all’In the wood, al confine con l’Umbria, e lì sì che hai visto i tuoni e i fulmini e i diavoli che uscivano a mazzi dalla terra, e ora puoi ben fare come se bazzicassi questi sentieri da sempre, e come se questi sentieri per sempre dovessero esistere: non è così, Saruccia, vorrei dirti oggi, ma intanto ecco i primi tuoni, e i primi camper scassati e coperti di adesivi, ecco che sbirci quelle lucine che sembrano di lanterne a olio, lì nel riflesso di quegli interni di legno o simillegno,  e c’è chi vende sebbene l’ora non sia tarda, te lo figuri a dire Veggano, veggano che fiore di mercante! Qui v’è di tutto; e son nullameno tutte cose rarissime e senza eguali in terra, oppure oh raga serve qualcosa, e allora tu sbircia e salta qua e là, Sara! Altro che le capsule con cui ti bulli di smerciare anche tu, che ti sei preparata sbriciolando un grammo di md presa ieri e dividendola dentro gli involucri svuotati di qualche medicina di tua madre; qui, Saretta, c’è ogni cosa, stasera da Castiglion Fibocchi passa la Via della Seta,
ecco Odilon con l’oppio andaluso
e Kirsten con le superman bianche (tutte anfetamina)
e quel gruppo da Marsiglia con gli acidi marca Timothy, che sta per Timothy Leary, l’hai mai sentito, Sara? non prenderne più di mezzo, si raccomanda uno di loro, sono da trecentosessanta microgrammi
da trecentosessanta microgrammi
e il Falacci (lui, be’, lo conosciamo) che è venuto da Reggello e ha un mezzo chilo di nero
e Rocamadour con Sayfa che hanno lo speed base, senti come odora, e la ketch indiana appena cucinata, e se vuoi anche le paste, smile blu, lo so c’è tanta md in giro,  ma queste son buone davvero, guarda, te le metto a cinque, a quattro
e al camper col graffito di Luigi (quello di Super Mario) affettano panette di zero zero
ma hanno anche la ganja olandese
e alla tenda, quella con la bandiera dei pirati, hanno le micropunte e il 2C-B, addirittura
raga serve oppio, serve md
ora che si formano le prime stradelle, ora che i tuoni e i lampi si aggregano in nodi e nubi sui crinali ecco anche nascere i crocevia coi loro mercanti, ognuno una lampadina al collo o sulla testa, qualcuno il cane, c’è chi si è portato una sedia da picnic
trip?
fumo?
serve speed ragazzi?
funghetti? guardalo, col cappello da cowboy e i sandali e il torso magro e nudo su cui penzola un rosario di legno, da dove sei arrivato tu, dall’accento potresti venire da qualunque posto, essere qualunque cosa
funghetti mezzicani ragàz?
Sarina, quasi ci hai ripensato? Buoni i funghetti, ma ti sei già comprata due Timothy, stai tranquilla, che se davvero sono da trecentosessanta microgrammi, mezzo ti basta e ti avanza
GHB?
erba?
volete birre ragazzi?
fresche nella bacinella da bucato riempita d’acqua di fonte
un bicchiere di vino cinquanta centesimi!
cecina, piade, magliette,
per caso vi serve mica un generatore usato, raga? funziona eh
Si sarebbe detto poi in Valdarno, Sara, che dopo quella festa ti eri messa con un francese di una tribe, e che ti avevano ritrovata lacera e perduta su un marciapiede di Marsiglia, sembrava una storia primi anni ’80, di quelle a fosche tinte; la verità è solo che avevi rivisto questo tipo incontrato all’In the wood (che poi, di lì a dire che quel Pascal, un devastato in canotta aggregatosi all’ultimo ai Sikotronik, fosse “uno di una tribe”, ce ne correva), e ci avevi pomiciato e gli avevi fatto una sega e ti eri ficcata in testa di metterti con lui, ma lui mica voleva troppo, ed eri arrivata a infilarti nel loro furgone, e allora lui, va là che non si butta via niente, il viaggio è lungo e una scopata ci sta, ti aveva presa su, ma arrivati a Marsiglia si erano tutti rotti il cazzo di Pascal e quindi figuriamoci di te (alle prime beghe peraltro subito disconosciuta), e arrivati su era chiaro pure che nessuno ti avrebbe portata in giro – neanche ti parlavano! – e così, senza neanche provarci, ad andare alla festa che dovevano organizzare qualche giorno più in là in certi hangar del porto sud, te l’eri fatta all’indietro, elemosinando e facendoti buttar fuori dai controllori treno dopo treno, e alla fine eri riapparsa qua, un po’ scossa e sbattuta, ma nulla di terribile, e però si sa, in paese ogni storia appena anomala si gonfia e sfugge di mano… Ma adesso siamo in quota, Pratomagno 2004, tutto questo non è ancora accaduto e grandi sono gli spazi bui tra i sound e possenti i tuoni, e farai bene ad approfittarne, a saltare e correre di qua e di là secondo il ritmo incessante che si alza a ogni orizzonte, ogni spiazzo è un mondo e dietro ogni crinale c’è un sound più grosso, e io stesso ti perdo, tu svalli mentre mi fermo a girarmi una sigaretta, approccio un sound che manda breakbeat, cos’è quel fagotto lì sotto, ah no aspetta è una persona… Oh mi’ c’è i’ Futre. Vomita, i’ Futre.
Ciao Futre, che fai, sgori?
Urg, hei Iacopo, um…
Ecco un esempio di quelle improvvise fluttuazioni verso il basso del pensiero cosciente che si hanno mentre sale l’effetto della ketamina. Ad alcuni poi, l’avvio causa una certa nausea, per l’effetto anestetico. Specie se, a giudicare da quanto il Futre sta rimettendo sull’erba bagnata, si viene da una corpata di spaghetti all’amatriciana e vin cattivo. Ma l’ho del resto visto vomitare una mezza dozzina di volte, ai tempi del liceo, quando era punk e bene declinava tale appartenenza. E sì che proprio lui allora cantava inni contro i “discotecari dai capelli colorati”, sebbene al Fitzcarraldo di Terranuova Bracciolini o al Mulino di Figline Valdarno, che erano le uniche discoteche che avessimo mai visto, nessuno avesse i capelli colorati – c’erano in effetti le stesse persone che incrociavamo ogni mattina durante l’intervallo. Si trattava forse di una sovrapposizione tra i discotecari di casa nostra e quelli che a volte facevano capolino sui giornali o in TV, in un servizio sulla Love Parade di Berlino (o sul The West di Venturina, che faceva 07:00-17:00 anche se ai tempi la parola rave in Italia neanche esisteva: quelli erano gli afterhour), i quali poi volendo erano ben più sovversivi di un gruppo di punk di paese, ma capisco l’equivoco, sono solidale: non era facile capire che ballare poteva essere qualcosa di sensato. Ti approcci al ballo la prima volta alle feste delle medie (ma se serve vi porto i dischi/così potrete ballare i lenti), è un orrore, poi al biennio c’è la discoteca della domenica, peggio ancora se non per il fatto che permette di tornare a casa la sera sfondati di cocktail e cenare di ottimo umore e solo un po’ giallastri coi genitori prima di svenire sul letto, né sono migliori quei dancefloor del mare, messi su in spiaggia alle 21:30 con tre faretti colorati; e pure quando cominci a rovistare le librerie dell’usato in cerca di quei “mille lire” di Stampa Alternativa con le interviste a Albert Hofmann o i suoi carteggi con Huxley, Jünger, Leary e Vogt, quando insomma cominci ad aprirti a una cultura che col ballo confina dai tempi dei tamburelli degli sciamani, ti capita fra le mani (nella stessa collana, in effetti) Anche le oche sanno sgambettare, e insomma, Don Milani non sarà Hofmann ma dato che conferma quello che già pensi è difficile non dargli ascolto, anche se il pogo, quello che fai ai concertucci punk, non è forse un ballo? Servirà ancora una fase di transizione, in quei postacci tipo Blue Kaos o Duplé dove per via della “progressive” la più turpe ottica da discoteca si mescolava con un primo, possibile, gusto del ballare per ballare (ma sempre con la testa sul fatto che ti stanno guardando, sul come ballare, sul cercare di non essere ridicolo, sul quando-avvicinare-quella-che-hai-puntato-prima), prima di capire che ballare è bello, anzi che il ballo è celebrazione, è rito, è il più elementare abbandono dell’io, i bambini lo sanno, basta che li metti davanti a una cassa e ballano, i bambini senza che nessuno glielo insegni girano su se stessi fino a stordirsi. Quanto ho girato! Facevo le feste già a tre anni, a casa della nonna: non mi si biasimi allora se remo sotto cassa.

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Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza 2015

Annegati negati

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sammartinodi Romano A. Fiocchi

Mimmo Sammartino, Un canto clandestino saliva dall’abisso, Sellerio Editore Palermo, 2006.

C’è un libro che ha anticipato tutto. Sono andato a riprenderlo e l’ho riletto. È un libretto in-16 uscito nove anni fa, piccolo e potente. Fatto di poesia, prosa, citazioni di Eliot, di Coleridge, di Jacopone da Todi che si integrano nella narrazione. Versi presi in prestito rispettivamente a La morte per acqua (La terra desolata), La ballata del vecchio marinaio, la laude Il pianto della Madonna. Ventun capitoletti che evocano un dramma e denunciano un naufragio fantasma, negato da tutti. Dramma e denuncia reali che convergono nelle parole, per quanto di fantasia, di una madre realmente esistita e tuttora esistente – in qualche parte dello Sri Lanka:

L’altra notte ho sognato mio figlio

che dormiva sul fondo del mare.

Mi porgeva un passaporto

con il sorriso che conosco da sempre.

Un passaporto impigliato in una rete

di pescatori.

E nel sogno

gli ho accarezzato i capelli

bagnati

e gli ho baciato la fronte

e l’ho benedetto”.

Che parla è Parameswary, madre di Anpalagan Ganeshu, nato il 2 aprile 1979 a Chaukachceri, Sri Lanka del Nord, penisola di Jaffna. Anpalagan è morto nel naufragio della notte di Natale del 1996 al largo di Portopalo, Canale di Sicilia. Insieme a lui, oltre il fratello Arulalagan di un anno più vecchio, morirono annegate altre duecentottantuno persone provenienti dal Punjab indiano, dal Pakistan e appunto dallo Sri Lanka. L’assurdo è che quel disastro, poi riconosciuto come il più grande naufragio del Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale (ma che ora sappiamo essere solo il primo di una triste serie di grandi naufragi), fu negato per almeno due anni. O comunque messo in dubbio sino al 2001, quando grazie alla caparbietà di un giornalista del quotidiano La Repubblica e all’utilizzo di un robot subacqueo avvenne il ritrovamento dell’imbarcazione e delle vittime.

Un canto clandestino saliva dall’abisso, dicevo, ha anticipato tutto. Gli sbarchi degli anni successivi, le collisioni, gli affondamenti, i gommoni alla deriva, l’incremento dei numeri e dei morti sino alla tragedia che nell’aprile scorso ha stravolto, questa volta senza che si potesse nascondere nulla, i dati statistici: oltre ottocento morti annegati in un solo naufragio.

Quella di Sammartino è una ricostruzione lirica, una cronaca di quegli eventi filtrata dai sentimenti. Sono i sentimenti di chi ha vissuto il dramma in prima persona, di chi è sopravvissuto e di chi è morto, di chi ha assistito impotente ai primi macabri ritrovamenti: un corpo, un teschio, il passaporto di Anpalagan impigliato nella rete e ritrovato dal pescatore Salvatore Lupo (anche questo nome autentico di persona reale). Sino allo sgomento della gente di mare che vive a Portopalo e che scruta l’acqua con un presentimento che le soffoca il cuore:

A Portopalo la sera s’alzava un vento d’oriente. C’era chi lo chiamava per nome. C’era chi ne riconosceva il fiato. C’era chi continuava a sentire, dentro al suo grido, la voce degli annegati che risaliva dal fondo”.

Poi ci sono gli sciacalli umani, scafisti e armatori, esseri che lucrano su questi viaggi della follia e della speranza, che cambiano persino il nome delle barche. La Yiohan, responsabile del naufragio, l’ha fatto quattro volte. L’ultima, appunto, a seguito del disastro del Natale 1996, dopo che in fase di trasbordo dei passeggeri ha speronato la F-174, un peschereccio maltese dal legno mezzo marcio colato a picco come un sasso con il suo carico di vite umane.

È un libro, quello di Sammartino, che oltre ad essere ben scritto andrebbe letto nelle scuole. Così come si legge il Diario di Anna Frank. Un libro scritto dalla parte del dolore, un dolore composto. Non c’è pietismo, non ci sono accuse dirette. Solo la denuncia di una migrazione di massa che rischia di generare drammi senza fine. E dove un dramma in particolare, quello al largo di Portopalo, si fa narrazione e poesia. O, come precisa l’autore, “trasfigurazione lirica di fatti realmente accaduti”. I morti annegati diventano allora spiriti del mare dalla presenza proteiforme: ora misteriose sirene nel racconto di un pescatore ubriaco, ora “lamenti rimasti impigliati nelle reti”, ora coro di anime rassegnate che vagano nel silenzio dei fondali:

Dormiamo nell’abisso

dove l’acqua che ci accoglie

ci accarezza i capelli

e culla il nostro riposo.

Ma il suo sale non è dolce

come il pianto delle madri

sui sepolcri dei figli”.

L’ho riletto tutto, questo libretto. Cento paginette si leggono in fretta. Specie quando l’argomento è così scottante. Non so perché ma mi si è affacciata l’immagine di altri eventi per noi lontanissimi nello spazio e nel tempo: la tratta delle navi negriere del XVI, XVII e XIX secolo. Schiavi o migranti, sempre gente in qualche modo forzata ad imbarcarsi per terre sconosciute. E a morire rinchiusa nelle stive, incatenata alle travi degli scafi o soltanto alla speranza vana di un mondo migliore in cui poter vivere.

Il libro si chiude con alcuni versi di Rocco Scotellaro, il poeta-contadino:

Non muore niente

siamo solo noi provvisori

perché a tutti rimane

anche una mollica di pane.

***

Per approfondimenti su Nazione Indiana:

I fantasmi di Portopalo, un’intervista a Giovanni Maria Bellu 

Sulle tracce dei fantasmi di Portopalo 

L’amore di un Padre

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foto di Chris https://www.flickr.com/photos/86305247@N00
Foto di Chris, https://www.flickr.com/photos/86305247@N00/

di Orso Tosco

Padre M odiava volare.

Prendere l’aereo gli era sempre sembrata un’occupazione da gente che imbocca barboncini, un gesto frivolo, indegno della tonaca preziosa con cui era solito abbigliarsi. Il passaporto diplomatico rilasciato dallo Stato Vaticano ispirava immediata soggezione nei vari addetti aeroportuali, è vero. Li spingeva a compromettere i loro abituali automatismi burocratici, è innegabile. Incrinava la loro freddezza doganale, è la verità. Per Padre M si trattava di soddisfazioni ridicole. Il fatto che i porci temano il loro fattore non lo rende migliore delle sue bestie: tutti loro vivono nello stesso miscuglio di sangue e grasso e avena e merda.

LATTE & LINGUAGGIO – 15, 16 e 17 Maggio 2015 (Biblioteca Chiesa Rossa, via San Domenico Savio 3, Milano)

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l&lIl latte è un ingrediente necessario alla fabbricazione di prodotti alimentari.

Il linguaggio è un ingrediente necessario alla costruzione del significato.

Entrambi sono oggetto di normalizzazione e manipolazione. Il primo da parte della grande industria alimentare.

Il secondo da parte dei mezzi di comunicazione di massa.

La manipolazione del linguaggio consente inoltre la copertura e la veicolazione del prodotto alimentare. 

4 testi

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di Lucia Manetti

 

SHOCKWAVE FLESH

Occhi di mosca slittano sul bordo di saltuarie riflessioni abitative: adesso è l’oscillazione a garantire il contatto dei corpi nell’odore di chiuso delle stanze, come protetti da una squadra, un gruppo, una parola d’ordine, per riorganizzare l’assalto all’inter(n)o numerico – status quo determinato dal costo totale dell’operazione -. Stanno alla pelle gli scheletri come i monti alle cataratte sul finestrino: questo discorso è una rinuncia, un qui pro quo, capovolgi lo sterminio e sollevi l’arco delle cause ad intenderne gli arti, gli strumenti disossati della fame, tenuti in caldo (cioè riavvolti in pellicola laminata). Insiste sul laterizio il cappello dei vecchi. Cimitero, Prima Porta: una distesa di like alla morte – occorre distinguersi nella miscellanea nominale, l’eco della stasi resiste al divenire  in forme sempre più approssimate allo zero, nel ricordo si sgonfiano i piani, si inchinano le architravi abilmente ripiegate nelle ginocchia dei cari: tu salti nel vuoto, cadi in circostanze identiche a te stesso –  qui sai che è finita (anche tuo padre tiene il berretto sempre più basso, la schiena più curva). In lacrime lipidiche, esodi proteici, si squagliano i cadaveri – resi abili nella manutenzione anatomica, rapidi nella polvere agitandone i contorni in volti noti/ nascono già con il capo chinato, le narici fredde, sapendo che i loro nervi si tenderanno, messi a fuoco, come corde di violino.

Di pietre, di ulivi

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di Andrea Donaera

Parla a pietre una sull’altra.
[ANTONIO VERRI]

I

Prima di noi i padri, i nonni, le madri
tra le dita il giallo vago dei muri
e stamattina anche la guida che
mostra la pietra porosa, la tocca,
è farinosa, la mano sporcata,
il turista fa foto
ma non alle pareti:
alle dita impolverate – a com'è
che il tempo passa qui:
un secolare e fine sgretolarsi,
                    alla fine (alla terra) mescolarsi.

II

Se qualcosa qui passa
lo fa a noi inosservata –
                  l'albero che s'ingrossa
                  dinanzi a un muto mutare di pietre:
                  così.

III

Su questa terra nessuno più va,
ma footing, jogging, ben che vada walking,
tutto ma non più l'andare per andare,
e così è:                 tra i muretti le lattine
ficcate a passatempo,                        sotto gli alberi
scienziati  – non più amanti –          fanno analisi –
di certo non l'amore.

Diario della baldanza

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Davide Castiglione

Un’oncia di sprezzo sta alla base della grandezza. Da che pulpito: il mio. Solo se alla base dello sprezzo sta un fregio di umiltà tuttavia, quale è inciso nella tavoletta che dice della campana immobile in mostra nello spiazzo mattonellato dove l’aria arriva a fermare le corde vocali della fruttivendola. Perché noto questo? Perché sto camminando e solo per i prossimi ora quindici minuti potrò essere utile.

 

*

 

Voi che siete per lo sbiadito amorfo, vi consiglio un giallo violento, un incendio elementare e primario. A me, qui dal counselling desk, la composizione sembrerà comunque migliorabile.

 

*

 

L’arguzia retorica del controllore (sul treno i biglietti si pagano tre euro più quaranta euro) mi estasiò, ma poi il contenuto giunse in direttissima. La signora rumena seduta accanto a me aveva avanzato una debole obiezione; poi, dignitosamente, aveva lasciato lui solo a godersi quel teatrino, le luci connazionali e conniventi degli sguardi da ogni angolo del vagone su di lui.

 

*

 

Il bimbetto fa una marcetta in cerchio, come se girasse sul triciclo, calcando l’affondo del piede sul parquet, come se facesse fondo in montagna. Mentre la madre esagera nel fingersi indaffarata nella stanza accanto, e io la aspetto per una fattura imprecisata, lui innalza e mantiene una nota quasi di soprano, un filo sonoro neogotico che ha dell’inquietante. What a nice voice dico a un certo punto con una sincerità sinistra. Per tutta risposta lui mi guarda un attimo, poi di scatto si volta seguito dall’onda del caschetto biondo, e riprende la sua nota.

 

*

 

E abbracciala, pezzo di merda… niente di personale, però lei continua a tamburellare le dita sulla tua gamba, e ti cinge il fianco. Mentre più in là nel divano c’è uno con l’espressione simile alla mia, solleva gli occhi, non regge l’intorno, si rituffa nel bicchierino di whisky. Più in là ma ormai giù sul parquet intercetto lo sguardo perso e speranzoso del giovane francese che basta essere lì perché c’è una specie di perfezione in tutto questo. Lei non solo continua il suo contatto a senso unico, ma ti guarda come se fossi un modulo della NASA sceso in terra a miracol mostrare. Per tutta risposta tu fai una smorfia squadrata, ma forse è il tuo modo di volere bene.

 

*

 

Dove è l’implosione non sono io. Mi espando infatti, in gesti ed escrementi disseminati anche nei nodi del virtuale. Ingegnatevi a far sì che sia tutto giuntura, poiché fa paura la carne, cattolici o meno. Lasciati andare, attraversare da tutto mi soffi tu addosso, e cosa ci faccio allora qui ai limiti del passaggio pedonale, ad aspettare che l’omino stilizzato non imploda, diffonda verde.

 

*

 

Mi viene da difendere gli impasti di immagini e speculazioni proprio come tendo a perpetuare i miei geni in molte delle ragazze che fisso. O come un capocuoco sulle sue. Le stelline in brodo non mi recano nessuna affezione ma sì una mitologia ardua da espellere. Venivano in età meno che liceale mischiate ai cartoni animati delle otto, prima della tristezza metafisica di andare a letto senza essersi conosciuti. Dopo ancora la verifica di matematica che si replicava di sogno in sogno con leggere varianti, ma sempre la mia vertiginosa mancanza di preparazione spiazzava me ancora prima dell’insegnante e del foglio protocollo.

 

*

 

Avrà scritto il suo nome una ventina di volte solo negli ultimi due giorni: i moduli, si sa. Democrazia permettendo, li forzerei al Modulo Unico. Non è la prima volta che il tempo impiegato a scriverlo, la spropositata estensione di tutti i suoi caratteri in fila, gli recano una nausea febbricitante, sofisticata. Però non appena il rito serale di Skype prende una piega vivificante, con l’amore ritornato iperbole e rumore e centrifuga dello schermo, ecco che io accampa moduli e link, ripara io dietro barriere di moduli e link. Soppesa un paio di rifiuti a parer suo opinabili, inserisco l’ennesima password ennesima. Il file delle password, i miei organisational skills.

 

*

 

Era da tempo che desideravo comporre un trattatello su questi batteri inesplorati che poi sono i non-tempi (non-minuti, non-ore, ma più sovente non-misurabili). Essi si intersecano nei non-luoghi (che già conosciamo bene) e generano un non inglobante che è sostanza collosa e incolore, un non che anziché lottare contro placidamente impedisce. Una ricognizione affatto pionieristica li definirebbe agguerriti momenti di calo, di (cito) “accorta manutenzione del ridicolo”. Exempla: lo svitamento della moka in solitaria; l’imbambolarsi sulle cifre digitali degli annunci; il coordinamento in simultanea, manageriale, dell’apertura di una porta e dello spegnimento di una luce. Quest’ultimo esempio in particolare è furbissimo perché i non-tempi fingono di dimezzarsi a beneficio di chi compie l’azione, ma poi in realtà raddoppiano la frustrazione, spalleggiandosi a vicenda e facendo posto a ulteriori non-tempi che spingono come forsennati.
Ognuno può produrre i suoi, di esempi, così puoi li mettiamo tutti in un bel mega-database. Però trattasi di impresa non facile. Quelli che ho testé proposto sono infatti batteri macroscopici, mostri che quasi li vedi a occhio nudo. Se fossero meno ovunque, la vita creativa ormai ridotta al lumicino potrebbe inventarsi fluorescenze atte a catturare i non-tempi più subdoli – quelli il cui automatismo non reca irritazione ma solo un consolatorio vanto, per dire. Ma sarebbe come chiedere a Dante di descrivere l’Altissimo. A questo punto il mio gruppo di ricerca si scherma dietro un “ulteriori studi sono necessari ecc” e si rintana in un non-tempo fatto a propria immagine e somiglianza.

*

I riflessi del cinema

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di Rossella Catanese

Chiara Nucera, Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma, Edizioni Umanistiche Scientifiche, Roma 2014, 143 pag.

Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma è un libro di Chiara Nucera che propone un percorso interpretativo dei processi rappresentativi e metalinguistici attivati dai film di David Lynch, David Cronenberg e Brian De Palma, tre autori fondamentali nel cinema degli ultimi trent’anni.

Attraverso i film di questi registi, il libro intende approfondire le tecniche di narrazione cinematografica che affrontano una relazione concettuale esplicita con il principio mimetico delle immagini fenomeniche attraverso l’esibizione del meccanismo cinematografico. È proprio questo meccanismo ad esporre la finzione della messinscena, l’artificialità del racconto, nonché la manipolazione esplicita del dispositivo.

Il percorso di lettura delineato dalla ricerca esplora il panorama mediale costituito dalle celebri opere di questi registi partendo da premesse metodologiche eterogenee, tra la gnoseologia platonica, la drammaturgia ellenistica e le teorie psicanalitiche. L’autrice chiama in causa il mito della caverna attraverso cui Platone evoca il processo d’intellezione (nòesis) delle idee nel dialogo Fedone; si ripercorre anche il concetto di mimesis, che dalle opere del commediografo greco Menandro si estende alle forme rappresentative contemporanee, attraverso le forme d’arte e di comunicazione nell’epoca della riproducibilità tecnica, nella prima metà del Novecento, fino ad oggi, nell’era della televisione e dei nuovi media. Dall’idea di perturbante di Sigmund Freud al Doppelgänger di Otto Rank, la psicanalisi ha interloquito con le formule rappresentative che il cinema attiva, ed è stata un prezioso strumento per analizzare i concetti di alterità, di doppio e di scissione interiore, laddove il cinema si offre come una realtà duplice, copia e simulacro, e si ratifica come mutazione, riproduzione e ricostruzione fittizia della realtà. La capacità del cinema di costituire una concrezione dell’intangibile tempo fenomenico (il “complesso della mummia” di cui parlava André Bazin) si allaccia alla visibilità che la società urbana acquisiva a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo con la nascita del cinema. Un’epoca che ha razionalizzato un mondo caratterizzato dallo sviluppo tecnologico e industriale, che ha assimilato il corpo del lavoratore alla macchina. Chiara Nucera estende questa prospettiva al rapporto tra schermo e corpo dello spettatore nello spazio cinematografico e in quello sociale, attraverso l’alterità della “rivalsa sensoriale” del piacere dell’evasione. In questo spazio si colloca l’intervento e la ricerca dei registi Lynch, Cronenberg e De Palma, orientata alla configurazione di tre diversi tipi di doppio e tre tipi di realtà: «la realtà come mutazione corporea per Cronenberg; la realtà come fredda riproducibilità tecnica per De Palma; la realtà come zona oscura, in cui sogno ed esistenza si confondono, per Lynch».

Se per Cronenberg si giunge al concetto di metacinema attraverso una metamorfosi carnale dello spettatore, che si modifica trasformandosi in supporto audiovisivo, per De Palma al centro del discorso metalinguistico sono il punto di vista e l’ossessione oculo-centrica costruiti dal supporto di celluloide, in una differente declinazione della presenza tecnologica; Lynch propone invece la concrezione del doppio facendo emergere zone d’ombra del reale, nello scontro tra i mondi antitetici e i simboli della rêverie.

Il libro di Chiara Nucera analizza i lavori di questi tre registi e la nozione di metacinema in uno stile limpido e scorrevole, definendosi come un canale di divulgazione e riuscendo ad introdurre il lettore nelle questioni della genesi delle immagini, del significato della costruzione narrativa, delle implicazioni psicanalitiche dell’identificazione spettatoriale nel linguaggio cinematografico.

cinéDIMANCHE #25 WERNER HERZOG La grotta dei sogni dimenticati

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Note movie
di
Carlo Grande

Werner Herzog, nello splendido docfilm “Cave of forgotten dreams”, l’ha definita la grotta dei sogni dimenticati, una macchina del tempo, un’istantanea del passato, un viaggio nel cuore dell’umano per scoprire se esiste qualcosa che si dice anima. Immersa in ettari di boschi, nel Sud della Francia (a Pont d’Arc, Ardèche, dipartimento Rhône-Alpes), si inaugura il 25 aprile l’esatta replica della grotta Chauvet, la Cappella Sistina dell’antichità, meraviglia umana che si declina al presente e al passato remoto: l’originale è a pochi chilometri, sigillato da una frana preistorica che creò una perfetta capsula del passato, ora accessibile solo a scienziati, paleontologi, storici, archeologi e geologi e protetta da una pesante porta d’acciaio, come il caveau di una banca.
Fu scoperta nel ’94 e mai aperta al pubblico perché non facesse la fine di Lascaux in Dordogna, altra grotta delle meraviglie alla quale l’eccessivo carico di visitatori rischiava di causare danni irreversibili.

Il nostro sguardo su quei lontani millenni cominciò con il sito di Altamira, in Spagna: “Mira toros, mira!” disse nel 1879 una bambina di quattro anni mostrando al padre esterrefatto grandiosi dipinti rupestri di una grotta. Poi nel 1940 vennero il cagnolino di un ragazzo francese che si  intrufolò in una fenditura del  terreno, sbucando nelle stupefacenti grotte di Lascaux (che si pensavano l’apice dell’arte preistorica) e nell’88 il subacqueo Cosquer, che percorse un cunicolo sommerso fino a un antro coperto da pitture di mani, cavalli, foche e persino pinguini.
Ma il tempio assoluto è qui, non lontano da Montélimar, a Nord di Nimes e Avignone.

L’originale della grotta Chauvet, troppo fragile per resistere alla massa di visitatori (la sola condensa del fiato alimenta le muffe e rovina i dipinti),  è stato mappato con scanner al laser e riprodotto al millimetro: gli 8.500 metri quadrati reali (400 metri di lunghezza), condensati in tremila. Si tratta di dipinti così integri da sembrare inizialmente dei falsi, se le concrezioni e la calcite che li intaccano non potessero crescere che in migliaia di anni.
La grotta contiene un migliaio di disegni, dei quali 425 sono figure d’animali. Un bestiario favoloso di quattordici differenti specie, per lo più predatori: orsi delle caverne, rinoceronti lanosi, mammut, leoni, pantere e grandi felini, stambecchi, lupi, un’aquila reale, molti sono ormai estinti e rappresentati solo qui, nell’unico “fotogramma” trasmesso dai nostri antenati nei più antichi dipinti mai scoperti, vecchi il doppio di Lascaux, ovvero circa 35 mila anni.
La grotta contiene anche centinaia di ossa e scheletri di animali (nessun resto di uomini, che venivano a dipingere e compiere cerimonie), tracce di fuochi e delle torce, graffi di orsi preistorici sulle pareti, forse inferti 5 o 10 mila anni prima. Ci sono le impronte di un ragazzino di circa otto anni e vicino a lui quelle di un lupo: andava a caccia? Camminavano insieme amichevolmente? O ciascuno per conto suo, a migliaia di anni di distanza?

I dipinti sono una delle più vertiginose, straordinarie opere d’arte al mondo: nella penombra appaiono lotte di rinoceronti, un orso delle caverne dipinto di nero e ritratti di cavalli – uno sinuoso e altri con le teste accostate – forse le immagini più belle, intorno a un buco a terra da cui gorgoglia l’acqua dopo ogni pioggia; tutti sono ripresi con movimenti realistici, precisi, in vividi chiaroscuri su pareti rugose – non tele o tavole lisce – con una dinamica tridimensionale: sembra di essere davanti a una caccia preistorica, gli animali sembrano vivere ancora – un bisonte con otto zampe, teste di leoni e leonesse di una bellezza sconcertante – possiedono l’illusione del movimento, suggeriscono, ha detto Herzog quasi una forma di “proto cinema”, come fotogrammi di un film animato.
Una discesa nell’ignoto, nel ventre della terra, che ha qualcosa di uterino. Ma l’incontro, fra stalattiti e stalagmiti prodotte dallo sgocciolare paziente di millenni, è reale, davanti a un’enigmatica figura femminile, una Venere paleolitica, dipinta vicino a una specie di toro-bisonte: l’antichissimo mito del Minotauro.

Forse non potremo ascoltare il magico silenzio della caverna, non sapremo mai realmente cosa pensavano, quali emozioni provavano quegli uomini, chi erano i loro figli e le loro donne. Il passato è perduto, ma rimane questa meraviglia; un universo familiare, magico e distante, una specie di sogno notturno; l’artista ha sognato belve e leoni veri e ora li sogniamo anche noi, ma senza spavento, tanto le immagini sono intense, profonde, potenti. Sono una vita sognata e dipinta sulla roccia, trasmessa da uomini preistorici che al lume delle torce, nel gioco delle luci e delle ombre, disegnarono con i tizzoni spenti e pregarono a modo loro la natura. Lasciarono con grazia l’ombra colorata di sentimenti umani, trasmisero l’emozione primigenia e produssero visioni, come solo un artista sa fare, attraverso gli abissi del tempo.

 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

“In realtà, la poesia”: premio per la critica 2015 (II edizione)

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Il sito In realtà, la poesia ripropone per il secondo anno il premio per un testo inedito di critica letteraria.

Gli obiettivi restano i medesimi:
1. rinvigorire la pratica critica incoraggiando un approccio ermeneutico che – allontanandosi dalla retorica squisitamente accademica così come da quella giornalistica – recuperi un rapporto più intimo e ravvicinato con i testi, tornando ad essere quello strumento in grado di individuare i nessi con la realtà nella quale tali testi vengono scritti o letti; ovvero, quei luoghi in cui nuovi modi di dire indicano nuovi modi dell’agire.
2. promuovere ed incentivare il lavoro in ambito critico attraverso un riconoscimento serio ed esplicito che ne premi l’eccellenza: un contratto editoriale per la pubblicazione di un libro di critica che si avvale dei mezzi, della disponibilità e della professionalità delle Edizioni Prufrock SPA.

Il bando per esteso : qui.

didascalie: Renata Prunas

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MA-DONNA

La seconda pelle

di

Tiziana Gazzini

Smagliate, sbagliate, color carne, colorate, a pois, intere, tagliate, cucite, rovesciate, sovrapposte, strappate, slabbrate, sformate dall’uso e scombinate

le calze sono la seconda pelle delle donne. Resistenti, trasparenti, seducenti, ma anche assassine, preferibilmente nella loro versione collant, sono la materia di lavoro e d’arte di Renata Prunas che dal 9 al 12 maggio presenta a Roma, al Caffè Letterario della Casa Internazionale delle Donne in via della Lungara 19, la mostra La seconda pelle.

Sardo-napoletana – Renata Prunas ama definirsi così – esordisce nei primi anni ‘70 con lavori vicini all’arte povera e all’arte concettuale. La leggerezza e la porosità del sughero delle sue prime opere vengono presto abbandonate per l’irruzione di un altro materiale, più leggero, più povero e duttile: il collant.

Negli anni ‘80 espone anche in una piccola galleria al numero 15 di via della Lungara. Si chiamava il luogo e proponeva una generazione di donne che si esprimevano artisticamente con l’antica arte del filo e del cucito. Nella mostra filo-logia (1981), a cura di Mirella Bentivoglio (15 artiste, tra cui Maria Lai), Renata Prunas era presente con un’opera intitolata Pagine: un libro fatto di collant. Il filo e il logos.

L’ attrazione per la consistenza (e l’in-consistenza) del suo materiale di lavoro preferito è per Renata Prunas ancora irresistibile. Insieme al Grande Collant immagine-manifesto de La seconda pelle, in mostra a Roma, una bicicletta per pedalare tra le nuvole e una sedia a sdraio, dalla seduta che può sostenere solo il peso immateriale della nostalgia: è l’installazione poetica ALTROVE, dedicata al ricordo di Piero Berengo Gardin, il compagno della vita.

Trecce che sembrano appena strappate a giovani ragazze biondo/castane, Prunas le appunta a cascata su una sorta di espositore, come macabri trofei da memoria concentrazionaria. L’eleganza sofisticata dell’oggetto d’arte si scontra con il sentimento di repulsione per l’esperienza – anche solo accennata – del momento più buio dell’umano/non-umano. seconda_pelle

Lontane dall’agiografia vetero-femminista, le opere di Renata Prunas parlano delle donne con una salutare distanza critica. Più rabbia che lacrime. La seconda pelle non ha paura di farsi parola, di farsi logos, e di sfondare un diaframma oltre il quale può corteggiare forme di design criminale (il bellissimo e inquietante Separé). Prunas dissacra anche il dolore e la violenza col sapore dell’ humour noir e dell’ironia, nella logica del rovesciamento dei fini ispirata al luogo che ospita le sue opere, il Palazzo del Buon Pastore, un tempo luogo di contenzione per laiche, poi trasformato in monastero e ora Casa al servizio del mondo femminile.

Un’acquasantiera d’epoca, incastonata nella parete del Caffè Letterario, diventa lo spunto per un angolo da devozione mariana. Un grande olio ottocentesco che rappresenta una MA-DONNA dal cuore trafitto, è velato da calze dai colori quaresimali, intessute nel nobile e sensuale filo della seta. Inutile cercare irriverenze o consolazioni negli interventi di Renata Prunas. E nemmeno tranquillità.

Per nulla tranquillizzanti anche le opere più recenti, che raccontano gli annessi della riproduzione, il trauma della nascita con grucce di ferro, veli di collant, e un trovarobato dadaista che imita potenti cordoni ombelicali per creature che non starebbero a loro agio nemmeno nella culla di Rosmary’s Baby.

Piccole invettive velenose e trasparenti che mentre strappano un sorriso procurano un brivido. Un modo per rammendare le inevitabili smagliature del logos.Copia di separe

Il canale bracco

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di Marino Magliani

magliani_bracco

(mi è sempre molto difficile scegliere un passo da postare in un testo di Magliani, perché vorrei poterne poi aggiungere anche un altro, e poi un altro ancora … e insomma mettere tutto; e con questo “Il canale bracco” più che mai; sempre i suoi ingredienti minimi, di disarmante pedissequità, e qui forse ancora più titubanti, quasi sfiancati, e più autoironici, ma poi i soliti improvvisi e abissali corti circuiti, gli usuali affondi poetici, quasi dolorosi di bellezza, i suoi distillati di saggezza, quasi messi lì per caso, quasi essi stessi a disagio, desiderosi di farsi dimenticare; perché certo la sua è magnifica scrittura, ma c’è dietro il suo mondo, o insomma un mondo, che spinge e pulsa e alita, misterioso e struggente nella sua maschera di semplicità, che a momenti quasi ci fa dimenticare la scrittura; dove siete seriosi critici militanti, sapete leggere un testo, capite qualcosa, sapete riconoscere la musica di un pensiero, il bisbiglio perentorio e toccante ma anche manigoldo – niente di meno naif – di un’anima?; e voi grandi e medi editori, con le vostre certezze su cosa può piacere ai lettori (li conoscete?), le vostre altezzose e pavide certezze, i vostri colpevoli conformismi?; ma mi scuso per la mia tracotanza, certo fuori luogo, certo ridicola, patetica, trattandosi in sovrappiù di un amico, e ringrazio l’editore per la disponibilità; GS)

Man mano che proseguo sul molo lungo, vado notando due pilastri di ferro e una grata. Si direbbe un cancello. La sabbia che il vento sputava fin sull’asfalto ha lasciato il posto a una schiuma di onde, ma il palmo d’acqua dimenticato dall’alta marea non è ancora mare. Una frontiera segnata da un ostacolo della dimensione di un gradino, il mare vero sta oltre quel dorso.

Il molo si allunga nel vuoto come un dito disteso; s’intravede meglio il cancello pieno di carie, e sul bordo di cemento che delimita il catrame, ogni duecento metri hanno fissato il solito cippo delle quote, come se ne trovano sulla Via Appia.

Oltre la metà (il cippo riporta 2100 m) il molo compie la sua brusca sterzata verso nord. Fin qui, a sfidare gli scrolli, i pescatori non salgono: vento e basta, aria che odora di alga e di isole, che raschia gli scogli, sposta i gabbiani.

Un classico faro bianco con le strisce orizzontali rosse segna una delle due estremità avanzate, l’altra sta di fronte, a circa trecento metri. L’acqua all’interno degli spartivento appare meno selvaggia che in mare aperto. Qui, dove il Mare del Nord fa le sue “prove di sonno”, nasce e muore il Noordzeekanaal.

Ho contato un centinaio di imbarcazioni, ma non saprei dire se ne sono entrate o uscite di più: scafi di ogni dimensione e forma, potenza e eleganza; e poi chiatte, petroliere, mercantili, pescherecci, persino barche a vela, gozzi. Solitarie o accompagnate dai rimorchiatori. Prima entravano nel porto di Amsterdam attraverso lo Zuiderzee, poi è stato utilizzato il canale di Den Helder, ma il progetto di scavare un corridoio che collegasse direttamente Amsterdam al mare aperto era nell’aria da tempo. La sfida venne raccolta da un inglese, un certo signor Lee, che appaltò il lavoro per la buona somma di 27 milioni di fiorini e nel 1876 consegnò l’opera.

L’accesso alla scaletta che dà sul piazzale del faro è sbarrato da una rete. Salto sugli scogli e aggiro il recinto. Mi siedo sul muretto, la schiena appoggiata al faro. L’altezza del sedile è di poco superiore a quella della panchetta ligure, il luogo del carruggio dove a quest’ora, probabilmente, me ne starei seduto a guardare le macchine che passano. Questa strana sensazione di appartenere anche da lontano a qualcosa mi ha sempre impedito di chiedermi What Am I Doing Here? Che ci faccio qui e non in Dancalia? Che ci fa in cima alle dune inzuppate uno come me, per dire, che dalla sua valle, per guardare qualcosa ha sempre alzato gli occhi? O a parlare di mari aperti, io che ho sempre considerato il mare un posto per turisti. Forse si sceglie l’Olanda per una sorta di compensazione, ho detto una volta a Piet. Non ci si arriva per caso in cima a un molo. Stavolta non è una questione di sovrapposizioni… Qui c’è nulla, Piet. E se c’è nulla ti accorgi che non c’è angoscia; un posto che non è un mucchio e non è un vuoto; un molo che non è terra né mare. Questo molo sta al quartiere di Zeewijk come Zeewijk sta alla Liguria. Si parte da una valle dove sei più famoso della Coca-Cola e tutti ti salutano, per giungere dove l’unica cosa che sanno di te è che non hai un cane. È un lavoro di sottrazione, si sparisce piano piano, mica di colpo. Tu ci riesci bene, Piet. Il desiderio di non lasciare nulla è un progetto che io, raccontandoti, potevo solo rovinare… Dovevo venire fin quassù per capire?

Mettila come vuoi, in Olanda la sera finisci per girarti il collo di sciarpe, schiacci berretti sulle orecchie ed esci a conoscere spiagge, stagni, canali, le mani in tasca. In un alternarsi di paludi e pinete, vai per sentieri modellati dalle conchiglie, e forse non ci fai neanche più caso che sparisci.

Nidi di gabbiani e gufi, chiarori a mezz’aria, le prime volte certi colpi d’ala mi spaventavano. E i conigli che scappano, i cervi che saltano il filo spinato, e gli arbusti dai quali all’imbrunire escono le volpi, e i bunker dal cemento granoso spesso due metri, tutti collegati lungo la costa, fino a Hoek van Holland, l’Angolo dell’Olanda. Ma la storia raggiunge anche gli angoli. E Dio mio, quanti partigiani delle dune mandati al massacro…

Dirimpetto al molo c’è Beverwijk. Bever significa castoro. Quartiere del castoro. Pare che qualche secolo fa ci fossero davvero molti castori da queste parti, poi hanno costruito il canale e sono arrivate le acciaierie. Passato Beverwijk c’è Wijk aan Zee, la piccola Svizzera la chiamano, ma è difficile intuirlo.

Mi trovo a sud ovest, spalle al canale, guardo Zandvoort mezzo nascosto nelle nebbie. Dune, vapori, e dietro le dune IJmuiden, Bloemendaal, Zandvoort, Scheveningen e lontanissimo Hoek van Holland. Tutte a rappresentare una scala di valori che parte dal “basso”: acciaierie e pesca a IJmuiden, borghesia a Bloemendaal, turismo a Zandvoort, magia a Scheveningen. I giocatori di scacchi la conoscono anche come una variante della “difesa siciliana”, un’apertura giocata per la prima volta a Scheveningen: il nero imposta la struttura pedonale al centro, come una diga. Sccccchefeningheen. Ma come si pronuncia? I romantici partigiani-fotografi di Hoek van Holland usavano un metodo infallibile per identificare le spie tedesche: far dire loro Scheveningen come parola d’ordine.

Scheveningen è in realtà una spiaggia, la città è Den Haag, la capitale politica dei Paesi Bassi. Poco più di un paesone, formato da due strade e dai quartieri Belgisch Park e Duindorp, Scheveningen è molto più antico di Den Haag. I suoi abitanti dovevano essere vichinghi provenienti dalla penisola danese. Terra da sempre di tempeste e di gente che ha ricostruito ogni volta sul fango, fin quando Constantijn Huijgens non ha inventato la Scheveningseweg, il tratto che ha unito il villaggio a Den Haag. Il vero mutamento, tuttavia, l’ha conosciuto il secolo scorso con la costruzione degli stabilimenti balneari e del pier, il molo passeggiata, luogo di culto per gli olandesi.

Qualche anno fa, in occasione del Vlaggetjesdag, il giorno delle bandiere, sono andato a vedere le SprookjesBeldeen aan Zee, le statue del mare che popolano Scheveningen dal 9 giugno 2004. Si può dire che da quel giorno Scheveningen abbia ventitrè abitanti in più. Ventitrè statue in mezzo alle piazze e al boulevard, ventitre glorie figlie dello scultore Tom Ottorness, artista americano di Wichita, Kansas. Il materiale usato è il bronzo, il tema la lotta tra gli umani e il mondo. Gulliver, alto più di undici metri, Moby Dick, Geppetto e Pinocchio, Tin Soldier Boat, Ballerina, Oh, Lars, My Son, Il Leone e il Topo, Il Pesce e il Soldato.

Quanto buio in cima al molo. I primi tempi venivo qui a tradurre le parole per viverle. Solitudine è eenzaamheid. La pronunciavo male, diventava eindzaamheid. Una parola che qui non esiste. Tradotta alla lettera sarebbe “fine dell’essere”, che in italiano un senso ce l’ha.

Scendendo, rifaccio la conta dei cippi, alcuni mancano, cancellati dalle mareggiate.

Il cancello si trova a quota 1200 metri.

Oltre le sbarre, tra risciacqui e grida rotte e aeree, sento qualcosa. Una musica. Una musica? Una radiolina forse. Qualche pescatore notturno; c’è una bicicletta sul cavalletto, tre canne da pesca. Ma lui dov’è? Sarà nascosto, mi ha sentito arrivare e s’è nascosto tra gli scogli per non restituirmi il saluto. Piet dice che quassù ci vengono i selvatici. Non mi fermo, è notte e fa freddo, l’ora in cui girano solo le luci dei fari e i gabbiani, su questo molo sbilenco e tagliato in due. E poi sono stanco. Non sembra, ma hai camminato più di tre ore, mi dico. E tutto quel sale in faccia, seduto lassù in cima, mi ha dato sui nervi. C’è un odore di alghe grasse tra le dune, e i miei passi sorprendono gli animali, sciami di stornelli, i saltelli di un coniglio. La luce del faro scolpisce il profilo di un bunker. Mi ritorna alla mente Eindzaamheid, la parola nata dal caso e dall’errore: la fine dell’essere… la fine di un luogo.

 

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Scritti dopo gli attentati di Parigi – un e-book di Nazione Indiana

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copertina-charliedi Andrea Inglese

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Proponendo un e-book che raccoglie quanto è stato scritto su questo blog e sul blog amico alfabeta2 dopo gli attentati di Parigi di gennaio , viene subito da chiedersi se tale operazione editoriale abbia minimamente senso. C’è qualcuno a più di tre mesi di distanza da quegli eventi, che ha ancora voglia di rileggere questi testi, o di leggerli, magari, la prima volta? Un fatto è certo, gli attentati di Parigi hanno costituito un trauma per i francesi, ma anche probabilmente per tutti gli europei, e forse addirittura per tutti noi “occidentali”, anche se non mi è poi così chiaro cosa voglia dire “occidentali”. Il trauma in Francia c’è stato: lo conferma la mobilitazione straordinaria di quattro milioni di persone in occasione delle manifestazioni “ufficiali” di domenica 11 gennaio contro il terrorismo. Io ho seguito gli avvenimenti dalla Francia, dove vivo, e il mio coinvolgimento è stato intenso, come quello della maggior parte dei cittadini francesi. Negli altri paesi, come l’Italia ad esempio, l’impatto dell’evento potrebbe essere misurato considerando sia l’attenzione mediatica che gli attentati hanno riscosso nei canali ufficiali d’informazione, sia la quantità di materiali e discussioni in circolazione sui social network e sui blog durante quelle settimane. Si è reso evidente, tra l’altro, un fenomeno che io chiamerei di opportunismo mediale. Di fronte all’irruzione della violenza terroristica nel tessuto familiare della vita ordinaria, non vi è uso pregiudiziale dei media: tutto può servire, tutto può essere utile. Ogni gerarchia si dissolve: le grandi testate giornalistiche sono divorate con altrettanta curiosità del blog minoritario e indipendente, il social network più apolitico veicola dibattiti e materiali altrettanto politici della rivista di studi strategici. Ma questo consumo abnorme d’informazioni, come ci insegna Nietzsche, ha qualcosa dell’esorcismo: la conoscenza è una forma di neutralizzazione dello spavento.

Posto quindi che gli attentati di Parigi hanno probabilmente toccato da vicino anche chi non è francese e non abita in Francia, varrebbe la pena di chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’urto nelle nostre vite. Potrebbe darsi che l’evento sia stato abbondantemente consumato, che di esso non rimangano più residui, schegge disturbanti, a tenere vive la memoria e l’analisi. Il lavoro di ricerca e riflessione non ci riguarderebbe più in prima persona, e sarebbe stato nuovamente delegato ai media d’informazione di massa, come in genere avviene per le “grandi questioni” che agitano la nostra società. Il carattere traumatico dell’evento è consistito, infatti, non nella semplice scossa emotiva, ma in qualcosa di ben più importante che a questa scossa si accompagnava: l’esigenza di voler capire, e di prendere la parola. Il sentirsi bersaglio quasi in prima persona, confrontati alla violenza indiscriminata fin dentro la dimensione intima, domestica, del vivere, ci ha chiamati in causa tutti in un primo momento e non solo per condannare, ma anche per ragionare. Oggi, forse, si è accettato nuovamente che siano soprattutto gli opinionisti, gli esperti, i capi di stato o dei servizi segreti ad occuparsi di questa faccenda.

In Francia, il vivo dibattito che si era reso visibile sulla stampa durante tutto il mese di gennaio, e che si sforzava di far emergere il contesto più ampio e variegato all’interno del quale situare gli attentati, fa spazio oggi all’iniziativa del governo, che con procedura d’urgenza vuole imporre un disegno di legge sulle attività dei servizi segreti, per rendere più efficaci le procedure di controllo e prevenzione degli atti di terrorismo. Di fatto, questa legge rende legali tutte le attività di sorveglianza informatica generalizzata che erano finora considerate illegali, e amplia i motivi che legittimano l’azione dei servizi segreti nei confronti della vita dei cittadini, inserendo voci estremamente generiche quali “prevenzione di attentati alla forma repubblicana delle istituzioni” o “interessi prioritari della politica estera” (www.lettera43.it/politica/la-francia-verso-una-sorveglianza-di-massa-del-web_43675165388.htm). Contro questa legge si sono già mobilitati in molti, dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani e dai sindacati della magistratura fino agli stessi provider. Essa sancisce comunque la scomparsa del dibattito sulle cause e i motivi degli attentati di Parigi, spostando tutta l’attenzione sulla questione “sicurezza”. Il governo, in questo modo, non è solo l’autore di un disegno di legge liberticida, ma anche colui che definisce le priorità del dibattito pubblico. Il terrorismo da fenomeno ambiguo e complesso, che richiede di essere indagato e chiarito nei suoi molteplici aspetti, diviene un assunto indiscutibile, un semplice dato di fatto, che suscita semmai una discussione sui metodi scelti dallo Stato per combatterlo.

Nel frattempo il rumore di fondo mediatico e politico alimentato dal fantasma dello “scontro di civiltà” è ancora percepibile, e cresce semmai d’intensità. L’idea che sia in atto una sorta di guerra contro l’occidente, e che questa guerra si generi nel seno di un soggetto dai contorni vaghi e ampi, come il mondo arabo-musulmano, è qualcosa che piace sia ai giornalisti sia ai politici, in Italia e altrove. Negli scritti apparsi a caldo su Nazione Indiana e alfabeta2, pur nella diversità di approcci e di posizioni, ci si è tenuti ben lontani da un tale schema interpretativo, non solo perché ritenuto infondato, ma anche perché foriero di ulteriori sofferenze e violenze.

Non si troveranno in questi testi analisi geo-politiche sul Medio Oriente e sul Maghreb, sul bilancio catastrofico delle politiche statunitensi e europee in tali regioni del mondo; neppure studi sulla genesi storica, sociale e politica del jihadismo o sulle guerre intestine che, in nome delle diverse confessioni musulmane, s’innestano su conflitti regionali di origine politica ed economica. Ognuno di questo testi, però, ha colto negli eventi traumatici di Parigi come una cristallizzazione di molteplici realtà, che richiedono di essere pensate assieme, approfonditamente e senza alcuna scorciatoia. Non ha senso, ad esempio, celebrare astrattamente la libertà di espressione, senza considerare ogni contesto determinato in cui tale libertà è esercitata. Non esiste un metro campione di tale libertà, al di fuori della dialettica storica che vede concrete battaglie per salvaguardare tale libertà da minacce di diversa natura. Non ha senso considerare gli attentatori di Parigi come dei puri prodotti della propaganda jihadista internazionale, come se essi non fossero stati dei cittadini “occidentali”, ossia dei francesi nati e vissuti in Francia, e quindi ampiamente impregnati di esperienze fatte in seno alla società francese.

Vorrei, per concludere, aggiungere un paio di considerazioni. La prima riguarda nuovamente l’idea mediaticamente e politicamente prediletta dello scontro di civiltà o di culture. Ora, mi sembra che già da un punto di vista teorico una tale idea sia una completa assurdità. Per avere uno “scontro fra civiltà” bisognerebbe innanzitutto che esistessero due entità sufficientemente omogenee e discrete in grado di opporsi. Dubito che queste “entità” esistano. Qualcuno ha un’idea chiara di cosa sia la civiltà occidentale? E soprattutto questa civiltà occidentale ha una personalità semplice, dai confini precisi e una volontà univoca, a cui potremmo opporre un’altra personalità altrettanto semplice e precisa, dalla volontà anch’essa univoca? E quale sarebbe quest’altra civiltà? Quella araba? O quella musulmana? O quella frutto del mosaico stratificato di culture, regimi politici, identità nazionali, che si snodano dal Maghreb al Mashrek e che hanno intricatissime storie locali, nazionali e internazionali? Uno dei presupposti principali che dovremmo ormai accettare, all’alba del XXI secolo, quando parliamo di civiltà, è che ogni civiltà porta con sé elementi di progresso umano e di barbarie. E che ogni visione manichea, da questo punto di vista, è già un partito preso verso la barbarie.

La seconda considerazione riguarda la giovane età dei jihadisti, e indico con questo termine coloro che, da varie parti del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Africa all’Asia, cercano di raggiungere la Siria o l’Iraq o qualsiasi altro luogo dove sembra svolgersi la battaglia campale tra i santi valori dell’Islam e le forze della corruzione e del male, siano esse rappresentate da un regime arabo considerato illegittimo o da forze militari e politiche occidentali o filooccidentali. Durante tutte le guerre, ma anche tutte le rivoluzioni, alcune delle cose più straordinarie e generose e molte delle cose più terribili e disumane sono state fatte da ventenni o sono state fatte fare a dei ventenni. Da europei celebriamo ogni giorno con orgoglio la nostra condizione di cittadini di paesi che vivono in pace, che non conoscono la guerra a casa loro. Bisognerà, però, interrogarsi su questo numero, minoritario certo, ma significativo, di giovani e giovanissimi europei pronti a partecipare ad una guerra, a sacrificare le loro vite, e a distruggerne delle altre. Anche in questo caso non ci sono risposte semplici, ma le caratteristiche del Corano non sono di certo sufficienti, ancora una volta, per spiegare questi comportamenti. Nel suo articolo su Le Monde diplomatique di aprile, Pour en finir (vraiment) avec le terrorisme, Alain Gresh cita uno specialista statunitense dell’islam ed ex funzionario della CIA, Graham Fuller. Quest’ultimo scrive: “Anche se non ci fosse una religione chiamata islam o un profeta chiamato Maometto, lo stato delle relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente oggi sarebbe più o meno identico. Ciò può sembrare controintuitivo, ma mette in luce un punto essenziale: esiste almeno una dozzina di buone ragioni per le quali le relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente siano cattive (…): le crociate (…), l’imperialismo, il colonialismo, il controllo occidentale delle risorse energetiche del Medio Oriente, la promozione di dittature pro-occidentali, gli interventi politici e militari occidentali senza fine, le frontiere ridisegnate, la creazione da parte dell’Occidente dello Stato d’Israele, le invasioni e le guerre americane, le politiche americane (…) riguardanti la questione palestinese, ecc. Nulla di tutto ciò ha alcun rapporto con l’Islam. ” Il fatto che le molteplici ragioni di conflitto tra Medio Oriente e Occidente, pur avendo carattere sociale, economico e politico, siano formulate prevalentemente in termini culturali e religiosi, non ci deve esimere dal compito di identificare lucidamente le cause principali di questo conflitto e di considerare la responsabilità dei dirigenti occidentali, quelli statunitensi in testa, nel perpetrarsi di tale situazione.

* * * *

[I testi di Alain Badiou (la traduzione italiana), Andrea Inglese (Note su “Io sono Charlie” e il suo contraltare), Enrico Donaggio, Franco Buffoni, Youssef Rakha, Davide Gallo Lassere sono apparsi sul sito di alfabeta2 nello speciale Toujours Charlie? a cura di Andrea Inglese (impaginazione web Nicolas Martino) il 7 febbraio 2015. Tutti gli altri testi, presentati in ordine cronologico, sono apparsi su Nazione Indiana tra l’8 gennaio e il 27 febbraio 2015.]

Tra gli ingranaggi e gli specchi di Vila-Matas

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di Giovanni Dozzini

Vila-Matas

Enrique Vila-Matas poteva scrivere questo libro in un altro momento della sua vita, uno qualsiasi, purché fosse diverso da quello in cui l’ha scritto, e cioè un paio d’anni fa, il tempo sufficiente perché la sua casa editrice italiana, Feltrinelli, lo pubblicasse proprio adesso, proprio in questi giorni. Mi avrebbe risparmiato un bel po’ di ansia, Vila-Matas, perché la storia che racconta in Kassel non invita alla logica (traduzione di Elena Liverani), almeno nelle sue parti meno profonde e speculative, somiglia non poco alla storia che potrebbe raccontare dopo il suo ritorno da Perugia, dove tra oggi e domani parteciperà alla seconda edizione del festival letterario che contribuisco a organizzare con tanto entusiasmo e tanta fatica. Questo libro, che per inciso a mio avviso è un libro splendido, racconta la storia di uno scrittore, e cioè di Vila-Matas, invitato a trascorrere alcuni giorni all’edizione 2012 di Documenta, manifestazione dedicata all’arte contemporanea che si svolge nella città tedesca di Kassel: racconta i dubbi e le idiosincrasie, gli imbarazzi e il rimuginare che spesso contraddistinguono esperienze del genere: un ospite illustre e la gente che si dovrà occupare del suo soggiorno per conto del festival, o della fiera, o di quel che sia.

Ora, Encuentro non è Documenta, noi abbiamo radunato una decina di scrittori, qualche studioso e un fotografo, là si tratta di nuove frontiere dell’arte, tutta un’altra cosa, per carità. E infatti l’ho detto, il guaio è entrare nella testa di un uomo che a momenti potrà pensare di te e dei tuoi compagni qualcosa di simile a ciò che ha pensato dei tizi di Documenta, anche se noialtri siamo gente molto meno concettuale, va da sé, forse pure più modesta, e di sicuro più cerimoniosa e attenta a mettere i nostri amici a proprio agio. Per cui in fondo non c’è niente di male, nel fatto che Enrique Vila-Matas abbia scritto proprio adesso, ovvero proprio un paio di anni fa, il libro di cui parlerà questa sera a Perugia, e in esclusiva italiana, perché domenica già se ne ritorna a Barcellona, e della faccenda, ci perdonerete, tendiamo a voler farcene un vanto. Niente di male: uno dei soliti scherzi del destino, di quelli che piacciono tanto a lui, e un po’ a tutti, diciamo la verità, le coincidenze piacciono a tutti anche se pochi riescono a giocarci come ci riesce Vila-Matas, con tutto il suo bagaglio di incastri e intrecci e ricami letterari.

E comunque, parlare di un libro come Kassel non invita alla logica è un’impresa pressoché impossibile. Naturalmente so che non potete fidarvi di quel semplice aggettivo (“splendido”), io sono solo uno come gli altri, e le parole che scelgo le scelgo arbitrariamente, come gli altri, e per di più ho anche un’urticante allergia all’Accademia e all’idea che in letteratura esistano più regole di quelle che potrebbe intuire un bambino di tre o quattro anni. Per cui no, non vi fiderete, ed è giusto così. Allora argomento un po’, ma divagando.

Di una cosa sono sicuro: Kassel appartiene al genere di letteratura per cui Enrique Vila-Matas è probabilmente più conosciuto, e che bene o male ci siamo abituati a definire meta-letteratura, costruita come un grande meccanismo disseminato di ingranaggi e specchi e spifferi che funziona più per convinzione che per esattezza. Non è un romanzo, ma allo stesso tempo lo è, non tanto perché potrebbe essere tutto finto quanto perché è dotato di una forza narrativa evidente, un magnetismo che ti porta a chiederti cosa succederà poi, e come andrà a finire – se qualcuno dovesse propormi di buttar giù una definizione di romanzo forse, almeno in questo istante, sarebbe questa.

Io non ho gli elementi per sapere che Vila-Matas abbia effettivamente partecipato a Documenta 13, nel settembre 2012, e pur bastandomi fare qualche ricerca su Google eviterò di sincerarmene, dato che non conta affatto. La descrizione di Kassel e di molte delle opere d’arte messe in rassegna è d’altro canto così precisa e dettagliata che il problema sembrerebbe non porsi neppure. In ogni caso il viaggio del protagonista, scrittore catalano euforico al mattino e depresso all’approssimarsi del buio, va dritto al centro dell’idea di arte contemporanea, ed è un viaggio verniano, tra trabocchetti e scorciatoie e rischi d’ogni sorta, e la percezione fortissima di poter arrivare davvero da qualche parte di incredibile e sbalorditivo, in un modo o nell’altro, anche contro le leggi della scienza, se necessario.

Vila-Matas si interroga sullo stato di salute dell’arte contemporanea, richiama altra arte e altri frammenti della propria vita – la giovinezza, l’avanguardia, i vecchi sodali, l’ossessione per la novità. Si pone anche interrogativi esplicitamente politici, storici, sullo stato di salute dell’Europa, della Germania, della Spagna, e si concede una stilettata, che peraltro ovviamente mette nella bocca del protagonista alter-ego, agli scrittori spagnoli di oggi, per cui è così difficile «concepire l’arte senza un messaggio, accettare una letteratura senza un tocco necessariamente umanista in versione comunista». Un genere di letteratura che, per quel che importi, a me peraltro piace e interessa moltissimo, così come mi piace e mi interessa quel genere di letteratura che pratica Vila-Matas, se è praticata bene come la pratica lui.

Il privilegio del lettore dopotutto è non dover scegliere, e lo sa benissimo anche Enrique Vila-Matas, che alle peregrinazioni reali o sognate o immaginate del suo avatar tre le vie e i boschi di Kassel assegna una funzione quasi catartica quanto illusoria, come si illude chi crede di esser sfiorato da un alito secco e freddo in un vicolo buio o in un’installazione esasperata, come – non è vero? – lo sono tutte le installazioni. Nel vortice di libri – Walser, Sebald, Bellow, Kundera – e di cinema e di pittura e di musica in cui si ritrova il protagonista di Kassel non invita alla logica c’è una riflessione accurata e incerta sulla vita e sull’arte, e alla fine il discorso sembra ricadere sempre lì, dove batteva forte Pirandello cent’anni fa: l’una, l’altra, o entrambe le cose? E ancora, quando cala la sera, chi è veramente così sciocco da non sentire il peso dell’inevitabilità, davanti a sé, e da non capire che l’arte in fondo è capacità di boicottare la ragione, di non invitare alla logica, e suggerire altri mondi e altri capolinea impossibili allo scorrere delle esistenze?

Qui. Salotti, storie e un graphic novel

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di Ornella Tajani

Alcuni anni fa sono andata a visitare la casa di Balzac a Parigi, nel XVI arrondissement. Ci sono andata da sola, mossa da un desiderio appena tiepido, come per una cosa che si deve fare, perché in realtà spesso mi annoio tremendamente in queste case-museo in cui tutto mi sembra così cristallizzato nel tempo da apparire quasi finto. Una casa-museo è una contraddizione in termini, perché priva di ciò che rende un luogo una casa, e io proprio non riesco a emozionarmi per «la tazzina in cui nel 1941 ha bevuto il caffé Benedetto Croce», come tuonava Silvio Orlando contro i malcapitati turisti nel film Il portaborse.

Mentre gironzolavo per le stanze della maison Balzac, quindi, non mi stavo emozionando neanche per la caffettiera in porcellana con le iniziali HB; curiosavo più che altro fra la bellissima galleria dei personaggi della Comédie Humaine e il Fonds Gautier, perché all’epoca progettavo di scrivere qualcosa su Gautier che poi sicuramente non ho scritto, e aspettavo di finire la visita per passare in giardino a fumare, sedendomi magari sulla stessa panchina sulla quale Balzac fumava la pipa. A un certo punto ho notato l’orologio sul camino del salotto: le cinque e un quarto. Sarebbe stato bello immaginare che fosse fermo dalle cinque e un quarto di un pomeriggio del 1847, ultimo anno in cui Balzac aveva vissuto in quella casa, un pomeriggio in cui, mentre lavorava alla scrivania, lo scrittore aveva alzato gli occhi sentendo cessare di colpo il ticchettio delle lancette. Oppure, più rocambolescamente, l’orologio si era rotto cadendo, Balzac l’aveva urtato mentre provava a mettersi in salvo da qualche creditore (era il motivo per il quale aveva scelto proprio quella casa, che presentava il vantaggio di avere due entrate).

Sarebbe stato bello, ma l’orologio non era fermo. Funzionava: in quel momento, mentre io visitavo la maison Balzac, erano davvero le cinque e un quarto. Lo stesso orologio che aveva scandito le sue ore stava adesso segnando il mio tempo.

maison cubes

Questo dettaglio piuttosto banale mi piacque moltissimo, perché era riuscito ad animare il luogo, a farmelo sentire come una vera casa e a collegare cronologicamente il 1847 al XXI secolo. Io non ho buon rapporto con la storia, ma ho un buonissimo rapporto con i luoghi. A scuola, in geografia avevo ottimi voti, in storia riuscivo a racimolare sufficienze con complicate strategie da baro. Per sentire la storia, devo quindi passare quasi sempre per i luoghi, ricreandomi una specie di geografia diacronica.

C’è un bellissimo corto d’animazione di Kunio Katō, dal titolo La maison en petits cubes, che forse si presta a rendere quello che intendo. Il corto inizia mostrando un anziano protagonista che fuma la pipa, da solo, nel suo appartamento dalle pareti ricoperte di ritratti fotografici. Dopo poco l’inquadratura si allarga su una città in gran parte sommersa dall’acqua: dalla superficie spuntano soltanto gli ultimi piani dei palazzi. Il livello dell’acqua sale costantemente; il vecchio, ogni volta che si ritrova con i piedi a bagno, costruisce un nuovo piano sopra la casa nella quale ha vissuto sino ad allora e vi si trasferisce. I vari piani dell’edificio, che sono quindi tutti suoi ex appartamenti, sono collegati tra loro da una botola al centro del pavimento nella quale lui, occasionalmente, pesca il pesce da mangiare a pranzo.

Un giorno gli cade la pipa che, di botola in botola, finisce per posarsi al piano terra, sul fondo dell’acqua. Il vecchio decide di recuperarla: acquista un’attrezzatura da sub e si immerge. Ciò che lo aspetta è naturalmente un viaggio nel passato, di casa in casa: quella in cui viveva quando la moglie era ancora in vita, più giù la casa in cui è nata la figlia, poi la stanza in cui ha chiesto la mano della sua fidanzata e via dicendo. Tutti appartamenti identici, costruiti uno sull’altro, nei quali è contenuta l’esistenza del protagonista. La storia dentro le case e attraverso le case.

Ho ripensato a questo corto ieri, quando ho letto il graphic novel Qui, che parla, ancora una volta, di case e di storia e la cui lettura è un’esperienza molto simile a un viaggio nella macchina del tempo.

McGuire_Here_1915

Ho parlato di case al plurale ma Qui, scritto da Richard McGuire, è ambientato in un’unica casa. Il libro, edito ad aprile da Rizzoli Lizard (trad. it. di Steve Piccolo), è la rivisitazione e l’ampliamento di un’idea concentrata in una striscia che McGuire pubblicò nel 1989 su Raw, storica rivista americana dedicata al fumetto.

Qui inizia nel 1957, anno di nascita dell’autore, e apre il sipario su un salotto: poltrone, tavolo, carta da parati. In alto a sinistra è segnato l’anno in cui ci troviamo, così come, nell’angolo di ognuno dei riquadri che McGuire “ritaglia” all’interno della stanza, è segnato l’anno di riferimento. In una stessa immagine, dunque, succede di trovarsi simultaneamente nel 1970, davanti a una ragazza che legge distesa sul tappeto, e nel 10000 avanti Cristo, dove sullo stesso tappeto riposava un mammut, naturalmente millenni prima che quella casa venisse costruita. Oppure si assiste al pic nic di due aristocratici nel 1870, quando al posto delle pareti c’era ancora un bosco, ma in un rettangolo a sinistra un gruppo di amici gioca a Twister nel 1964. Nel 1984 una ragazza chiede all’amica che sta facendo esercizi ginnici davanti al camino: «Che mi racconti del palazzo di fronte?» e l’altra risponde sciattamente: «Benjamin Franklin viveva lì, o forse ha piantato un ciliegio in giardino. Qualcosa del genere»; dopo poche pagine, superfluo dirlo, siamo nel 1775, al cospetto di Benjamin Franklin che attende l’arrivo del figlio. Quale che sia l’anno in corso, la scena si svolge nello stesso rettangolo di spazio dove nel 1907 è stata costruita la casa che vediamo in quasi tutti i disegni: assistiamo anche alla costruzione delle sue fondamenta e del camino.

«Here è una storia possibile solo a fumetti», ha scritto Marco Apostoli Cappello in una dettagliata recensione che suggerisco ai cultori del genere. È vero che una tale efficacia nella narrazione simultanea di frammenti di storie lontanissime fra loro risulta difficile da restituire in un testo scritto non accompagnato da immagini; ma naturalmente la letteratura ha i suoi prodigi. Woolf cristallizza in poche parole scarti temporali di millenni: quando Mrs Dalloway cammina per le strade di Londra immaginando il nulla che vi regnerà di lì a qualche secolo, ad esempio; o quando in Gli Anni (recentemente ritradotto) Sara pensa ai paleontologi che un giorno rovisteranno disgustati nel salottino di casa. Joyce arriva a descrivere tutto quel che è contenuto in un istante di esistenza: ciò che un personaggio pensa, dice, fa e contemporaneamente tutto ciò che sta accadendo intorno a lui. La narrativa riesce magnificamente a sovrapporre i piani: si pensi anche, con un salto alla fine del secolo, alla scena in Underworld di DeLillo in cui J.E. Hoover guarda la partita di baseball allo stadio e all’interno del proprio quadro visivo vede i dettagli di una scena medioevale come quella del Trionfo della morte di Bruegel (di cui parlo diffusamente qui). Tutti esempi che potrebbero rientrare in quel che R.L. Stevenson definiva, in un suo saggio sul romance, «the plastic part of literature», quella parte in cui ogni cosa ne richiama un’altra («Everything is connected», sempre DeLillo) e in cui «There is a fitness in events and places».

Allora forse quel che c’è di veramente peculiare in questo graphic novel sta nell’atto di lettura. Che non sia più l’autore a decidere in quale ordine somministrarci le varie fasi storiche che riempiono uno stesso spazio, bensì il lettore a stabilire su quale frammento di tempo far rimbalzare l’occhio all’interno della pagina, non è certo una novità narrativa. A questo però si aggiunge il fatto che, mediante l’utilizzo dell’immagine, la narrazione è servita come su un vassoio: si può scegliere di iniziare da un episodio del passato o da un riquadro del futuro, ma la storia è tutta contemporaneamente davanti agli occhi del lettore, dilatata in maniera vertiginosa in entrambi i sensi cronologici. Era questa la «nuova dimensione per la narrativa illustrata» che, come ha scritto Chris Ware in una recensione sul The Guardian, McGuire ha aperto nell’89; e, se il suo libro resta ancora oggi sorprendente, io credo che sia anche perché l’autore ha saputo legare così radicalmente la storia a uno spazio ben circoscritto. All’interno dello stesso contenitore, il fluire degli anni risulta incessante, vorticoso e il lettore lo percepisce in maniera quasi epidermica.

McGuire restituisce il sentimento del tempo senza legarlo a nessuna memoria individuale: in Qui non c’è un protagonista e non c’è neanche una conclusione. Strategicamente, il libro non si ferma al 2015, e dunque a un presente prossimo a scadere, ma al 1957, chiudendo il cerchio ma in realtà facendolo esplodere: nelle trecento pagine del volume il lettore ha viaggiato nel passato, in un futuro prossimo che plausibilmente conoscerà e in futuro remoto cui non assisterà, ad esempio quello in cui si faranno visite guidate attraverso proiezioni istantanee ottenute digitando direttamente nell’aria, senza supporti tecnologici.

Nelle pagine finali, dopo decine di vite raccontate in frammenti, un televisore del ’72 manda in onda il film Casablanca: Dooley Wilson, che interpreta il pianista Sam, sta cantando «It’s still the same old story, a fight for love and glory». Sarebbe stata una bella conclusione per questo romanzo sul tempo e sulle storie, su un luogo che li contiene come per una sorta di singolare metonimia. McGuire opta invece per un vero e proprio sigillo, un po’ didascalico, ma di certo perdonabile: nell’ultimo disegno una donna prende un libro posato sul tavolino e dice «Ora mi ricordo».

Non era un problema di artigianato

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ilbevitoredecurtisgrand di Gherardo Bortolotti / Raosdrome from Ibiza Chillout Soul Remix

Qui l’originale.

Mi trovavo spesso a dichiarare che la letteratura, comunque, non era un problema di artigianato, di maestria tecnica o di stile. E, per come intendevo io la letteratura, questa era un’affermazione ovvia.

La metafora artigiana, tuttavia, era un modo di interpretare la letteratura ancora molto forte. Le ragioni erano varie. Da una parte c’era il fatto che una rappresentazione di questo tipo sottolineava l’investimento in sapere tecnico che la letteratura, per come la conoscevamo, aveva comportato e che ne aveva giustificato, in vari termini, la specificità ed i meccanismi di selezione e di attribuzione di ruolo a cui, come sapere appunto, aveva dato luogo. Da un’altra parte ancora, nella pratica quotidiana, non si poteva non riconoscere che lo scrivere letterario prevedeva tutta una serie di operazioni “manuali”, di limatura, scelta, messa in opera etc. (escludendo, per esempio, la sua continua rigenerazione in seno alla lettura – per non parlare della sua eventuale natura meramente orale) che venivano convenientemente rispecchiate nell’immagine artigiana. Una riduzione che privilegiava la parte “visibile” del testo e che contribuiva a collocare la letteratura nello schema più generale di produzione/consumo in cui praticamente ogni nostra esperienza, ai tempi del capitalismo, veniva inquadrata.