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Da “Unreel”

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[In ottobre, per Zacinto editore, nella collana “Manufatti poetici”, è uscito Unreel di Giuseppe Nava. Ne pubblichiamo alcuni passi.]

di Giuseppe Nava

 

Lei nuota sott’acqua, un’acqua limpidissima, azzurra e trasparente. Dopo un poco riemerge.

In mare, dei delfini seguono una barca, nuotando velocissimi appena sotto il pelo dell’acqua.

Costume da bagno, occhiali scuri, lunghe treccine bionde, la ragazza si sistema sulla testa un foulard decorato con una fantasia di fiori. Sorridendo, prende la parte che avanza e la arrotola per stringere il foulard sulla testa, la arrotola molte volte e poi su sé stessa a formare una spirale sopra la testa.

La ragazza, in bikini nero, cammina in una stretta galleria scavata nella roccia gialla. Senza fermarsi indica un’apertura nella volta, poi arriva alla fine del cunicolo, che si apre su una caletta con barche e ombrelloni. C’è il sole e il mare è molto blu. La ragazza appoggia per terra qualcosa di azzurro che teneva in mano, e si toglie le infradito.

Sullo scoglio, attende l’arrivo dell’onda, poi si tuffa con una capovolta all’indietro e scompare nell’acqua.

Un grosso aereo di linea sta atterrando su una striscia di terra visibile a malapena sul mare tutto intorno. Sembra quasi che stia atterrando sull’acqua.

Su una piccola barca, qualcuno sta tirando a fatica una rete fuori dall’acqua gialla, fangosa. Diversi pesci sono impigliati nella rete. Quando la rete affiora maggiormente si vedono molti più pesci al suo interno, che agitano la superficie dell’acqua. Un’altra persona compare e aiuta la prima a sollevare la rete piena di pesci, che poi ricadono sul fondo della barca.

Non si vede il volto del pescatore, indossa una tuta azzurra con cappuccio. Sul ponte della barca apre il ventre di un grosso pesce, strappa filamenti e cartilagini, con le mani estrae la vescica natatoria.

***

 

La ragazza bionda, vestitino estivo a fiori, si tiene con entrambe le mani a un sostegno nel vagone della metro. La gente intorno guarda il telefono, guarda per aria, parla. A un tratto la ragazza fa un pull up, senza sforzo, mostrando la lingua alla camera, poi scende dal vagone.

Fermata Broadway Junction. Lui, torso nudo, tatuaggi, guarda sopra la spalla di lei – shorts e top sgargianti, treccine colorate nei capelli – che sta scrivendo qualcosa sul telefono. Si avvicina, cerca di prenderle il telefono, lei si divincola e si allontana qualche passo ma lui riesce a strapparle il telefono dalle mani. Lei lo insulta, lo insegue, lui correndo le gira intorno e con un salto scavalca i binari fin sulla banchina opposta. Lei urla esasperata. Lui legge qualcosa sul telefono, guarda la donna con uno sguardo misto di rabbia e sorpresa, poi scaglia con violenza il telefono sui binari.

Con un punteruolo perfora lo schermo di quattro differenti smartphone.

È notte, la donna armeggia davanti alla porta, la apre, entra. Dalla strada compare di corsa un uomo, tuta bianca, che arriva prima che la porta si richiuda ed entra, dicendo qualcosa. Si sente la donna gridare. Un altro uomo arriva di corsa, indossa una felpa a disegno tipo mimetico, si ferma sulla soglia. Si sentono voci dall’interno. L’uomo con la tuta bianca esce, i due si allontanano di corsa.

Quello con la salopette a righe bianche e rosse e gli stivali da cowboy sta barcollando sul tetto di un bagno chimico, il primo di una lunga fila, in un prato. È notte, si sentono musica e voci. Dal nulla un tizio arriva di corsa e tira una spallata contro il cesso chimico, che si inclina. Quello con la salopette perde l’equilibrio e cade malamente, sbattendo la schiena. Diverse persone intorno gridano. Un uomo insegue il tizio della spallata, lo abbranca per il collo e lo getta a terra sul prato. Ancora grida, parole non intellegibili. Un’altra persona con la salopette a righe bianche e rosse è china su quello caduto dal bagno chimico. Intanto l’uomo fronteggia il tizio della spallata, gli punta contro il dito, non si sente cosa dice. Dietro di loro ci sono pick-up, furgoni, roulotte.

La volante è ferma in mezzo all’incrocio, lampeggianti accesi. Si sentono sirene andare e venire. Alcune macchine girano intorno, altre sono bloccate al semaforo. Lui, calvo, barba, sovrappeso, indossa solo dei pantaloncini bianchi. Fronteggia tre agenti, due di loro puntano quelli che sembrano essere taser. Si abbassa e si alza sulle ginocchia, gesticola, allarga le braccia. Avanza verso gli agenti, che indietreggiano, i taser sempre puntati.

***

Nota

Lo scorso anno, nell’arco di un paio di mesi, ho descritto a parole svariati reel comparsi sui miei profili social, in una sorta di procedimento ecfrastico, o se vogliamo – trattandosi di filmati – di sceneggiatura ex post. Il funzionamento degli algoritmi, che propongono contenuti sempre simili e attinenti, ha portato a raccogliere queste prose nelle narrazioni potenziali di Unreel.

 

 

Due poesie per Gaza

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di Marina Massenz

Gaza, dicembre 2024

I

Del rosso osso

Del rosso osso

senza più fiore fiore splendente

a celare fori

fuoriesce materia grigia

osso con buco.

Giardini grandi

per il piccolo andare

non toccherà fiore

chinandosi, è un istante

nel buio del tombino.

Fuoriescono liquami

si sentono richiami

di piccole mani.

II

Dai calamai del petto

Dai calamai del petto

si affacciano le gallerie del

tempo che pare disteso

e pure l’inquietudine non passa

che pare vuoto ma pure è tutto

pieno di pensieri su fare e non fare,

alla fine la decisione della parola

fiato ossidante su materiale

delicato e sottile.

Stirare la pelle stirare

stirare come una volta stiravo

camicie vestiti e pantaloni

alla finestra i ciclamini rimangono

col loro emergere da mazzi di foglie

si tirano su col gambo sottile dritto

e questi scoiattoli marroni dalle lunghe code

infestanti dei nostrani rossi viene lo stesso

la tenerezza del vedere e forse

la voglia infantile del prendere per sé

tenere inscatolare o ingabbiare

bambino che prende e vuole giocare

 

così del tempo passato e presente

sono la scatola che rotola via

ma dal futuro solo riflessi di fuoco

rumori assordanti crolli e strilli

e le ciabatte lasciate per via nella corsa

e la bambola e i veli e le tende.

 

 

Clarice Lispector a Berna

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Cristina Vezzaro intervista Roberto Francavilla

La traduttrice Cristina Vezzaro intervista il collega Roberto Francavilla a proposito di Clarice Lispector, protagonista del suo romanzo “Città senza demoni” (Feltrinelli, 2024)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cristina Vezzaro: Il romanzo apre con un ricordo che è rimorso e nostalgia, ma trasmette anche subito un senso di colpa e abbandono. È un incipit d’autore, con un’immagine molto a fuoco della protagonista. Chi è la donna che si risveglia nella primavera del 1946 in una casa di Berna?

Roberto Francavilla: È una giovane donna a cui la vita ha già dato e tolto tantissimo: le ha dato un successo precoce nelle lettere del suo paese con un romanzo di debutto straordinario, le ha dato fascino e bellezza, le ha dato una lingua trasformata in patria; ma l’ha segnata con un trauma nella prima infanzia. È una donna profondamente inquieta e in perenne ricerca. Una donna che tende a simbolizzare all’estremo la realtà che la circonda illudendosi di poterla così afferrare. E in “quei due anni” in cui ne descrivo le pieghe, una donna in affanno, pervasa da una cocente solitudine e dall’attacco di una sottile depressione che le sta sempre accanto, in agguato, tenendole subdolamente la mano. Anche l’amore, come il paesaggio e come la sua vita sociale, anziché completarla, sembra volerla ulteriormente minare. Il dolore è lì, pronto a scarnificarla, tenuto a bada a fatica attraverso proiezioni metafisiche, redazione di lettere infinite, concerti di musica classica, rare complicità amicali. Il resto è nostalgia, anzi, saudade.

CV: In una festa di fitzgeraldiana memoria all’inizio del romanzo emerge un senso di solitudine molto forte di Clarice. Come hai immaginato i vari personaggi che via via le rimandano la sua condizione?

RF: Attorno a lei si muove la buona società bernese perché le circostanze lo impongono. È moglie di un diplomatico. Frequenta i ricevimenti, i cocktail, i teatri. Osserva quel mondo cogliendone il vuoto e le vanità. Ma non si ritrae. La sua accettazione è mediata e forse in qualche modo compensata dal suo interesse per la varia umanità. Chi la circonda ha comunque qualcosa da offrirle: dalla frivolezza tutta borghese di certi rituali all’ipotesi di costruire amicizie profonde; dalle sollecitazioni vagamente “esotiste” che la sua origine brasiliana suscita immancabilmente a inevitabili meccanismi seduttivi. I personaggi che ho inventato incarnano e offrono tutto questo. I rapporti che Clarice-personaggio intesse con ognuno di essi è una variante sul tema della relazione interpersonale. Ci sono stima e sodalizio ma anche sottile invidia; cedimenti al cospetto del suo fascino ma anche lo sguardo vagamente sospettoso che si riserva all’artista, al potenziale sovversivo, all’eccentrico. Nonostante il suo encomiabile rispetto dei ruoli, Clarice in quel dopoguerra bernese è una mina vagante.

CV: Benché Clarice sia in un paese per lei esotico, voci, suoni, melodie non sono mai preludio di nuove scoperte, bensì richiamo e nostalgia. Analogamente, le pagine del romanzo sono costantemente attraversate da un gioco di luci e ombre: al qui corrisponde un altrove, alla presenza un’assenza, la narrazione sembra evocare un’esistenza in controluce, proprio come l’immagine in copertina.

RF: C’è un oggetto che può essere facilmente sistemato nell’archivio del metafisico (non è l’unico) in “Città senza demoni”, e questo oggetto è la radio. Le voci che ne fuoriescono possiedono un valore medianico, permettono di trasportarsi altrove, facilitano transiti insperati ed epifanici. Clarice non parla lo svizzero tedesco di Berna e le parole in quella lingua le arrivano come impasti pronti a essere disfatti, scomposti e ricostruiti (in un caso addirittura in forma di anagrammi). La lingua spezzettata è un’allegoria di un universo altrettanto spezzettato in cui le è impossibile cogliere l’unicità e l’armonia. Solo frammenti, brandelli. E poi c’è la musica, portatrice anch’essa di memoria. E la memoria in sé, che è uno dei principali fili conduttori del romanzo. Non solo l’infanzia brasiliana e la figura del padre, ma anche quella porzione di gioventù che il tempo ha divorato in un attimo.

CV: Sebbene disponga di una stanza tutta per sé, la scrittrice è in preda ai ghiacciai apparentemente incorruttibili della città e al velato controllo del marito. Il suo pensiero corre così in continuazione alla neve, che si scioglie e cancella ogni traccia, ogni orma.

RF: Il paesaggio è l’altra materia imprendibile. Dovrebbe essere dominante in tutta la sua bellezza e imponenza: i ghiacciai svizzeri, un immaginario paesaggistico definito per eccellenza dalla pittura, un topos del vedutismo. E invece le Alpi sono le sbarre incombenti di una gabbia. I ghiacciai potrebbero sciogliersi in acqua, l’acqua potrebbe invadere tutto, come un incontenibile flusso vitale (anche erotico) contro cui Clarice si ostina a erigere dighe immaginarie, credendo di potersi proteggere e di poter evitare la sua stessa trasformazione in quel flusso. C’è un patto silenzioso, estremamente fragile e destinato a interrompersi (ma questo accadrà fuori romanzo e dunque nella biografia reale di Clarice) fra lei e il marito, il buon Maury. Tenersi per mano e non naufragare. Il patto regge finché regge la portata del compromesso, l’accettazione apparentemente serena, la finzione con cui si ignora il non detto che scava in silenzio erodendo quella patina sottile e tuttavia ben architettata. La patina si lucida in un breve periodo parigino che sembra illuminare il grigiore bernese, ma è l’effimero di un fuoco d’artificio.

CV: Gli orrori della guerra sono solo accennati, la protagonista li avverte più che altro a Napoli, a Parigi o a Lisbona, nella neutrale svizzera non sono che un’eco lontana e ambigua che pure le rimanda un sentimento antisemita, e in lei divampano ricordi, impossibili perché precedenti l’età della ragione, dello shtetl abbandonato dal padre.

RF: Il trauma è il segno indelebile. La fuga di Clarice in braccio alla madre: si chiama ancora Chaya, alle sue spalle il suo shtetl ucraino bruciato nel pogrom. Quello è il suo inizio. Tuttavia, Clarice attraversa gli anni della Seconda Guerra Mondiale in un territorio sospeso. Va a Lisbona, capitale di un paese neutrale, e poi a Napoli, quando il conflitto è alla fine (De Chirico la ritrae mentre fuori dalla finestra uno strillone sta gridando festoso che la guerra è finita). Della portata enorme dell’evento storico, shoah compresa, riceve in realtà solo il riverbero. Ma il riverbero la raggiunge a Berna e la ferisce in modo subdolo: nel non detto, nelle mezze frasi pronunciate, nel labile tentativo di rimozione del trauma collettivo e di penosa obliterazione di una memoria che, peraltro, è freschissima.  Nella mia finzione tutto ciò ha un carattere quasi epifanico e si manifesta in un terribile incubo notturno.

CV: Gli spazi che Clarice abita diventano espressione del suo stato d’animo: “Quella casa era la sua dimora e la sua prigione, e non era affatto un amore. Com’era difficile fingere.” Il marito Maury vorrebbe oscurare le sue “originalità” e sottolineare una normalità borghese verso cui lei stessa si sente in parte attratta, individuando in lui, almeno per il momento, un’àncora, un rifugio sicuro.

RF: Maury è un brav’uomo e la sua dedizione a Clarice è totale. Ravviso in lui una strenua forza che non sempre esprime nei modi in cui Clarice vorrebbe, ma che comunque scaturisce dall’amore. E questa forza provoca in lei una profonda tenerezza e una struggente forma di rispetto. Struggente perché appunto non dettata da innamoramento ma da affetto. Nella biografia reale, la coppia è destinata al divorzio. Nei due anni bernesi (e soprattutto nella mia finzione) le avvisaglie di quel futuro sgretolamento sono già lì, in quel senso di protezione da parte dell’uomo che sempre di più si tramutano in tentativi (largamente inconsapevoli) di velato controllo. Credo che una delle maggiori cause di inquietudini per la Clarice di quei frangenti sia precisamente questa estenuante oscillazione tra l’aspirazione legittima a una “vita normale” (di cui farebbe parte la sicurezza della casa, l’adesione ai codici) e il desiderio di fuga (momentanea, come per esempio al cinema o a teatro, o definitiva, con un agognato ritorno in Brasile). C’è poi una terza possibilità, che è quella in cui si muove inquieta l’anima di Clarice, ovvero la frequentazione di un altrove immaginario e però plausibile. Una proiezione che mi fa pensare a Baudelaire e al suo essere felici dove non si è mai.

CV: “Ci sono paesi che donano lettere ai propri dati anagrafici, pensò, altri, invece, che sottraggono pezzi di anima.” Nello spirito protestante e razionale bernese si fa strada dirompente un bisogno di magia; avvolta in un’innata gentilezza e nelle convenzioni della buona società, la protagonista prova un’esigenza di autenticità e spontaneità per il suo cuore errante, sensibile all’erotismo.

RF: La magia e l’erotismo costituiscono la cifra di un’assenza nei due anni bernesi. Ciononostante, Clarice è bravissima a captarne anche lì i possibili segnali (per quanto labili, quasi invisibili), le tracce nascoste. Non tanto nella figura esuberante e prepotentemente maschile di Herr Fuchs (ricordo che lui come la maggior parte dei personaggi in Città senza demoni sono inventati) quanto negli elementi che in quella Berna appunto “protestante e razionale” appaiono come eccentricità, elementi “non consoni” del paesaggio urbano e di quella società. Penso per esempio al locale che Clarice ama frequentare da sola, alle sue leggiadre e sensuali tenutarie, agli studenti sguaiati e ai pittori male in arnese che lo abitano. E, naturalmente, alla cartomante a cui si rivolge per assecondare le spinte della sua aura metafisica, anch’essa intrappolata. Clarice nutre di simboli il suo universo personale, costantemente scomposto e ricomposto a seconda delle suggestioni e dello stato d’animo. L’elemento metafisico le è necessario anche per questo instancabile lavoro che puntualmente confluisce nella sua scrittura.

CV: Benché giovanissima, Clarice è un’anima antica che sembra poter trovare un senso di intimità solo nelle origini familiari e nell’arte – la letteratura, l’arte figurativa, il cinema.

RF: Sono linguaggi essenziali in cui lei ritrova corrispondenze (più che fonti di ispirazione). Una sorta di cibo per l’anima che a Berna è costituito soprattutto dalla frequentazione di sale cinematografiche e concerti. In effetti, nella maggior parte dei casi la fruizione di questi linguaggi è praticata in solitudine e l’ipotesi di una condivisione sembra quasi vissuta come un ingombro. Fanno eccezione proprio le presenze amorevoli delle sorelle, che però sono evocate nella lontananza. Loro sono le sue divinità salvifiche, protettrici devote di una matrice remota ma sempre vivissima (nata nell’esperienza dell’esilio, della fuga e costruita nell’infanzia condivisa). Non è un caso che, seduta in un cinema di Berna e commossa per la visione di un film, Clarice senta con conforto lo sfregare sulla sua pelle di una lettera scritta da una delle sorelle e trattenuta nel reggiseno.

CV: “La vera patria è la zolla in cui tornare a essere polvere vegliati dall’amorevole sguardo di chi parla la nostra lingua.” In una vita apparentemente sospesa prende il sopravvento la memoria, che è lingua, che sono luoghi. A una vita reale subentra sempre una vita immaginata. Sono questi gli elementi che fanno della protagonista una scrittrice?

RF: Direi di più: sono questi gli elementi che fanno di Clarice una scrittrice brasiliana. La lingua letteraria di Clarice è un’operazione estetica, un progetto della forma più volte dichiarato. I suoi spostamenti dalla norma non sono imputabili, se non in minima parte, alla sua condizione di estrangeirada (come ha voluto una certa critica) ovvero di soggettività in cui convivono radici culturali e linguistiche diverse, bensì come vero e proprio stile la cui originalità e il cui spessore hanno sistemato la scrittrice sul piedistallo delle lettere brasiliane. Nonostante le nemmeno tanto velate accuse di ermetismo (puntualmente respinte al mittente: “ermetica? No, io mi capisco”, affermò una volta) quello è il modo in cui Clarice sceglie di scrivere, quella è l’espressione della sua identità. Ma, prima ancora, Clarice dichiara la sua brasilianità in una lettera magnifica che spedisce, quando ancora è una studentessa, al dittatore Getulio Vargas, chiedendo la cittadinanza: un atto d’amore nei confronti di una lingua, una lingua che è completamente sua.

CV: Questo romanzo è una dichiarazione d’amore nei confronti di una scrittrice in esilio interiore e di una terra lontana. La lingua raffinata, risultato di un’evidente ricerca stilistica, accarezza la trama e l’atmosfera creata dal romanzo.

RF: La ricerca che ho operato intorno alla lingua, all’italiano in cui scrivo, è stato uno degli aspetti per me più interessanti nella redazione di Città senza demoni. Non ho mai sfiorato la deriva dell’artificio, che non mi interessava minimamente, e neanche la possibilità di un pastiche clariceano (rischio che ho corso e che sapevo di poter correre). Certo, mi è stato faticoso evitare il corto circuito fra il traduttore e lo scrittore, ma rileggendo le mie parole non vedo, perlomeno in maniera esplicita, l’influenza della scrittura di Lispector sulla mia. Da anni frequento intensamente la sua lingua e la trasporto nella mia quando la traduco e accetto volentieri la potenza dei suoi riverberi, che ricevo come un dono. Ma il discorso si chiude qui. Lo stile che ho utilizzato per scrivere Città senza demoni proviene da una ricerca personale a cui tengo molto. In certi casi, singole parole racchiudono i segni di una poetica e convergono verso quell’aspirazione al piacere del lettore (ovviamente non sono io a poter giudicare le conseguenze di questo slancio) che dovrebbe essere sempre tenuto presente da chi si accinge a scrivere un romanzo.

La teoria della madre

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Immagine generata da AI

di Marco Pianti

Durante gli anni della mia prima infanzia e della preadolescenza, quando ero ancora alle soglie dell’umanità vera e propria, ho frequentato assiduamente, nelle gite familiari in visita alla casa dei nonni, il paese in cui abitava il vecchio. Dapprima fui attratto dalla sua abitazione, non solo per effetto delle proibizioni e le raccomandazioni dei miei genitori, ma anche per via di una certa qualità inafferrabile che circondava la casa e la reputazione dell’uomo che in essa abitava e svolgeva il suo laborioso lavoro di artigianato.

Dopo i lunghi pranzi nella casa dei nonni, nelle ore pomeridiane, circonfuse di un alone mistico, che mi sembravano, e tutt’ora mi sembrano una seconda notte, più breve e intensa, inserita nelle ore diurne, mi recavo davanti alla casa di Dante Pisciottu e l’osservavo pieno di angoscia. Non appena avevo masticato e deglutito l’ultimo boccone lasciavo cadere il cucchiaio sul piatto, e prima ancora che avesse emesso l’ultimo tintinnio e questo avesse compiuto il suo percorso nell’aria densa della sala da pranzo, ero già uscito, diretto a passo spedito, quasi di corsa, verso la casa del vecchio. Le strade non erano asfaltate, l’assenza di automobili rendeva superflua la pavimentazione degli stretti viottoli del paese. Mi accucciavo sui gradini della chiesa, da dove potevo osservare l’oggetto del mio interesse e delle mie fantasticherie.

Niente e nessuno avrebbe potuto distogliere quella muta contemplazione, anche se, a dire il vero, poche distrazioni si offrivano al mio campo visivo. In quelle ore la gente si rintanava nelle camere da letto, su qualche poltrona in cucina o in cortile, a sonnecchiare mentre la digestione intraprendeva il suo lento e faticoso corso. Nella fissità dei miei occhi un osservatore attento avrebbe riconosciuto un estremo tentativo di scongiurare qualcosa di cui non conoscevo la natura, ma di cui sospettavo le irreversibili conseguenze. Mi pare che si trattasse degli istanti conclusivi della mia infanzia, dilatati all’inverosimile nel tempo, con la complicità della casa e del tepore narcotizzante del pomeriggio inoltrato.

La prima volta in cui vidi Dante Pisciottu non sussultai. Lo avevo aspettato, ne avevo previsto l’entrata in scena, e adesso eccolo lì, davanti alla facciata bianca, uscito da una porta che somigliava ad una fenditura nella roccia. Nessuno dei suoi gesti lenti e misurati suggeriva che si fosse accorto della mia presenza, o che sentisse su di sé il mio sguardo. Così presi ad analizzare le sue abitudini, i suoi gesti e l’abbigliamento, ovvero la sua esteriorità, nella quale era espresso qualcosa della sua essenza più intima. Era innaturale, quella precoce inclinazione all’osservazione, lo intuivo già allora, ecco perché la nascondevo alla mia famiglia, che avrebbe potuto allarmarsi e limitare la mia libertà d’azione, costringendomi al castigo, l’unico strumento pedagogico di cui dispongono i genitori.

Dante Pisciottu era asciutto, prosciugato. Alcuni lembi di pelle pendevano dal collo e dalle braccia. La faccia era anch’essa decaduta sotto il peso della fronte, ammucchiata e sfigurata in un unico punto, da cui emergevano due piccoli occhi con i quali indagava la sua ristretta porzione di mondo. Un dettaglio degno di nota erano le sue camicie, candide e prive di grinze, come se ad esse dedicasse una cura particolare. Dovevano nascondere il corpo, che ormai non aveva più l’esigenza di essere osservato, ed era più un ingombro che una risorsa. Rimpiccioliva e si atrofizzava, ripiegato su sé stesso.

Quell’uomo, pensavo, dev’essere infelice. Circolavano delle dicerie sul suo conto. La gente raccontava episodi incompleti, frammenti della sua vita passata, dai quali riuscii a ricostruire la cronaca di una disgrazia. La frammentazione discontinua delle narrazioni conferiva alla sua biografia il carattere di una leggenda. C’erano stati, nella sua vita, rivolgimenti improvvisi e clamorosi, che avevano provocato l’estinzione della sua famiglia. La bellezza della ragazza che aveva sposato assumeva contorni fiabeschi. Si parlava di un incendio. La gente si perdeva nella descrizione di quelli che allora mi sembravano dettagli marginali. Oggetti e corpi carbonizzati.

La morte non mi interessava granché, ero solo un bambino e desideravo sapere qualcosa della vita della donna e dei due bambini. L’immagine in cui si era cristallizzata la vicenda, e in cui era eternizzata la responsabilità morale del vecchio era il suo corpo immobile davanti alle fiamme. L’immagine suggeriva un senso di rassegnazione. Una sconfitta. Una colpa. Una cruda consapevolezza della propria impotenza, per il vecchio. Era un momento culminante: coincideva, da un lato, con il massimo della felicità a cui può aspirare un uomo, e dall’altro con l’inizio del suo declino. Mi rendo conto che la gente del paese, appena alfabetizzata, riversava nella narrazione – influenzata dai modelli tradizionali, in cui tutto, pressappoco, culminava in un evento apocalittico, – i propri fantasmi, e il sadismo che è connaturato all’uomo e alle sue invenzioni.

Qualche mese fa ho visitato il cimitero del paese in compagnia della mia ragazza. Mentre lei mostrava segni di indolenza e disinteresse e se ne stava seduta in una panchina sotto la chioma di un cedro, mi aggiravo per le vie disseminate di lapidi in cerca dei miei nonni. Era il giorno dei morti, ma il cimitero era deserto. Il paese è quasi del tutto disabitato. Qua dentro, all’interno del perimetro delle mura del cimitero, ho pensato, ci sono più persone che non là fuori. C’erano fotografie di vecchi e bambini.

Questo significa che in questo paese si ha fretta di morire, oppure ci si dimentica di farlo in tempi ragionevoli. In fondo, pensavo, ognuno di noi passa la vita a progettare la propria morte. Ed è un progetto rigoroso, della massima serietà. L’unico alla portata dell’uomo. Qualsiasi altro proposito si rivela irrealizzabile. Persino la gente che ricorre alle cure dei medici, in realtà sta perseguendo il proprio progetto di morte. Non si può delegare la realizzazione di un simile progetto alla natura.

Mentre mi perdevo in pensieri di questo tipo, mi sono ritrovato, chi sa come, davanti alla tomba del vecchio. Sarebbe comodo ricorrere al caso, ma sarebbe ancora più comodo evocare una forza superiore. Non credo a un bel niente, so solo che mi sono ritrovato davanti alla sua fotografia. C’erano incise delle date. Nella foto era esattamente come lo ricordavo. Di fianco alla sua lapide, c’erano quelle della moglie e dei figli. Le loro fotografie erano molto più antiquate, sembravano scattate agli albori della fotografia, con qualche macchinario finito in disuso e rimpiazzato dal suo corrispettivo digitale. La donna non era come l’avevo immaginata, ma forse, nel frattempo, erano mutati i criteri di giudizio della bellezza femminile. Era robusta, aveva uno sguardo solido, marmoreo, perso in un punto inaccessibile ai miei occhi. Immagino osservasse il rogo che divorava i suoi figli. Questi erano piccoli e malinconici. C’era qualcosa di incompleto nella loro fisionomia, qualcosa di allucinato nei loro occhi.

Fissai lo sguardo sul vecchio. Secondo un pregiudizio diffuso, alcune immagini ci riporterebbero indietro nel tempo, sottraendoci al momento presente, in maniera inconsapevole e improvvisa. Al contrario, fui costretto ad uno sforzo notevole, per ricordare i momenti trascorsi nella bottega di Dante Pisciottu. Inizialmente era un artigiano apprezzato, capace di realizzare qualsiasi oggetto. Sapeva intagliare e scavare il legno con la minuziosa e paziente disinvoltura che contraddistingue i grandi artisti. Produceva cornici, letti, credenze, calzature e persino casse da morto. Era capitato che anche degli esperti d’arte, passati per caso nella sua bottega, si interessassero alle sue creazioni. Era utile alla comunità: questo lo rendeva un individuo rispettabile.

Tutto ciò mutò dopo l’incendio. Dante Pisciottu venne gettato nel discredito dalla comunità di cui era stato parte integrante e produttiva. Ignorava le richieste dei clienti. Quando gli veniva commissionato un oggetto di uso quotidiano presentava, al suo posto, creazioni inutili e grottesche. La gente non sapeva che farsene, nemmeno le capiva, non riusciva a collocarle in nessuna delle categorie convenzionali su cui si fonda l’ordine sia pure provvisorio del mondo. Così si rifiutavano di pagare, e Dante Pisciottu, seguendo una successione di eventi logica e rigorosa, dopo la rispettabilità, perse anche la sua modesta ricchezza.

Sulle testate dei letti raffigurava volti raccapriccianti dall’anatomia incerta. A dire il vero tutti gli oggetti che produceva sembravano rappresentazioni fedeli della sua condizione. Dava forma a un’umanità parallela, composta da uomini e donne, anche se era difficile distinguere gli uni dagli altri, collocati ai margini della società, sfigurati in maniera definitiva. In un volto potevano trovarsi più di due occhi, e talvolta nessuno. E quelle bocche non potevano comunicare altro che dolore. L’anatomia mostruosa delle sue creazioni doveva impedirne una corretta fisiologia. Un altro aspetto significativo erano le proporzioni di tali oggetti. Nel tempo rimpicciolivano, Dante Pisciottu costruiva statuine sempre più piccole e tormentate. In occasione della mia prima visita nella sua abitazione, ebbi modo di osservare alcuni di questi esemplari.

Un cane gironzolava spesso intorno alla casa, pisciava in un angolo, spazzava via un po’ di polvere con le zampe posteriori, e si lasciava cadere pigramente accanto all’ingresso. Grazie alla mediazione di quel cane riuscii ad entrare, un giorno in cui, dopo ore di attesa nella mia postazione di guardia, finsi di interessarmi a lui e lo seguii nel cortile dietro casa, al quale si accedeva attraverso una porticina di canne. Mi imbucai senza nessuna esitazione. Mi ritrovai all’interno di uno spazio delimitato da assi di legno, in cui il suolo non era curato e le erbacce crescevano fino a raggiungere e superare la mia altezza. Mi sentii osservato. Altre volte, nella casa dei nonni, avevo avuto la sensazione che i mobili trattenessero il respiro e mi osservassero.

Ora sentivo nuovamente su di me il peso di numerosi occhi inumani. Girai lo sguardo e vidi dei manichini a grandezza naturale. Non riuscii a capire a cosa potessero servire. Forse si trattava di modelli da sartoria, ma c’era qualcosa di patologico nelle loro fattezze. Solo in seguito scoprii che nelle loro posture scomposte era contenuta un’anticipazione di una nuova mobilità alla quale sarei stato introdotto successivamente, quando imparai cosa significa soffrire e provare piacere. Molti di quei manichini erano stati quasi del tutto nascosti, o addirittura assorbiti dalle piante infestanti. Li osservai confuso. Dopo avermi attratto con lo sguardo, sembravano sul punto di rivolgersi a me in un linguaggio umano. Ma, improvvisamente, ne fui distolto da un rumore gutturale, seguito da uno sputo sonoro che perforò il silenzio e mi restituì al momento presente.

Dante Pisciottu se ne stava appoggiato ad una trave, con il cane fedelmente accucciato tra le gambe. Mi sembrò cieco, i suoi occhi erano gelatinosi, ricoperti di cataratte oltre le quali si vedeva appena l’iride azzurra, come immersa sul fondo di un bicchiere di latte andato a male. Gli occhi del cane, al contrario, erano netti e lo sguardo aveva un che di vigile e indagatore. I suoi occhi erano gli occhi del vecchio. Il cane si distese con il muso premuto sul pavimento della veranda e una chiazza di bava si dilatò intorno alle fauci, evidentemente mi riteneva innocuo. Dante Pisciottu si girò lentamente e scostò la tenda. Interpretai quel gesto come un invito. Lo seguii e entrai in una stanza buia dalla quale erano stati rimossi tutti i mobili.

La descrizione dell’interno della casa è affidata a parole che all’epoca non conoscevo. In quel momento provai un senso di liberazione, ma durò pochi istanti. Mentre mi liberavo dell’angoscia precedente, una nuova angoscia iniziava a opprimermi. In un angolo era allestito quello che in un primo momento mi era sembrato un presepio. Dante Pisciottu era sparito, lo sentivo armeggiare con oggetti di vetro e latta nella stanza attigua. Mi avvicinai alle statuine e le osservai da vicino. Erano solo riassunti approssimativi di esseri umani. Alcuni caratteri erano esagerati, altri erano assenti. C’erano statuine che si distinguevano per un unico particolare, non avevano né braccia né gambe né volto, ma solo un orecchio o un orifizio che poteva essere la bocca o l’ano, o ancora un naso o una cavità oculare vuota.

Il corredo ricordava la stanza in cui mi trovavo, ma c’erano due lettini, un armadietto, due paia di calzature da bambino, giocattoli, sussidiari. Il tutto era riprodotto con un realismo che contrastava con lo stile fantastico delle statuine. L’ordinaria banalità della scenografia esaltava le menomazioni. Si era portati a credere che fosse l’ambiente domestico ad aver plasmato le creature. L’insieme formava un discorso, le cui premesse erano espresse dalla convenzionalità della stanza, ma fin dal principio era chiaro che l’autore volesse denunciare la pericolosità dell’ordine domestico.

Le considerazioni attuali non fanno che sovrapporre a quel discorso un altro discorso, che ero incapace di formulare in quel momento. Questo è il risultato della sovrapposizione di due momenti nel tempo, due discorsi convergenti nel medesimo spazio angusto. Mentre osservavo il presepio sperimentavo gli effetti di una rivelazione che non aveva bisogno di mediazioni linguistiche. D’altra parte nemmeno il vecchio sarebbe stato in grado di argomentare il significato della sua creazione.

Poco più in là, oltre la porticina in scala ridotta, un’altra statuina giaceva solitaria. Questa dev’essere la madre, pensai. Era accasciata, prostrata. In mezzo a quelle creature non riusciva a riconoscere i suoi bambini. Mi accorsi che oscillava. La porta del cortile era rimasta aperta, e lasciava entrare un venticello leggero. Seguendo la planimetria della casa indovinai l’ubicazione della stanza in cui Dante Pisciottu attendeva il mio arrivo. C’era un tavolo, delle stoviglie, una stufetta. Mi alzai senza distogliere lo sguardo e mi avviai meccanicamente alla porta. Superata la soglia mi ritrovai in un andito ancora più buio, era lì che doveva trovarsi la madre.

Spinsi un’altra porta e trovai Dante Pisciottu seduto su una sedia. Il tavolo era stato rimosso, e anche la stufetta. Mi accolse con un’espressione del volto al contempo colpevole e accusatoria. Il suo sguardo errava sulle pareti, poi si fissava su un particolare visibile unicamente a chi avesse il dono della cecità, parziale o totale. Non avrei capito granché di Dante Pisciottu, se prima non avessi osservato le sue statuine. Erano un controargomento, la sua difesa dalle dicerie della gente. Ora sembrava possibile un contatto, che però continuavamo a rimandare. Su una sedia aveva posato un bicchiere di vetro, mentre lui beveva da una scodella di latta. In sua presenza, me ne rendo conto solo ora, non potevo pronunciare parole di cui non avessi avuto un’esperienza immediata che coinvolgesse il corpo prima ancora delle capacità combinatorie della mente. Parole che avessero un legame di parentela con le sensazioni più primitive, nate tra la lingua e il palato seguendo il processo minuzioso che porta alla formazione di una pietra preziosa. Uno pensava cicatrice e immediatamente sentiva la superficie di una cicatrice aprirsi sotto la lingua.

Afferrai il bicchiere, era caffè, che mi era proibito bere. Lo inalai. Mi aspettavo che da un momento all’altro pronunciasse la parola fuoco, o incendio. Bisognava evocarlo, prima o poi, e pregare che si estinguesse. Ma poi… un’altra parola si impose tra le altre, una parola che aveva intrapreso, prima ancora del mio ingresso nell’abitazione di Dante Pisciottu, un lungo itinerario che l’aveva condotta nella mia bocca da una distanza siderale. Quasi balbettando la pronunciai, senza sospettare gli effetti che avrebbe prodotto. La madre, dissi. E fu come se una fune robusta, estenuata da secoli di tensione estrema cedesse, facendo precipitare un intero edificio di pietra. Il silenzio inghiottì la parola, dopo averla ruminata a lungo. In questo momento, però, mentre scrivo il resoconto del nostro incontro, ho il sospetto di inventare una storia. Ho paura di mentire.

L’ho detto oppure no? Non ne sono più sicuro. Se l’avessi detto, forse non ci sarebbero state le visite successive, non si sarebbe instaurato un rapporto, sia pure distante, tra me e il vecchio. Non mi avrebbe parlato dei bambini. Ma forse… è proprio perché l’ho detto che in seguito è stato possibile nominare i bambini. I loro nomi. Ad ogni modo… Il caffè era diventato freddo, non profumava più. Ricordo, poi, di aver salutato il vecchio, ed essere uscito all’aria aperta, dove inspirai una lunga boccata d’aria fresca, muovendo i primi passi incerti che diventarono gradualmente una corsa forsennata verso casa dei nonni. Prima di entrare mi fermai a guardarli dalla finestra. Erano seduti a tavola, immersi nella luce opaca del lampadario come sul fondo di una palude. Una pacifica quanto assurda famiglia di animali palustri, ho pensato, o meglio, è proprio così che li ho visti e ora non faccio che spiegare la mia visione. Mi apparvero inquietanti ed estranei.

Intanto la Teoria della madre prendeva forma dentro di me. La mia prima teoria, formulata d’istinto, lentamente si dipanava in lunghe e complesse frasi compiute. Ipotesi e deliri, senz’altro. La mia prima teoria mi costringeva a distogliere lo sguardo dal mondo apparente per crearne uno parallelo, solo mio. Dopo la visita al cimitero sognai la famiglia di Dante Pisciottu. Erano felici, stranamente felici, inverosimilmente felici. I bambini erano innocenti e Dante Pisciottu non sospettava niente. Svolgevano le consuete azioni quotidiane che, osservate una per volta appaiono insensate, ma nel loro insieme costituiscono una specie di ordine. Prima di rincasare dal cimitero presi la strada per la chiesa. Dagli scalini si vedeva il rudere della casa. Il tetto era collassato, e tra le pareti era cresciuto un fico moresco. La gente che era andata a fare visita ai propri morti e attendeva la corriera si inerpicava per acciuffare i frutti maturi. La nostra condizione è provvisoria – così ho scritto su un pezzo di carta, – entriamo e usciamo dall’umanità, senza rendercene conto. Le campane hanno suonato. Era tutto limpido e definitivo, ma è durato poco, come tutto il resto.

Che bello essere ossessivi. Per Gianluca Garrapa

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di Leonardo Canella

0. senti che ritorna, ossessivo. Tanto ossessivo. Ossessivo ti ritorna e ritorni ossessivo su quello che TU hai detto scritto fatto. Ossessivo. Tanto. Per umbram putrida gutta cadebat, ossessiva pure lei. La goccia. Che cade. E tu oggi OSSESSIVO prepari il tuo sughetto al pomodoro preferito che c’è caduta una goccia di moccio (il tuo) nel tuo sughetto al pomodoro preferito, gocciagutta cadebat (cfr.supra). Che tanto la Polly non se ne accorge, pensi OSSESSIVO. NO, se ne accorge! Forse no! Ossessivo.

1. Un lungo momento di assenza di Gianluca Garrapa c’ha la goccia pure lui. Ossessivo. 73 pagine di frasi brevi, una accanto all’altra. Un tappeto sonoro di frasi accostate ossessive che strattonano il flusso della trama (per chi legge un fastidio, voluto. È la goccia di muco nel tuo sughetto al pomodoro preferito, gutta cadebat…). Dici narrativa, ma della trama c’è solo l’eco. Ossessiva pure lei. Se stacchi le frasi fra loro ne ottieni pepite di pixel lucenti. E autonome. Poesia, diresti.

2. anche Gianluca Garrapa (1975) è risucchiato dal 1970, il baricentro di una generazione titillata dai media elettronici. ‘Sii breve e leggero’ c’è scritto nel DNA di questi autori. E comico. La lunghezza non fa per loro, si annoiano in fretta. Se provano a fare narrativa, magari, la spezzettano. Gettano ponti sul flusso della trama con moduli separabili (capitoletti, frasi). E intercambiabili, anche. Un’ondata di oralità titillante. Se ne vuoi sapere di più ti consiglio l’Antologia di RicercaBo. Laboratorio di nuove scritture (2007-2023), Manni 2024. E’ l’unica antologia italiana a incastrarsi fra le dita dei piedi, nel caso.

3. ora vai su Facebook. Garrapa fa palestra di scrittura sui social. Io gli scrivo: “Gianluca, se senti prurito alla chiappe sono io che sto scrivendo di te”. Ho fatto copia e incolla di un messaggio su WhatsApp. È un frammento di vita, un po’ scontato, un po’ facile. Vivo, forse. Fragile, zampetta e fa puzzette sulle altre parole di questo testo. Ecco, la mia generazione fa tante puzzette. La tecnologia elettronica ci fa fare tante puzzette. Ed è cosa buona.

4. così su Facebook Gianluca fa giochi di parole. Puzzette. Una sua foto, pochi oggetti, una parola ‘scartata’ (‘oltraggio al pubico pudore’). Vai a vedere. Puzzette profumate (non tutte di uguale intensità). Vita acchiappata. È la goccia che cade sulla tua lingua e attiva le papille gustative del pensiero, dei sensi. La Polly tettinedorate sul divano con le Nughette di Canella, la Dimmy dirimpettaia che spara al marito, il profumo del tuo sughetto al pomodoro preferito con goccia di moccio, la TV a tutto volume. Gutta cadebat…Un attimo bello così, da vivere. Ossessivo.

5. Un lungo momento di assenza. Il nome di Ramon, il protagonista, è ripetuto ossessivo. Gutta cadebat…Goccia che cade centinaia di volte e crea un’eco sulle altre parole intorno a sé. Un tappeto sonoro di frasi accostate ossessive che strattonano il flusso della trama, ti dicevo. Ramon è l’autore che spinge la sua mente, i suoi sensi a iniettarsi ossessioni e allucinazioni, per umbram putrida gutta cadebat...L’autore è cavia di se stesso. Mi piace pensare che Gianluca sia felicemente inquieto, umorale. Beati gli inquieti (leggo che è counselor a orientamento psicanalitico. Che non so cosa voglia dire).

6. Eccoti infine cinque gocce del testo che cadono ossessive: “1) Ramon galoppa sulla follia e il mondo lo vede surfare sull’onda della creatività. 2) Ramon accoglie tuttavia le allucinazioni perché col tempo ha esperito che sono fessure oltre le quali si può scorgere l’oscuro passato. 3) Ramon non è mai soddisfatto di sé e dopo cena si mette di buona lena a distruggere tutto quello che ha scritto fino a quel momento. 4) Ramon non sapeva che l’allucinazione è più sopportabile della realtà. 5) Ramon segue il volteggio elicoidale di una foglia di tiglio, dehors del bar, terrazzo sul fiume, la plastica ruvida….”.

Il vagabondo ferroviario e le isole che si vedono dalla Liguria

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di Marino Magliani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualche anno fa lessi una vecchia intervista, l’aveva rilasciata Duilio Cossu, un amico di scuola di Italo Calvino. Gli chiedevano a quando risaliva, secondo lui, la passione di Calvino per la letteratura, e lui rispose che probabilmente era nata ai tempi dell’adolescenza. Uno dei primi progetti di narrazione di Calvino, infatti, disse Cossu, raccontava le avventure di due bambini degli anni Trenta, appassionati di calcio. Il campo da gioco era un carruggio e al solito il pallone si perdeva in discesa per le scalinate e sotto i portici della Pigna, e a volte, giù verso il mare. Recuperare il pallone faceva parte del gioco, fin quando un giorno, un rimbalzo non fece finire il pallone oltre la linea ferroviaria, e rientrarne in possesso diventò un’impresa, perché le mamme dei bambini avevano ordinato loro di non attraversare i binari. Mai, per nessun motivo. Siccome uno dei bambini non ci stava a perdere il pallone, e neanche a disubbidire, disse all’amico di aspettarlo lì, che lui andava a vedere dove finivano i binari, insomma, una volta alla fine faceva il giro, recuperava il pallone, rifaceva il giro e tornava a Sanremo. Ma era troppo bambino per sapere che i binari sono infiniti, forse anche quelli tronchi. Anche il ragazzino Calvino, inventore della storiella, ignorava una cosa: esattamente in quegli anni – era la fine della Belle Époque a Sanremo -, a un bambino vero capitò di perdere in quel modo il pallone e allora, per recuperarlo, venne in mente anche a lui di andare a vedere dove finiscono i binari. Calvino quella storia non la scrisse mai, però col tempo venne a sapere che un bambino vero aveva fatto ciò che lui aveva immaginato. E col tempo il bambino vero, diventato poi adulto e infine vecchio – un vecchio vagabondo lungo i binari – seppe che il famoso scrittore Calvino aveva inventato la sua storia, e l’aveva popolata di personaggi reali come Walter Benjamin, morto a Port Bou, ai piedi dei Pirenei, dove i binari terminano davvero perché oltre, nel sistema ferroviario della Spagna, i binari sono a scartamento ridotto.

Così, il vagabondo vero da ragazzo conoscerà il segreto delle isole liguri che Benjamin ha portato con sé, là, a occidente, dove finiscono i binari, e imparerà le teorie delle isole da un pittore di Alassio, e solo alla fine, quando ormai ha capito da sé che i binari verso levante non finiscono mai, e torna indietro, ormai vecchio e malato, ripassando da Alassio, sulla strada per Sanremo, scoprirà che il pittore delle isole era Carlo Levi, l’amico di Italo Calvino. Il giorno in cui, sebbene i binari non chiudano nessun cerchio, il vagabondo arriva a Sanremo, egli si ferma a guardare la città e va nella piazzetta sopra la ferrovia (ora la ferrovia passa all’interno della città, in una galleria) e si incanta a guardare dove è iniziato tutto quanto. Secondo il progetto letterario di Calvino, a quel punto il vecchio vagabondo letterario incontra la madre rimasta giovane, e in effetti anche il vecchio vagabondo vero rivede la madre rimasta ad aspettarlo come se il tempo non si fosse consumato. Potrebbe essere la malattia, l’ossigeno che non giunge più a sufficienza al cervello, ma alla fine il motivo per cui egli vede la madre non lo sappiamo e non importa, e neanche Calvino sta a cercare spiegazioni. La vede, semplicemente, ed è una bella madre, l’abbraccia, si fa abbracciare. Non tornano a casa, ma preferiscono andarsi a sedere su una panchina, lungo la stupida (secondo lui) pista ciclabile che ha sostituito la vecchia ferrovia. Il vecchio vagabondo, debole e assetato, desidererebbe mangiare un’anguria e la madre gliene compra una bella matura e gocciolante. La compra e se la fa tagliare dal contadino che traffica in un orto, prima del tramonto, fuori Sanremo.

Il vecchio vagabondo sa che gli resta giusto il tempo di quell’anguria, per questo la mangia lentamente, fermandosi a lungo davanti agli orti e al mare prima di chiedere alla mamma l’ultima fetta. Ma la mamma gli ha mentito, e forse lui l’aveva capito da tempo, la penultima fetta era l’ultima.

 

NdR questo testo è stato letto da Marino Magliani alla cerimonia di consegna del Premio Alassio 2024, nel quale era finalista il suo romanzo “Il bambino e le isole” (edizioni 66thand2nd, 2023)

L’immagine: opera di Sergio Ciacio Biancheri (fotografia di Giorgio Loreti)

 

Sui “Truisms” di Jenny Holzer

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Il 31 dicembre alcuni di noi hanno perso un caro amico, un compagno d’avventure letterarie e intellettuali, Alessandro Broggi. Tutta Nazione Indiana, però, ha perso un ex-redattore, che ha lasciato di sé il ricordo di una rara capacità di ascolto e di dialogo, di autonomia radicale e, nello stesso tempo, di attenzione ai percorsi e alle posizioni altrui.

Lo vogliamo ricordare, oggi, assieme agli amici e ai famigliari che si sono riuniti per rendergli un saluto collettivo a Ligurno (Va).

Pur essendo un autore estremamente consapevole dei suoi mezzi, e costantemente attento ai presupposti teorici del fare artistico, Alessandro Broggi ha scritto raramente interventi saggistici e di critica. Anche per questo motivo, vogliamo ricordarlo, ripubblicando un suo pezzo sull’artista statunitense Jerry Holzer, apparso inedito su Nazione Indiana, nel 2012, nel periodo in cui era membro attivo delle redazione.

La redazione

(La foto di Alessandro in homepage è di Gianluca Codeghini)

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di Alessandro Broggi

A partire soprattutto dagli anni ’60, molti artisti più o meno impegnati, concettuali e non, hanno iniziato a produrre opere che andassero oltre i supporti tradizionali della pittura e della scultura, utilizzando il video, l’installazione, la fotografia e ogni sorta di medium estraneo agli abiti dell’arte precedente. Altri, tra i materiali stessi della loro ricerca hanno spesso scelto parole e frasi della lingua naturale.

Trentacentesimi

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di Massimo Salvati

Lee Friedlander, Wilmington, Delaware, 1965

 

Sembra tutto un super cadere, un super morire: la cosa peggiore potrebbe essere andar via con tutti i pregiudizi intatti. Pensava a questo, di preciso, quando la paura è iniziata; di ritorno verso la stazione, dopo aver svoltato su un viale in cemento, fissando il cartoncino rosso con il logo dell’ennesima fiera editoriale, M. ha sentito un improvviso sapore metallico sulla punta della lingua, come se il corpo lo sapesse già prima.

Una paura che non è riuscito a spiegarsi, anche se in realtà non nuova: la mattina stessa, tra la defecazione e una rapida pulizia post coito, prima di tornare a praticare lo sport della distrazione, M., come altre mattine, aveva osservato il proprio viso allo specchio, alla ricerca di segni particolari e qualcos’altro che non saprebbe spiegare. E così l’aveva vista: tra il nero della pupilla e l’assenza di sorriso, sulla guancia: una macchia densa e fresca che perdeva consistenza in maniera progressiva, dipanando mucosa ovunque. Un insieme di dopobarba, peli, pelle e sangue che ha lavato via passando la lama del rasoio in maniera decisa e senza esitare, come gli aveva insegnato suo nonno. Ma la macchia, o il suo alone, era rimasta lì, solo meno evidente.

La sensazione di non pulito è rimasta latente finché non l’ha visto attraversare la strada. Con passo strascicato gli è venuta incontro una figura di una magrezza inverosimile, sottile, nascosta da una felpa gialla oversize, che muoveva le gambe di una lunghezza impressionante, da sembrare finta: la persona più alta che avesse mai visto. E gli sembrava di poter sentire quella macchia vischiosa sulla lingua, la bocca impastata di paura. M. aveva davanti a sé l’uomo più alto del mondo.

«Hai ottanta centesimi?» gli ha chiesto con un sorriso turbato senza inclinazioni, dritto, quasi disegnato. Istintivamente, M. ha messo una mano in tasca e ne ha estratto una moneta che ha colpito le chiavi di casa. Allora, il tintinnio metallico gli ha fatto incrociare lo sguardo del ragazzo, strabico e un po’ spento, di sospetto.

«Ne ho solo cinquanta» ha risposto M., e questa richiesta esaudita a metà, questo suo gesto incompiuto, ha fatto gonfiare le labbra del ragazzo, piegare gli angoli della bocca trasformandola in una smorfia esagerata di tristezza.

«Davvero non ne hai altri trenta?».

«No, mi spiace».

«Va beh. Verso dov’è la stazione?» ha detto con accento locale.

«Di là» M. ha tracciato un segno con la mano in direzione del viale, fissando l’enorme testa glabra chiazzata di diverse tonalità rosa e lilla, i pezzi di barba rossiccia e rada sul mento, gli occhi scavati da profonde occhiaie.

«Allora andiamo nella stessa direzione, vengo dietro a te» Ha detto con naturalezza e M. non ha detto nulla; si è limitato a sorridere così come sua madre gli ha detto di fare con gli sconosciuti, in un generale senso di pietà come a dire ‘chiunque ha amato e sofferto come te e non c’è differenza’.

«Sono rovinato» ha poi detto il ragazzo. «Sono rovinato» ha ripetuto. «Sono mesi che non pago l’affitto. Se non trovo i soldi domani mi sfrattano di casa».

«Mi dispiace» si è limitato a dire M. «Non deve essere facile» ha aggiunto, guardando fisso in strada con un fischio in testa, mentre con gli occhi contava il numero dei passanti che sempre meno sfilavano a fianco, guardandoli come una strana coppia.

M. non ha saputo spiegarsi questa paura, di solito si muoveva sciolto tra i piccoli delinquenti e gli spacciatori di strada. La settimana precedente aveva cercato una cartina lunga battendo pezzo pezzo tutta la piazza davanti la Stazione Centrale di Milano, di notte: i militari si tenevano lontani dalle persone, macchie verdi sparse lungo il perimetro, mentre lui, con il fumo in mano attaccato al palmo, valutava di gruppo in gruppo la giusta distanza da rispettare. Quando era a due tre metri cominciava a strisciare la suola della scarpa per avvisare del suo arrivo, e appena loro ne registravano la presenza, lui faceva il gesto del rollare posizionando gli indici dritti in orizzontale e i pollici in parallelo, facendo slittare lentamente i secondi sui primi, così quelli potevano limitarsi a scuotere la testa, fare un cenno di assenso e M. aveva comunque il tempo di filare in caso di eventuali problemi.

«E no. Non è mica facile ma intanto di lavoro non ce n’è» ha risposto il ragazzo mantenendo la bocca mezza aperta. M. riusciva a vedergli i denti gialli un po’ larghi e diverse carie. «Dimmi te io che devo fare» insisteva lui. «Dimmi te uno come fa. Sono dieci mesi che non pago l’affitto».

M. ha cercato di farlo camminare davanti, di tenerlo a vista, rispettare una distanza e stare sempre più accorto, sempre più vurpignu avrebbe detto suo zio. «Ti capisco», una frase uscita più come automatismo che come vero pensiero.

«Mi capisci, certo. Tu dove vai?». Ha detto lui cambiando discorso.

«A Bologna» M. ha risposto istintivamente mentendo.

«E come ci arrivi?».

«Prendo un paio di regionali, arriverò stasera tardi».

«Eh sì, con il regionale puoi anche non fare il biglietto».

«Certo»

«Sono davvero rovinato. Vivi a Bologna? Lavori?»

«Sì. Faccio il rider. Vivo in una casa con altre tre persone».

«Ah, sì? E quanto prendi?»

«Cinquecento più o meno, dipende».

«E in che zona vivi?»

«Bolognina».

M. ha avuto il dubbio improvviso di averlo già incontrato un mese prima, e proprio a Bologna, quando aveva deciso di passare la notte, o quello che ne rimaneva, al parco di Villa Angeletti, dopo aver accompagnato tutti i suoi amici in carsharing. Non c’era posto per lui in studentato, seppur conoscesse diverse persone e gli capitasse spesso di essere ospitato di nascosto, entrando dal parcheggio sotterraneo delle bici; allora un ragazzo con la stessa espressione turbata, calvo e con gli occhiali, gli aveva dato delle lenzuola vecchie e un cuscino con una federa pulita. Gliele aveva date controvoglia ma l’edificio non era lontano dal parco, gli aveva detto M., e gliele avrebbe riportate l’indomani. Si era risvegliato alle undici di mattina confuso e solo, il rumore di centinaia di cicale, il telefono scarico e un bus da prendere. Aveva lasciato tutto lì ed era andato via.

«E com’è Bolognina?»

«Un quartiere di merda» gli è uscito spontaneo.

«Ah, è di merda?». Il ragazzo ha piegato ancora gli angoli della bocca.

«No. Cioè. Ci sono alcuni disagi. Sai, problemi di quartiere». M. ha fatto una pausa «Persone che creano problemi».

«Ah sì, le case occupate».

«Eh, sì».

M. si è accorto di avere la camicia fradicia, ma di un sudore diverso, appiccicoso. Una sensazione melmosa che ha cominciato a germinare. Qualcosa si muoveva, ramificava da dietro al collo fin dentro l’encefalo, diramandosi ai nervi, al resto della corteccia e poi giù dalla trachea fino ai bronchi.

«Ma sei calabrese?».

«Sì». M. pensava solo agli ultimi cento metri che lo separavano dal piazzale della stazione.

«Di dove?»

«Crotone». Ha continuato a mentire.

«E si lavora a Crotone?».

«Se hai i contatti lavori al porto, o in qualche impresa edile. Ma solo se hai quelli giusti».

«E tu non ce li hai gli agganci?». Ha sorriso.

«Non quelli buoni. Altrimenti non starei in Bolognina, no?». Gli ha sorriso anche lui mentre già pensava al primo treno da prendere, a fumare una sigaretta in pace.

«Tagliamo di qua, si fa prima» ha detto il ragazzo a M. svoltando in una traversa deserta, stretta e corta, che hanno attraversato in silenzio. «È stato un piacere» gli ha detto improvvisamente quasi in prossimità del piazzale. «In bocca al lupo per tutto. Sei stato gentile». E lento e curvo, come se lo facesse con sforzo, ha teso la mano a M. mentre lo guardava negli occhi.

M. ha visto la delusione per quei trenta centesimi mancati. E chiaramente, ha pensato, stava per succedere proprio lì; lo sguardo si è fatto meno presente. Il ragazzo ha aperto lentamente il palmo verso M., muovendo le dita lunghe e sottili l’ha prontamente preso dalla mano e l’ha tirato in avanti, con un sorriso plastico. «Facciamo che me li prendo da solo». Gli ha messo una mano in faccia sbattendolo contro il muro. Con l’altra ha iniziato a ravanargli nelle tasche, poi nei pantaloni, e ha stretto la pelle che sembrava potesse strappare via con facilità. M. ha tirato un urlo, strozzato dall’enorme mano sulla bocca. Poi c’è stato un colpo sordo: le tende ad anelli della palazzina di fronte si sono scostate. Qualcuno ha filmato dalla finestra di un piccolo loft. Qualcun altro è rimasto all’inizio della strada a guardare. Diciotto occhi e due cellulari hanno ripreso il corpo di M. rimanere in piedi dopo il primo pugno e arretrare di un passo; il secondo più aperto e con più aria che ha rotto le difese; il terzo che è arrivato di rovescio e il corpo che volava come una pagliuzza al vento fino a terra dove è rimasto: non ha strisciato, non è scappato, non ha provato a rialzarsi mentre lui lo calciava in faccia. M. ha solo protetto la testa e poi, dopo che la scarica è finita, si è toccato la punta del naso, non trovandola, mentre con gli occhi seguiva piccole stelle che evaporavano al buio. Un conato e del sangue caldo colava sul marciapiede. Il ragazzo l’ha osservato per qualche secondo, qualche spasmo ne rivelava ancora un po’ di vita. Ha afferrato lo zaino e il giacchetto da terra, mentre M. provava a vincere il rumore di uno scroscio presente, che rendeva tutto indistinto, qualcosa che gocciolava e gli apparteneva. Intorno, la strada evaporava, ha sentito dei passi come di gregge, prima vicini e poi sfumati in un’eco che svaniva, mentre guardava quelle gambe lunghissime perdersi tra altre più piccole, fino a venire inghiottite dall’ingresso della stazione.

Se tutto questo fosse successo, se quel ragazzo l’avesse pestato a morte invece che andarsene per la sua strada, lasciandolo impietrito e così astrattivo; se M. fosse volato via da qualche parte, o solo dove voleva andare e magari proprio dietro a lui, e l’avesse seguito all’interno della stazione, fin dentro i bagni pubblici, avrebbe visto quel ragazzo fissarsi allo specchio intento a tastare la consistenza di una macchia nera su tutta la fronte e il naso, piena di venature biancastre e pus,  che quasi gli colava negli occhi. L’avrebbe visto toccarsela a lungo per poi provare a dimenticarsene tirando coca sul lavandino, comprando un panino al McDonald e chiedendo qualche spiccio in giro ancora per qualche ora, prima di tornare a casa da sua mamma.

Invece, M. ha dato un rapido sguardo al tabellone delle partenze, è andato al binario sette, ha aspettato il treno per Firenze e ci è salito. Ha fatto un rapido controllo per capire se mancasse qualcosa: la giacca Corneliani in mano, le cuffie al collo Bose, lo zaino chiuso The bridge, la borraccia laterale 24bottle. Nella tasca sinistra della giacca un Samsung e il portafoglio sempre The bridge, nella destra un pacchetto nuovo di Winston, le chiavi di casa e anche altri trenta centesimi.

A controllo finito, ha avuto di nuovo quella sensazione di paura. Sentiva quella melma giù per la gola, che pulsava acida fin nella bocca dello stomaco. Era lui, il suo pensiero sporco, il pregiudizio. Ci ha pensato un’ultima volta, sul treno, prima di addormentarsi.

 

Les nouveaux réalistes:

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Fuoco

di

Alessandro Maria Flavio

 

I tacchi dei miei stivali battono le strade della città. È notte tarda. La calca di turisti ansiosi di osservare le donne in vetrina si è dispersa. Alcune siedono ancora nelle stanze irrorate di luce rossastra, forse in attesa che sopraggiunga l’ora nuova. Mi sono sempre chiesto quanto costi affittarle. Le stanze, intendo. Quanto costano le donne lo so bene. Ho origliato le contrattazioni di alcuni connazionali, ragazzini che se lo rasano per farlo sembrare più lungo. Riconoscerli è facile. Se ne stanno ai margini della folla a confabulare, la dentatura in vista. Sebbene nessuna delle persone che gli sfila di fianco ne conosca l’identità, provano imbarazzo, al punto che prima di decidersi a fare il grande passo si devono stordire con un paio di canne. I loro occhi, stritolati dal gonfiore delle palpebre, ricordano quelli di certi pupazzi animaleschi con cui giocavo da bambino. Assieme alla loro immagine, mi ritorna in mente quella della casa in cui trascorsi prima l’infanzia, poi la pubertà, e infine l’adolescenza. Mi scuso, quello meticoloso mi ha fatto notare che ho mancato di precisione. Non si tratta tanto di un’immagine, quanto di un eccesso percettivo da cui si staccano dettagli minuscoli, la cui nitidezza vive un istante. L’argento dell’onda increspata a largo; lo scricchiolio di una tettoia; i teli bianchi sulle barche e le canotte, altrettanto bianche, sui petti ustionati di uomini ormai scomparsi.

Forse quelle donne sigillate provano la tua stessa malinconia, dice quello sensibile. Provengono anche loro da paesi lontani, contrade sgangherate dai nomi sibilanti e misteriosi. La malizia nei loro sguardi ha lasciato il posto a umori più miti. La ricettività verso ciò che accade al di là del vetro è svanita, come a seguito dell’azionamento di un interruttore. Se si togliessero le uniformi da lavoro, parrebbero gente comune di questa città, dove le case hanno finestre ariose, senza tendaggi, e si è invitati ad ammirarne la vita interiore.

Le vetrine mi sfilano di fianco, sdoppiate e capovolte dalle acque dei canali. Paralleli agli argini, ai piedi delle barche ormeggiate, i cigni si accovacciano nell’oscurità. Sferzato da una folata di vento, stringo il bavero della mia giacca, camminando curvo. Mi sto dirigendo verso casa, e ho un occhio più chiuso dell’altro. Suppongo per via della stanchezza. Le mie gambe si muovono per inerzia, eppure non mi sento spossato. Vengo dal mio posto di lavoro, un ristorante giapponese a pochi minuti di cammino da casa. Lì sono una specie di tuttofare: cucino, pulisco, accolgo e intrattengo i clienti con le capacità linguistiche che mi ritrovo. Sono in grado di spiegare grossolanamente le differenze tra i vari tipi di ramen che abbiamo in carta, che poi sono tre. Non conosco l’esatta composizione di ognuno. Per il resto vado a braccio, mi servo del mio povero vocabolario in cerca di qualche nuova combinazione. Infarcisco frasi semplici di espressioni idiomatiche per risultare spigliato. I miei interlocutori provengono da ogni provincia danarosa del pianeta. Quando sono in cucina, invece, non parlo con nessuno. Intendo dire che non posso. I miei colleghi non spiccicano una parola d’inglese, la nostra comunicazione è tutta gestuale. Questo mi obbliga a osservare.

Nello svolgimento del lavoro, la pelle cerea e perfetta dei loro visi non si tende mai. Nessuna grinza che segnali tensione o turbamento. Le loro bacchette si muovono svelte, afferrano minuscole stringhe di cavolo viola al primo tentativo, riponendole sul bordo della ciotola, oppure sollevano dal brodo una manciata di noodles intrecciati, disponendoli così da formare un letto flessuoso, magicamente in ordine. Ogni cosa ha il suo posto, e il suo tempo. Anche quando il ritmo è elevato, ogni ingrediente viene posizionato nella ciotola con la stessa cura, formando un bouquet di colori dall’aria primaverile. Al verificarsi della minima imprecisione, come l’affondamento di un pezzo di gobo nella zuppa, le bacchette si affaccendano per sistemarla, più veloci di prima. Questa loro straordinaria meticolosità nobilita il lavoro, trasformandolo in una questione privata. Se riuscissi ad acquisirla a tua volta, dice quello preciso, potresti servirtene per i tuoi scopi.

Non c’è cosa che loro apprezzino maggiormente dell’abnegazione. Da quando ho cominciato a dimostrare maggiore interesse per le loro tecniche compositive, hanno preso l’abitudine di dedicare alcuni minuti alla correzione degli errori che commetto durante le preparazioni. Questo, naturalmente, avviene alla fine del turno, quando nessuno guadagna o perde nulla. Eppure, ho come la sensazione che non sia tanto l’avarizia a fargli scegliere proprio quel momento, quanto piuttosto l’esigenza di testare lo spessore della mia integrità, di mettermi costantemente alla prova.

 

Non sono lontano da casa: riesco a intravedere la scalinata d’ingresso. Dai vicoli adiacenti si levano delle risa. Una colonna di fumo volteggia nell’aria, seguendo il ritmo di un basso. Giunge al mio orecchio ovattato, rimbalzando sulle ali ritratte dei cigni sognanti. Le fessure del selciato vibrano sotto i tacchi dei miei stivali, come in stato di adorazione. Spingo forte con le gambe verso casa. Seguo il ritmo anch’io. In questa città ho imparato che l’unico modo per non crollare è non fermarsi. Gli autoctoni vivono la stanchezza alla stregua di una vergogna, ritenendola non tanto uno stato fisiologico, quanto il sintomo di una deformazione del carattere. La contemplazione, per loro, è uno stato di quiete indesiderato. Ritornando al mio stivale che calpesta il selciato vibrante, mi si consenta di riferire una mia voglia improvvisa, quella di una sigaretta. Di questi tempi la si considera perfino deplorevole. Detesto i miei denti giallognoli al pari del mio corpo gracile e molle, tanto che alla vista di specchi, vetrine, parabrezza o lunotti mi volto di scatto, come di fronte a uno spettacolo macabro. Eppure, non riesco a fare a meno del fumo, specialmente quando voglio scrivere due righe dopo lavoro. No, non tengo nessun diario di bordo. La mia prosa sgraziata ha poco a che vedere con le mie trascurabili vicissitudini personali. Piuttosto, è un tentativo di rimanere in contatto con il mondo, di delineare le relazioni di cui è costituito, scomponendolo ancora e ancora. È una cosa che faccio con le mani, dita tremanti che battono sulla tastiera di un fossile tecnologico, lo schermo mezzo buio. Devo seguire a ritroso il percorso del suono, raggiungere la colonna di fumo che si alza dal cortile del club. Infilo un vicolo promettente, infestato di voci. Vedo la vernice ancora fresca della porta d’ingresso, i corpi accatastati ai piedi della scalinata che si guardano e ridono e strusciano. Forse non saresti dovuto venire, dice quello sensibile. Tutto questo calore umano ti rattrista.

Mi mescolo alla folla. Trovo una nicchia in cui rintanarmi, spalle al muro, in cerca di un viso che ispiri fiducia, uno a cui chiedere. Meraviglioso avvistamento: un tizio stralunato che si è scordato di stringere una sigaretta tra le dita, ridotta ormai a un cumulo di cenere. È il tuo uomo, dice quello meticoloso. Stacco la schiena dal muro umido e ammuffito, sorry, dico, sorry. Sguscio tra i corpi, li sposto urtandoli leggermente, attento a non pestare le scarpe a nessuno. Qualcuno mi afferra il braccio da dietro. Ecco, ci siamo. Provo a divincolarmi con gentilezza, come se fossi rimasto impigliato alla maniglia di una porta. La pressione sulla manica della mia giacca aumenta. Senza voltarmi, abbasso lo sguardo sulla mano, in cerca di un’anticipazione di ciò che mi attende. Prima di riuscire a metterla a fuoco, si sgancia dal mio braccio furtivamente, ritornando dal suo padrone, una ragazza coi capelli fucsia. Non appena stabilisco un contatto visivo, allarga la bocca in un sorriso glitterato. Ha occhi acquosi con cui mi fissa sbalordita, come se stessi fluttuando a pochi centimetri dal suolo. Mi chiede se sono okay. Trascorrono un paio di secondi prima che decripti il significato della sua domanda, secondi in cui devo apparirle assente, sfasato. In questa lingua sono lento a processare informazioni, perfino le più basilari. Faccio di sì con la testa, cercando di darmi un tono e soprattutto di prendere tempo. Stavo solo cercando una sigaretta, ribatto. La frase mi esce dalla bocca smozzicata, aliena, come se avessi detto delle parole a caso.

Allora parlo di nuovo, nel tentativo di redimermi. Tu ne hai una? Le chiedo. Altra ferita: questa volta ho caricato le parole di un’aggressività che non intendevo esprimere. Lei non sembra percepirla. La sua mano, la stessa che mi ha afferrato la manica della giacca, ora mi porge un pacchetto di sigarette piuttosto costose. Mettiamoci lì, ho da fare delle cose, mi dice, e indica uno spazio vuoto al di là della calca. La seguo senza fiatare. Estrae dal tascone del piumino una busta stracolma di polvere biancastra. Per imitazione faccio lo stesso con l’accendino, mi rendo conto dell’automatismo quando è ormai troppo tardi. La punta della sigaretta è già rovente. Lei infila una chiave nella busta, raccogliendo con l’estremità una montagnola di polvere. Se la porta frettolosamente alla narice. Serviti pure, dice, o qualcosa di simile. Allungo la mano. Dammi la chiave, le dico. Una grossa, aggiungo poi, sottintendendo il soggetto. Sento quella sostanza non identificata corrermi su per la narice fino al seno frontale, frizzantina. Ogni canale del mio corpo si riscalda. Mi abbasso per restituirle la chiave che mi ha prestato, rendendomi conto di avere un equilibrio quantomeno precario. Sono fottuto, penso, o forse esclamo, chi lo sa. Lei mi sta rivolgendo uno sguardo interrogativo. Alzo il pollice e sorrido. Poi aggiungo: todo está bien. Forse la mia mente idiota ha deciso che lo spagnolo è la lingua di quelli che si divertono. Può darsi che lo pensi anche lei, siccome mi ha inchiodato addosso quello sguardo furbesco. Si alza di scatto, prendendomi per mano con naturalezza. Andiamo a ballare, su, fa un freddo cane, dice. Le spiego che prima devo fare il biglietto e lei mi guarda perplessa. Sei un tizio strano, dice. Adoro la parola weirdo, renderebbe amabile pure il peggiore degli psicopatici. Poi dal nulla lei si porta il palmo della mia mano alla bocca e ci dà una leccata, premendola contro la sua. Strilla e ride, ride e strilla. Nel processo di trasferimento l’inchiostro del suo timbro sbiadisce. L’imbarazzo è il ricordo di un passato in cui ero sobrio ed esausto. Eppure, sono ancora più scisso di prima. Quello sensibile parla a ruota libera. Quant’era che qualcuno non si interessava allo straniero che sei, anche solo superficialmente?

Ci facciamo largo nella calca, lei davanti, mano nella mano. Tutto sembra così surreale: i corpi, i volti. Saliamo la scalinata cosparsa di sale. Riponiamo le giacche in uno sportello metallico. In pochi attimi confusi siamo nell’oscurità del dancefloor. Pare che esista anche un piano di sotto, con una sala più grande. I miei amici sono laggiù, ma possiamo raggiungerli dopo, dice. Il movimento del suo bacino è allo stesso tempo prepotente e aggraziato, gli occhi socchiusi, la spalla che sporge verso di me. Ancheggio in stato allucinatorio, snodando gli arti con lentezza. Ogni tanto ci scambiamo delle occhiate d’intesa, e allora lei dà il meglio di sé, eccitata. Io invece rallento fino a quasi fermarmi, travolto dalla bellezza che sprigiona. È un miracolo, dice quello sensibile. Abbasso il viso, strisciando i piedi sul pavimento viscido e appiccicoso. Non voglio investirla direttamente con lo sguardo. Poi le punte delle sue dita, senza preavviso, affondano nella vita dei miei jeans. Sono calde, così calde. Mi fissa sicura, strusciandosi su di me. Sento le sue mani scorrermi sulla pelle, in accordo con le oscillazioni del suo corpo. Le sue labbra succhiano il lobo del mio orecchio, baciano le mie ciglia lunghe. Devi bere dell’acqua, mi dice. Ti accompagno.

Le porte scassate dei bagni si aprono e chiudono furtive, anche se non ce n’è alcuna ragione. In questo posto la figura del bodyguard non esiste. Puoi fare quello che ti pare. Disseminati per il club ci sono solamente degli angeli custodi che raccattano quelli che hanno esagerato e si prendono cura di loro. È la perfetta applicazione del motto ‘vivi e lascia vivere’, con tutte le sue contraddizioni e dilemmi morali annessi. Mi chino sul lavabo, detergendomi gli occhi strabuzzati con l’acqua gelida. Non mi sembra che la situazione migliori, anzi. Il mio campo visivo si restringe di secondo in secondo, fino a ridursi a una macchiolina. Biascico una frase che grossomodo dovrebbe comunicare il significato seguente: dimmi che hai qualcosa in grado di produrre un effetto uguale e contrario. La ragazza dai capelli fucsia sghignazza. Mi prende sottobraccio, facendomi accomodare in un cesso che ci contiene a malapena. Altra busta, altra polvere, stesso colore. Che cazzo è? Le chiedo. Questo lo so dire con disinvoltura. Speed, mi dice. La domanda che hai posto si riferiva alla composizione chimica della sostanza, credo, dice quello meticoloso, ma la sua osservazione cade nel vuoto. Tiro con cautela un po’ di quella roba e in men che non si dica sono in forma smagliante. Le sue mani mi lisciano gli zigomi piccoli e ossuti, da prigioniero politico. Ora va’ decisamente meglio, dico. Lei inarca la bocca, posandola sulla mia. La sua lingua liscia e carnosa mi abbraccia, ed è come se il mio corpo venisse immerso in una vasca d’acqua limpida e calda. Le premo i polsi sui fianchi, ma lei si sfila, rapida.

 

Ci dimeniamo nella sala gremita. Ciascun corpo sembra intrattenere con l’altro una relazione segreta. Lo spazio del dancefloor viene riorganizzato in continuazione al mutare dei vuoti e dei pieni, ovvero in base agli spostamenti dei singoli. Ogniqualvolta io e la ragazza dai capelli fucsia ci spostiamo verso l’origine della musica, ritrovandoci in un’area più affollata, le persone intorno a noi creano una nicchia abitabile, in cui i nostri corpi possono esprimersi liberamente. Non conoscere nemmeno il nome della donna che ti sta di fianco rende tutto così sincero, dice quello sensibile. Ci muoviamo in armonia, ora. Capita che uno imiti l’altro con fare provocatorio. I ruoli si confondono, anche le bocche a volte, come a punteggiare il discorso dei nostri corpi. Forse ti stai adattando alle usanze di questo posto, alla strana leggerezza con cui ciascuno abita la propria solitudine, aggiunge il mio compagno, forse. Che parola giovane, ‘forse’, come la foschia che avvolge i ponti della città la mattina. Perfino il suono le assomiglia, quasi la evoca, ‘forse’.

 

La ragazza dai riccioli fucsia mi prende la mano, trainandomi fino al margine opposto della sala. Andiamo a fumare, dice, fuori ci sono i miei amici. Ed eccoci di nuovo all’esterno, mentre scendiamo le scale umide e i grani di sale crepitano sotto le suole delle nostre scarpe. Le pupille dilatate della ragazza incombono sulla folla. Ironia della sorte, le persone di cui siamo in cerca sono accucciate esattamente nel posto in cui ci siamo rintanati, e stanno facendo la stessa cosa. Rivolgendosi alla ragazza, un biondino dal viso pulito, con indosso un cappello scuro da pescatore, fa un commento sarcastico sulla sua irrequietezza. A quanto pare, ogni volta che vanno a ballare insieme, la ragazza a un certo punto fa perdere le sue tracce. Lasciala farsi i suoi giri, che male c’è, biascica una ragazza altrettanto bionda, il naso a forma d’oliva e le labbra siliconate. Poi aggiunge qualcosa di spiritoso su di me, anteponendo al mio nome – stranger – una lunga serie di aggettivi slangati il cui significato mi è ignoto. A quanto pare la frase è arguta, perché gli altri si piegano dalle risate. Per parte mia adotto un’espressione studiata appositamente per questo tipo di circostanze, un sorrisino complice e scaltro, che rassicuri il mio interlocutore. Conversazione multipla in arrivo, dice quello preciso. Il tema è pene d’amore, gli interessati naturalmente assenti. Un certo Samuel, a quanto pare un idiota, ha detto qualcosa alla biondina su una loro amica comune. La mia comprensione termina qui. Forse, se stessi più calmo riuscirei a cogliere un numero maggiore di parole. È solo che quando perdo il filo mi demoralizzo, e smetto di seguire. Il dialogo procede a ritmo spedito, tanto che le loro voci si accavallano. Tengo lo sguardo fisso su di loro, dando l’impressione di stare attento. Un’angoscia sottile s’insinua tra le mie scapole, mi accorcia il fiato. Se uno di loro si rivolgesse a me, chiedendomi la mia opinione, dalla mia bocca non uscirebbe altro che un sibilo rauco, come fossi una lucertola aliena. Quello che provi è del tutto legittimo, mi rincuora quello sensibile, come si può vivere senza parole?

 

Il biondino non sembra granché coinvolto nella conversazione. Continua a toccarsi i calzini come se gli prudessero. Nel dubbio si fa un’altra chiave. Poi cerca il mio sguardo e, sfruttando una pausa della conversazione, con distacco, dice: parlaci di te, straniero. Sono uno scrittore, dico d’impulso. La risposta accende la loro curiosità, ma la cosa non mi lusinga affatto. La ragazza dai riccioli fucsia m’incalza: cosa scrivi? Scrivo di nostalgia, dico. Il biondino non fa una piega. Uhm, cioè? La nostalgia è un punto di vista sulle cose, dico. La frase esce incerta, scomposta sul piano grammaticale. Roba pesante, fa la biondina, avvicinando la narice alla chiave che ha in mano. Dovresti scrivere di cose più allegre, aggiunge poi, pulendosi il naso distrattamente. E ti hanno pubblicato? Chiede la ragazza dai riccioli fucsia. Per ora sono – vorrei dire ‘solo’ ma dico ‘ancora’ – un cameriere. A ogni mio errore segue una loro smorfia d’insofferenza, pietà o disagio. Scrivi nella tua lingua immagino, dice il biondino. Come vedi è l’unica che ho, rispondo. La ragazza dai capelli fucsia mi dice qualcosa che non afferro. Scusami? Le chiedo, frastornato. E-cosa-ti-porta-qui, ripete, il tono tradisce un’impazienza che mi umilia. Sta andando male, dice quello preciso. Trovo il suo commento ridondante. Il mio paese sta decadendo, dico. Le iridi della ragazza dai riccioli fucsia scintillano per un istante. Mafia, pum-pum-pum, dice il biondino, mimando una pistola. Queste persone ti vedono come un animale esotico, dice il tipo sensibile.

Ho freddo, dice la biondina, torniamo a ballare? Serro le mascelle. Digrigno i denti fino a sentire i molari che scricchiolano. Sono arrabbiato non solo con loro, ma anche con me stesso. Chi ho di fronte mi appare inelegante e rozzo, eppure ne desidero il riconoscimento. Lo desidero, mi rendo conto, con la disperazione di un neonato. Non riesco a perdonarmelo. Quello sensibile dice che non ho scelta. Do una pacca sulla spalla della ragazza dai riccioli fucsia. Devo andare, dico. I loro volti inespressivi dicono: bye. Poi si allontanano, gesticolanti.

I tacchi dei miei stivali battono il selciato. Mi bruciano gli occhi, ma non di sonno. Chissà che diavolo di ora è, la notte è meno profonda. Merda, la sigaretta, dovevo scroccargli una sigaretta. Un animale che non riesco a localizzare emette un verso agghiacciante. Mi scappa da ridere: c’è un punto in cui il dolore raggiunge un parossismo tale da non essere più credibile. Il ponte in fondo al canale è avvolto nella foschia, l’alba incombe. I cigni sono ancora acquattati ai piedi delle bagnarole che galleggiano nell’acqua torbida. Intorno a loro fluttuano sigarette, buste di McDonald, provette, tamponi, frammenti di un mondo usa e getta. Nylon, polistirolo, cellofan, elenca quello preciso. Sì, bravo, continua. Ritagliarsi una nicchia tra i frammenti di un mondo usa e getta, dice quello sensibile. Estraggo dalla tasca le chiavi, appoggio il chip sul sensore. La porta scatta, reverente. Forse, mi dico. Una parola che evoca la foschia che avvolge i ponti la mattina. La mastico tra i denti senza nemmeno rendermene conto, forse. Appoggio il chip sulla seconda porta, quella della mia stanza. Voglio costruire qualcosa.

Colonna (sonora) 2025

2

Note in libertà

di

Claudio Loi

Fine anno e nuova playlist, un elenco di fugaci consigli di ascolto per riassumere un anno di musiche e suoni dal mondo. Una lista che non ha pretese di verità né di esclusione, solo situazioni che meritano, secondo il gusto di chi scrive, di essere avvicinate e ascoltate con cura. Difficile districarsi in un mondo sempre più caotico, indecifrabile, liquido e schizofrenico. Pare che in solo giorno di questo 2024 siano usciti più dischi di un intero anno dei lontani Seventies. In questa grande brodaglia semiotica ecco quindi alcune tracce da seguire, consigli per gli acquisti elargiti a bassa voce. Buon anno e buon ascolto in rigoroso ordine alfabetico.

Adrianne Lenker. Bright Future. 4AD

Il futuro luminoso cantato da Adrianne Lenker, in libera uscita dal progetto Big Thief, è fatto di cose semplici, di gesti quotidiani forse banali ma non inutili. Una visione romantica e a portata di mano, apparentemente facile da raggiungere se si ha la forza di rimettere in discussione le abitudini del nostro vivere. Natura selvaggia, alberi da abbracciare, animali da osservare, una chitarra da accarezzare e amare. Il resto è musica fatta di sospiri, languide suggestioni autunnali. Minimalismo emotivo fuori catalogo, oltre le logiche del consumo spietato e inutile. Una filosofia di vita mai così opportuna e indispensabile.

 

Amyl and the Sniffers. Cartoon Darkness. Virgin

Sono degli adorabili cazzoni australiani, saltellano giulivi come canguri tra le pasture del rock’n’roll e riescono a rivitalizzare una storia all’apparenza già esaurita. Pochi accordi, molta elettricità, ritmo insolente e aggressivo, una dose massiccia di sguaiata irriverenza e il gioco è fatto in una formula magica tanto codificata quanto difficile da rinnovare. E quando questa magia si concretizza ringraziamo il cielo per avere a disposizione artisti che ci fanno battere il cuore e muggire come animali in libera uscita.

Artchipel Orchestra. Tubular Bells Variations. Musica Jazz

Tubular Bells di Mike Oldfield risale al 1973 e segna l’inizio della grande avventura della Virgin di Richard Branson che, almeno nei primi anni di attività, era uno spazio per musiche fuori da ogni schema. Nel catalogo di quei tempi gloriosi si potevano gustare pietanze succulente come gli Henry Cow, la scena di Canterbury, il miglior kraut, cantautorato sbilenco e tante altre cose. Poi quella primordiale esperienza è cresciuta fino a diventare una potenza discografica con un’altra visione del mondo. Ma Tubular Bells rimane un oggetto magico e misterioso, una lunga suite con mille rimandi e ramificazioni che a distanza di tempo ha retto il peso degli anni. Accogliamo quindi con piacere questa nuova versione delle campane tubolari proposta da Artchipel Orchestra sotto la direzione di Ferdinando Faraò che ha fatto di tutto per non stravolgere quelle antiche emozioni giusto per non dimenticare da dove veniamo.

Beth Gibbons. Lives Outgrown. Domino

Un album che ci fa riflettere sul senso della vita, di cosa significhi crescere, soffrire, continuare a credere in qualcosa. Dopo la bruma plumbea dei Portishead, un suono che ha fatto scuola e un’eredità anche pesante da governare Beth Gibbons ha realizzato che la cosa più saggia è fermarsi a riflettere per prendersi i tempi giusti. Questo lavoro ci trasporta in una dimensione di adorabile serenità, di beatitudine e pace interiore da non intendere come indifferenza o apatia. Semplicemente guardare le cose con rispetto, capire che il tempo passa, che ogni cosa ha i suoi ritmi e i suoi spazi. Solo così sarà possibile assurgere a una dimensione di consapevole libidine.

Charli XCX. Brat. Atlantic

Musica di largo consumo, generalista, forse mainstream, pop di gran classe, soldi, glamour e altre nefandezze di tal fatta. Quindi? Che si fa? Si ignora o ci sporca le mani accettando che anche la musica leggerissima se fatta bene e con cura può rilasciare ottime emozioni. La risposta per me è ovvia e allora ben venga Charli XCX con la sua suadente vocina, con i ritmi giusti e i suoni prodotti da chi conosce il mestiere. Come le bollicine a Capodanno o una passeggiata al termine della notte.

 

Cigarettes After Sex. X’s. Partisan

Morbidi baci e languide carezze. Questa la proposta dei CAS che non spostano di una virgola quanto avevano già proposto. E perché mai? Loro sono questa cosa qua. Indolenza, relax, narcosi, nebbiolina che ci ricopre lo spirito. Lo fanno da maestri e sono tra i pochi a non annoiare, sono credibili e unici, offrono momenti di pura astrazione terrena per arrivare a quella zona di interesse che è riservata a pochi. In questo caso bastano pochi scellini per essere felici. Con sé stessi e con il globo terracqueo.

Floating Points. Cascade. Ninja Tune

Sam Shepherd è tornato alle sue origini, dopo alcune escursioni in territori limitrofi che gli hanno spalancato le porte del cosmo. Ottima la collaborazione di alcuni anni fa con Pharoah Sanders (che nel frattempo ha lasciato questa dimensione) che lo aveva portato a riflettere sulle logiche della composizione arrivando a lambire territori più consoni alla musica contemporanea e alla sperimentazione orchestrale. Qui siamo tornati alla base, a quella techno evoluta e dinamica dei primi tempi. Cassa dritta, suoni e rumori alieni che si alternano, ritmo che fa danzare il cuore e scioglie le articolazioni. Molto meglio del defibrillatore e di qualsiasi medicina per il nostro cuore stanco.

Kim Gordon. The Collective. Matador

Nostra Signora del rumore ogni tanto ci fa grazia delle sue apparizioni. Smaltita la sbornia della gioventù sonica e la conseguente elaborazione del lutto (non solo musicale…) Kim ha ripreso in mano la sua vita e ci invita a entrare nel suo mondo. Prima un bel memoir giusto per mettere in chiaro alcuni concetti e poi, rispolverato il suo basso, ha dato fondo alla sua creatività e al suo modo di trattare la materia sonora. The Collective è un disco coraggioso, rumoroso al punto giusto, pieno di belle soluzioni armoniche e molto attento a quello che succede intorno a noi, comprese le cose meno cool. E va bene così e poi lei dall’alto della sua esperienza se lo può permettere. Ottima musica per un Natale laico e fragoroso.

King Hannah. Big Swimmer. City Slang

Una delle più belle sorprese di questi tempi. Sono una coppia molto giovane ma ben coscienti di quello che li ha preceduti e la loro visione travalica il semplice citazionismo con una proposta nuova e antica allo stesso tempo. La cittadinanza inglese non li condiziona affatto e in questo disco appare l’America che ci affascina tanto, fatta di strade lunghe e polverose, paesaggi che sembrano il set dei film di John Ford, una chitarra elettrica che ripercorre le piste tracciate da Neil Young e persino echi dei mai dimenticati Creedence. E la voce della ragazza riporta tutto a una dimensione di cocente attualità e a un futuro tutto da scrivere e immaginare.

Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. Ventre Unique. Bongo Joe

Se passate dalle parti di Ginevra non potete non fare un salto alla sede della Bongo Joe situata alla fine del lago in un isolotto che in passato era occupato da fabbriche e opifici industriali oggi spazi culturali e luoghi per fare musica e stare insieme. Un bell’esempio di collaborazione tra istituzioni e comunità, soprattutto quella più marginale e difficile da inquadrare. In questo spazio magico ha trovato riparo anche Vincent Bertholet e la sua Orchestra e tutta la creatività possibile e immaginabile. Musica che svolazza libera da ogni recinto, complessa, piena di rimandi e notazioni, opera collettiva di libera espressione seppur sempre sotto il rigido controllo del suo artefice. Una delle migliori espressioni artistiche di questi anni con la benedizione di Marcel Duchamp.

Shellac. To All Trains. To All Trains

Steve Albini non c’è più e quindi anche gli Shellac che erano una sua creatura. Un pezzo di mondo va via con lui, una visione della musica molto pragmatica, sincera, vera nel senso più profondo del termine. Lui si definiva un onesto artigiano, l’uomo che aggiusta e sistema le cose, che organizza e risolve i problemi. In fondo era proprio così ma è stato anche tanto altro: un suono unico e irripetibile, un approccio materico ma pieno di ideali, la semplice arte di fare le cose al meglio senza speculazioni e soprattutto senza l’egocentrismo che tanto infesta i nostri tempi. Per fortuna rimangono i ricordi, le opere, le sue storie e la sua musica a indicarci la giusta direzione. To All Trains appunto che rimane l’ultimo respiro di un eroe nel vento. Forse l’ultimo.

 

Stefano Giaccone. L’affondamento di Torino. Rubber Soul Records

Stefano Giaccone è un uomo di altri tempi con una storia che è anche la nostra storia. Musicista sempre ai margini dell’impero, impegnato a far sentire la voce di chi non ha voce. Punk, hardcore, canzone politica e popolare vissuta in prima persona con la massima onestà e sincerità. Ma a lui queste cose sembrano non scalfirlo più di tanto e a distanza di tanti anni suona per il semplice piacere di farlo, senza troppi legami e senza patria. Questa manciata di canzoni racconta di una città che non c’è più, di un mondo che è cambiato in modo radicale, del tempo che passa e tutto sovrasta. Racconta anche di una società che ha ancora bisogno di qualcuno che la racconti per quello che è, delle sue miserie, dei soliti problemi sempre con la speranza che le cose possano migliorare. Una voce di cui abbiamo estremo bisogno.

The Necks. Bleed. Northern Spy

Un disco di rara bellezza che va gestito con la massima cautela. L’ascolto di Bleed è qualcosa che non ammette facili compromessi e scorciatoie. Suoni rarefatti e minimali, sfumature di suono appena percepibili, intrecci acustici che si svelano solo dopo diversi ascolti. Il consiglio è quello di far partire la musica, concentrarsi e dedicare a questi suoni tutta l’attenzione possibile. In questo modo si accede a una dimensione unica, quasi magica, si percepisce il respiro dei musicisti e degli strumenti, persino gli odori del legno e dell’erba spettinata dal vento. Una prova di forza e di coraggio piuttosto rara in questi tempi.

 

The Smile. Wall of Eyes. XL

The Smile. Cutouts. XL

Hanno aperto e chiuso l’anno a modo loro: due album strepitosi e inaspettati che sembrano arrivare da un’altra dimensione e da intelligenze superiori, per fortuna umane. Thom Yorke (che nel mezzo ha anche trovato il tempo e l’ispirazione per la colonna sonora di Confidenza di Daniele Lucchetti), Jonny Greenwood e Tom Skinner ci deliziano con composizioni che hanno il sapore della classicità e allo stesso tempo guardano avanti, molto avanti. Se i Radiohead di Kid A sembravano qualcosa di irraggiungibile The Smile va oltre ogni previsione e in qualche modo supera quell’ingombrante lascito. La storia della musica del Novecento è tutta qui e tra le pieghe dei suoni si intravede anche un futuro molto affascinante. The Smile è quanto di meglio possa capitare a chi ha ancora voglia di ascoltare buona musica.

 

 

Thus Love. All Pleasure. Captured Tracks

Pare che per gli analisti del settore la bolla del neo-post-punk stia per sgonfiarsi anche se non è dato sapere quale sarà il nuovo hype dei prossimi giorni. Poco importa, tutto scorre e tutto si ricicla un loop temporale sempre più straniante. Re-Make/Re-Model profetizzavano i Roxy Music che intuivano che basta mischiare le carte per sembrare sempre nuovi e in tiro e persino il funesto ritorno del mullet sembra confermare questa tendenza all’eterno ritorno. Ma i Thus Love sembrano crederci davvero in quello che fanno, non ostentano e non hanno voglia di stupire. Solo semplice buon post-rock fatto con cuore e intelligenza e questo è più che sufficiente.

Traum. Traum. Subsound

Si chiamano Traum come il loro album e di sogni e incubi ci parlano con la loro musica. Narcotici, psicotropi, ipnotici, psichedelici, metafisici. Musica che ha l’incedere del dormiveglia, di quello stato di torpore che arriva da funghi magici o dalle gocce del flaconcino dei medicinali. Sono gli stati di allucinazione che tanto piacevano a Ken Russell quando immergeva i suoi attori nelle vasche di deprivazione sensoriale. Qui è tutto più facile: basta un CD o partecipare a un loro concerto e il risultato è lo stesso senza effetti collaterali se non quello di rimettere il disco in play e ricominciare a viaggiare.

Buon 2025!

 

Di tutte le domande

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di Enrica Fei

Che poi questa storia di mia madre che si toglie la vita ormai è diventata un’abitudine.

Quando zia Sara mi chiama dalla sinagoga – ogni volta è lì, nei pressi, che mia madre decide di farlo, di buttarsi sotto una macchina o di fingere uno svenimento nel cortile dei Càroli e sbattere la testa contro il nano da giardino, quello che fa da guardia – insomma quando mi chiama quella pazza di Sara per dirmelo, altre volte gli infermieri, a volte addirittura la polizia, come se fosse un evento da celebrare con la reverenza sacra della paura, esco di casa, compro le sigarette, e mi incammino verso l’ospedale. È una passeggiata di circa un’ora, supero il giardino, la torre, il lago con le anatre e l’airone che plana sulle acque e trapassa i piccoli col becco e, steccando una sigaretta, poi un’altra e un’altra ancora, lascio che il fumo mi svuoti il cervello e arrivo al pronto soccorso del CTO. So benissimo che mia madre non è lì, che sarà al DEA – «Dipartimento Emergenza Accettazione», quanta altisonanza per un rito di suicidio quotidiano – ma, dopo averci passato i miei dieci, quindici, venti minuti ­– dipende, a volte anche di più – fingerò di essermi sbagliata: la confusione, lo shock, «non provateci, non potete capire: mia madre si è suicidata anche oggi». Sara, ogni volta, mi ripete le stesse parole: «Elah, non so come dirtelo». Un tempo la sentivo deglutire, tirare su col naso, le parole che risalivano dalla gola impastate di muco, catarro – infezioni perenni, Sara, microbi incistati sulle pareti bronchiali, parassiti a ventosa sul tubo digerente. Poi ha iniziato a forzare le pause – «Elah – pausa – non so come dirtelo – pausa –», che è un modo balordo di simulare l’emozione, e di recente ha iniziato a recitare il ritornello «Tua madre è mia sorella. Tu come una figlia.» che è un modo meschino, e triste, di ricordarmi chi siamo e chi sono, chi ero dodici anni fa e chi sono adesso. Se Sara non fosse balorda, del resto, non avvertirebbe me, della morte di mia madre. Se gliene fregasse qualcosa, a Sara – di mia madre, di me, di tutto il resto – non mi telefonerebbe: alla notizia di sua sorella sucida, continuerebbe a raccogliere le offerte, accendere i lumini, lucidare le sedute e, nella luce calda e colorata della sinagoga dove vive e lavora, sbrigherebbe una preghiera in fretta e la lascerebbe morire in pace.

 

In quest’ultima occasione in cui mia madre ha deciso di farla finita, qualcuno è svenuto, pare, dinanzi alla scena. Era al bar all’incrocio del viale che porta alla sinagoga, ovvio, da lì non si scappa, ma i personaggi nuovi, l’arma insospettabile, lo scambio di battute inedito. Alla ragazzina, la nuova cameriera del bar, mia madre ha fatto lo scherzetto – pure dai carabinieri, dopo, mi toccherà passare.

Questo è un salto in avanti, una trasformazione. Qualcosa sta cambiando. Ma anche le più grandi cesure, le rivoluzioni non possono stravolgere i riti, le abitudini – Babele che crolla e cambia il nome del mondo e noi, con un altro nome, non lo riconosciamo più, o Dio, Dio persino: Dio che si sente mediocre ma ormai ha parlato, poteva essere infinite cose, Dio, infinite voci, ma il Verbo è uno, uno soltanto, e il tempo eterno diventa l’unità di misura del suo fallimento. Persino queste trasformazioni non possono stravolgere gli ingranaggi silenziosi del tempo.

Quindi ora, come sempre, invece di andare subito da lei, sono nel mio rifugio del CTO. Postazione prediletta, l’ho trovata libera: prima fila lato destro ultima sedia a sinistra, ottima visuale dell’intera sala. È un parallelepipedo di vetro, la clinica, un giardino intorno di rose bianche e gigli, e con la luce da ogni lato, è una scacchiera, il CTO, un prodigio: le pedine umane corrono e si agitano tra le ombre e i punti luce, e il roseto, fuori, luccica di brina sotto il cielo tondo. Mi stringo nel cappotto e guardo il ghiaccio oltre la vetrata: i gigli sono di cristallo, quasi, prigionieri scintillanti, mentre io, al riparo, mi aggomitolo nel grumo caldo dei lamenti intorno a me. Mi assopisco al tepore luminoso che mi investe, e quando l’uomoconiglio fa un passo coi pantaloni ancora giù, inciampa, cade a terra e piange, chiudo gli occhi. L’hanno ricevuto subito, l’uomoconiglio; è arrivato una decina di minuti fa e di fronte all’infermiera si è slacciato la cintura e abbassato i pantaloni. Sono cascati a terra come pere, quelli, e lui è rimasto a gambe larghe, le cosce bianche, i boxer in vista ben riempiti. Immobile, l’ha guardata fissa: «ho un buco tra le gambe – ha detto spaventato all’infermiera – un cratere. Profondissimo: mi vedo dentro». Lei si è chinata, ha spostato lo sguardo attento da una coscia all’altra, ha studiato la ferita – una tomba profonda che arrivava all’osso – e seria, concentrata, eppure dolce, «Non è un cratere – lo ha rassicurato – è una tana». L’uomoconiglio allora si è fatto piccolo, bianco, peloso, gli occhi si sono appuntiti, arrossati, e dal labbro leporino ha squittito «Chi ci sta dentro?». Mi sono stropicciata il naso, ho sbadigliato e, grattandomi dietro l’orecchio, ho sorriso.

 

Mi stiracchio, sbatto gli occhi, afferro il cellulare. Quello vibra, si sconquassa, il nome sullo schermo fora il vetro: “Sorella”.

«Cara?», rispondo.

«Elah, dove diavolo sei. Sono al DEA, i medici stanno stabilizzando mamma. Chiedo agli infermieri ma continuano a dirmi di aspettare. È grave, Elah. Questa volta è davvero grave. Dove cazzo sei?»

«Sono le solite lungaggini: niente di nuovo. Arrivo. Sono al CTO.»

«Al CTO?! Dio, Elah, ma cosa diamine vai a fare ogni volta al CTO?!»

«Non nominare il nome di Dio invano, Rachele. Mi sto rilassando dai. Un attimo, arrivo…»

Spengo il cellulare senza riattaccare. Do un occhio all’orologio: forse è ora, in effetti. Mi alzo. L’uomoconiglio singhiozza in fondo alla sala sorretto da una piccola folla, l’infermiera in cappellino e abito bianco lo guida verso l’ascensore, io porto la mano sotto il golf, la camicetta, le dita sul basso ventre; calco i confini seghettati della cicatrice a rettangolo sull’addome.

Quando eravamo bambine, io e Rachele dormivamo nella stessa stanza. Lei aveva un letto molto più grande del mio, e ai piedi del suo baldacchino, come lo chiamavo io, c’era un cassettone non più lungo del letto e alto poco più di un metro. Oggi non ci entrerei nemmeno per metà, ma al tempo, di notte, qualche volta mi ci nascondevo, e Rachele, svegliata dai miei movimenti, mi seguiva. Entrava nel mobile a carponi e si rannicchiava accanto a me. Aveva otto anni, quattro meno di me, ma sembrava molto più piccola. Portava una candela e rimaneva lì, in silenzio.

Mi dirigo verso il DEA. Le porte automatiche si aprono al mio ingresso e l’infermiera dell’accettazione – sempre la stessa, sempre lei: quante volte mi ha sorriso, quante volte mi ha spiegato: “Sua madre si è buttata in mezzo a un viale”, “Ha battuto la testa nel cortile dei vicini” – mi riconosce e mi viene incontro. Prendendomi sottobraccio, scambia uno sguardo d’intesa con un collega, lui prende il suo posto al triage, lei mi guarda negli occhi, abbassa il capo a terra. Mi guida attraverso un reparto, poi un altro, e un altro, parla – parla parla parla parla, “Vuole sedersi?”, “È sicura?”, “Si può fare ancora tanto, davvero” –, inserisce una scheda elettromagnetica, supera una porta metallica, mi guida lungo un corridoio e si ferma, sorreggendomi.

La stanza di rianimazione ha le tapparelle abbassate. Nella luce soffusa, il monitor a fianco del letto traccia sottili segmenti verdi, picchi gialli, un piccolo quadrato rosso che lampeggia a intermittenza. Il materasso blu a camera d’aria sibila, una cannula entra nel naso, un grosso tubo penetra la bocca, una fascia metallica cinge il collo e decine di corde si allungano in dischetti che arpionano le spalle, le braccia, lo sterno, il ventre.

Rachele prega a occhi chiusi su nostra madre in coma. Tra le mani, una candela accesa.

 

Nessuno l’avrebbe mai detto. Eppure, cinque mesi dopo, festeggiamo il primo compleanno di mia madre da sopravvissuta. Tutte e tre, io, Rachele e Sara, siamo sedute attorno a lei sul letto matrimoniale dove riposa; dopo un mese di coma e uno di ricovero, è a casa ma ancora allettata.

Sara rovescia sul copriletto una quantità di ammennicoli di diversa fattura e fede religiosa: stelle di David fluorescenti, santini di porcellana in miniatura, braccialetti in praline di plastica con stelle a cinque punte e croci rovesciate. Con gli occhi umidi, porge a mia madre una cartolina della Natività a tema canino: il bambin Gesù è un cucciolo di barboncino bianco, Maria è un bassotto scuro a pelo lungo, Giuseppe un imponente San Bernardo e la stella cometa un golden retriever in picchiata. «Buon compleanno, sorella mia», si legge sul retro.

«Zia Sara, ti è sempre piaciuto scherzare!», commenta Rachele voltandosi verso nostra madre al suo fianco. «Avevamo detto che i regali li avremmo aperti dopo il gioco, zia», aggiunge passandosi tra le mani uno dei santini. «Buon compleanno, mamma», conclude rimpicciolendo il viso in un sorriso a pugno.

Mia madre troneggia avvolta da bendaggi e lenzuola. I tubi della flebo formano una raggiera alle sue spalle, sei cuscini la incoronano – a destra, a sinistra, dietro la schiena, sotto il collo –, il balsamo pastoso protegge le labbra, le labbra serrate proteggono la lingua. La lingua, trentatré punti di sutura: trentatré nodi di lacci neri che le forano la carne, si divincolano a ogni emissione di suono, si arricciano come vermi e pungono, strisciano, vogliono uscire. L’hanno ricucita sei volte. Ogni giorno l’aiuto a recuperare il suono e le parole. Era mio, il letto dove adesso dorme, mangia e tace; non c’era mai stata prima. Chissà cosa ha pensato quando l’hanno portata nel mio appartamento.

Il giorno del suicidio spettacolare, nessuno in quel bar aveva notato che mia madre trafficava sotto il bancone, si guardava attorno con fare furtivo, che le dita svelte e operose snocciolavano pezzi di vetro nel succo alla pera che aveva appena ordinato. Che con centinaia di frammenti e polvere di vetro si recideva la lingua, la laringe, la trachea, lo stomaco, l’interno tutto. «La cassa del ghiaccio: calici rotti nella casa del ghiaccio?», chiedeva il carabiniere in caserma. «Non avevo visto, lo giuro, non avevo visto», singhiozzava la cameriera accusata. «Mia madre muore», pensavo io.

«Per il mio regalo dovrai aspettare, mamma», Rachele si tira in un nuovo sorriso rivolto a nostra madre, «Passiamo al gioco misterioso che hai portato con te, zia!», aggiunge guardando Sara. «Spiegaci le regole, non vedo l’ora di scoprire cos’è!».

«Ho portato questi», Sara solleva da terra un grosso borsone di pelle, apre la zip e rovescia numerosissimi quadratini di legno. Ciascuno ha incisa una lettera dell’intero alfabeto che, nelle piccole geometrie, si moltiplica tre, quattro, cinque volte. «L’obiettivo del gioco è creare una pa-ro-la», Sara scandisce bene le sillabe ottuse dal catarro, «a turno prendiamo una lettera e, una dopo l’altra, costruiamo il vo-ca-bo-lo

Fisso in silenzio i tasselli di legno. Sono centinaia, migliaia, infinite combinazioni di suoni e parole.

Pochi giorni prima delle dimissioni, i medici mi hanno consegnato un fascicolo di esercizi che mia madre avrebbe dovuto eseguire ogni giorno per tornare a parlare. “Esercizi complessi”, hanno aggiunto, che avrebbero richiesto “la piena partecipazione della paziente” e il “massimo sostegno” da parte mia. Ci avremmo messo quattro, cinque, forse sei mesi prima che recuperasse l’articolazione della lingua a pieno. Le esercitazioni andavano in ordine di difficoltà: parole vocaliche, consonantiche, e per ogni consonante, prima alveolari semplici, poi gutturali, dentali, fricative, e alveolari complesse. Al primo tentativo con le vocali aperte – pura emissione di suono: bocca aperta e lingua immobile –, mia madre mi ha sfilato dalle mani il portacarte con gli esercizi e mi ha colpito in volto. Da quando abbiamo iniziato le consonanti, ho capito che, perché ci sia il minimo progresso, devo allontanarmi. Mi chiudo in cucina, in bagno, esco di casa. Solo in mia assenza parla e migliora.

Alla spiegazione del gioco, Rachele batte le mani entusiasta. «Ma è bellissimo!», commenta, «Così mamma si esercita». Sara osserva soddisfatta i quadrati sul letto, si soffia il naso e, di scatto, sposta il volto dalle lenzuola alla torta sul letto. Stacca un pezzo con le mani, lo trangugia. «Sono finiti i piattini», dice fissandomi con la bocca piena. Li ha usati tutti lei: li ha cambiati per ciascuna fetta di quiche, ciascun tramezzino, per ogni singolo involtino di verza e spiedino di pesce.

«Parlare tutte insieme», aggiunge Sara con solennità, «questa è l’i-dee-aa». Allunga il braccio verso terra mentre io, inginocchiata alla sua sinistra, impilo i piatti sporchi abbandonati sul pavimento. «Buono», dice sgranocchiando un gamberetto infilzato che ha afferrato da una ciotola usata.

«Costruiamo parole con le gutturali, allora! Sono le consonanti su cui sta lavorando mamma al momento», continua eccitata Rachele mentre Sara stacca le zampette del crostaceo succhiandole rumorosamente.

«Adesso sono le dentali», suggerisco a bassa voce, «le gutturali le ha finite».

«Con le gutturali non ha fatto grandi progressi», risponde lei, «non ti ricordi sabato cosa è successo?»

«L’aiuto ogni giorno. Faccio il possibile.»

Come tutti i weekend da quando mia madre è qui, sabato scorso Rachele si è introdotta nel mio appartamento. Ogni fine settimana, le lascio le chiavi, le lascio nostra madre, mi trasferisco temporaneamente nella casa di famiglia, la casa dove sono cresciuta e che non ho visto per dodici anni e dove mia madre, che vi ha vissuto tutta la vita, non poteva restare senza assistenza. Dormo nel soggiorno, sul divano che dà sul giardino nudo. Nella mia stanza non entro mai.

Ora Rachele mi fissa dall’alto muovendo la bocca in qualcosa che sembra un sorriso, no, è un lieve movimento del labbro inferiore verso sinistra, no, è una leggera increspatura di entrambe le labbra (le labbra, la bocca, la bocca piccola e turgida, una bocca come una rosetta di pane dicevamo da bambine; la sua bocca, la nostra bocca, la stessa la medesima il marchio a fuoco della nostra famiglia: uguale la bocca di Sara uguale quella di nostra madre uguale la mia prima che la segnassi con una virgola sul labbro superiore).

«Ti sto parlando», dice.

«Scusa, mi ero distratta.»

«Ripeto: forse il possibile non sta funzionando.»

Inclino il capo, assentendo.

Il gioco delle parole comincia: Sbiir-ccia, Sara incespica nella lingua italiana alla ricerca di suoni faringali, Scrruu-ta, Rachele la esorta fiduciosa, Gguar-dda!, giubilo di applausi.

Vado in cucina. Impilo i piatti nel lavandino e faccio scorrere l’acqua del rubinetto. Un piatto mi scivola di mano mentre lo lavo, casca nel lavello e si spacca in due. Afferro un pezzo, passo l’indice lungo la spaccatura. Inspiro, espiro. Premo più forte e sento le schegge spingersi nella ferita come mille sfridi appuntiti. Una stella di chiodi nei tessuti interni.

Fascio il dito con un pezzo di carta e apro la finestra, il rintocco della guglia ambrata ottunde i suoni dell’acqua che scende copiosa. Il campanile è una lingua di terracotta arancione; il cielo manifesto, asciutto e limpido. L’acqua cade verticale sulla C frastagliata della metà del piatto, spinge gli avanzi ai bordi. Quelli galleggiano e restano lì, unti e gonfi.

Sarebbe bastata l’acqua, la notte del taglio sul labbro col pezzo di vetro, la notte in cui la mia bocca ha smesso di essere la bocca della famiglia, lo specchio della comune discendenza, la notte in cui ho inciso la mia impronta nello spazio concavo al di fuori del punto di incontro. Rachele bambina mi guardava per capire, la bocca a rosetta che tremava, perché, dicevano gli occhi, perché ti tagli, e io che tacevo, la cacciavo, non trovavo le parole (non volevo trovarle, non le conoscevo, una tana, penso che avrei potuto dirle, una tana in cui nascondersi e capire: è una tana piccola, Rachele mia, non ci entriamo tutte e due, mi fai sempre tante domande – Elah perché la mamma dice che sei cattiva, che sei diversa, perché ti fai sempre del male – ma come spiegarti il piacere, come spiegarti il sollievo: tracciare il sentiero del dolore sul corpo e farlo materia, portare il dolore dentro la pelle e capirlo. È come trovare delle risposte, Rachele mia, come infilarcisi dentro).

L’odore del sangue, non è vero che la memoria olfattiva trapassa il tempo come la luce, la virgola sul labbro quella notte e nessun odore, il sangue in bocca, sul collo, le mani, le lenzuola bianche imbrattate, il letto a baldacchino, la stanza antica, e le candele, le mille candele, Rachele con le fiammelle che portava sempre per guardarmi, per capire. Sarebbe bastata l’acqua quando l’incendio divampò, moriremo, gridava Rachele, moriremo. No, dicevo io stringendola forte mentre singhiozzava, non ci succederà niente: sono le stelle di Dio scese sulla terra dove non le avremmo immaginate mai.

 

«Cani grugniscono ai ghiri!», applausi e tripudi, la festa continua. Torno da loro e mi risiedo sul letto.  Mia madre è il solito stemma di flebo e cuscini: non può muovere la testa con facilità ma le braccia si muovono svelte, è un manichino bianco robotizzato che fa scivolare i quadrati tra le lenzuola, le parole gutturali, le frasi assurde. Sembra allegra, divertita: non caccia fuori la lingua per mostrarmi i filacci neri che la tengono insieme. «Stai bene?», le chiedo. Lei stringe la mano di Rachele e mette insieme qualche quadratino. Giocondo. Okay.

Sara rimescola le lettere.

«Tocca a te, Elah!».

«Tocca a me?»

«Direi di sì, abbiamo già fatto cinque giri», commenta Rachele. «Sei stata mezz’ora chiusa in cucina», aggiunge raddrizzando la schiena.

«Non sono brava in queste cose»

«Forza, su», sorride compunta.

Fisso le lettere. Sposto qualche quadrato a caso. Ci sono troppe parole, in quei tre, quattro, cinque alfabeti rovesciati sul letto, troppe domande. Se c’è qualcosa che ho imparato nei dodici anni in cui sono stata sola (sola sola sola sola, mi si è appiccicata alla pelle questa solitudine, si è annidata nei tessuti epidermici, ha scavato cunicoli, partorito uova, uova scabbiose che si sono dischiuse e moltiplicate) è non parlare più, non cercare risposte, non dire più niente che non sia silenzio celato. Mi concentro sui rumori intorno a me e li elimino – il catarro di Sara, i commenti di Rachele, i mugugni appena accennati di nostra madre –, li sottraggo dalla planimetria uditiva. Nel campo vuoto del silenzio assoluto, torno allo scalpicciare delle zampette tozze, i grattini sulle pareti, lo squittio della corsa sotto il letto.

«Lunghe aquile cuoche!»

«Bravissima zia, ma è il turno di Elah. Elah?»

Veloce prendo una lettera, poi un’altra, un’altra ancora. Compongo l’unica parola possibile.

Rachele resta immobile sopra il serpente squadrato delle lettere che ho messo insieme.

C-O-N-I-G-L-I-O. Il rettile di legno si allunga sotto il sole in otto pezzi disarticolati e beffardi, la bocca senza denti ha mangiato la parola, l’ha inghiottita tutta intera, prova a toglierla adesso, provaci se hai il coraggio.

Rachele inala l’aria e la ingoia, gli occhi si fanno acquosi, le labbra a rosetta si stringono.

L’uomo che ci regalò il nostro coniglio si avvicinò nel giardino dove giocavo con Rachele e ci abbracciò entrambe. Poi aprì la scatola di cartone che aveva con sé. Era un coniglietto bianco così piccolo che me lo porse tenendolo in una mano, una soltanto. Quando lo portammo a casa, nostra madre disse che i conigli erano animali sporchi, che nel nostro giardino non poteva stare perché il giardino era un luogo divino, che avrebbe bevuto dalla fontana, avrebbe insozzato la fonte, io insistevo che era un dono e che i doni non si rifiutano e lei mi schiaffeggiava, non sai cos’è un dono, non lo hai mai capito: “Alzerò il calice della salvezza, invocherò il nome del Signore”, questi sono i doni, questi. Nostra madre gridava e il coniglio scappava sotto il letto, Rachele piangeva, mamma perdonaci: ce lo ha regalato un signore che sembrava buono, quando torna ci parliamo e gli diciamo che deve riprenderselo. Adoravamo quel coniglio, io e Rachele, lei gli canticchiava la ninna nanna accarezzandolo quando dormiva, io lo portavo di nascosto nel letto a baldacchino e gli sussurravo parole segrete: io lo so che quel signore che ti ha portato qui è papa, lo so anche se papà non l’ho mai conosciuto. Un giorno papà verrà a prenderci, scapperemo con lui, e saremo felici.

Rachele ora è in piedi di fronte al letto. Le lacrime scendono senza che stringa gli occhi. Il suo viso è granitico, inalterato. Io continuo a comporre le mie parole, a parlare la mia lingua. Prendo quattro quadratini di legno. M-O-M-O.

Al coniglio fu dato un nome: Momo. Nostra madre insisteva che solo lei poteva nutrire Momo, che solo lei poteva occuparsene, correggerlo, così diceva, “Non porrò davanti a miei cosa abominevole; odio chi fa il male, non mi starà vicino”; da quando lei lo sfamava, lui ogni tanto faceva strani squittii, intermittenti e acuti, altre volte si contorceva, una strana bava usciva tra i denti. Lo stava uccidendo, ne ero sicura, lo stava avvelenando perché ce lo aveva regalato nostro padre. Decisi che Momo non doveva soffrire; non lui, non il nostro coniglio. La piccola lingua sbucava dalla bocca aperta, quando misi le mie mani sul suo collo, il corpicino bianco che sussultava, gli occhi neri sembravano uscire dai bulbi e camminare, camminare davanti a lui, camminare davanti a me. Strinsi a lungo. Per molti mesi successivi, ogni notte, io e Rachele piangevamo abbracciate il nostro coniglietto che non c’era più. Rachele sapeva che ero stata io: urlava forte mentre lo uccidevo, Elah perché, ti prego, perché, ma mai nella nostra infanzia provò rancore, mai mi rimproverò la decisione che avevo preso. Parlavamo la stessa lingua, al tempo, avevamo le stesse domande; conoscevamo lo stesso alfabeto, le stesse parole. Ma le lingue, si sa, si dimenticano: le sillabe si invertono, le parole diventano misteriose, impossibili, impronunciabili. Nell’alfabeto di Rachele, oggi, CONIGLIO, MOMO sono tutta la sua rabbia, tutta l’insofferenza per la mia incapacità di partecipare a questo gioco, tutto il suo odio per il coniglietto che le ho portato via, per i miei dodici anni di silenzio, per il mio non essere in grado di aiutare nostra madre a parlare.

Rachele adesso, quasi trent’anni dopo, mi guarda dall’alto in piedi a fianco del letto. Sbatte gli occhi, vi passa una mano, nasconde le lacrime in un pugno.

«Mamma ha sempre avuto ragione. Non ci appartieni, non sei una di noi»

Sposto leggermente il capo. Non guardo lei, non guardo nostra madre, non guardo Sara.

«Sei scomparsa per dodici anni», la voce di Rachele si abbassa, si fa crettata e buia, «mamma che non hai ascoltato, tutto il suo dolore che non hai mai capito. I tagli che ti infliggi per farci male. Solo da adulta ho capito quanto tu sia egoista.»

Stringe il pugno. Lo stringe lo stringe lo stringe.

«Non ci appartieni, non sei una di noi»

«Rachele», sussurro alzando lentamente lo sguardo. «Sono quasi tre mesi che ho nostra madre in casa»

«Elah», dice inginocchiandosi sul letto e prendendomi le mani, «sei l’unica che ancora non conosce il mio regalo per lei. Non fa alcun progresso con te: parla molto meglio di quanto pensi, sai? E infatti, per il suo compleanno, la prendo e la porto a casa mia.»

Mi volto verso nostra madre. Il suo sguardo è in un punto indefinito oltre il letto, oltre la finestra, oltre il cipresso che si erge sulla collina poco fuori città.

Sara sul letto è un’enorme locusta, il corpo coriaceo in lunghe zampe sottili, le ali traslucide, gli occhi gemmati. Le chele raccolgono i quadrati di legno sparsi sul letto, li ripongono nella borsa di pelle. Io prendo le mani di mia madre, mamma, penso, rivedo il primo suicidio, il secondo, la telefonata, l’ospedale, mamma i miei tagli, sai, non so cosa dire, non saprei cosa aggiungere, si avviano verso la porta, tutte le volte che hai provato a morire, se c’è qualcosa che ho imparato nei dodici anni in cui sono stata sola, non saprei continuare. Rachele dice parole che non sento, la locusta schiocca un bacio metallico sulla testa di mia madre, la porta si chiude. Sono in piedi. Il silenzio è una corda che si allunga dal cielo alla terra.

 

Rachele e Sara sono uscite da circa mezz’ora. La luce dalla finestra scintilla sulla flebo, su mia madre, sui bendaggi che la coprono e i cuscini che l’avvolgono.

Dodici anni fa, quando sull’addome disegnai con una lametta un rettangolo perfetto, mentre il sangue usciva e i suoni diventavano rotondi, cavi, gli oggetti si scioglievano, le pareti si ritiravano e avanzavano, inspirando ed espirando, formulai una domanda perfetta e pensai che l’avrei posta a mia madre non appena l’avessi vista mia madre. Poi mi ero svegliata in ospedale. Ci avrei passato tre mesi; avevo reciso l’arteria epigastrica.

Mia madre veniva trovarmi ogni giorno, all’inizio. Dopo l’operazione chirurgica, quando ero ancora solo semi-cosciente, sedeva accanto al mio lettino e mi recitava i Salmi, baciandomi sulla fronte a ogni preghiera conclusa. Poi, da un momento all’altro, non venne più. Avevo ricominciato a parlare, a mangiare senza sondino, camminare sorreggendomi all’asta porta-flebo. Non ricordo più cosa la fece arrabbiare. Smise di venire lei, smise Rachele. Sara, pure, scomparve. Il giorno delle dimissioni, l’infermiere mi fece sapere che un appartamento di famiglia era a mia disposizione. Mi diede le chiavi, chiamò un taxi; mi aiutò a entrarci, e mi mandò via. Dodici anni dopo, al primo dei tanti suicidi di mia madre, qualcuno dell’ospedale mi telefonò.

Seduta sul letto, guardo mia madre dinanzi a me. Vorrei chiederle perché: perché te ne sei andata, perché mi hai abbandonato, perché, quando ero bambina, mi dicevi sempre che ero diversa, “di un’altra razza”, dicevi, una razza “storta”, “infame e dannata”. Sempre mi sono chiesta di quale razza tu parlassi; non ci credo, sai – mi perdonerai per questo –, ma tu stessa hai sempre detto che le tribù di Israele erano dodici. Quale era fra queste quella segreta, dimenticata e guasta, e cosa fa di me un loro membro: perché, come, quando. Sai, vorrei chiederti tutto ma, quando cerco le parole, la domanda si fa sciocca, falsa, ne cerco un’altra e quella si sfalda, la riafferro e quella si perde, sparpaglia: semi di tarassaco che si aprono a ventaglio.

Il volto ferito mi osserva serio. Prima che Sara e Rachele tornino, ho un’ora, forse meno. Di tutte le domande, le faccio proprio la più lontana, la più antica: quella che, dopo il taglio sull’addome, avevo visto dinanzi a me.

«Mamma. Quando ero bambina. Perché non mi chiamavi mai col mio nome. Mi chiamavi “Laura”, “Beatrice”, “Arianna”, nomi che non erano miei.»

Lei chiude gli occhi, li riapre. Stringe le mani una sull’altra, deglutisce. Dalla bocca esce perfetto ogni suono:

«Egli conta il numero delle stelle. Tutte loro chiama per nome.»

Sposto leggermente il capo; alzo di poco le sopracciglia. Non ho capito, vorrei dirle, non ho capito. Vorrei dirle ma non parlo: ho finito le parole, la domanda è andata via.

Il muco le scende dal naso; lo nasconde alla vista con la mano. La bocca trema; gli occhi luccicano. Stringe le braccia, curva la schiena. Sembra una bambina. Da qualche parte, tra le rughe, i bendaggi, sulla lingua ferita e suturata, ci dev’essere il senso delle sue parole.

Teocrito – Idillio I – Tirsi o il canto

1

TIRSI
Come è soave il sussurro, o capraio, e insieme quel pino,
che melodioso alle fonti stormisce! E tu pure soave
stai zufolando. Otterrai, dopo Pan, il secondo trofeo:
se lo scegliesse lui il capro cornuto, otterrai tu la capra,
se la avrà lui come premio la capra, ecco, a te la capretta
si assegnerà: la capretta, non munta, ha la carne gustosa.

CAPRAIO
La melodia tua, pastore, è più dolce di quella sonora
acqua che giù dalla roccia si viene effondendo dall’alto.
e se la pecora in dono dovessero averla le Muse,
tu avrai in premio l’agnello svezzato e se invece piacesse
loro tenersi l’agnello, la pecora tu la otterresti.

TIRSI
Vuoi, per le Ninfe, lo vuoi, capraio, sederti qui presso,
qui dove è erto il declivio e crescono le tamerici,
a zufolare? Le capre le pascerò io nel frattempo.

CAPRAIO
Di mezzodì non è usanza per noi, non è usanza, pastore,
di zufolare. Temiamo di Pan: già, perché dalla caccia,
affaticato, ora prende riposo: e bizzoso lo è certo
e di continuo gli salta al naso una collera amara.
Tirsi, tu stesso piuttosto cantavi i dolori di Dafni
e alla pienezza del canto bucolico sèi pervenuto:
ci siederemo qui, sotto l’olmo e di fronte a Priapo,
e nel cospetto di queste sorgenti, qui, dove si trova
quel pastorale giaciglio e le querce. E se canterai,
tu, come quando in contesa con Cromi di Libia hai cantato,
madre di due (tu tre volte la munga) io darò a te una capra,
che ha due capretti, così da mungerne fino a due secchi,
poi una tazza profonda, cosparsa di cera soave,
ora foggiata, a due orecchie, ancora odorosa di intaglio.
L’edera intorno al suo orlo dall’alto si viene intrecciando,
l’edera dell’elicriso aspersa e da questa poi in basso
una voluta si avvolge, superba del frutto del croco.
Dentro una donna è scolpita, dedàleo artificio di dèi,
raffigurata col peplo e il velo: e due uomini accanto
folti di chiome graziose, alterni, ora l’uno ora l’altro
hanno contesa di versi, che no, non le toccano il cuore:
lei sorridendo ora a uno degli uomini volge lo sguardo,
ora rivolge a quell’altro la mente: ambedue per amore
da lungo tempo la occhieggiano, eppure si struggono invano.
Un pescatore ormai vecchio, a seguire, è scolpito, e una rupe
scabra, su cui è impegnato a tendere al lancio ampia rete,
lui, quell’antico, e ad un uomo che ha dura fatica assomiglia.
Ε crederesti che peschi con quanto ha di forza alle membra,
tanto rigonfie le ha tutt’intorno al collo le vene,
anche canuto qual è: forza degna di giovinezza.
Solo di poco lontano dal vecchio affannato dal mare,
grave di grappoli neri si curva una vite graziosa,
quella su cui, fra gli sterpi sedendo, un fanciullo minuto
vigila, mentre a lui intorno due volpi, una lungo i filari
bazzica e intanto fa preda di grappoli, sulla bisaccia
l’altra apparecchia ogni inganno, proclama che dal ragazzino
non verrà via, finché non si stia a bocca asciutta, digiuno.
Lui con asfòdeli intreccia una trappola bella, per grilli,
e la contèsse di giunchi: alla sua bisaccia non pensa,
non alle viti, a tal punto si allieta a quel gioco intessuto.
E tutt’intorno alla coppa si volge dell’umido acanto,
un pastorale prodigio: stupore che affascina il cuore.
A un barcaiolo calidnio per questa ho donato una capra
come compenso e un enorme formaggio di candido latte:
e non ancora ha toccato il mio labbro, ancora rimane
non delibata. Potrei donartela ben volentieri,
se quell’amabile inno volessi cantarmelo, amico.
Io non ti punzecchierò. Suvvia, buon amico, quel canto
certo non lo serberai per Ade che offusca di oblio!

TIRSI
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Tirsi dell’Etna sta qui, la voce di Tirsi è soave.
Dove eravate, che Dafni languiva, già, dove, voi Ninfe?
Forse alle belle vallee del Peneo, o nei pressi del Pindo?
certo non dimoravate sul corso spazioso di Anapo,
non sulla cima dell’Etna, o sull’onda sacra dell’Aci.
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Anche per lui gli sciacalli, per lui ulularono i lupi,
anche per lui, che era morto, il leone pianse dal bosco.
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Molte ai suoi piedi le vacche, e in molti anche i tori perfino,
molte vitelle proruppero in gemiti, con le giovenche.
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Hermes discese per primo dal monte e gli disse poi “Dafni,
chi ti consuma; di chi, buon amico, sèi tanto invaghito?”
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Sono venuti i bovari, i pastori, i caprai sono accorsi:
che male avesse, a lui tuttti chiedevano. Venne Priapo:
“Povero Dafni” esclamò, “perché langui? Per te una fanciulla
spinge i suoi passi fra tutte le fonti e fra tutte le selve
(voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto),
cerca di te: sèi ben misero amante, e sèi senza speranza.
Eri chiamato bovaro, adesso a un capraio assomigli.
Quando il capraio sogguarda le capre che vanno fra i rovi,
fa gli occhi languidi, solo perché non è nato lui capro
(voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto).
E così tu, quando guardi fanciulle che scoppiano in risa,
fai gli occhi languidi, solo perché fra di loro non danzi.”
Non rispondeva a questi il bovaro, ma lo compiva
lui quell’amaro suo amore, e compiva a fondo la Moira.
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Ecco che Cipride venne anche lei, e soave rideva,
sì, di nascosto rideva, ma l’animo grave lo aveva,
disse: “Vantavi senz’altro di vincerlo, Dafni, l’amore:
ora però non sèi vinto tu stesso da amore dolente?”
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
Dafni così tuttavia le rispose: “Cipride greve,
Cipride rapida all’ira, ai mortali Cipride avversa,
forse vuoi dire che il sole per noi è calato del tutto?
Dafni sarà per Amore aspra angustia, ancora nell’Ade.
Voi, Muse amiche, iniziate, iniziate il bucolico canto.
O non si narra che a Cipri il bovaro…? Striscia sull’Ida,
striscia da Anchise: lassù verdeggiano querce e cipressi,
api all’ingresso dei favi intonano dolci ronzii.
Muse, iniziate di nuovo, iniziate il bucolico canto.
Florido è Adone, anche lui, poiché guida al pascolo greggi
e dà la caccia alle lepri e séguita tutte le belve.
Muse, iniziate di nuovo, iniziate il bucolico canto.
Nel contrapporti di nuovo a Diomede, vagli vicino,
digli “Ho ragione di Dafni il bovaro, e con me tu combatti!”
Muse, iniziate di nuovo, iniziate il bucolico canto.
Lupi e sciacalli e voi orse annidate sulle montagne,
io vi saluto: io Dafni il bovaro, con voi nella selva
non ci verrò, non fra i dumi o fra i boschi. Addio, Aretusa,
e fiumi, voi, che mescete al limpido Timbride l’onda.
Muse, iniziate di nuovo, iniziate il bucolico canto.
Io sono Dafni, colui che qui pascolava le vacche,
io sono Dafni, che qui dissetava tori e giovenche.
Muse, iniziate di nuovo, iniziate il bucolico canto.
O Pan, o Pan, sia che alle alte giogaie del Liceo tu rimanga,
sia che tu vada scorrendo il gran Mènalo, all’isola vieni,
alla Sicilia, abbandona anche il capo di Elice e l’alta
tomba del Licaonio, onoranda perfino ai beati.
Muse, finite oramai, finite il bucolico canto.
Vieni tu, re, porta questa siringa compatta di cera
questa che ha soffio di miele e bella è incurvata sul labbro:
Ecco che io per amore ormai sono tratto nell’Ade.
Muse, finite oramai, finite il bucolico canto.
Ora voi rovi recate viole, recatele, o spini,
anche il grazioso narciso in mezzo ai ginepri fiorisca,
ogni natura si inverta e che il pino porti le pere,
ora che Dafni si spegne, e che il cervo cacci le cagne,
e che dai monti anche i gufi garriscano con gli usignoli.”
Muse, finite oramai, finite il bucolico canto.
Come ebbe detto così, si tacque: e l’avrebbe voluto
risollevare, Afrodite: ma quello abbandona ogni stame
delle sue Moire: andò Dafni al fiume dell’Ade, ebbe il gorgo
lui, l’uomo caro alle Muse e non certo odioso alle Ninfe.
Muse, finite oramai, finite il bucolico canto.
Ora tu dammi la capra, io la munga, e ancora la coppa,
sì che io libi alle Muse. Voi spesso saluto, voi, Muse,
voi io saluto· In futuro per voi canterò più soave.

CAPRAIO
Pieno di miele ti resti, o Tirsi, il tuo labbro gentile,
pieno di favi perfino, soave dall’Egilo il fico
possa goderti, poiché canti meglio delle cicale.
Ecco la coppa per te: senti, amico, che odore di buono:
ti sembrerà che sia stata immersa alla fonte delle Ore.
Vieni, Cisseta, tu, qui: tu mungila: voi, o caprette,
non saltellate, che poi non debba drizzarsi il caprone.

Il romanziere a caccia di chimere: “Palafox” di Éric Chevillard

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di Daniele Ruini

Dopo una prima apparizione presso le edizioni Del Vecchio (2018), torna ora nelle librerie italiane Palafox, terza opera del mirabolante Éric Chevillard. La riproposta si deve a Prehistorica Editore, che ha dedicato un’intera collana, chevillardiana, a quello che è considerato uno degli autori più estrosi della letteratura francese contemporanea. E come i 5 titoli già usciti, anche questo libro è tradotto e curato da Gianmaria Finardi, che di Prehistorica Editore è fondatore e direttore, e che ha fatto di Chevillard il fulcro della sua impresa editoriale (non sarà forse un caso che Préhistoire è il titolo di un altro testo –non ancora volto in italiano– dello scrittore francese).

Pubblicato originariamente in Francia nel 1990 da uno Chevillard all’epoca ventiseienne per le prestigiose Éditions de Minuit, Palafox mostra un autore già pienamente padrone di tutti quegli strumenti stilistici che caratterizzano la sua originale produzione. Erede dell’esuberanza comica di Rabelais così come della tradizione anti-romanzesca risalente a Laurence Sterne e Denis Diderot, e accogliendo dall’OuliPo l’idea di una letteratura che mette al centro il piacere del gioco intellettuale, Éric Chevillard nei suoi libri prende le distanze da ogni costruzione romanzesca tradizionale (di cui, semmai, si presenta come un consapevole sabotatore) e si lascia andare a una disinibita invenzione continua, giocando sia con la lingua sia con l’orizzonte d’attesa dei lettori. Caratteristiche che lo avvicinano, per certi versi, a uno scrittore come Ermanno Cavazzoni, col quale sembra condividere una pratica letteraria intesa come libera fantasticazione e manìa completamente aliena dalle aspettative del mercato.

E proprio come un’invenzione continua potrebbe essere definita questa bizzarra creatura che ha nome Palafox e che è strutturata in una successione di episodi tenuti insieme dal vano tentativo di classificare l’essere proteiforme del titolo intorno a cui tutto ruota. Chi è Palafox? O meglio: che cosa è? Sbucato da un uovo sulla tavola che l’ambasciatore inglese in pensione Algernon Buffoon condivide con la figlia Maureen e con il futuro genero Chancelade, la sua vicenda giunge a conclusione 188 pagine dopo senza essersi minimamente avvicinati a una qualche risposta. Si capisce subito, d’altra parte, che è l’enigma stesso, più che la sua eventuale risoluzione, a dare senso a una narrazione che si alimenta per così dire da sé, continuamente rilanciata dalla sfrenata fantasia dell’autore. L’unica caratteristica di Palafox a cui i personaggi, e noi con loro, riescono ad attingere è la sua natura di essere camaleontico, che sembra contenere in sé le proprietà di tutti gli animali. Di qui le difficoltà a imporgli una qualche educazione o a renderlo socialmente presentabile, e di qui anche la frustrazione dei quattro luminari (un entomologo, un ornitologo, un erpetologo e un ittiologo) convocati per dirimere la questione e i cui approcci forniscono a Chevillard l’occasione per elaborare alcune delle pagine più assurdamente burlesche di tutto il libro.

Il gioco che lo scrittore francese porta avanti con attitudine umoristica si propone, evidentemente, come una messa in scacco di ogni pretesa classificatoria: le metamorfosi continue di Palafox, che rendono impossibile definire la sua natura, diventano una divertita presa in giro del tentativo di sistematizzazione di ogni realtà irriducibile al già noto. E il ludibrio tassonomico –sotto forma di elenchi e liste, nonché ricorrendo sovente a un lessico iperspecialista e settoriale (soprattutto trattando di flora e fauna)– di cui Chevillard dà prova diventa parodia di un enciclopedismo fine a sé stesso rispetto cui l’indefinibile Palafox è sempre sfuggente.

Tutto il romanzo si muove sotto il segno del depistaggio: la narrazione, spesso aperta a scenari alternativi (accennati ma mai approfonditi) e continuamente frammentata da digressioni, vuole deliberatamente privare il lettore di appigli saldi su cui edificare delle certezze. Per esempio, da alcuni indizi si potrebbe ipotizzare che la vicenda sia ambientata durante la Prima guerra mondiale, ma la cosa è tutt’altro che certa.

È come se, richiamandosi ai cliché del romanzo tradizionale per negarli, l’autore si divertisse ad alludere ad altre possibilità verso cui la storia avrebbe potuto indirizzarsi. In questo senso è facile vedere nell’inafferrabile Palafox un correlativo oggettivo del tipo di scrittura letteraria che interessa a Chevillard; ce lo confermerebbe il narratore stesso quando, verso la fine, se ne esce dichiarando che Palafox «svolazza attorno alla lampada mentre noi tracciamo queste righe» e domandandosi se «è un caso se i passi più contestabili di questo trattato sono esattamente quelli che abbiamo scritto in presenza di Palafox, e se le nostre frasi si imbrogliano ogni volta che viene a gironzolare sotto la lampada?» (p. 166).

Questa creatività inesauribile coinvolge anche la lingua, l’autore servendosi «di un’infinità di espedienti e procedimenti al fine di liberarsi dalle briglie della lingua standard» (dalla postfazione di Finardi). E a questo proposito va dato atto al traduttore dello sforzo nel rendere in italiano le acrobazie linguistiche di Chevillard: si prenda, per esempio, l’incipit, dove l’ostinazione paronomastica dei verbi Décapsule-t-on, décapite, décapote, décalotte (attraverso i quali si cerca di definire –per approssimazione– l’azione di rompere la sommità di un uovo attraverso un cucchiaino) viene resa ricorrendo a Si scapsula, si scavezza, scapotta, scalotta (p. 7). O i vari casi in cui si ricreano in traduzione le rime interne o i giochi di parole del testo originario (per es. «De là à parler d’une impasse, il n’y a qu’un pas» tradotto con «Da lì a parlare di un’impasse, il passo è breve», p. 29).

E se, come si sarà capito, la cifra di Palafox risiede in una comicità surreale e paradossale che arriva a esibirsi in turbinosi tour de force virtuosistici (come le pagine che descrivono le acrobazie del circo della vasta famiglia Luzzatto, o quelle dedicate a tutti i possibili modi per cucinare Palafox), Éric Chevillard si mostra capace anche di altro, come di descrivere in punta di penna l’effetto del passaggio del tempo sul desiderio:

Ci si calma con l’età: gli ascensori, i giardini pubblici, gli aerei di linea e le porte carraie perdono il loro potere di suggestione erotica, si prende bruscamente coscienza dell’esiguità e della scomodità di quei luoghi, il rischio di essere sorpresi da una guardia o da una hostess non aggiunge più il minimo piccante alla situazione, ormai nulla vale il letto tra due sonnellini per quelle cose, del resto sempre meno spesso, siamo franchi, alla frenesia della passione e del desiderio succedono la tenerezza e la fedeltà complicate da andropausa, un attaccamento più puro e più durevole […]. Perché gli anni passano, il risentimento si insedia e cresce, un brutto rancore, si è così vecchi e così malati, troppo magri e barcollanti per toccarsi senza scorticarsi, si resta insieme comunque, non si hanno più gambe per allontanarsi, la montagna comincia sulla soglia della casetta, allora ci si sopporta, si ricorda, seduti fianco a fianco, silenziosi, si è dimenticata la lingua, due mani si sbriciolano l’una nell’altra, ogni occhio non vede più altro che la propria lacrima, vi si suppone il vasto mondo inghiottito, si è l’ultimo sopravvissuto, il vedovo o la vedova, uno alla volta, il morto (p. 130)

Insomma, tanti sono i registri con cui il romanziere a caccia di chimere sa affascinare chi è ben disposto a farsi trascinare nelle sue fantasticazioni.

 

Il necroforo

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Foto di Manuel de la Fuente da Pixabay

di Jacopo Biolatti

Un’ombra si trascina ossequiosa tra le logore lapidi del cimitero di Bouchet, all’ora del crepuscolo in cui si accendono i primi lampioni. Questa metropoli di fioche luci, le uniche visibili tra le colline blu notte, esiste dall’alba dei tempi; un amletico monumento alla caducità dell’essere, che con i secoli ha finito per superare in popolazione tutti i paesi della Valréas.

Tra le piccole aiuole di fiori appassiti, lasciati dai vivi ai loro sbiaditi ricordi d’infanzia, gli esili segnaposto di marmo riassumono, austeri, esistenze fatue. Il marmo non scompare, almeno per un po’.

Tra la penombra di questo tempio di divinità oscure, un suono di coltello che affonda nel terriccio rintocca, puntuale.

Un becchino dal lungo e impeccabile cappotto nero scava una fossa senza lapide. Pianta e sradica la sua pala rugginosa senza sosta, con l’affanno di chi ha fretta e la cura di chi sa che dovrà mostrare a Dio stesso il frutto del proprio lavoro. E ancora affonda e ancora estirpa le viscere di Gaia, e ancora, e ancora.

«Per chi scavi, necroforo, a quest’ora così tarda, una così profonda fossa?» chiede l’ombra, giunta a cinque passi di distanza.

«Per un corpo» risponde lui senza alzare gli occhi dal suo imprescindibile compito.

«A chi apparteneva quel corpo?»

«Un corpo non appartiene, un corpo è finché non diventa qualcos’altro.»

«E cosa diventa» insiste l’altra «quel corpo che non apparteneva?»

«Un corpo più grande, dice qualcuno.»

«…»

L’uomo continua senza sosta a conficcare nel buio la sua pala, che solo l’eterno ronzìo delle cicale separa dal silenzio.

«Perché sei qui?», domanda all’ombra il becchino.

«Cercavo qualcosa» fa quella guardando altrove.

«Beh, l’hai trovato.»

Un buon sorriso affiora sul viso del vecchio mentre volge la coda dell’occhio al suo interlocutore. L’aria assume una strana tinta tra queste colline, come di fuoco che cerca di uscire dal tizzone in cui è intrappolato. All’ombra ricorda il momento in cui la speranza svanisce.

Strappandola bruscamente dai pensieri in cui boccheggiava, il necroforo chiede a un tratto: «Lei dov’è?».

«Trentaseiesima lapide a sinistra e settantacinquesima in basso dall’entrata sud-est.»

«Proprio accanto al vecchio melograno. Amo anch’io riposarmi lì.»

Lo sguardo dell’ombra accenna al sentiero che risale il pendìo, tra le tombe di edera e foglie secche, tradendo una scintilla di pudore. «La verità» confessa «è che non l’ho mai conosciuta, è morta molti anni prima della mia nascita».

«Capisco» annuisce serio l’indaffarato becchino. «È una forma di coscienza molto alta, quella dell’uomo che inganna consapevolmente la realtà. Pensa, un giorno conobbi un vecchio dottore che raccontava di aver passato tutta la notte a disinfettare, da cima a fondo, l’intero paradiso. Egli assicurava con sincera sorpresa, malgrado il suo meticoloso lavoro, di non aver trovato alcuna traccia di Dio».

«E quale sarebbe la morale di questa storia?»

«La stessa morale di tutte le storie: non cercare Dio dove Dio non può essere».

A pochi passi di distanza due corvi si inseguono goffamente in un gioco di gesti ingenui, saltellando tra le impassibili carcasse della terra dissodata. Parlano una lingua antica e inequivocabile, fatta di parole mute e canti interrotti, che si perdono nell’umida eco di questi campi di uomini.

«Hai sentito?» mormora compiaciuto il vangatore, «questo luogo pullula di gemiti. Ma il cimitero sa far rispettare la quiete che gli si addice. Sa che il silenzio è un ottimo ascoltatore».

«E chi mai dovrebbe ascoltare il silenzio?»

«Ognuno ascolta sempre e soltanto sé stesso, il silenzio non fa eccezione». Il becchino dal lungo cappotto fa una breve pausa, come per assicurarsi che l’altra si stesse veramente ascoltando «Hai mai notato che i giovani tendono a parlare molto nei cimiteri? Al contrario, i vecchi non fanno che attendere, come cercando il compimento di una frase sospesa, uno spiraglio tra le soglie del presente. Pare che tutti imparino ad ascoltare, una volta pronti a parlarsi».

Segue una calma fiduciosa. Tre rintocchi. Il curioso visitatore nota, in questo istante, che la terra estratta dal necroforo sembra scomparire tra la penombra, come se il solo scopo del suo esserci fosse stato lasciare spazio alla fossa.

«Dove poggi la terra di cui privi la buca, necroforo?»

«Non può esistere privazione per colui che non possiede che sé stesso. Sai, mio eterno amico, a fondo ho contemplato questo luogo; ho visto il bosco diventarne un altro, un seme diventarne molti. Ho visto il cielo cessare di esistere soltanto per mantenere il proprio nome, gli stormi di rondini affannarsi ad inseguire la primavera. Si imparano svariate cose da un cimitero; la prima è che un nuovo vuoto colma sempre uno vecchio».

«Siamo quindi condannati al perpetuo vuoto?»

«Non hai ascoltato, dunque? Terra, seme, bosco, vuoto. niente di questo esiste. Esiste un corpo, e il corpo fa ciò che a lui serve». Una lacrima di sudore precipita dalla sua fronte, andando a dissetare la fanghiglia. «Tra queste valli si racconta ancora, ai piccoli, un’antica fiaba. Parla di un lupo, che un tempo errava per le foreste di Poulon, Il giorno la belva si sfamava con le greggi dei pastori, ma ogni notte, volgendosi alla luna, essa cantava il suo amore agli agnelli che aveva sbranato. Il corpo che confessa il corpo. Il lupo comprende il destino della sua danza, si dona alla sua tragicità. L’uomo invece si astrae, pretende di fare della sua felicità il pendolo della perfezione del cosmo. Ma soltanto dove ci sono sepolcri ci sono resurrezioni».

Un leggero alito si alza tra i rami spogli e le pietre adornate. L’alito dice: fluisci.

Il fragile fruscio porta in dono un fiore marcio di un ricordo trascurato. L’ombra lo raccoglie e lo interroga. La corolla ambrata china verso la bramata madre, i sepali corrucciati come palesi crisalidi. Dove prima non avrebbe scorto che la morte di una nascita, adesso trafuga il geroglifico dell’esistenza, sentendo dentro di sé un formicolìo tutto nuovo che rende dolce come neve quest’aria putrefatta.

«Direi che ci siamo» esclama soddisfatto il seppellitore «adesso non resta che riempirla».

«…»

«Daresti, giovane corpo, una mano ad un vecchio becchino affaticato dal molto lavoro?» chiede indicando una vecchia pala, appoggiata ad una panchina di ottone e legno marcio.

L’ombra si ridesta intontita, come di ritorno da un sogno troppo confuso per essere raccontato, getta il fiore nella fossa e si dirige verso la pala.

«Un ricordo per l’oblio?» domanda il necroforo alle sue spalle.

«Soltanto un presente al passato» risponde l’altro infilzando la pala nel terriccio madido.

Più la luce si dissolve, più l’ombra sembra farsi concreta nei suoi stessi pensieri. Una sensazione preme per farsi idea; il suo spirito sta prendendo corpo.

I due scavano in silenzio, con ardore e scrupolo, finché il necroforo, issandosi con solennità, annuncia «Ho scavato abbastanza. È ora che mi riposi».

Così dicendo appoggia la sua pala alla panchina, si avvia a passi sicuri verso la fossa che con tanta premura aveva plasmato e, come abbandonandosi, ci si sdraia dentro.

L’altro, intanto, continua a solcare il suolo, a creare nuovo vuoto per colmare quello vecchio. Ogni volta che la sua vanga penetra il terreno, percepisce nuova linfa incendiare le sue vene, palpitando come radici tra le crepe dell’argilla. Sente la sua anima espandersi come i vermi nella frutta ricolma di semi, come il vento tra le valli taciturne. Non pensava che la sua curiosità lo avrebbe portato così al largo, là dove il senso smarrisce sé stesso. Finalmente capisce le oscure parole del becchino dal lungo cappotto.

Il curioso visitatore realizza di essere ormai rimasto il solo vangatore dell’antico cimitero. Alza lo sguardo. La vecchia buca comincia man mano a riempirsi. Gli occhi, finalmente abituati al buio, scorgono al di là di essa una vaga movenza nella terra. Poco più in là un’altra, e al suo fianco un’altra ancora; una serie interminata di fosse senza lapide, identiche l’una all’altra, si spalanca di fronte a lui, fino a perdersi oltre la linea dell’orizzonte.

Riabbassa la testa, e ricomincia a piantare e a sradicare con minuziosità e determinazione, come se la terra stessa fibrillasse nelle sue braccia chiamandole a lei. C’è un lavoro da adempiere. Mentre scava percepisce una figura, buia come un’ombra, avvicinarsi discretamente dal sentiero.

«Per chi scavi, necroforo, a quest’ora così tarda, una così profonda fossa?» chiede l’ombra, giunta a cinque passi di distanza.

«Per un corpo» risponde lui senza alzare gli occhi dal suo imprescindibile compito.

«A chi apparteneva quel corpo?»

«Un corpo non appartiene, un corpo è finché non diventa qualcos’altro».

«E cosa diventa» insiste l’altra «quel corpo che non apparteneva?»

«Un corpo più grande, dice qualcuno».

Surrealismo, istruzioni per l’uso

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Photographie du groupe surréaliste lors du vernissage de l'exposition « Dada Max Ernst », le 2 mai 1921 - - Auteur inconnu © Chancellerie des Universités de Paris - BLJD, Paris / cliché © BnF / Suzanne Nagy

 

Photographie du groupe surréaliste lors du vernissage de l’exposition « Dada Max Ernst », le 2 mai 1921 – – Auteur inconnu © Chancellerie des Universités de Paris – BLJD, Paris / cliché © BnF / Suzanne Nagy

 

di Giovanni di Benedetto

 

  1. Lâchez tout! Come sono diventato un surrealista

Il 9 aprile 2013 un treno in partenza da Napoli Centrale mi avrebbe portato, l’indomani, a Parigi[1]. Sulla banchina, lo sguardo di Gilda mi rivelava, infine, cosa volesse dire André Breton nelle pagine finali di Nadja quando definiva la bellezza come un treno in partenza dalla Gare de Lyon che non parte mai ma che pure è sempre sul punto di partire. Un movimento convulsivo: un’aritmia che trasforma il cuore in un sismografo. A mano a mano che il viso di Gilda sfilava via dal finestrino – e, questo non lo sapevo ancora, dalla mia vita – un altro si sostituiva al suo: il mio. Chi sono? mi chiedevo, facendo eco alla stessa frase con la quale si apre Nadja. Sono un surrealista. Questa è l’unica risposta che volevo dichiarare alla frontiera e far inscrivere sul mio passaporto. Presi dal taschino interiore della giacca il mio quaderno. Lo sfogliai: sulla prima pagina, come epigrafe, avevo ricopiato la poesia di Breton con la quale aveva rotto col Dadaismo, Lasciate tutto[2] e, di seguito, il Primo Manifesto Infrarealista di Roberto Bolaño, intitolato, non a caso, Lasciate tutto, di nuovo[3]. Ritrovai poi la pagina dove il professor Merlino aveva annotato l’indirizzo e il numero di telefono di Gabriel Saad[4]. Composi il numero e gli inviai un messaggio per chiedergli un appuntamento. Una settimana dopo, sarei stato cordialmente invitato a far parte del Centre de Recherche sur le Surréalisme[5].

Quando quest’estate ho letto in un trafiletto dell’Humanité che il Centre Pompidou avrebbe organizzato una mostra sul Surrealismo in occasione dei cento anni dalla pubblicazione del Manifeste du Surréalisme, ho iniziato a pensare a quante volte mi è capitato di pronunciare la parola SURREALISMO in questi undici anni. E poi, come seduto in un treno della Gare de Lyon, ho visto sfilare i volti e i paesaggi che non solo hanno definito i contorni ma hanno tenuto insieme i pezzi di questi undici anni. Mentre scrivo quest’articolo, mi rendo conto dell’impossibilità di farne a meno. In Nadja, Breton dichiarava la necessità di scrivere dei libri aperti come delle porte spalancate, e così facendo, l’esigenza di reclamare i nomi[6].  «Chi sono, io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto»[7]. Quando ripenso a come sono diventato un surrealista, il cuore inizia a battere come un sismografo: i volti amati diventano la dimostrazione della teoria della deriva dei continenti, e mentre si allontanano, altri, sconosciuti, sorgono dalla faglia terrestre come una foresta in movimento.

 

  1. Surréalisme. La mostra del centenario al Centre Pompidou di Parigi

In occasione dei cento anni dalla pubblicazione del Manifeste du Surréalisme di André Breton, il Centre Pompidou ospita dal 4 settembre 2024 al 13 gennaio 2025 la mostra Surréalisme. Organizzata come un labirinto, l’esposizione prende avvio da una sala in cui è esposto il manoscritto originale di Breton, acquisito di recente dalla Bibliothèque Nationale de France. Più di cinquecento opere, suddivise in tredici capitoli tematici, tracciano una mappa dei leitmotiv poetici del movimento dal 1924 al 1969, anno in cui Jean Schuster decretò lo scioglimento del gruppo surrealista.

I curatori Didier Ottinger (già responsabile della mostra Le Surréalisme et l’objet nel 2014) e Marie Sarré hanno scelto di articolare il percorso guidando il visitatore attraverso tredici temi: 1. Entrée des médiums, 2. Trajectoire du rêve, 3. Machines à coudres et parapluies, 4. Chimères, 5. Alice, 6. Monstres politiques, 7. Le royaume des mères, 8. Mélusine, 9. Forêts, 10. La pierre philosophale, 11. Hymnes à la nuit, 12. Les larmes d’Éros, 13. Cosmos.

In ossequio al carattere internazionale del Surrealismo, dopo il Pompidou, la mostra approderà ai Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique a Bruxelles (dal 21 febbraio al 21 luglio 2025), alla Fundación Mapfre a Madrid (febbraio-maggio 2025), alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo (dal 12 giugno al 12 ottobre 2025) e, infine, al Philadelphia Museum of Art (dal novembre 2025 al febbraio 2026).

 

  1. «Il linguaggio è stato dato all’uomo affinché ne faccia un uso surrealista»

Avventurandosi tra le tredici sale, al visitatore potrebbe capitare di provare, per qualche istante, la vertigine del dérèglement de tous les sens di Rimbaud che era così caro ai surrealisti: lo spazio di ognuna delle sale è saturo all’inverosimile. I quadri, le sculture, gli oggetti surrealisti, i manoscritti, le teche che racchiudono libri e riviste, le persone stesse che visitano la mostra, tutto sembra partecipare ad un medesimo happening volto a dimostrare le possibilità di esaurimento di una parola: SURREALISMO. L’esperienza tende a configurarsi come un manuale di istruzioni a cui attenersi per ottenere una definizione quanto più enciclopedica del Surrealismo. Una definizione che però, ponendosi come semplice tema, riduce le opere a mere illustrazioni e non, come si deve, a una concezione del mondo.

Se volessimo utilizzare le parole che Breton stesso utilizza nel Manifeste du Surréalisme, diremmo che la mostra si limita ad essere un «puro e semplice sovrapporsi delle illustrazioni di un catalogo»[8]. Questa formula era stata utilizzata da Breton per criticare «l’atteggiamento realista» e, più in particolare, il procedimento della descrizione del romanzo realista. In un saggio del 1936 intitolato Narrare o descrivere?, György Lukács individua nell’antinomia tra narrazione e descrizione non solo la scelta di una tecnica letteraria tramite cui rappresentare la realtà, ma, soprattutto, due azioni che presiedono a una differente concezione del mondo. Narrare o descrivere? Il quesito investe il rapporto stesso che uno scrittore ha con la vita: partecipare o osservare?[9] Osservare presuppone un certo tipo di atteggiamento davanti al mondo e alla vita e la descrizione è il mezzo espressivo di tale atteggiamento. Descrivere è un’interpretazione del mondo. E, dal momento che per i surrealisti «l’attività di interpretazione del mondo deve continuare ad essere legata all’attività di trasformazione del mondo»[10] , rifiutare la descrizione è un’azione etica, prima ancora che estetica: «Qualsiasi errore nell’interpretazione dell’uomo porta con sé un errore nell’interpretazione dell’universo: ed è quindi un ostacolo alla sua trasformazione»[11]. Il surrealismo è innanzitutto una concezione del mondo. Una concezione del mondo che ipotizza e ipotèca la parola rivoluzione coniugando il verbo di Marx con quello di Rimbaud: «Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud: per noi, queste due parole d’ordine fanno tutt’uno»[12]. Il surrealismo è al servizio della rivoluzione, come decreterà Breton nel 1929 in seguito alla pubblicazione del Second Manifeste du Surréalisme. E la rivoluzione, per i surrealisti, è un progetto di vita.

Ora, la mostra del Centre Pompidou, museificando e tematizzando il surrealismo, finisce col neutralizzare e anestetizzare la portata rivoluzionaria di cui è portatore. Annie Le Brun, in Qui vive. Considérations actuelles sur l’inactualité du surréalisme (Flammarion), un saggio del 1991 pubblicato in occasione di una mostra che il Centre Pompidou aveva dedicato ad André Breton e che è stato riedito in occasione della mostra del centenario, critica vivacemente l’addomesticamento subito dal Surrealismo dovuto alla «neutralisation universitaire» e alla sua «spectaculaire transmutation en valeur marchande». Annie Le Brun, che, nel 1966 – poco più che ventenne – ha conosciuto Breton entrando a far parte del gruppo surrealista poco prima della morte del suo iniziatore, ricorda come Breton si sia opposto, durante tutta la sua esistenza, alla «sopravvivenza del segno alla cosa significata» e come questa minaccia di cristallizzazione estetica sia stata all’origine degli innumerevoli riorientamenti che hanno ritmato la storia del Surrealismo.

Il demerito più grande della mostra del centenario al Pompidou è aver completamente tralasciato ciò che ha permesso al Surrealismo di reinventarsi di continuo e definirsi, di fatto, come una rivoluzione permanente: l’aver inteso dialetticamente la realtà e l’immaginazione, ponendo quest’ultima come principio di trasformazione della prima e facendo di tutta l’impresa surrealista, senza distinzione possibile tra produzione di opere e riflessione metodologica, come un’operazione di vasta portata svolta sul linguaggio. Quando Breton si chiede se «la mediocrità del nostro universo non dipende forse essenzialmente dal nostro potere di enunciazione», delinea un vero e proprio piano d’azione, ancora oggi di grande attualità (la lotta per l’adozione della scrittura inclusiva non è forse un tentativo di intervenire, attraverso il linguaggio, sui rapporti di forza determinati dal patriarcato, contribuendo ad ampliare la lotta di classe nella sfera linguistica trasformando il mondo e cambiando la vita proprio come auspicato da Breton?). Quando nel Manifesto è chiaramente annunciato che  «il linguaggio è stato dato all’uomo affinché ne faccia un uso surrealista», Breton indica come le differenti tecniche adoperate dai surrealisti per interrogare la (sur)realtà – la scrittura automatica, i cadavres exquis, i racconti di sogni, i collages, la fotografia, il cinema, la pittura, e quei particolari tipi di oggetti romanzeschi che sono Nadja di Breton e Le Paysan de Paris di Aragon – partecipano, senza stabilire una gerarchia, alla trasformazione della realtà. D’altro canto, più che definirle tecniche, esse andrebbero definite come variazione di una stessa pratica: la poesia. Poesia che chiaramente, seguendo Annie Le Brun, non è da intendersi come forma esclusivamente letteraria, ma come coscienza poetica, e, in definitiva, come la pratica del mondo auspicata da Rimbaud: «la poesia non ritmerà più l’azione, le sarà davanti».

Quando nel 1940 Hitler entra a Parigi, tutti i surrealisti si organizzeranno prendendo parte, senza esitazione, alla Resistenza e alla lotta armata. Immaginare un altro mondo e lottare affinché esso diventi realtà, era qualcosa la cui necessità faceva parte del loro stesso essere. Il surrealista non scrive poesie. Il surrealista fa la poesia. Il surrealista non esegue dipinti a partire da un tema, il surrealista insorge contro la rappresentazione museificata della realtà perché la realtà è per lui una possibilità continua di esercitare una rivoluzione permanente.

Mentre il visitatore della mostra del centenario organizzata dal Centre Pompidou si dirige alle toilettes per una breve pausa e il lettore si dimestica tra le note di quest’articolo chiedendosi «e dunque, ‘sta mostra?, vado o resto a casa?», chiamiamo alle armi i nostri fratelli e chiediamo, ufficialmente, l’occultamento del Surrealismo.

 

  1. Il Surrealismo in clandestinità

«L’approvazione del pubblico è da fuggire più di ogni altra cosa. Bisogna assolutamente impedire al pubblico d’entrare se si vuol evitare la confusione. Aggiungo che bisogna tenerlo esasperato alla porta con un sistema di sfide e di provocazioni. CHIEDO L’OCCULTAMENTO PROFONDO, EFFETTIVO DEL SURREALISMO. Proclamo, in questa materia, il diritto all’assoluta severità. Nessuna concessione al mondo, nessuna grazia. Di fronte a noi, la terribile alternativa». (André Breton, Secondo Manifesto del Surrealismo, 1929).

*

Il visitatore, dopo aver scrollato a fatica, con un leggero affanno, le ultime gocce di urina, riabbottona il suo pantalone e tira lo scarico. Seguendo il vortice che si crea nel gabinetto, si rende conto, in ritardo (era intento a ricordarsi dove avesse già visto quel quadro di Dalì e a chiedersi il senso, se gli fosse piaciuto o meno, se fuori piovesse ancora e a che ora sarebbe rientrato a casa per non perdersi l’ultimo episodio della sua serie preferita), che c’è un pezzo di merda che galleggia sulla superficie vischiosa dell’acqua senza andare nel fondo e che quel pezzo di merda che galleggia gli ricorda la forma di una pistola, o una stella, o il vuoto, o l’infinito a cui pensava da bambino quando guardava il cielo stellato, o il primo amore o tutte queste cose insieme.

Ed è in quel momento che il Gruppo Surrealista Clandestino entra in azione.

 

  1. Prolegomeni a un Manifesto del Surrealismo in clandestinità, o no

Noi ci annoiamo nelle città.

Il giorno, come la notte, è un dormitorio nel quale ogni corridoio conduce a un letto di morte o in una sala operatoria. Il ticchettio di una sveglia ispira la progettazione delle nostre più belle bombe incendiarie.

Noi, surrealisti clandestini, rifiutiamo la morte e chiediamo di essere sepolti vivi.

Abbiamo scelto i sotterranei perché il cielo è troppo azzurro, o troppo grigio, e mai all’altezza del cielo stellato dentro di noi. A Kant preferiamo Kierkegaard, a Kierkegaard preferiamo Spinoza e a Spinoza preferiremo sempre il nostro migliore amico. Le affinità elettive sono la dimostrazione scientifica della teoria della deriva dei continenti.

Abbiamo visto Marcel Proust tornare dal campo di concentramento di Buchenwald per dirci di bruciare il tempo perduto prima di addormentarsi nella sua bara, in attesa del bacio di sua madre.

Abbiamo visto Thomas Mann spararsi alla testa giocando alla roulette russa con suo figlio Klaus.

Abbiamo visto Robert Brasillach tornare dal patibolo per chiedere la grazia e René Char dirgli di andare all’inferno prima di ammazzarlo e mandarlo davvero all’inferno.

Abbiamo visto Giraut de Bornelh giocare ai dadi con Stéphane Mallarmé in un ospedale psichiatrico mentre le infermiere svuotavano i loro pitali e i trovatori piangevano nel cortile della ricreazione aspettando le visite del giorno.

Abbiamo visto Guido Cavalcanti sodomizzare Beatrice mentre Dante li osservava e si masturbava di nascosto scrivendo il quarto tomo della Divina Commedia, quello in cui raccontava il suo ritorno sulla terra dopo il viaggio e giungeva alla conclusione che né Dio né l’amore esistevano e che solo esistevano le stelle.

Abbiamo visto Néstor Sánchez elemosinare in place Stalingrad a Parigi per comprarsi del crack a buon mercato e restare sveglio tutta la notte per finire di scrivere il libro che avrebbe dovuto renderlo immortale (quando stava per mettere il punto finale, ebbe un arresto cardiaco e scoprì che non sarebbe stato immortale, che i suoi libri sarebbero finiti fuori catalogo e poi al macero, che il suo nome sarebbe stato espunto dalla versione aggiornata della Storia della letteratura argentina, e che nessuno, infine, si sarebbe ricordato di lui o, se un lettore avesse incontrato il suo nome, avrebbe pensato a uno scrittore immaginario o a un fantasma, ovvero, la stessa cosa).

Il metodo sperimentale è il nostro imperativo categorico. Né la dolcezza dei figli, né la pietà dei vecchi padri, né il debito amore per le Penelopi, le Beatrici e le Dulcinee potranno mai vincere l’ardore che abbiamo di divenir del mondo esperti.

La festa è la nostra rivoluzione permanente (ai funerali – soprattutto al nostro –, ai battesimi, ai matrimoni, alle nascite dei figli, vogliamo ubriacarci senza alcuna misura, sostituire il vino al sangue, sentirci come Cristo il giorno della resurrezione, e poi, quando la vescica avrà assunto la forma di una granata, pisciare negli urinatoi delle città fino a farli esplodere). Il nostro fegato ingrossato, notre foi grasse, è la nostra assicurazione vitale.

Ivan Chtcheglov è surrealista clandestino in geografia urbana.

Gilles Deleuze è surrealista clandestino nel desiderio.

Lucien Chardon è surrealista clandestino in Balzac.

Marx è surrealista clandestino nella poesia

Rimbaud è surrealista clandestino in Diego Armando Maradona.

Aleksandra Michajlovna Kollontaj è surrealista clandestina nel marxismo-leninismo.

Ernest Hemingway è surrealista clandestino nella lotta armata.

Georges Perec è surrealista clandestino nella memoria.

Il 1917 è surrealista clandestino nel 1871.

Marcel Proust è surrealista clandestino quando legge l’orario dei treni in partenza.

Mohamed Mbougar Sarr è surrealista clandestino nel labirinto.

Jorge Louis Borges è surrealista clandestino nella fisica quantistica.

Robert Desnos è surrealista clandestino nella morte.

Sergej Gennadievič Nečaev è surrealista clandestino nella catechesi.

Roberto Bolaño è surrealista clandestino nella pratica della vita.

Seleziona la risposta corretta: Rifiutiamo di issare le bandiere a mezz’asta: a) delle nostre erezioni mattutine; b) della nostra immaginazione; c) della nostra impazienza (abbiamo fame).

Seleziona la risposta corretta: Quando un surrealista clandestino osserva una bottiglia vuota: a) immagina una Molotov; b) la utilizza come un vaso di fiori; c) compra (o – a partire dalla sua condizione socioeconomica – ruba o prende in prestito) una nuova bottiglia; d) chiama a raccolta gli altri surrealisti clandestini interrogandoli con la stessa frase che nel 1902 Vladimir Il’Ič Ul’Janov rivolse ai compagni riguardo la linea da adottare: Che fare? La discussione si prolunga fino all’alba, talvolta fino all’alba successiva e nel frattempo i surrealisti clandestini continuano a condurre la vita di tutti i giorni – mangiano, bevono, scopano, vanno al cesso, guardano un film, partono in viaggio, scrivono, s’innamorano, qualcuno di loro muore, invecchiano, passeggiano lungo la Senna quando le giornate iniziano a farsi più lunghe, litigano, fumano una sigaretta affacciati ai balconi delle loro mansarde come se fossero affacciati su una vena aperta, ordinano al barista un altro caffè per restare svegli fino al giorno del giudizio – ma tutto, sempre, lo fanno INSIEME.

Che tutto ciò che è felice sia crocifisso! (Perché risorgerà).

Al demone dell’eterno ritorno, l’unica risposta che potremo mai dargli è – e sempre sarà –  Es muss sein!

Ciò che abbiamo amato una volta, lo ameremo per sempre.

Completa la frase: Lasciamo tutto perché abbiamo bisogno di tutto affrontare nuovamente, tutto rivedere, tutto accettare, tutto reinventare, tutto ___________________.

Risolvi l’operazione matematica: 1 + 9 + 1 + 7 = __________________.

I sotterranei, il nostro Palazzo d’Inverno.

Poeti, scioglietevi i capelli (se li avete).

Le cronache del tempo riportano che nel 1871, alla vigilia della Comune di Parigi, i primi surrealisti clandestini spararono agli orologi.

Tic-tac tic-tac tic-tac.

Il ticchettio di una sveglia ispira la progettazione delle nostre più belle bombe incendiarie.

Lo ripetiamo: ciò che abbiamo amato una volta, lo ameremo per sempre.

C’era una volta: ci sarà una ri-volta.

___

[1] Durante i mesi precedenti avevo lavorato a un progetto di dottorato sull’opera di Arturo Benedetti (Palermo, 1909 – Parigi, 2003), colui che Carlo Bo aveva definito nella sua Antologia del surrealismo il primo e l’ultimo surrealista italiano. Grazie al professor Merlino, la scoperta del Surrealismo, tre anni prima, aveva rivoluzionato la mia vita con l’urgenza della rivelazione. Nel corso dell’inverno del 2013 mi interrogavo sulla necessità di mettere tutto in questione. Due poesie di Breton, Lâchez tout e Plutôt la vie, erano diventate il mantra che ripetevo di continuo ogni mattina mentre risalivo Via Diaz, a Portici, per prendere la Vesuviana in direzione di Napoli. Maurizio mi attendeva a Porta Nolana. Insieme ci recavamo alla Biblioteca universitaria e lì trascorrevamo tutta la giornata a bere caffè e a studiare per ottenere un dottorato che per noi significava soprattutto la possibilità di avere per tre anni i soldi necessari per viaggiare e studiare senza l’urgenza di cercare un lavoro. A febbraio nessuno dei due riuscì ad ottenere la borsa di studio. Durante un pomeriggio trascorso nell’aula occupata di Porta di Massa, avemmo l’idea di chiamare André che, nel frattempo, era tornato a Parigi. «Ma se dovessimo prendere un biglietto per Parigi, potresti ospitarci per qualche tempo?». Quando finimmo la chiamata andammo a fumare una sigaretta nel chiostro. Non aggiungemmo nessuna parola superflua. Tutti e due eravamo impegnati ad eseguire metodicamente il nostro congedo da Napoli osservando la cupola di San Pietro Martire e la porzione di cielo che la modellava e che, a momenti, sembrava potesse crollarle addosso.

Il 9 aprile 2013 un treno in partenza da Napoli Centrale mi avrebbe portato, l’indomani, a Parigi.

[2] «Lasciate tutto, lasciate Dada / Lasciate la moglie, lasciate l’amante / Lasciate le paure e le speranze. / Sbarazzatevi dei figli in un bosco. / Lasciate il certo per l’incerto. / Lasciate una vita confortevole, ciò che vi è stato dato come progetto per il futuro. / Andate per le strade».

[3] «Il rischio sta sempre da un’altra parte. Il vero poeta è quello che lascia sempre sé stesso alle spalle. Mai troppo tempo in uno stesso posto».

[4] Saad, oltre ad essere stato un amico intimo di Breton, José Corti (lo storico editore-libraio dei surrealisti), di Cortázar, e di Danilo Kiš, era l’esecutore testamentario di Arturo Benedetti.

[5]  Le cose non andarono come previsto. Avevo terminato i miei risparmi nel giro di neanche due settimane. Iniziai a lavorare in un bar. Mi ero imposto una rigida ripartizione delle mie giornate: la mattina lavoravo al bar, il pomeriggio andavo con Saad alla BNF per consultare l’archivio di Benedetti, la sera mi ubriacavo con André. Il mese successivo al mio arrivo incontrai Elisa. Il volto di Gilda continuava a sfilare via dal finestrino, confondendosi sempre più con quello dei fantasmi. Sarei tornato a casa? E se anche fossi tornato, che forma avrebbe avuto quel volto? Non lo so neanche ora: probabilmente le rughe delimitano ormai il contorno di quegli occhi che un tempo mi guardavano e che ora guardano altrove.

[6] Scorrono i volti di Gilda, del professor Merlino, di Gabriel Saad, di Arturo Benedetti, quello di André, di Elisa, di Cécile, di Paul, Raoul, Marion, Lola, Giulia, Claire, Simon, Gildas, Hessam, Chloé, Mathilde, Flore, Gabriele, Olly, Camilla, Héloise, Laura, e quello di Clémence.  A leggerli di seguito questi nomi, un giorno, non formeranno, forse, un monumento ai caduti, la mia personale enciclopedia dei morti?

[7] A. Breton, Nadja, trad.it, G. Falzoni, Einaudi, 2007, p. 5.

[8] A. Breton, Manifesti del Surrealismo, trad. it. di L. Magrini, Einaudi, 1987, p. 14.

[9] Lukács individua nel 1848 lo spartiacque che determina un differente modo operato dagli scrittori di rapportarsi alla vita. Mentre, infatti, secondo Lukács scrittori come Balzac, Stendhal, Dickens e Tolstoj, rappresentanti di quella società borghese che andava definitivamente consolidandosi attraverso varie crisi, «hanno vissuto questo processo di formazione nella sua crisi di trapasso, prendendovi attivamente parte», gli scrittori della generazione successiva, Flaubert, Zola, Maupassant, «hanno iniziato la loro attività dopo la battaglia di giugno, in una società borghese fissata e costituita». Ne è conseguito che questi ultimi «non hanno più attivamente partecipato alla vita di questa società; né volevano parteciparvi». E, aggiunge Lukács, «questo rifiuto è dovuto soprattutto a un atteggiamento di opposizione, cioè esprime l’odio, l’orrore e il disprezzo che essi nutrono per il regime politico e sociale del loro tempo». Al partecipare alla vita della generazione di Balzac si contrappone, dunque, l’osservare la vita della generazione di Flaubert e Zola: essi, non potendo e non volendo partecipare alla vita per trasformarla, «non possono che scegliere la solitudine, e diventano osservatori critici della società borghese».

[10] A. Breton, Posizione politica del surrealismo, in Id., Manifesti del surrealismo, cit, p. 172.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

Preferisco l’arancio amaro

1

di Giorgiomaria Cornelio

 

Mio padrone,

 

vi scrivo per dirvi che sono di un’altra obbedienza.  

Non mi riconosco in questo sistema stellare,

che inclina e straborda fin dentro la fabbrica.

Non voglio raggiri o motivazioni.

Se mai vi giungesse questa mia lettera,

sappiate che non mi avete meritato.

Che tutto quello che ho fatto, non era per voi.

Alle consolazioni, preferisco l’arancio amaro.

 

Oh mio tiranno, non c’è disfatta che basti

a darvi ragione. Non voglio servire

la cronaca di questo secolo,

ma cancellare il mio nome dal vostro.

 

Il movente del potere è un motore immobile.

Voi lo sapete, e lo avete dimenticato.

 

Me ne vado scricchiolando, come un intoppo.

Ma sui miei piedi, che ancora sanno battere

una bella ritirata.

 

P.S.

 

E per farvi un ultimo torto,

oh caro padrone,

mio oppressore,

 

io ti amo.

 

***

Un inedito di Giorgiomaria Cornelio.

Partitura visiva di Giuditta Chiaraluce.

 

La narrazione: crisi o big bang

1

di Giacomo Agnoletti

Ma ora stiamo vivendo un big bang della narrazione: un’espansione incredibilmente rapida dell’universo delle storie in ogni direzione. Viviamo nell’era dei social media, della saturazione delle serie televisive, dei canali di notizie ventiquattr’ore su ventiquattro e di un consumo complessivo dei media a livelli stellari.

Jonathan Gottschall, Il lato oscuro delle storie

Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa.

Byung-Chul Han, La crisi della narrazione

Negli ultimi anni sono comparsi una miriade di libri sulla narrazione, tanto che non è facile dar conto di tutte le uscite: fra gli autori più importanti, ricorderei Will Storr, Christian Salmon, Jonathan Gottschall e, più recentemente, Byung-Chul Han e David Colon.

Ciò che stupisce è che non si tratta lavori accademici, ma di saggi divulgativi rivolti alla generalità del pubblico: sembra infatti che lo storytelling, come lo chiamano gli anglofoni, stia godendo di un momento di fortuna a livello planetario. Anche la fiction cinematografica si è accorta dell’importanza della narrazione: basta ricordare il docufilm di Netflix The Social Dilemma (2020) o il film Don’t Look Up (2021). Perché quest’attenzione per un argomento prima riservato ai filosofi e agli studiosi di semiotica? La motivazione, a mio avviso, non sta soltanto nel successo dello storytelling come tecnica di marketing.

Cercherò allora di chiarire la ragione della necessità, sentita da un’audience globale, di esplorare le potenzialità della narrazione, e lo farò attraverso gli ultimi saggi di Gottschall e di Han. L’argomento è per entrambi lo stesso – narrazione e società contemporanea – e, fatto non irrilevante, entrambi hanno avuto un ottimo riscontro di pubblico. Ma se Gottschall dipinge un mondo dove “le persone consumano molte più storie, come mai prima d’ora”, Han ha invece intitolato il suo saggio La crisi della narrazione.

Insomma, viene da chiedersi, nella nostra società la pratica narrativa è in crescita oppure no? Dipende da quale significato si attribuisce alla parola “narrazione”. Se  ne parliamo in termini neuroscientifici ed evolutivi, è facile concordare che la narrazione è un elemento profondamente umano e dai connotati addirittura biologici. Le divergenze emergono quando accantoniamo le storie che gli uomini primitivi si raccontavano intorno al fuoco per concentrarci sull’attuale proliferare di micro-narrazioni, magari attraverso Telegram, Instagram & affini.

1.

L’analisi di Gottschall è ben articolata, soprattutto quando parla della psicologia sado-masochista dei fruitori di storie: noi lettori, o spettatori, ci comportiamo come masochisti quando tendiamo a identificarci coi buoni, quelli che soffrono o che subiscono un torto; ma dopo tale identificazione emerge, solitamente nella conclusione della storia, una tendenza sadica quando godiamo per la punizione inflitta all’antagonista. Qui risiede il “lato oscuro” della narrazione: dopo il contatto empatico col personaggio “buono”, si rafforza nella psiche dei fruitori una “sorta di cecità morale verso l’umanità di chi viene spinto nel ruolo del cattivo”.

Gottschall è convincente e obiettivo quando chiarisce ai lettori le grandi potenzialità – e dunque anche i pericoli – della narrazione; lo è però molto di meno via via che il saggio si avvia verso la conclusione. L’autore statunitense, proponendo di avvalersi di un “metodo scientifico”, pretenderebbe di discriminare fra narrazioni “corrette” e narrazioni “complottiste”. Non occorre essere conoscitori delle diatribe teoriche sul disaccordo nelle scienze dure – e dunque scettici riguardo alla possibilità di uno sguardo neutro sulla realtà – per essere sfiorati dal sospetto che l’autore voglia screditare alcuni politici americani, che acquisirebbero proseliti con la diffusione di tali “cattive storie” su internet; e il sospetto diviene certezza quando Gottschall esplicita i riferimenti a Donald Trump, definito “Grosso Trombone”.

La tesi espressa nel Lato oscuro delle storie, dietro un pacato invito alla selezione dei contenuti, apre garbatamente a una possibile forma di sorveglianza sulla comunicazione, risultando quindi piuttosto radicale. Tuttavia la posizione dell’autore è forse più comprensibile se si tiene conto delle profonde divisioni interne alla società americana (recentemente portate sullo schermo da Civil War di Alex Garland).

Possiamo allora tentare di rispondere alla domanda posta in apertura: perché la narrazione, da questione accademica, è divenuta un tema “caldo” ben presente sugli scaffali delle librerie e trattato diffusamente su ogni tipo di media?

La risposta si trova soprattutto nei testi di autori come David Colon e Jonathan Gottschall, che si rivolgono a un pubblico di orientamento progressista in politica, liberista in economia e generalmente sospettoso riguardo a ogni tipo di contestazione nei riguardi del sistema democratico occidentale, ritenuto perfettibile ma superiore  a ogni altra forma di “autocrazia”. Il lettore-tipo di questi saggi è preoccupato dalla facilità con cui internet permette alle “cattive storie” (definite fake-news, o complotti) di circolare, e soprattutto dalla possibilità che questo big bang narrativo possa diventare la principale forma di comunicazione politica. “[N]on credo sia una coincidenza”, scrive Gottschall, “che l’ascesa dei social media corrisponda perfettamente a un big bang della polarizzazione e dell’instabilità sociale, non solo in America ma in gran parte del mondo”. L’analisi di Gottschall è dunque efficace nello spiegare a un lettore – che presumibilmente condivide già in partenza l’orientamento politico dell’autore – quali siano le potenzialità e soprattutto i rischi connessi all’aumento della circolazione delle “storie”, cioè delle possibili visioni del mondo, attraverso i social media; e per questo ha successo, trova un pubblico ampio.

Ma, implicazioni ideologiche a parte, il vero limite del saggio è forse l’incapacità di guardare ai fatti sociali come movimenti che si originano dal basso. Già dall’introduzione, in cui le storie vengono definite “il mezzo migliore che noi umani abbiamo inventato per influenzarci a vicenda, per dominarci l’un l’altro (…)”, si palesa una rappresentazione passiva dell’audience, il cui comportamento è considerato facilmente condizionabile da ogni genere di narrazione. Perché, invece, non ribaltare la visione e considerare il proliferare di siti complottisti su internet non come la causa, ma come l’effetto dello scontento e della delusione di una larga fetta del pubblico? Perché non considerare con il dovuto rispetto le scelte dei consumatori, che a milioni si rivolgono alle teorie cospirative più varie, anziché svalutare tali preferenze, attribuendole a un uso “malevolo” della narrazione?

Sembra insomma che sia davvero difficile smettere, come scriveva Micheal De Certeau negli anni Ottanta, di “considerare la gente idiota”. Eppure, solo attribuendo dignità alle scelte dell’uomo comune, che “in ogni epoca previene i testi” (ancora con De Certeau), sarà possibile leggere un fatto sociale. Anche nel caso del saggio di Gottschall, mi sembra più significativo collegare il successo della sua opera alle preoccupazioni per la libertà di espressione permessa da internet – e non certo al lavaggio del cervello operato da chissà quale dei media di sistema.

2.

Han si rivolge invece a un pubblico ben diverso, decisamente critico nei confronti del capitalismo neoliberista anche se per molti aspetti convinto della sua inevitabilità e, forse per questo, piuttosto scettico riguardo a ogni possibile forma di resistenza. Han non nega che i modelli narrativi siano oggi dilaganti: ne è un esempio la pubblicità, che ha ormai definitivamente abbandonato le vecchie strategie realiste (illustrare, dimostrare) per sposare una ben più profittevole strategia culturale-emotiva basata sul “raccontare una storia sul prodotto”. Questo lo storytelling che dilaga ovunque. Ma tale forma di narrazione, in quanto emanazione del sistema economico, riduce tutto al consumo. Lo storytelling non apre verso una realtà altra, non spaesa, non contraddice, non spaventa. Al massimo, incuriosisce: invoglia a provare un’altra esperienza, un altro gadget, un’altra vacanza. Han dipinge l’uomo di oggi come prigioniero in un mondo disincantato: e il dis-incanto non è prodotto solo dal crollo delle ideologie forti, ma dalla logica onnipresente e soffocante della modernità borghese, scientifica, razionale. La realtà viene compresa attraverso relazioni causali che spiegano il mondo, ma lo privano per sempre del suo incanto: “le cose esistono, ma tacciono. L’incanto è fuggito via dalle cose”.

Nel mondo disincantato è possibile l’informazione, ma non la narrazione. Assistiamo allora a una proliferazione di “narrazioni deboli” – nei notiziari televisivi, nei social network e nelle strategie di marketing; ma queste micro-narrazioni brevi, veloci, contingenti, non fanno che confermare lo stato di crisi di un fenomeno profondamente umano: l’arte di narrare. Citando Benjamin, Han spiega come la prassi narrativa richieda calma, capacità di ascoltare e di appropriarsi con lentezza dell’esperienza del narratore (gnarus, esperto): lasciandosi avvolgere, come in un “caldo panno grigio”, dalla “distensione spirituale” indotta dalla noia, invece temutissima dagli odierni professionisti dell’informazione.

Insomma, mentre la prassi narrativa autentica è entrata in una crisi irreversibile, si espandono tutta una serie di micro-narrazioni intrinsecamente anti-narrative: notiziari velocissimi che ricercano un effetto sorpresa, storytelling pubblicitario, fiction incentrate sulla sfera privata, spiegazioni del mondo semplificate a sfondo complottista. Questa la dilagante prassi anti-narrativa, basata su un accumulo di informazioni e su un’oscena (inevitabile il riferimento a Baudrillard) esposizione di tutto. Fino a raggiungere, con le storie di Instagram o di TikTok, “il grado zero della prassi narrativa”. Informazione e poi ancora informazione, secondo un processo di addizione e non di selezione. Ma l’accumulo, l’archiviazione e l’esposizione sono disumani: solo il computer espone e ricorda tutto. Il ricordo umano invece è parziale, selettivo, lacunoso, incerto. A volte sfocato e persino mendace. L’eccesso di informazioni, ammonisce allora Han, ci sta allontanando dalla nostra umanità: ci ha già disumanizzati se, come affermano i neuroscienziati, l’essere umano è un animal narrans, e proprio la prassi narrativa è alla base della nostra struttura biologica.

Al di là della prosa scarna ma suggestiva di Han, che colpisce inesorabilmente il suo pubblico (nel quale confesso di riconoscermi), anche nel suo saggio si percepisce il disinteresse per l’analisi in senso attivo delle scelte dell’audience. Han non riesce a scorgere – o non è interessato a farlo – nella vita quotidiana una qualunque forma di resistenza da parte dei consumatori di storie: che è come dire un barlume di speranza. Perché, se abbiamo appurato che la prassi narrativa, che ci ha plasmati e definiti come esseri umani, è ormai entrata in crisi con la crescita inarrestabile di media che vanno verso lo sviluppo di contenuti on demand, dunque individuali, singolari e spoliticizzati, come potremo costruire l’orizzonte narrativo di un “noi” che possa andare oltre la miriade di “io” che emergono dalla micro-narrazioni dei nostri dispositivi smart? La narrazione, dopo averci costruito biologicamente come esseri umani, dopo averci accompagnato per millenni, sta ora perdendo la propria funzione sociale, comunitaria?

Han è un efficace interprete della tendenza depressiva del nostro tempo, che ha indagato in molte delle sue opere (ad es., in Capitalism and the Death Drive). Credo che alla fine il tema di fondo, presente anche in questo La crisi della narrazione, riguardi la pulsione all’auto-sfruttamento indotta dalla “società della performance”: siamo ben felici di sfruttare noi stessi, fino letteralmente a morirne, per tenere alta la bandiera di un sistema che non ha nulla da offrirci a parte un benessere illusorio. Eppure, non riusciamo a sottrarci a questo tipo di logica, che ci impone di sfruttare noi stessi, e il pianeta in cui viviamo, fino all’esaurimento. E l’allontanamento dalla lentezza tipica della prassi narrativa, alla quale si è sostituita un’asettica proliferazione informativa, è certo una triste conferma della tendenza alla disumanizzazione e, in fondo, all’auto-annientamento.

3.

Sia Gottschall che Han rappresentano bene le preoccupazioni, tipiche del nostro tempo, relative al proliferare informativo indotto dalle nuove tecnologie. La posizione, anche politica, di Gottschall è molto chiara. La sua preoccupazione riguarda il trumpismo, la svalutazione della cultura istituzionale, e sottotraccia la possibilità di una guerra civile nel cuore del mondo democratico. Ma l’autore statunitense, per condurre la sua analisi, svaluta completamente la cultura pop, che viene dal basso: se la gente è totalmente influenzabile, allora la cultura di massa, in quanto imposta, non esiste; quindi, perché perdere del tempo a studiarla? Prima erano i media conglomerate a orientare l’audience, adesso i complottisti. Questa, in estrema sintesi, l’impostazione di metodo seguita da Gottschall, come da moltissimi altri: e infatti da troppi anni si è quasi del tutto persa l’abitudine a fare critica sociologica, cioè a interpretare i fatti sociali attraverso l’analisi di un prodotto culturale di successo.

Han tende invece a evidenziare lo stato di crisi della società contemporanea. Con chiarezza disarmante, comunica al lettore che la prassi narrativa è finita: ora ci sono solo informazione e storytelling pubblicitario. Al massimo qualche sprazzo di fiction, comunque centrata sulla sfera privata, sui diritti del singolo o di un gruppo, purché non si parli dell’intera società: la coesione sociale è roba da museo,  la rivoluzione un ricordo, forse un sogno. La progettualità è ridicola, perché impossibile.

Non si può certo dargli torto. La prassi narrativa è morta, o quasi: il percorso anti-narrativo, che Benjamin faceva risalire alla nascita del romanzo, si sta compiendo coi dispositivi smart. Niente più narrazione (lentezza, noia, ascolto); solo informazione (velocità, sorpresa, piacere, in un loop infinito). Ma se non c’è più l’incanto, se  “le cose esistono, ma tacciono”, allora possiamo dare l’addio non solo alla narrativa, ma all’arte.

Da una parte una malcelata angoscia, tanto potente da sfociare in un invito alla limitazione della libertà di espressione; dall’altra una rassegnata, anche se suggestiva, constatazione del tramonto di ogni valore autenticamente umano: sia Gottschall che Han, pur con metodi e conclusioni diverse, alimentano entrambi un atteggiamento “apocalittico” riguardo alla cultura contemporanea.

Le varie teorie complottiste, che forniscono una spiegazione del mondo comprensibile e semplificata, così come i tentativi di difesa dell’establishment che si nascondono dietro il fact-checking, sono i sintomi più evidenti della nostra miseria culturale e immaginativa e lo specchio delle nostre divisioni. Ma la nostra non è una società frammentata dai complotti diffusi su internet, bensì dalla sua stessa mancanza di speranza e di progettualità. È la condizione di “naturalità” del capitalismo liberale a condannare il sistema a un’eterna immobilità, ma con la certezza di un pessimo finale – ambientale, nucleare, sociale – che alcuni sperano di accelerare in vista di un’implosione liberatoria (Nick Land).

Oltre mezzo secolo ci separa dagli anni Settanta, dal periodo in cui scrivere di critica sociologica, soprattutto in termini di critica dell’ideologia, era normale. Ma i tempi sono mutati: oggi le tendenze “apocalittiche”, o peggio, nei confronti della cultura di massa appaiono certo più ragionevoli in un Occidente dove ormai una parte ampia della popolazione sceglie di non votare. Se la popolazione è tanto sfiduciata e depressa da allontanarsi dalla politica, la critica dell’ideologia appare inutile. Per non parlare della quantità, davvero impensabile pochi decenni fa, dei prodotti culturali – e del loro parallelo scadimento qualitativo, almeno nei termini di cura stilistica. Tutto porterebbe ad attribuire all’arte, ancor più se “di massa”, la funzione di mero intrattenimento del pubblico.

Eppure, oggi si potrebbe ancora fare sociologia della cultura, rifiutando quindi l’equazione “narrazione=intrattenimento”; ma opponendosi anche a una ricerca che si concentri sull’equivalenza “narrazione=dominio”. Perché, se è chiaro fin dai tempi di Platone che chi racconta una storia governa il mondo, un tipo di critica che si concentri sugli aspetti connessi al dominio finisce solitamente per rivelarsi un tentativo di influenzare il lettore, divenendo essa stessa ideologica.

Per chiarire con un esempio, mi sembra che l’interesse per la narrazione come strumento di dominio in un autore come Gottschall serva essenzialmente a proporre una propria “visione del mondo” contrapposta a quella diffusa dalle “cattive storie”. Anche lo “smascheramento” dell’ideologia borghese, tanto in voga nella critica sociologica degli anni Settanta (penso in particolare a Ferruccio Rossi-Landi), funzionava un po’ alla stessa maniera: il riconoscimento, all’interno dei testi, del carattere ideologico del linguaggio era funzionale alla promozione di un diverso tipo di ideologia (ovviamente anti-borghese). Perché invece non cercare di comprendere la funzione sociale di un’opera d’arte, non indagare il successo di un prodotto culturale, considerando le scelte dell’audience come attive? Questo significherebbe accettare la complessità delle storie che emergono dal nostro presente, per individuare una tendenza, un senso, nel modo di usare prodotti culturali da parte della gente comune.

L’equazione allora diverrebbe: “narrazione = bisogno”.

Un bisogno da indagare senza cercare di distinguere fra verità e complotto – chi decide dove finisce il dissenso “legittimo” e dove comincia il complotto “paranoico”? – ma con la speranza di evidenziare la nostra voglia di essere ancora uomini e donne, pur nel proliferare di dati e informazioni digitali. Per scoprire, magari, che l’arte non è ancora morta.

Tutto il mostruoso di Parthenope

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di Annalisa Izzo

Carrozza marittima
Invenzione di Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero (1770) – Illustrazione di Daniela Pergreffi (2022)
© Archivio Museo Cappella Sansevero

Uccello dal corpo di donna, la sirena Partenope, come racconta il mito, si lasciò morire tra gli scogli delle Sirenuse, nelle acque tra Positano e Capri, per non essere riuscita a sedurre Ulisse col suo canto. La corrente marina trascinò le spoglie della vergine fino all’isolotto di Megaride, quello sul quale sorgerà, poi, il Castel dell’Ovo. Fu così che i primi abitanti di quel luogo la ritrovarono, coi capelli fluttuanti sull’acqua e gli occhi spenti; le diedero sepoltura, le innalzarono un altare, poi un piccolo tempio. Nacque in quel momento una città nuova, che della sirena prese il nome e che della sirena fece la sua protettrice: Partenope, Neapolis.

È il mostro dunque – l’uccello antropomorfo dell’epos omerico, la donna-pesce dei bestiari medievali, l’essere prodigioso, meraviglioso, straordinario, soprannaturale, seducente e terrificante al tempo stesso – la figura con cui si identifica la città.

Il decimo film di Paolo Sorrentino si apre con la nascita di una bambina, partorita nel mare di Posillipo – che dall’isolotto di Megaride dista poche bracciate, anzi lo guarda – alla quale il futuro padrino dà il nome della città stessa, Parthenope. Il ciclo del mito primigenio è compiuto, tra morte, nascita, e rinascita del mostro: Parthenope, la sirena, il mostro per antonomasia, nasce incarnazione della sua città.

Se l’aggettivo « onirico » è quello che più volentieri è stato speso per il cinema di Sorrentino, l’aggettivo « mostruoso », invece, lo è stato solo occasionalmente. Eppure, che sia grottesca, demoniaca, perversa o straziante, è la natura mostruosa dell’umano che Sorrentino mette in scena ogni volta – se per mostruoso intendiamo, appunto, tutto ciò che si scontra con una (presunta) norma, suscitando stupore o terrore. Di questa galleria del mostruoso (che corre da Il Divo, a L’amico di famiglia, da This must be the place, a La grande bellezza e a Loro…) Parthenope è la quintessenza.

Per metterci sulle tracce del suo monstrum, Sorrentino lascia stavolta fin troppi indizi. Nell’onomastica, intanto. Ancor prima di Parthenope, conosciamo suo fratello: « Raimondo! », lo chiamano all’arrivo del padrino, il Comandante, che reca in dono una carrozza fatta venire, dice lui, direttamente da Versailles. Ora, a Napoli il nome Raimondo non è un nome qualunque, perchè ancora oggi è indissolubilmente legato a una figura eccentrica e fascinosa del passato settecentesco della città: l’aristocratico, inventore, naturalista, massone, letterato, studioso di storia e di filosofia, Raimondo Principe di Sansevero. Dedito a ricerche molteplici e disordinate, il Principe, negli ultimi anni della vita, si dedicò alla ricostruzione della cappella di famiglia, adiacente piazza San Domenico Maggiore (chi volesse visitare oggi la cappella dovrà armarsi di grande pazienza, i tempi di attesa sono lunghi, tale è la fama di questo sito, nell’era dell’overtourism). Tra le tante opere d’arte commissionate dal Principe, nella cavea della cappella si ammira il Cristo velato, uno stupefacente Gesù deposto, ricoperto da un sudario scolpito nello stesso blocco di marmo e realizzato da Giuseppe Sanmartino – opera che suscitò, a quanto si dice, l’invidia di Antonio Canova – ma anche le due Macchine anatomiche, gli scheletri di un uomo e di una donna con il sistema arterovenoso pressoché integro, realizzati dal medico Giuseppe Salerno e acquistati dal Principe (ai quali, in passato, si accompagnava un feto, adagiato ai piedi dello scheletro femminile, a suggerirne la provenienza, trafugato non molti anni fa). Che sia falsa la credenza popolare (riportatata da Croce) secondo cui i corpi erano quelli di due servitori del Principe, da lui avvelanati a scopo di sperimetazione, importa davvero poco: tanto la scultura quanto i due studi anatomici, sono voluti dal Principe Raimondo proprio per suscitare estremo stupore negli osservatori. Sono mirabilia letteralmente mostruose, in cui ad essere esibito (mostrato) è lo scontro tra il dentro e il fuori dell’umano. Il mostruoso del Principe di Sansevero nasce laddove ciò che non dovrebbe essere visibile è invece ostentato, oppure laddove ciò che dovrebbe nascondere mostra.

Che il principe-mago sia eletto da Sorrentino a suo nume tutelare, è confermato più avanti nel film: durante l’appello per l’esame universitario di antropologia, infatti, scopriamo che il cognome di Parthenope è Di Sangro, proprio come il Principe, il cui nome completo è Raimondo di Sangro, VII Principe di Sansevero.

In verità, la dichiarazione di un legame fortissimo con questa figura bizzarra ma autorevole (rispettata, per esempio, dal filosofo illuminista Antonio Genovesi, che ne fu amico) è già nella prima inquadratura del film. La scena si apre sul mare, tra l’isolotto di Megaride e le acque di Posillipo, sulle quali scivola una favolosa carrozza settecentesca. Una carrozza che arriva alle spiagge del golfo dall’acqua! Ebbene, questa scena ripete, in ampia misura, la scena spettacolare che il Principe Raimondo offrì ai suoi concittadini il 17 luglio 1770. Da tempo egli aveva in progetto di attraversare il golfo a bordo di una carrozza rocaille trainata da quattro cavalli, e dopo anni di lavori e preparativi, quella mattina di luglio la magia si avverò. Un articolo sulla Gazzetta di Napoli riportò l’evento descrivendo il pubblico affollatosi sul lungomare per ammirare il fatto straordinario. La carrozza solcò davvero le onde, sostenuta da una zattera, appena visibile sotto il pelo dell’acqua e sulla quale erano installate sagome di cavalli in legno, mossa da un sistema invisibile di ruote a pale. La distanza dalla spiaggia rendeva la macchina credibile e dava alla scena qualcosa di miracoloso, di mostruoso – e certo, di cinematografico avant la lettre.

Il mostro, dunque, e il mostruoso come cifra del cinema di Sorrentino. Perchè il mostruoso rivela l’invisibile, la verità dietro la menzogna, l’indicibile. Andiamo incontro a questi mostri, allora, perchè è così, credo, che potremo cogliere qualcosa – una piccola parte e solo da una certa prospettiva, si capisce – del senso di un film che costruisce il suo significato non certo attraverso il plot (la storia di una donna nata nel 1950, che seguiamo, in una successione di magnifici quadri – c’è chi, il Guardian, ha definito il film il “long-form di una pubblicità per un profumo di lusso” – dalla nascita fino al giorno del suo pensionamento da docente di antropologia all’università).

Flora Malva, nota attrice cui Parthenope si rivolge per intraprendere la carriera cinematografica, tiene alla splendida protagonista un discorso sulla bellezza come guerra, come prigionia, come offesa. Ma Flora Malva (la pianta era detta omnimorbia dagli antichi, che cura ogni male) non si mostra allo sguardo altrui se non col viso coperto da una maschera nera, oppure nel vapore denso di una cabina-doccia. I suoi lineamenti sono stati sfigurati dalla chirurgia estetica: è diventata un mostro inguardabile. Mostruosa è Greta Cool, diva in dismissione, che, madrina di un’inaugurazione nella sua città, rompe le righe e si lancia (con poco garbo ma davvero cool) in un’invettiva contro i napoletani, salvo poi perdere la parrucca alla fine del monologo e mostrarsi per ciò che è: una vecchia dai capelli tinti e radi. Mostruosa l’umanità del vicolo, orba e sdentata; mostruosa la donna di camorra, che offre in pasto al pubblico il concepimento del futuro erede di una dinastia criminale… I mostri irrompono e interrompono, perfino il sacro: così lo sfarzoso funerale di Raimondo (morto gettandosi in mare durante la vacanza a Capri, dopo aver assistito agli amplessi della sorella con l’amico Sandrino), con tanto di carrozza e cavalli (eh sì, di nuovo una carrozza coi cavalli, stavolta nera, come quella de Le conseguenze dell’amore), viene interrotto – su via Partenope – da un gigantesco e mostruoso carapace metallico, dalle cui zampe sprizza a getto continuo un misterioso liquido. La cerimonia solenne e pomposa si scontra con la realtà più lurida dell’autocisterna che sparge disinfettante contro il morbo del colera sul lungomare più bello del mondo. Mostruoso è il corpo dell’arcivescovo Tesorone (satiricamente custode del tesoro di San Gennaro, e forse di ben altre meraviglie), quando, spogliati i paramenti del suo ruolo, si mostra uomo indesiderabile davanti all’abbagliante bellezza di Parthenope. E naturalmente, mostruoso è il desiderio incestuoso che unisce fratello e sorella, Raimondo e Parthenope (la domanda rivolta da Parthenope al miliardario – un po’ James Bond, un po’ Gianni Agnelli – che vorrebbe possederla, precede di poche ore il suicidio di Raimondo e suona così: “Lei non trova che il desiderio sia un mistero e il sesso il suo funerale?”). La carrellata potrebbe continuare (e, soprattutto, dovrebbe essere messa in relazione con le opere precedenti del regista), ma non serve; non serve perchè il film chiude sul più irriducibile dei mostri, che tutti li contiene, il macrocefalo iperobeso, Stefano Marotta, figlio del professore-mentore di Parthenope, Devoto Marotta (il cui cognome, mi pare da leggersi come omaggio allo scrittore Giuseppe Marotta, autore, tra l’altro, del film L’oro di Napoli).

Come per le Macchine anatomiche del Principe di Sansevero Raimondo di Sangro, la mostruosità è invincibilmente legata alla verità per Sorrentino: deposta la spoglia (la maschera, la parrucca, i paramenti… la bellezza del corpo, la norma… ), appare il vero. In tal senso, il regista mette in scena il concetto di verità per come lo intendeva la cultura greca, in seno alla quale nasce Parthenope: alètheia – che la lingua latina traduce con veritas – è disvelamento, lo stato del non essere nascosto. Maggiore è il contrasto, maggiore la mostruosità. Il percorso di conoscenza, perciò, si gioca tutto nella capacità di scorticare l’involucro esterno, quella pelle che è confine tra sé e altro, tra sé e mondo, e finalmente vedere (il discorso sull’umano, lo studio dell’umano altro non è che vedere, saper vedere, afferma in una delle sue ultime apparizioni l’antropologo Devoto Marotta).

Ma vedere cosa? si dirà… Ciò che sta sotto la pelle, sotto la maschera, sotto la parrucca, sotto la bellezza abbagliante, sotto i paramenti… o ancor meglio, ciò che appare insieme a tutte queste cose, ciò di cui tutte queste cose sono fatte, la loro consistenza, la loro essenza. Guardare in faccia il mostruoso senza restarne accecati, disgustati, respinti: guardare in faccia la mostruosità del desiderio, la violenza della bellezza, la rassegnazione dell’intelligenza, l’eccedenza del godimento, l’oscurità dell’umano… senza giudicare (come nel patto siglato da Parthenope col suo direttore di ricerca). Del resto, Parthenope, la cui biografia coincide con questo percorso di conoscenza, solo una volta sentirà di potersi innamorare e sarà per lo scrittore John Cheever – dei cui racconti è avida lettrice e che incontra casualmente a Capri –, profondo scrutatore dell’animo umano e delle sue ombre. E lei, che in tanti hanno voluto possedere, solo una volta la si vedrà godere nuda nel film, quando si lascia masturbare dalle mani del repellente Tesorone (e il miracolo dell’orgasmo si compie, e il sangue del Santo si scioglie).

Se Parthenope è un film su Napoli dunque (e certo che lo è!), è la chiave del mostruoso che può aiutarci a penetrarlo. A patto di intendere il mostruoso non solo come tutto ciò che si scontra con una (presunta) norma, ma ora, chiaramente, come ciò che in quello scontro tra norma e deviazione dalla norma offre un’epifania del vero, che chiede di essere vista, non giudicata.

Paradossalmente, quindi, proprio la bellezza luminosa delle sue immagini, l’avvenenza abbagliante della sua protagonista – che la macchina da presa non lascia, per l’appunto, quasi mai – proprio quel suo autocompiacimento estetico (per cui c’è chi – sempre il Guardian – ha parlato di autoparodia sorrentiniana), fanno del film un’occasione per interrogare alla radice il senso della bellezza, e il suo non essere altro che una delle due inseparabili facce dell’umano, in continuo dialogo, in un mutuo nutrirsi con l’altra, quella oscura e perturbante.

Cosicché la galleria di mostri è riconoscibile come una sfilata di figure della città (eh sì, anche Greta Cool potrebbe non essere altro che una personificazione di Napoli – una Napoli che non sopportando più i suoi figli si ritira lei al Nord – con un senso tutto nuovo da dare all’assonanza tra il suo nome d’arte e la parola volgare per deretano, in relazione con la presunta predilezione della diva per la sodomia). Anzi, si potrebbe perfino ipotizzare che tutte le sperimentazioni di Sorrentino intorno al mostruoso e prima di Parthenope, non siano state altro che declinazioni per via di approssimazione alla definitiva rappresentazione del monstrum come condizione che meglio incarna la verità dell’umano.

Fino all’ultima figura, il mostro celato al cuore del labirintico percorso (novello Minotauro), il macrocefalo iperobeso dell’ultima scena, la cui pelle sottilissima e tesa lascia intravedere quel sistema arterovenoso che il Principe di Sansevero si era già premurato di mostrarci. Ma questa volta il mostro appare, a chi lo sa vedere, bellissimo e degno di tutta la devozione.

La nostra cartamoneta: su ‘Donne che allattano cuccioli di lupo’ di Adriana Cavarero

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Di Ilaria Durigon

Non esiste il femminismo, esistono i femminismi. Quanto spesso sentiamo ripetere questa affermazione senza che venga mai debitamente messa in luce una differenza che, è utile quindi sottolineare, non si sostanzia in singole opinioni divergenti ma riguarda l’intera rappresentazione, con le sue significative conseguenze teoriche e pratiche. Fin dalla sua nascita, il pensiero della differenza sessuale si è posto come finalità, in posizione spesso discordante nei confronti del femminismo emancipazionista e delle sue molteplici derivazioni di matrice antidiscriminatoria, di produrre una rivoluzione simbolica muovendo dall’assunto secondo cui affinché la libertà femminile si realizzi nel mondo non sono sufficienti le modifiche alle leggi, non bastano le trasformazioni sociali, se, prima, non si produce un cambiamento sul piano del “simbolico”.
A proposito del simbolico, Luce Irigaray offre un’immagine molto densa: è come se ogni donna tenesse tra le mani un pezzo di cartamoneta strappato e cercasse nell’altra donna la metà per farla combaciare. Il simbolico è il senso che noi diamo all’esperienza dell’essere donna: è l’interpretazione che afferra il piano fattuale e materiale strutturandolo all’interno di una rete di significati attorno ai quali questa esperienza viene dotata di un senso traducibile sul piano del linguaggio e del pensiero. Il simbolico è il luogo in cui natura e cultura si incontrano (e spesso si scontrano) irriducibilmente. E, poiché il mondo delle rappresentazioni che era offerto alle donne è stato di impronta patriarcale per molti secoli, le donne hanno dovuto cercare da sé il senso libero della propria esistenza, creandolo autonomamente e attraverso la relazione con le altre.
Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno di Adriana Cavarero si inserisce all’interno di questa cornice filosofica e pratica, compiendo un nuovo importante passo in direzione della critica alle forme del sapere maschile nella misura in cui esse si mostrano solidali con il simbolismo patriarcale. In Cavarero è all’opera l’individuazione di nuove forme simboliche rispondenti all’esperienza femminile, ossia viene compiuta, tra le pagine, una rivoluzione simbolica che sovverte la cancellazione, e la conseguente stereotipizzazione, che il pensiero maschile ha operato nei confronti della maternità, intesa concretamente, come generazione di un nuovo essere umano, come gravidanza e parto
“Sappiamo molto di più dei mari che navighiamo che della maternità” avverte, in esergo, Adrienne Rich, poeta e pensatrice femminista che, tra le prime, ha denunciato il peso di quell’oscuramento, dell’impossibilità di rintracciare parole utili per comprendere, quando lo si sperimenta nel proprio corpo, lo “strano potere della maternità”, come lo definiva Virginia Woolf. È un percorso affascinante quello tracciato da Cavarero, che dalle Baccanti di Euripide e dalla loro frenesia post-parto, a Platone che mentre ricorre al linguaggio tecnico legato alla gestazione materna deruba e cancella la figura della madre, al mito della pietrificazione della superba Niobe, in un attraversamento che include la parola illuminante di alcune grandi autrici come Ferrante e Lispector, giunge fino al Secondo sesso di De Beauvoir contestandone l’anti-biologicismo e mostrando come in esso, anziché discuterla, sia all’opera una premessa fondante della grande tradizione della filosofia occidentale maschile.
Cavarero rigetta invece l’ipotesi teorica che la biologia sia un fardello di cui liberarsi, e ne assume il fatto, in una lettura materialista del reale, situandola in quella sfera della necessità che mentre è sottratta al dominio umano, sigilla il mondo vivente in unico nodo. La necessità biologica, se esprime in sé il limite della presa umana sul mondo, appare, in questa lettura, sotto una luce nuova come ambito ampio di trasformazione, di sottrazione alla presa tecnica, di condivisione e quindi, paradossalmente, di nuovi immaginari di libertà.
Sulle tracce di una rivoluzione simbolica femminista, la maternità – questa scandalosa “confidenza con la materia corporea dell’origine” – diviene, in quanto momento e precipitato in cui natura e cultura si incontrano, in quanto “tremendo” che è insieme meraviglia e inquietudine, come paradossale condizione di passività e potenza, una forma di conoscenza, un sapere che apre alla possibilità di rispondere con parole e pensieri nuovi alle grandi crisi del nostro tempo, prima fra tutte quella ecologica. Attraverso il nodo simbolico del materno, è possibile quindi ripensare la condizione umana nei termini di una “zoo-ontologia materialista” capace di fronteggiare le derive contemporanee della politica tra cieco progressismo e spinte reazionarie, situandoci in modo nuovo nello spazio che si apre tra passato e futuro.

Oltre Tony Effe: sottomissione, liberazione, ambiguità degli immaginari

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Sulla stupidità della supposta “censura” a Tony Effe si sono già espressi in molti ( anche se sarebbe meglio parlare di scelta di esclusione). Approfitto però di un post del giornalista Riccardo Canaletti per toccare un’altra questione; Canaletti sottolineava la “giustezza” di censurare Tony Effe a partire da alcuni versi a lui attribuiti (in “DM”, risalenti in realtà al periodo della Dark Polo Gang) che toccano un immaginario ambiguo: “mettere il guinzaglio”, “serve una museruola”, etc.

Ebbene: allontanandoci da Tony Effe, l’immaginario di sottomissione non sempre ha un unico orientamento, e quindi queste frasi non sono esclusivamente demoniache (come invece ho letto in diversi commenti pubblici).  Nella mia adolescenza, uno dei film che mi ha più segnato è stato il “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, che continuo a rivendicare come un’influenza imprescindibile proprio nell’ottica dell’espressione del desiderio, sopratutto queer e impuro.

L’immaginario sadomasochistico per molte è stato un vettore di liberazione : dalla mistica di Angela da Foligno e Maria Maddalena de’ Pazzi fino all’azionismo viennese, da “La revoca dell’editto di Nantes” a “Roberta Stasera” di Pierre Klossowski, da “Elle” di Paul Verhoeven fino ai versi di Patrizia Valduga, ugualmente molto contestati dopo un recente intervento di Edoardo Prati( «io voglio che tu voglia che io non voglia», scriveva in “Poesie erotiche”). E questo vale anche (sopratutto) fuori dall’ambito “intellettuale”.

Detto francamente: io di guinzagli e collari, consensualmente, ne ho indossati. E ho attraversato a “corpo” immaginari di liberazione che passavano per tensioni opposte.

Il punto non è quindi Tony Effe, che manifesta soltanto uno dei molti spiriti del tempo, criticabile o meno, sicuramente nutrito di riferimenti a una storia della “trap” con un linguaggio ben preciso.
Il punto è quanto spazio di ambiguità lasciamo alla finzione. Finzione che agisce sempre, spesso in modalità imprevedibili (e forse niente è così deleterio come l’igienismo dello sguardo intellettuale – il suo incorreggibile moralismo).

La penna

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di Enrico Di Coste

Scrivere è come un imbuto: divieni così avvezzo alla pratica che non ti accorgi più di quale liquido passi all’interno.

Maurizio scriveva per inerzia.

Aveva rotto con moglie e figlia chissà quando; il suo primo e unico editore, che gli aveva pubblicato un romanzetto di discreto successo, aveva respinto seccamente tutte le proposte successive; la sua carriera era avvizzita, tirava a campare.

La scrittura non gli procurava piacere da un pezzo. Ma semplicemente, continuava. Ci si trova nudi di fronte alle proprie recriminazioni solo dopo averle protratte per talmente tanto tempo da averle rese la normalità. Nauseante, eppure irrinunciabile.

Correva l’anno 1898. Nel suo studio, attendeva il pignoramento della casa. Ogni lasciato è perso, diceva tra sé.

Il solo atto di sedersi era una tortura, lo compì, disgustato. Ritrovò qualche sporadico guizzo da scribacchino: una riga su ogni due o tre capitoli era salvabile. Presentò all’editore che da dieci anni gli sbarrava la porta un romanzuccio scritto in due settimane.

È una spudorata copia del primo, gli disse l’editore. Non ci posso credere che giri intorno ai tuoi spettri. Per una buona volta, liberati dell’unica storia che sei stato capace di raccontare! È inutile tornare, non pubblicherò mai queste insulsaggini.

Ma…

Non c’è nessun ma: non sai più fare il tuo lavoro. Questo è tutto.

Ma…

Anzi, dubito che l’abbia mai saputo fare.

Sei troppo ingeneroso.

No, sono generosissimo. Vedi, ti apro ancora la porta, sebbene non mi convenga. Col senno di poi, è stato un errore pubblicarti all’epoca: pareva che avessi un futuro raggiante. Non ho mai fatto un errore di valutazione così grossolano nella mia carriera come con te.

Maurizio non soffriva più dinanzi a simili rimbrotti: ci aveva fatto il callo.

Da allora, qualcosa in lui conobbe nuova vita, una recondita sorgente che come un fiume in tempo di siccità si era prosciugata a tempo indefinito e che credeva di non poter più scovare.

Comprò una nuova penna, la più economica che trovò, e dell’inchiostro con gli ultimi spiccioli rimasti. Chissà che cambiando gli addendi non cambiasse il risultato.

E il risultato parve cambiare, repentinamente, come in un amplesso feroce che porta all’orgasmo prima dell’aspettativa. Ogni parola fluiva, e l’impeto dell’esaltazione era temperato dalla consapevolezza che l’esito si sarebbe rivelato grandioso. Devo avere pazienza, si ripeteva. Questo è il mio momento. Niente è accaduto invano.

Non perse energie a spiegarsi come fosse potuto succedere quell’apparente miracolo: tirò avanti per tutta la notte. E anche la notte successiva. E la successiva.

Al quarto giorno, si svegliò avvertendo che il respiro non lo soddisfaceva: era corto e rauco. Sarà il catarro, pensò. Di questi tempi mi infreddolisco come se niente fosse. Un bel bagno caldo è quel che ci vuole.

Ma il bagno non diede i frutti sperati. Non spurgò alcunché. Nel frattempo, appoggiandosi al bordo della vasca, continuava a scrivere, a tossire, a scrivere ancora.

Capitava che qualche foglio gli sfuggisse di mano e si bagnasse, e allora lo tirava fuori dall’acqua in fretta e furia. Restò in vasca per tutta la giornata e disseminò il pavimento di fogli, Una moquette per squattrinati.

Si alzò e scoprì di riuscire a malapena a reggersi in piedi; tuttavia non aveva febbre. La tosse persisteva come un tennista che quando ti illudi di aver fatto punto non molla una palla nemmeno per l’anticamera dell’inferno. Si fece cavernosa in un baleno.

Si specchiò per vedere quanto fosse stravolto: scoprì che la sua pelle era scura. Nera. Sotto lo strato esterno dell’epidermide.

Cominciò ad ansimare, guardò il resto del suo corpo: risentiva nella sua interezza di quell’imponderabile fenomeno.

Guardò all’interno della vasca: l’acqua era annerita, come se ci avesse versato dell’inchiostro.

Un’intuizione fulminea colse Maurizio. Solo la penna poteva essere responsabile della mutazione. Quel romanzo omicida sarebbe stata la sua ultima fatica.

Rise a squarciagola, e nella concitazione sputò saliva nerastra sui fogli imbrattati. Ci vollero meno di ventiquattr’ore affinché l’inchiostro cominciasse a colare attraverso la superficie della pelle. Quella lugubre tinta impregnò dapprima i vestiti, poi la casa; ma lui continuava, imperterrito, perseguendo con entusiasmo parossistico la propria morte.

Al settimo giorno si concluse la trasognata apnea. Caracollando lungo la via, con passi simil-acquosi, si recò presso l’editore.

Sono Maurizio.

La porta si aprì con uno sbuffo.

Ancora tu. È passata soltanto una settimana e hai il coraggio di ripresentarti…

Ho un lavoro da consegnare.

Cercò aria, ma questa non lo soccorse. L’editore strillò.

È l’ultimo che ti propongo.

Poi Maurizio rise, la lingua impastata, i denti catramosi che non si distinguevano più, la gola intasata da un coagulo vischioso. Le cornee furono colonizzate dalla metastasi, le palpebre cessarono di schiudersi. Trasudava nerezza da ogni orifizio.

Spirò con semplicità, come se l’annegamento fosse stato messo in conto, immolandosi sobriamente per ciò che aveva odiato quasi tutta la vita.

Implose intorbidando la facciata della sede della casa editrice.

Non seppe mai che quel libro avrebbe segnato intere generazioni di uomini.