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Da “Un giudice incapace”

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[Questa selezione di poesie è tratta dalla plaquette Un giudice incapace, Zacinto edizioni, 2024.]

di Ezio Partesana

 

È arrivato autunno

piove e la verità

è in ritardo.

Scompaiono in ordine alfabetico

i libri dagli scaffali.

Qualcosa urlano

dalle scale lavate

le badanti ucraine.

Adagio scompongono

i marciapiedi

le folate di vento.

*

C’è un padre triste al compleanno

della figlia e una figlia triste

al proprio compleanno.

Sono vestiti come imbianchini

senza saper dipingere una parete.

Aspettano che piova per loro

almeno dalle nubi in cielo.

*

Non avere mani

rosse, gelate sul ghiaccio

oppure non avere mani

nere che raspano sotto bosco

o ancora non avere mani

del tutto e da terra beccare

in fretta, saltando.

E tornare

e finire il lavoro.

*

Non c’è anima in stazione

l’orario forse o la pioggia

le han fatte tutte andare.

Scorrere i nomi

è stupido,

il controllore ha ragione:

il treno era perfetto.

In ritardo sono io

o la destinazione.

*

Dalle scale scende un filo di sangue

è inciampato il trasportatore

con in braccio la cassapanca veneziana.

Non importa, il trasloco è finito.

Che poi finisca il giorno

è solo questione di ore.

*

Bambini piangono a Venezia

tra il ghiaccio delle pescherie

e i cani lupo senza guinzaglio.

Fa freddo e l’acqua oscilla

come una maschera appesa

alle vetrine dei negozi di vetro.

È passata l’età della Salute

e il Ponte votivo della peste,

si vuotano gli appartamenti

da affittare domani ai turisti.

Da San Servolo un motoscafo grigio

trasporta quieto una cassa

di legno e due uomini di equipaggio.

Anche i pazzi muoiono a Venezia.

*

Imparare a camminare

è stata la cosa più facile

mi sono messa le scarpe

e sono uscita a vedere

come facessero le altre

a andare.

*

Kurt Schwitters, Collage 19, 1920

L’Iperode, poema d’amore in quindicimila versi

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di Raffaele K. Salinari

Il poema, la poesia in generale, è sempre stata la forma prediletta per la comunicazione delle Cose Ultime, una sorta di simbologia in versi che coniuga musicalità e logos, come nella Creazione. È, infatti, questa potenza vibrazionale, che si carica di ritmo ad ogni verso, a creare una vera e propria onda che, alla fine, sommerge l’io del lettore inducendolo in uno stato di coscienza amplificata, sottile, in cui, forse, è possibile cogliere l’essenza dell’Essere. La ricerca dell’essenza amorosa, della sua potenza ricongiungitiva al Tutto, è l’eterno tema del poema L’Iperode, di Lorenzo Bernardo, edito per La Scuola di Pitagora (pag. 630, € 40), che si immette nel solco di questo espediente artistico antichissimo, che forse nasce prima ancora della parola scritta, come mitologia del racconto, aura percepibile di qualcosa che altrimenti resta invisibile.

Gli ascendenti classici vanno da Omero a S. Giovanni della Croce, da Rumi sino alle Elegie Duinesi di Rilke, passando per il grande poema di Dante, tutti impegnati nel trovare nel verso il solvente universale dell’anima personale in un mare di amore angelicato che attraverso un singolo soggetto amato, catalizza alchemicamente la trasmutazione verso quel “fondersi senza confondersi” con la Sorgente che rappresenta il compimento della Grande Opera di tutti i mistici. Ma la via amorosa è ardua, forse la più impervia, fatta di improvvisi lampi di luce accecante attraverso i quali si svela la possibilità, e lunghi momenti di oscurità, da percorrere sino in fondo, senza paura, senza che la fede nell’amata smetta un solo momento di illuminare l’anima in cammino. Questo è il tema portante dell’Iperode che sdoppia e duplica, per così dire, la ricerca dell’essenza divina come ce la descrive apofaticamente San Giovanni della Croce nella sua «notte oscura».

Nel Prologo scritto da Giovanni a commento delle immagini poetiche, è interessante notare come egli stesso, per poter spiegare e far comprendere il significato di questa «notte oscura» attraverso cui l’anima deve passare per giungere alla luce divina della perfetta unione con Dio, dichiara che: «Occorrerebbero una scienza e un’esperienza superiori alla mia. Difatti sono tante le difficoltà e così dense le tenebre, spirituali e temporali, che ordinariamente le anime fortunate sogliono attraversare per raggiungere questo sublime stato di perfezione, che non bastano né la scienza umana per comprenderle né l’esperienza per descriverle. Solo chi passa per questa prova potrà darne una valutazione, ma non parlarne». Lorenza Bernardo, invece, coglie la sfida del dire poeticamente, poieticamente, e traccia la lunga strada in versi che condurrà l’amante verso la piena identità con l’amato, al Rebis Filosofico che, come ci ricorda Rilke nelle Elegie, a tutti gli amanti sarebbe possibile se solo (solo!) fossimo consapevoli di ciò che stiamo vivendo.

 

 

 

 

 

 

La Spada

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Immagine generata da AI

di Silvano Panella

La villa era composta, silenziosa, non ostentava il disfacimento del lutto improvviso, era governata come in un giorno qualunque e in effetti, se non si fosse indagato negli animi di chi sapeva, sarebbe davvero risultato un giorno qualunque. Stavo per suonare il campanello ma la porta era socchiusa. La spinsi, entrai nel grande atrio della villa. Sulla scalinata una figura in penombra, fissa e muta, la sorella del mio amico si fingeva statua e tentava di celarsi al mio sguardo pur sapendo che ero un abile osservatore.

Raggiunsi il salone. Sul divano sedeva il colonnello a riposo, il proprietario della villa, il padre del mio amico e della figura sulle scale. Ora stava leggendo un giornale vecchio e consunto – li collezionava. Si volse verso di me e mi oppose un gesto calmo, ampio della mano, finì di leggere, richiuse il giornale in quattro, si alzò dal divano, andò alla scrivania, mi fece segno di avvicinarmi. Sedemmo l’uno di fronte all’altro. Non riuscivo a distinguere la sua espressività, il volto semicoperto dalla barba folta e brizzolata. Sulla scrivania c’era un panno di velluto color ciclamino. L’uomo lo svolse e fece apparire i due pezzi della spada, ebbe uno spasmo di ritrosia e iniziò a toccare la lama, lucida e nettata dal sangue. Dei due, il mio amico aveva utilizzato il pezzo con l’impugnatura per commettere il suicidio.

Immaginavo che l’uomo, in virtù del suo grado, avesse ottenuto il rapporto completo, immaginavo che mi chiedesse i dettagli sfuggiti all’inchiesta, i dettagli più personali e soggettivi, le ultime parole di suo figlio, immaginavo che, per quanto fosse un uomo intelligente, non avesse colto la sottigliezza insita nel suicidio. Ma non domandò nulla. La degradazione dall’esercito non era ancora avvenuta, il mio amico l’aveva anticipata spezzando lui stesso la sua spada da cerimonia. Si era suicidato sia per non sottostare al congedo con disonore sia perché il piano al quale aveva partecipato era fallito, aveva spezzato la spada sia per suggellare la sconfitta con un simbolo di disonore sia perché era più comodo rivolgere verso se stesso una lama dimezzata, la nuova punta era taglientissima. Quanto sapeva del piano il colonnello? Non abbastanza. Il mio amico accennava spesso a quest’uomo così austero e tuttavia ottimista, tanto brillante quanto privo di intraprendenza. Dove nascondeva questa brillantezza d’ingegno? Cercai nei suoi occhi, invano. Mi volsi al salone ricco di dipinti, vasi, giornali. Quei giornali vecchi e ingialliti, impilati, consultati per godimento personale, forse contenevano messaggi scritti a penna da decifrare dopo la sua morte. Ci avrebbe pensato la figlia, abilissima archivista di famiglia.

Non intendevo perturbare quest’uomo trattenuto – sarebbe scoppiato davanti a me, scoppiato in un accesso d’ira fatale, io avrei assistito a due morti, non avrei potuto negare questa duplice coincidenza e ne sarei uscito con una pessima fama. Il mio amico aveva tentato di convincermi a partecipare. Rifiutai. Non avrei potuto fare granché, non ero addentrato nei meccanismi dell’esercito, dell’economia, della vita civile come lui, come la sua famiglia, le sue conoscenze. Inoltre quando appresi i particolari del piano fui investito dalle perplessità. La gente non vi seguirà, la gente si crogiola nella critica all’operato altrui e non intende varcare tale mediocrità, gli dissi.

Quando elencai noti piani finiti male o in farsa, per poco la nostra amicizia non si incrinò. Resistette, e gli fui vicino finché mi fu possibile. Non si trattava del sacrificio per una folla di ingrati, era soltanto un intimo compimento, lo avevo capito e glielo dissi un momento prima che fosse troppo tardi. Dunque le sue ultime parole furono le mie, ci salutammo in strada con un sorriso e lui varcò per l’ultima volta il portone della caserma per mettere fine alla sua esistenza. Riuscii a evitare il clamore mediatico – tra coloro che conobbero il piano e lo rifiutarono, io sono l’unico che non è stato inquisito. Parecchio il sangue, sparso sul mio amico e sul pavimento e sulla lama ora impeccabile. Il mio amico aveva sopportato l’insuccesso del piano senza lasciarsi condurre dall’emozione. Suo padre fu fiero di questa sopportazione. Del suicidio, non so. La faccenda è inesplicabile in poche parole e lascia spazio a continue riflessioni, più ci si pensa, più ci si addentra in meandri inconcludenti.

Il panno di velluto faceva spiccare la lama più della luce della lampada, una luce troppo parziale – allungava l’ombra del paramano a dismisura, rischiarava l’impugnatura d’ebano palesandone le piccole imperfezioni. Questo panno avvolge morbidamente l’affilatura, ne è immune, non si taglia, ciò è assai strano, pensavo. Magari il mio amico si era tramutato in quel panno. Non nella spada, la spada rappresentava l’azione, ora il mio amico era un corpo immobile e un concetto persistente, immutabile, un panno ripiegato su se stesso. Non lo dissi, suo padre non avrebbe capito.

«Ha sofferto?», l’uomo mi chiese.

La sua domanda mi stupì. Il volto in attesa, credevo fosse più insensibile.

«Per un solo, bruciante momento», dissi, vago ma non così lontano dal vero.

L’uomo annuì. Aveva ricevuto la risposta e questo gli bastava. La disposizione del giardino al di là della finestra, il giardino lo ricordavo bene e ora mi bastò un suo frammento di siepi e bagolari, mi suggerì che il suicidio fosse l’inevitabile conclusione per gli abitanti di questa villa. Non una maledizione, piuttosto una corrispondenza di forme. L’uomo non sapeva nulla del piano se non tramite il rapporto che si trovava sulla scrivania, tra me e lui. Un rapporto meticoloso, sì, ma scritto da chi ignorava le aspirazioni dei partecipanti, perlopiù prigionieri per vocazione e memorialisti per scelta. L’uomo avvolse con cura la spada spezzata nel panno e me la porse. Voleva che la tenessi io. Non lo disse. Né io dissi che lo consideravo un onore, che sentivo già di essere affezionato alla spada perché era appartenuta al mio amico, di essere affezionato al panno che l’avvolgeva perché era il mio amico. Presi il fagotto e feci un breve inchino. Lasciai la villa.

Babilonia

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di Gianni Biondillo

Sembra un’altra Milano, eppure sono passati solo dieci anni. Quella del 2014 era, a tutti gli effetti, il più grande cantiere d’Europa, primato scippato a Berlino alla fine del secolo scorso. Nella corsa contro al tempo per arrivare all’inaugurazione di Expo2015, non c’era angolo della città che non fosse un cantiere, popolato di “umarelli”, fuori dalle recinzioni di cantiere, con le mani dietro la schiena a disquisire con gli operai (pazientissimi) su come gettare il cemento o eseguire un finitura. Tutto era Expo, in quegli anni, per i milanesi. Anche cose che con Expo non c’entravano nulla. Ma in fondo non era sbagliato pensarlo. Dopo il sonno post-tangentopoli durato un decennio, il capitale mondiale aveva spostato lo sguardo sulla città meneghina: Expo, insomma, era una scusa, una operazione di marketing urbano per rimettere tutto in moto. Per “estrarre” denaro dall’edilizia. E fra opere di maggior o minore qualità, fra grandi cantieri e cantieri smisurati, in attesa di riattivare anche gli scali ferroviari, ecco spuntare fuori il Bosco Verticale. Progetto vincente, inutile negarlo, a partire dalla sua comunicazione. Architettura che si fa claim, slogan, motto.

Onore ai tre progettisti. Ché, è bene ricordarlo, sono tre. Altrimenti qui facciamo come con De André, al quale assegniamo la scrittura di tutte le sue canzoni, quando invece le ha quasi tutte scritte con altri autori colpevolmente dimenticati. E parlo di signor autori, da De Gregori a Bubola, da Pagani a Fossati. Quindi, fuori i nomi: Stefano Boeri, Gianandrea Barreca, Giovanni La Varra.

S’è detto tutto e il contrario di tutto, delle due torri. Io per primo. Pochi progetti hanno avuto laudatori e critici, followers e haters, come il Bosco Verticale. E la cosa in fondo interessante è che hanno ragione sia gli uni che gli altri: è un progetto che guarda alla biodiversità, al rapporto del verde in città, innovativo, visionario; sono case per ricchi, per chi se lo può permettere, è speculazione fondiaria; No è una sperimentazione urbana, un nuovo approccio ecologico, un contributo alla qualità dell’aria; figuriamoci, è marketing urbano, greenwashing, gentrificazione! Da quanto tempo un’architettura non scatenava polemiche così accese?

Chi aveva occhio aveva compreso da subito che sarebbe diventato un marcatore territoriale, un oggetto identitario per la metropoli. Gianni Amelio, ad esempio, gira le prime scene del suo L’intrepido, nel cantiere del Bosco Verticale, dove si vede Antonio Albanese che posa un albero dentro un’enorme vasca catramata. Il film esce nel 2013, il cantiere non era ancora terminato, ma già se ne sentiva l’iconicità.

I tre architetti, e loro lo sanno per primi, non hanno inventato niente. Senza bisogno di andare indietro nel tempo (dai giardini di Babilonia alla torre medievale del Guinigi a Lucca), a loro è bastato fermarsi davanti alla facciata verde che orna l’edificio in via Quadronno degli architetti Mangiarotti e Morassutti per capire che esisteva un modo diverso di pensare gli edifici a torre che non fosse quello delirante che da decenni imperversa in tutto il mondo, fatto di pareti vetrate, riflettenti, dove persino aprire una finestra è vietato. Piaccia o non piaccia, il progetto ha aperto una discussione importante, non solo nella disciplina. Come dobbiamo (ri)pensare le nostre città, di fronte alle sfide dei cambiamenti climatici? Il Bosco Verticale, a ben vedere, è un manifesto. Ha una forza simbolica che travalica quella estetica. Ci dice: le città possono, anzi devono, convivere con la natura. Per la pura e semplice sopravvivenza della specie, elemento centrale di ogni progettazione urbana.

È una nuova urbanistica quella che si impone. Che progetta la restituzione della permeabilità del suolo o la mobilità dolce fatta di corridoi verdi che collegano parchi e giardini. Parchi non più solo luogo di svago, ma spazi di produzione alimentare a chilometro zero (parchi edibili). Un’urbanistica che abbatte le isole di calore urbane rendendo i tetti coltivabili e trasformando le barriere infrastrutturali in facciate verdi. Che impianta milioni di alberi. Foreste metropolitane, da gestire come nel medioevo, capaci di essere produttive in termini di materie prime. Un’urbanistica che è capace di lasciare “a maggese” parti del territorio, mitigando la dannosa presenza umana e qualificando la resilienza dell’ecosistema.

Oggi, a dieci anni di distanza, con tanto di pandemia che ci ha mostrato tutte le nostre difficoltà relazionali, possiamo dire che l’esperimento del Bosco Verticale, per la sua stessa presenza, ha vinto? Purtroppo no. Alla fine è andata come sappiamo. Il mercato immobiliare ha reso la città sempre più attrattiva solo per chi poteva permetterselo. È l’ecologia sociale la grande sconfitta di questa città. Volevamo una città esclusiva, è diventata una città escludente.

(pubblicato precedentemente su La Repubblica-Milano il 3 dicembre 2024)

Narcisismo

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di Samir Galal Mohamed

Qualunque cosa non soltanto distruttiva è un bene che capita.

È incantevole riconoscere il narcisismo sul volto delle persone; c’è un istante specifico nel quale è possibile individuarlo precisamente. Non farne un dramma. Consideralo uno dei tanti fatti umani, uno qualsiasi: in effetti, negli anni, non abbiamo che prestato, e progressivamente, attenzione a un ulteriore fatto dell’umano.

Se pensate non vi sia mai accaduto è molto probabile che vi stiate sbagliando, anzi: è certo. Con tutta evidenza non avete ancora sviluppato strumenti idonei per questa lettura: siete anagraficamente troppo giovani per possederli o, peggio, vivete nella convinzione che si tratti di un fenomeno raro. Anche il vostro caso conferma la mancata acquisizione di certi strumenti per conoscerlo e riconoscerlo: non biasimatevi. Al contrario, c’è da ritenersi fortunati, e molto, se le esperienze dolorose sperimentate fin qui sono risultanza esclusiva dell’incontro con il soggetto narcisistico. Significa che potete scriverne.

«Le persone si incontrano e si perdono: con buona pace del principio di non contraddizione, ci sono ragioni sufficienti che non lo sono simultaneamente. E, tertium datur, ci sono pure ragioni per non sentirle».

Sparire è una forma di sublimazione – sottrarre violenza materiale al mondo. Tocca pure ringraziare.

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Immagine: Cy Twombly. Untitled. 1954

Il problema delle torri nella Milano contemporanea

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di Giorgio Mascitelli

L’installazione I sette Palazzi celesti di Anselm Kiefer presso l’Hangar Bicocca è per me l’unico luogo di Milano che induca al raccoglimento. In questo mio atteggiamento è fondamentale che ignori la complessa simbologia che innerva l’opera; ogni volta leggo attentamente la descrizione delle corrispondenze iconografiche di ognuna delle sette torri, ma subito dopo me le dimentico. Gli elementi della spiritualità ebraica, della cultura rinascimentale e di quella tedesca moderna, nonché i riferimenti alla scienza e alla tecnologia, se li cogliessi  a pieno seguendo le approfondite spiegazioni iconografiche degli studiosi, mi allontanerebbero dallo spirito di raccoglimento. Il mio raccoglimento è legato al fatto, evidentemente, che non conosco bene l’opera (non vorrei che si scambiassero queste mie considerazioni per una sottovalutazione dell’attività degli studiosi di arte, al contrario le analisi dei critici e degli storici dell’arte sono assolutamente necessarie per godere di una serie di aspetti dell’opera che altrimenti sfuggirebbero. E’ che qui non sto parlando di godimento estetico). Allo stesso modo non potrei forse neanche definire I sette palazzi celesti la mia opera d’arte preferita, astrattamente parlando potrei indicare altre installazioni, altre sculture, altri dipinti, altri luoghi che mi piacciono di più: semplicemente è quella che mi è più presente perché abito qui. Infatti il vecchio adagio popolare ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore’ è una verità basilare nell’osservazione dell’arte: ho molto amato Giacometti, Paul Klee e altri ancora, ma non li ho così spesso davanti allo sguardo. Così amo di più I sette palazzi celesti, perché ha nel mio caso l’incommensurabile superiorità di essere facilmente raggiungibile.

Evidentemente questo significa che la consuetudine crea risonanza. Uso il termine risonanza nell’accezione che gli ha dato il sociologo Hartmut Rosa ossia un canale di relazione con le cose del mondo assolutamente libero e non pregiudicato in cui si perdono le proprie rigidità mentali ottenendo in cambio di sentire vibrare quella determinata cosa del mondo dentro di sé. Potrebbe sembrare strano che un’esperienza legata all’arte, in cui la risonanza, magari indicata con nomi diversi, è sempre stata presente, non si richiami all’eccezionale, ma al quotidiano: basti pensare alla celebre nozione benjaminiana di aura come dimensione unica e trascendente, che la riproducibilità tecnica dell’opera tende a serializzare e dunque a perdere, oltre alle varie declinazioni del concetto di epifania. Il fatto è che nella contemporaneità, specialmente nelle arti visive, la nostra esperienza è caratterizzata da un eccesso di immagini, è un’esperienza caleidoscopica in cui la varietà crea un effetto anestetizzante o, per usare la terminologia filosofica impiegata da Rosa, reificante; le immagini producono uno stupore superficiale che serve solo ad alimentare la curiosità per la successiva apparizione. E’ solo nel banale quotidiano della ripetizione che questo stupore cessa, lasciando spazio alla lentezza che talvolta vuol dire semplicemente distrazione, ma talvolta è un’apertura di uno spazio imprevisto che invita al raccoglimento. Non a caso quando vado all’Hangar a vedere  I sette palazzi celesti non c’è mai fretta, non c’è quella frenesia di vedere tutto quello che si potrebbe vedere lì perché c’è sempre una prossima volta. La vicinanza spaziale crea disponibilità a perdere tempo, che è l’unico modo di guadagnarlo per questo genere di esperienze.

Kiefer ha progettato l’opera in relazione allo spazio esterno, nonostante sia un’opera al chiuso, sia pure in un ambiente insolito come un ex stabilimento industriale. Lo spazio esterno è quello del quartiere Bicocca, dove c’erano le fabbriche della Pirelli e di altre industrie. Negli anni novanta l’area fu trasformata da zona industriale a quartiere residenziale e universitario, con la costruzione sulle antiche officine dell’università, di nuove abitazioni, di uffici, dell’Hangar Bicocca e naturalmente di un centro commerciale. Era la prima di quelle grosse operazioni urbanistiche, dai caratteri spesso speculativi, dovute alla metamorfosi a Milano del capitale industriale in immobiliare, che contribuiranno a trasformare una città anche operaia, e perciò dentro una dialettica con il suo momento fondamentale di opposizione,  in questa roba qui di adesso, con tutte le conseguenze ben note per il paese. In particolare l’arco arancione che immette nel vicino centro commerciale, riportante lo slogan “eat.shop.fun”, costituisce il polo opposto de I sette palazzi celesti e poco importa che siano entrambi prodotti della medesima operazione immobiliare e dunque della medesima logica capitalistica. Non bisogna chiedere all’arte la purezza della coerenza ma di cogliere la vita là dove essa non appare. Piuttosto non è vero che lo slogan consumista qui sostituisca la storia con un eterno presente, come pensavano i situazionisti, infatti alla Bicocca il passato industriale non viene cancellato ma citato, cioè monumentalizzato; allora lo slogan dell’arco va letto come uno sviluppo, o una degenerazione se si preferisce, di quella scritta “A ogni epoca la sua arte, a ogni arte la sua libertà” che si trova sul padiglione viennese della Sezession. L’installazione dell’Hangar risponde all’arte che rivendica la sua piena sincronia al proprio tempo con l’inattualità come unico modo plausibile di essere nel presente.

A scanso di equivoci nostalgici la forma attuale del quartiere non solo è molto più esteticamente valida, ma anche più salubre. Non si tratta del cuore di un uomo malinconico che non accetta che una città cambi più in fretta di lui, ma è un dato oggettivo che la risistemazione urbanistica che mette al centro non più la produzione ma il consumo pone un problema di creatività e di vitalità allo stesso modo che una casa di coniugi dink, cioè benestanti che non vogliono figli, ordinariamente sarà più piacevole di una con prole smoccolante e vociante. E non è un mistero per nessuno che tale modello di risistemazione espelle abitanti vivi per attrarre capitali, che si potrebbe anche dire lavoro morto al posto di lavoro vivo. Le torri di Kiefer sono invece intrinsecamente estranee all’orizzonte del consumo e partecipi di quello della produzione.

Da qui la loro alterità e la loro opposizione al quartiere e alla città di cui sono fiore all’occhiello.

“Ecco Gaza” ha detto nel vedere i palazzi una visitatrice dell’Hangar, che mi è capitato di sentire quando sono andato l’ultima volta. Tale voce aveva doppiamente ragione: in senso letterale perché i moduli sovrapposti di cemento armato che costituiscono i sette palazzi in effetti evocano, tra le altre cose, le rovine dei bombardamenti e in senso metaforico  perché la forma di un’opera artistica, perlomeno di un’opera importante, ha in sé una natura di paradigma, che le consente di rappresentare simbolicamente eventi che l’autore non poteva conoscere. Qui in altri termini vediamo che questo significato contingente e arbitrario ma non posticcio ed evidentemente indipendente dalla volontà dell’autore indica la capacità di un’opera inattuale di centrare e rappresentare per noi il senso del momento storico immediato.

Questa identificazione è resa possibile dal fatto che i palazzi incarnano l’archetipo di una città fantasma, che lo può essere per mille motivi diversi. Tale spettralità fa da contrappunto allo skyline di Milano, che ogni anno si arricchisce di qualche torracchione in più, come li chiamava il Bianciardi che ha assistito alla prima ondata di turrifazioni negli anni del miracolo economico. Ora che viviamo in questa seconda ondata turrifattoria del nuovo secolo, senza nessun boom, la fatiscenza dei palazzi celesti non è solo un monito e uno sberleffo alla perfezione delle nuove torri. L’effetto che si raggiunge è tragicamente ironico perché la spettralità introdotta dalla speculazione si rivela ai nostri occhi solo nei palazzi celesti, mentre essi non sono  che gli specchi fedeli di ciò che succede, perché chi svuota la città di persone sono i torracchioni innovativi, ecocompatibili e iscritti a bilancio di qualche persona giuridica, il cui legale rappresentante forse non ha mai nemmeno messo piede a Milano. Tale effetto ironico viene moltiplicato dal fatto che la verticalità nei sette palazzi celesti ha una dimensione salvifica di superamento della miseria presente, perlomeno in forma di preghiera, e confligge con quella di rispecchiamento facendo risaltare la miserabilità del presente.

M’immagino che questo luogo, l’hangar, all’origine probabilmente nato come orpello come momento decorativo di un’operazione immobiliare, grazie ai Sette palazzi celesti diventi l’epicentro morale dell’alterità in questa città, qui dove esse viene negata ed è per questo che è un luogo di raccoglimento per me. Che cos’altro è il raccoglimento se non superare le cose di ogni giorno, perché captate in una prospettiva diversa più intima o più generale, verso un’alterità?

 

Les nouveaux réalistes: Claudio Bellon

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://About Blank

di

Claudio Bellon

Atterrato a Berlino Brandeburgo con cinquanta minuti di ritardo. Gargarizzato bevanda ai sali minerali per idratare l’organismo e prepararlo a trentasei ore di vibrazioni positive. Acquistato block notes con copertina rigida al duty-free: lo strizza suggerisce di prendere appunti su ricordi e sensazioni.

Da Berlin Brandenburg alla Stazione Centrale ascolto Train di Paul Kalkbrenner e la ragazza sul sedile di fronte, capelli blu ondulati e punture di vespa sotto il reggiseno in cuoio lucido, sorride guardando la foresta che scorre lenta dal finestrino.

Odore di architettura post industriale, odore di indumenti in latex, odore di musica elettronica no-stop da giovedì a lunedì.

Tommi vive in uno studentato per universitari della lower class tedesca. Stanza piccola ma dignitosa in un blocco su Karl Marx Straße, in prossimità di Alexanderplatz. Quando è stata la prima volta che le mie orecchie hanno udito il nome di questa piazza?

Appunto sulla mia famiglia: Mamma era felice di essere riuscita a convincere Lisa ad andare alla gita scolastica, quell’ultimo anno di liceo. Non aveva mai aderito alle gite, prima, per via dell’ansia e gli attacchi di panico. Quando penso a mia sorella, al nostro rapporto logorato dalle sue irrefrenabili manie di controllo, ripenso a noi tanti anni fa. Mi chiedo se esiste un universo dove io e lei siamo ancora bambini, e niente di tutto questo è mai accaduto.

Avvistato uomo nudo nei pressi del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa. Fumava hashish sdraiato su un telo da spiaggia mantenendo una posa dannunziana. Nessuno parlava la mia lingua ma tutti sembravano cordiali o in orbita. Tommi stava preparando una millefoglie con il suo coinquilino. Si chiama Mark e viene dalla Lettonia, mi pare, o la Lituania. Ascoltato No Need to Argue dei Cranberries da un giradischi in salotto sorseggiando tè con latte.

Soldi. Mark, il coinquilino di Tommi, alza una quantità di soldi prostituendosi con uomini più vecchi di lui. Adulti di cinquanta o sessant’anni. Ha raggiunto un punteggio competitivo su un’applicazione e la sua tariffa va dai cento per una succhiata ai trecento per un rapporto con penetrazione.

Bevuto diverse lattine di birra, mangiato molti spätzle al formaggio, sorseggiato gin-tonic. All’improvviso ho iniziato a percepire un fiocco d’angoscia stringersi intorno allo sterno e alla gola: Tommi raccontava di un coetaneo a cui è stato rimosso dall’esofago un cancro in stadio avanzato, la scorsa settimana, e con ogni probabilità perderà la voce in via definitiva.

– Già, se risponde alla chemioterapia perderà soltanto quella. La voce.

Mark si è lasciato cadere la testa tra le braccia, poi ha riacceso una sigaretta che galleggiava spenta nel posacenere.

Cercato cristalli di emme ma non ne ho trovati. Acquistato capsule a forma di gufo nei bagni dell’About Blank, le vendeva un americano le cui sembianze ricordavano quelle di Telespalla Bob, l’acerrimo nemico di Bart Simpson. Le ragazze tedesche erano socievoli e la musica techno una valvola di sfogo. Limonato turista australiana di nome Alexis, o Cassidy, mentre le terminazioni nervose delle nostre labbra ultrasensibili decollavano per le anfetamine. È interessante come sotto anfe si può essere intimi con persone che in realtà non si conoscono. Ma ho sentito il distacco e la delusione crescere tra di noi man mano che i gufi mi planavano in corpo. Pensavo di nuovo al coinquilino di Tommi malato di cancro, cellule maligne che vagano silenziosamente per l’organismo e bambini glabri sopra buste di richiesta donazioni AIRC. Forse le persone che amo stavano morendo mentre cercavo solo di divertirmi.

Ho infilato la lingua in bocca ad Alexis e una mano sotto le sue mutandine, fiato caldo sul collo mentre titillavo il suo clitoride umido nel tentativo di far defluire le vibrazioni negative dall’intenso traffico cerebrale.

Bevuto acqua frizzante e fumato spinello con troppo hashish seduto davanti a un rigagnolo.  Il sole brillava sullo specchio d’acqua color seppia mentre l’applicazione Uber di Tommi rintracciava autisti disponibili. Prima di partire, il driver ha inserito la destinazione nel navigatore.

Le strade ancora immote di Charlottenburg sfrecciavano al di là del finestrino freddo su cui era poggiata la mia tempia. Mentre l’auto scivolava dolcemente sull’asfalto, ho percepito la stessa sensazione trascendente che avvertivo da piccolo quando tornavamo dalle vacanze, le volte in cui viaggiavamo la notte di ritorno dalle montagne, e sonnecchiavo sul sedile posteriore dell’auto di mio padre che viaggiava silenziosa nell’oscurità. Partivamo la sera dopo cena per evitare il traffico e arrivavamo alle prime luci dell’alba. L’infanzia faceva sembrare che tutto durasse a lungo. L’estate non arrivava mai. Quelle poche ore di macchina sembrava ci portassero in un altro mondo. Adesso va tutto troppo veloce.

All’improvviso ho avvertito una vibrazione concreta scuotermi il corpo, non era positiva né negativa. Ho schiuso gli occhi. La voce ovattata di Tommi sembrava provenire da un’altra stanza. Svegliati, diceva. Siamo a casa.

L’anello del ritorno. «Ἐλέα. Quando verrà il passato.» di Bruno Di Pietro

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FRANCESCO TERRACCIANO.

1. Il nuovo lavoro in versi di Bruno Di Pietro riporta al luogo dove tutto accade, Elea -oggi Velia- in un anno compreso fra il 500 a.C. e un possibile, indeterminato domani, da un’estate a un’altra estate.
Ἐλέα chiude anche l’anello delle scritture, iniziato nel 1995 con le “Eleatiche”, nel luogo della nascita, riportando a un’infanzia trascorsa sulla spiaggia da cui si scorgeva l’Acropoli, riordinando trent’anni di riflessioni ed elaborando con nuova linfa un pensiero che si è trasferito nella scrittura, sostanziandola; è anche un nuovo inizio nell’atto del tramontare, nella scrittura o nella vita, o in tutt’e due.

2. La numerologia vi occupa una parte determinante, com’è ragionevole pensare sempre: un poeta non è un matematico, è stato detto da qualcuno, eppure compie sempre operazioni affini al calcolo: conta il numero delle sillabe e dei versi, anche quando non adotta forme canoniche o classiche: mette la parola di fianco al numero, chiamando la poesia ad arginare l’infinito discorso della prosa del mondo, costringendola nei limiti opportuni del rapporto numerico: si confronta incessantemente con l’infinito con un metodo che possiamo definire scientifico, e che risponde alla necessità di sondarne gli abissi, di comprenderlo, di tradurlo in termini accessibili.
Ogni testo poetico risulta quindi racchiuso in un ordine numerico, tanto che si consideri -lungo una coppia di ipotetici assi cartesiani prestati alla parola- la progressione orizzontale del numero delle pagine, quanto lo sviluppo in verticale del numero dei versi, rendendo di fatto ogni libro di poesia un codice cifrato.

3. L’impianto simbolico del cristianesimo, la filosofia di Pitagora e Platone, la Gnosi, in un movimento che possiamo far risalire al I secolo con ramificazioni che si estendono parecchio oltre, riuscirono a comporre un quadro coerente con una precisa interpretazione del mondo e dell’uomo, gettando le basi per la nascita dell’Aritmosofia, il ramo della filosofia occulta che studia il significato e il potere d’influenza di ciascun numero, considerato un’entità con qualità specifiche e non semplice, spuria quantità che misuri il tempo e lo spazio.
Ricordando quanto Nicomaco attribuiva a Pitagora, la riflessione secondo la quale «il caos primitivo, mancando di ordine e di forma, fu organizzato e ordinato secondo il Numero», la parola numerata della poesia viene ricondotta alla sua funzione originaria di ordinare il mondo, alla sovranità di un principio di ordine contro un’altra sovranità, quella del caos, che pure il numero evoca. L’unità metafisica che Pitagora designa come origine della creazione è di ordine numerico. Dio è il primo dei numeri, come si evince dalla cosiddetta preghiera dei pitagorici trasmessa da Giamblico: «Invochiamo la tua benedizione, numero divino, che hai generato gli dèi e gli uomini!». Il numero, individuato come «fontana e radice di tutte le cose», si configura come «la radice perenne della fonte della Natura». Pianificata e ordinata secondo il Numero, la realtà risulta significata da un ordine numerologico immutabile, capace di generare ordine, proporzione e armonia. L’armonia è innanzitutto musicale, alla luce dell’intuizione pitagorica secondo la quale la progressione armonica delle note musicali corrisponda a rapporti di numeri primi interi; rilanciata ed estesa a una dimensione cosmica, l’intuizione permette di immaginare l’universo come struttura spaziale retta da un rapporto numerico, che mantiene il creato all’interno di un disegno, di una struttura ad U (pianeti, stelle e galassie) musicalmente armonica.
Il principio è sviluppato da Platone nel Timeo, con la collocazione -al vertice della scala gerarchica del mondo- dei numeri ideali, potenziando il valore cosmologico che i pitagorici assegnavano al Numero. Agostino raccoglierà la tradizione pitagorica trasmessa dal pensiero platonico, cercando di conciliare la speculazione aritmologica nell’ambito della fede cristiana: «Null’altro – si legge nel De Ordine (II, 15-42) – piace alla ragione oltre la bellezza, e nella bellezza le figure, nelle figure le dimensioni, e nelle dimensioni il numero». Da queste fondazioni partono tutti i rami dell’aritmosofia che vorranno prestare alla matematica e alla geometria una valenza mistica, tesa a scoprire e a rivelare l’armonia numerica che si nasconde dietro le apparenze del reale, così come Platone riconosceva nel dodecaedro la forma «usata dalla divinità per ricamare le costellazioni».

4. Dotato della capacità talismanica di riunire e allo stesso tempo di moltiplicare, di creare e fissare nel suo ordine astratto, il tema del numero si attesta ed emerge nella poesia moderna anche in quanto metafora della funzione poetica, accostandosi all’indicibile e all’incalcolabile che, in ultima istanza, caratterizzano i periodi storici di transizione o di grandi innovazioni.
L’ambivalenza del numero in poesia è materia ancora da indagare, e con essa le oscillazioni della poesia tra fascinazione del caos e ricerca dell’armonia, lungo il cammino tortuoso che ciascun autore compie, come ha scritto Yves Bonnefoy, “…entre le nombre et la nuit”.

5. Ho avuto modo di seguire Ἐλέα a partire dai suoi primi passi, tanto da poter riportare, con ragionevole sicurezza, alcune conversazioni con Bruno Di Pietro che riguardano l’impianto dell’opera e il numero di cui abbiamo scritto; ne riprendo qui alcuni passaggi, che credo aiutino a comprendere la struttura complessa dell’opera:
«In Ἐλέα i testi sono 55 più uno. 55 è il numero dei testi di “Baie” (2019) e “Frammenti del risveglio” (2021). Secondo lo schema 1+18+18+18 [qui] conservato. Le sezioni, sempre 3. Detto che 55 è il numero “angelico” e segnala “un altro inizio” e che 18 è, negli arcani maggiori, “la Luna”, gli altri possibili significati dei numeri si possono lasciare alla fantasia e alla curiosità dei (rarissimi) [sic] lettori. Qui, come dicevo, c’è un testo in più. È alla fine, e reca come titolo “ìncipit”: alla fine, l’inizio».

6. Sviluppando il frammento di conversazione che ho riportato (chi segue da anni l’opera di Bruno Di Pietro sa quanto sia importante il frammento nel corpus della sua poesia, frammento più euclideo che eraclitiano se guardiamo alla precisione geometrica della sua formula), l’1 è il numero del Creatore o, se si preferisce, di Dio, identificato dagli occultisti come la Cosa Unica nella quale si sintetizzano Universo, Uomo e la Sostanza Divina. L’Uno è la prima manifestazione del Numero e numero allo stato puro, l’Essere in germe o in nuce, il simbolo dell’Essere e dell’Unità Spirituale.
È considerato sacro, ed è venerato dai tempi più remoti, per la sua capacità di unire e di originare. Molte tra le tradizioni che hanno influenzato le religioni ed il pensiero parlano di una fase in cui regnava l’unità, il non-manifesto senza divisione, il segno che unifica le energie e la totalità.
Da questa origine sarebbero nate tutte le cose, risultando dall’unione delle che presiedono alla creazione di ogni nuova vita, maschile e femminile.
Il Numero Tre è invece il simbolo del ternario e della combinazione di 3 elementi.
Il ternario, un altro tra i simboli maggiori dell’esoterismo, rappresenta l’ordine intellettuale e spirituale, l’allineamento tra Dio, Cosmo ed Essere Umano, risultando dalla congiunzione di “1” e “2” come manifestazione dell’unione mistica di Cielo e Terra. È anche il compimento della Manifestazione, in quanto l’essere umano -figlio del Cielo e della Terra- si affianca ad essi completando la Grande Triade.
La Divinità Creatrice, comune a diverse mitologie e religioni, vi si presenta sotto un triplice aspetto: Statico, Dinamico, Conciliatore (i 3 Raggi Celtici del Triskel, le tre diverse vie evolutive dell’amore, della forza e della saggezza): Creatore, Distruttore, Conservatore (Brahma, Shiva, Visnù nelle divinità post-vediche dell’India): Padre, Madre, Figlio (anche nella religione giudaico-cristiana, sebbene riunisca, nella figura del Dio-Padre, tratti materni e paterni).
Lasciando da parte i riferimenti che ho richiamato, che avevano la funzione di introdurre in medias res, alla numerologia di Bruno mi viene spontaneo associare Il Sefer Yetzirah (in ebraico ספר יצירה, Sēfer Yĕṣīrāh, il Libro della Creazione), uno dei testi più importanti dell’esoterismo ebraico, che alcuni commentatori hanno invece considerato, piuttosto, un trattato di teoria matematica e linguistica in opposizione alla Kabbalah.
Il Sefer Yetzirah, composto fra il III e VI secolo d.C. in Israele o forse a Babilonia, è dedicato alle speculazioni teologiche e cosmogoniche circa la creazione del mondo da parte di Dio attraverso l’emanazione delle Sefiroth.
I passi biblici e talmudici che vi si riferiscono sono relativi alla trasmutazione mistica delle lettere ebraiche a scopo creativo: Le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico sono classificate in riferimento alla posizione degli organi vocali che producono il relativo suono, e rispetto all’intensità sonora.
Sia il macrocosmo (l’universo) che il microcosmo (l’uomo) sono visti in questo sistema come prodotti della combinazione e permutazione di queste lettere mistiche: le tre lettere Aleph, Mem, Shin, non sarebbero solamente le tre “madri” da cui si formano le altre lettere dell’alfabeto, ma anche figure simboliche per rappresentare i tre elementi primordiali, le sostanze alla base di tutta l’esistenza.
Secondo lo Sefer Yetzirah, dalla prima emanazione dello Spirito di Dio (il ruach, l’aria), si sarebbe prodotta l’acqua che, a sua volta, ha costituito la genesi del fuoco. In principio, tuttavia, queste tre sostanze avevano solo un’esistenza potenziale, divenendo reali solo attraverso le tre lettere Aleph, Mem, Shin: come queste sono le parti principali del discorso, così queste tre sostanze sono gli elementi da cui è stato formato il cosmo.
Ne risulta -e questa è l’impostazione che trovo più affascinante- che lettere non sarebbero sostanze indipendenti né semplici forme, ma anello di congiunzione tra essenza e forma, strumenti con cui il mondo reale, che consiste di essenza e forma, è stato prodotto dalle Sefirot.

7. ll riflettere in versi di Bruno Di Pietro si radica nel momento (il VI secolo a.C.) in cui Mito e Logos si separano. È stato osservato dalla critica che, in Omero, mùthos si può associare al “pensiero” come anche alla parola in cui il pensiero è contenuto: non soltanto, quindi, il suono della parola ma anche il pensiero che la parola contiene.
Successivamente, a partire dal VI sec. a.C., il termine assume un altro significato in contrapposizione al significato di Logos, e cioè il valore di “leggenda” di “fantasia” (così anche in Platone), di narrazione di eventi divini o primordiali.
Il momento della separazione tra mùthos e lògos, che abbiamo detto essere il momento in cui si situa l’inizio della scrittura di Bruno, non poteva avere altro luogo che Elea, la patria di Parmenide e della sua celebre Scuola (da qui le “Eleatiche”).
Tuttavia, è interessante notare che è proprio nell’apparente certezza di tale evento che si radica anche il “dubitare” di Bruno, con l’anafora ad aprire l’intero percorso. È anche il momento -vorrei dire esatto, se non temessi l’impatto dell’ossimoro apparente sul lettore- in cui nasce il suo riflettere sulla Storia e sulla nozione stessa di “tempo”: apparirà ancora più chiara, adesso, la ragione del lungo excursus all’origine di questa breve nota.

8. La Storia, in Bruno, è sempre protagonista, nel senso che indica un modo differente di intendere il tempo, diverso tanto da quello lineare, unidirezionale, quanto dal tempo circolare che si affaccia, per citare un esempio, in alcune poesie di Zagajewski o nella prosa di Kundera.
Ad esservi richiamata e impiegata è, con necessaria evidenza, la categoria del “tempo storico”, che non è il tempo degli orologi né il tempo che abita, agostinianamente, in interiore homine, né è possibile definirlo come il tempo in cui tutto quanto accade debba necessariamente accadere, trattandosi invece del tempo proprio a tutte le attività umane che prescinde dalle condizioni materiali in cui maturano. E’ la categoria adoperata da Karl Marx (segnatamente nella Introduzione ai Grundrisse, come ricorda altrove l’autore) quando parla della sopravvivenza del diritto romano al modo di produzione schiavistico, al punto da essere caposaldo delle codificazioni borghesi e fondamento di un modo di produzione del tutto diverso, che si estende anche all’Arte.
La Storia viene quindi considerata come un immenso “repertorio di possibilità”, come elemento che concorre a definire una “utopia ragionevole”, un’apertura e uno sguardo confidente nel futuro, come anche un sogno fatto a occhi aperti e in piena luce.
Del resto, tutti i nomi-simbolo dei precedenti lavori di Bruno Di Pietro (i presocratici di Elea, i Pitagorici, l’Ovidio scuro in volto ma non arreso, sebbene relegato sul Mar Nero, il poeta Massimiano all’alba del VI sec. d.C., Francesco Pucci, i nomi e gli Imperatori in “Impero”) sono soggetti di “confine” che frequentano il margine e il luogo dove ha dimora il “dubbio”.
Prestando le proprie fattezze a un Parmenide già messo a dura prova dal suo allievo Zenone, e la propria mano a riscrivere il poema in esametri intitolato Sulla natura, in cui -ricordiamolo- si afferma che la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono illusori, e che, contrariamente al senso comune, si possa guardare solo alla realtà dell’Essere, immutabile, ingenerato, unico, omogeneo ed immobile, il poeta guarda in faccia la morte e irride: vorrei ricordare qui che irridere ha il significato -curioso per un uomo di legge- di infrangere volutamente il contenuto di una norma, di un divieto, di una prescrizione: si tratta di uno dei legati più brillanti di Bruno, perché mettere in dubbio ogni attimo del presente, tirarlo in ballo e in discussione, in gioco, è l’unica clausola di uscita dalle ombre del tempo come dalla catastrofe e dal fallimento dei nostri anni (potremmo ancora citare le Tesi di filosofia della storia di Benjamin).

9. Infine, l’osservazione della realtà appare elemento essenziale in Ἐλέα, e con essa l’ascolto.
Bruno sembra dirci che c’è ancora posto per le passioni, per i sentimenti, per le relazioni, sottratti però “…ad un esercizio di triste elegia”; proprio per questo sarà ancora necessario per il lettore rivolgersi alla Storia, che avrà di volta in volta i connotati dello spazio in cui viviamo, sia esso la casa, il paesello, la città, il mondo.
Accosterei, in una conclusione che lascia ogni discorso aperto, un testo da Ἐλέα alla Prima “Eleatica”: la fine, l’inizio.

Da Ἐλέα

Parmenide ha la febbre.
Trema. Nel delirio dice
di un appuntamento con gli avi
appena fatto giorno.

Poi, quando sarà di nuovo scuro
il ministro della morte
passerà nel cielo
seguito dal corteo degli anni.

La “Prima Eleatica”
Da Colpa del mare

forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione

ma com’è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire

cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno

Francesco Terracciano

Libro del metodo naturale (il capitolo X del Dao De Jing)

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di Paolo Morelli

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel che possiamo fare

fare che il corpo e lo spirito s’abbraccino in un solo complesso
e non possano separarsi
far che il respiro ti renda sí tenero e fresco
da poter somigliare un infante
mondato scarta da te le troppo profonde visioni
che possa non averne logorio
avendo cara la gente, governando lo stato
possa tu praticare il non-fare
nel disserrarsi e nel chiudersi della porta del cielo
possa tu essere femmina
comprendendo ogni cosa
possa esser tu come se non sapessi
nel produrre e nell’allevare
produrre e non possedere
produrre e non conservare
accrescere e non padroneggiare
è questa la virtú trascendentale

(da La regola celeste di Lao-Tze (Tao Tê ching). Prima traduzione integrale italiana dal testo cinese, con introduzione, trascrizione e commento a cura di Alberto Castellani. Biblioteca Sansoniana Straniera, Firenze 1954).
È un libro che ho rubato moltissimi anni fa, e ce l’ho ancora. Resta comunque una delle migliori tra la miriade di traduzioni che sono seguite del Capitolo X del libro di Lao Zi, il Tao Tê ching o Dao De Jing, come risulta dopo la riforma delle trascrizioni.
Per quasi quarant’anni ho messo l’occhio su quella strana lingua, cercando di approssimarmi ai minimi termini di quel pensiero.
Sarebbe troppo noioso raccontare il travaglio, anche solo per il titolo in questione, per cui ne do i ragguagli.
Per esempio non si capisce proprio perché, per i cinesi (dào dé) traduce con soddisfazione il “morali” delle Operette morali di Leopardi (,dove gli ultimi due caratteri sono piccolo+opera), ed invece per i traduttori occidentali nel titolo di Lao Zi o è non tradotto, rinunziando in tal modo ad ogni esportazione magari universale del concetto che resta cosí relegato alla solita peculiarità locale, ad astrusa cineseria, oppure se ne danno varie interpretazioni piú o meno letterali come Via e Virtú, con le maiuscole per carità, con le stesse fiacche finalità esotizzanti.
Un’ottima interpretazione per dào () ce la offre il sinologo svizzero Jean François Billeter nel mirabile Lezioni sul Zhuang Zi, per il quale piú o meno significa il funzionamento delle cose al mondo, insomma solo e tanto come funzionano le cose in natura, in cui è certo che la Natura è la Legge, l’ordine naturale del tutto. Per quanto riguarda () essa vale virtú, ma è per noi parola ormai rococò, e poi qui solo come riverbero, sebbene non secondario, vale per “morale”, cosí il senso appare piú esteso a qualcosa di intrinseco come un’efficacia potenziale, come per le virtú salutari delle piante o come si chiamavano virtú le minestre della Scuola Medica Salernitana. Ed è stato anche tradotto infatti come potenza o potenziale.
Ma a monte di tutto ci si potrebbe chiedere perché per affrontare la monumentale e al contempo pacchiana paralisi logica in cui ci ritroviamo, talmente invasiva e subdola che a stento ci accorgiamo della sua genesi nel fatto che il pensiero non trova più il modo di rinnovarsi nell’esperienza, perché, insomma, andare a cercare sollievo o risposte in quei remoti e astrusi personaggi e libri.
L’approccio della filosofia occidentale è, da tanto di quel tempo, solo e soltanto progressivo: da causa ad effetto e cosí di seguito in ordine immutabile. Prima la causa poi l’effetto. Il modello è diacronico, mai sincronico quindi, ad esempio, perlomeno inadatto oramai a ciò che ci impone il mutamento percettivo e cognitivo in atto dovuto alle estensioni tecnologiche. Proprio non riusciamo a concepire la possibile simultaneità della causa con l’effetto, o addirittura l’anteriorità dell’effetto. Tale la forma mentis, in maniera incisiva e esclusiva da almeno quattrocento anni, tanto per tagliare il tempo con l’accetta. Eppure la vita non funziona in questo modo, non lo ha mai fatto e tantomeno al giorno d’oggi.
Perché, ciò che ci può regalare la visione dell’altro emisfero del nostro mondo, quello destro, è che essendo tutta la realtà lo stesso epifenomeno in cui tutte le esistenze sono interconnesse indissolubilmente, da qui viene l’impermanenza e il dinamismo del reale che, secondo quel pensiero, se accettati sono un punto di forza fortunato, se misconosciuti o rifiutati certezza di magra o atroce sconfitta.
Sempre per ricorrere ad agganci occidentali, se Liebniz attribuisce divinità alla materia, specularmente Spinoza investe di materia la divinità. Se nella monadologia ogni corpo è continuo all’altro e produce effetti in tutti gli altri corpi a seconda della distanza ma a qualsiasi distanza, in Spinoza invece, se ogni pensiero di Dio è dentro la materia, le cose materiali contengono la forza che le anima, sanno badare a se stesse insomma. Questo però non solo in senso spaziale (Spinoza non può credere a un luogo del divino dentro la materia), ma nel senso della dinamica che lega le cose materiali tra di loro: se una parte della sostanza corporea viene modificata, le altre non restano invariate; e se l’una non può restare nel suo stato senza l’altra, queste parti non sono separabili ma continue. E tutte le parti quindi le une alle altre si modificano all’infinito senza perdere sostanza, nella forma dell’omeostasi.
Per quel libro cinese è piú meno cosí, tranne che, essendo piú che altro gente a stampo pragmatico e volendo ingraziarsi con somma forza la fortuna per quanto possibile a uno che ha un corpo, una forma, essi, a differenza degli occidentali per i quali ogni avventura dello spirito ha un che di astratto, di rimandabile in base all’assunto che in fondo stiamo già bene come stiamo, a differenza insomma, per questi orientali se c’è un possibile strumento per capire questa totalità puramente logica che è la sostanza si tratta dell’equilibrio, ma dove trovarlo se non nell’assenza dinamica, ovverosia nel dato potenziale?
Tutto esiste solo nel cambiamento e a causa di esso, nella dinamica che lega le cose tra loro, quindi unica legge se vogliamo dirla cosí è quella della transitorietà e dell’impermanenza, frutto dell’interdipendenza e dell’interazione. Ma ciò che sottende al cambiamento, anzi alla dinamica del cambiamento, è il dato potenziale, al quale conviene imparare ad attenersi.
Detto cosí sembra arduo, invece arduo è sfidare la legge, e controproducente, perché il tale attenersi è l’unico modo che può autenticamente definirsi naturale, ma nel senso essenziale di efficace, di economico, di efficiente, non è il naturale come categoria primigenia altrimenti, pure qui, si fraintende (e, sia detto di concerto, a guardare proprio bene, ne dà interpretazione primordiale soprattutto chi ha scelto di non volerne saper niente poiché la natura crede di poterla controllare).
Una caratteristica evidente della natura è la sua propensione all’economicità, al risparmio e alla regolarità, ma anche e contemporaneamente alla sovrabbondanza, alla ridondanza, al “non si sa mai potrebbe servire”. Per l’antropologo e filosofo Ernesto De Martino: “La natura tende all’eterno ritorno perché è pigra, (…) dominata dalla ripetizione, e il tornare all’identico è il modo piú economico di divenire”.
Cosí il Reale cosiddetto è tale solo e soltanto allo stato potenziale. Codesto è il tanto sbandierato vuoto o nulla che sta al centro di tutto ciò che vive secondo quei cinesi, capito dagli accademici quando un trapano capisce del muro, ciò che muove tutto e gli dà vita pur essendo ancora inutile, e un esempio che fanno spesso è il vuoto al centro di una ruota. Per quanto riguarda poi l’altrettanto mal compreso non-fare, il wu wei (無爲) come fecondo metodo d’azione, è tutt’altro che quietismo, trattasi invece dell’attività che a questo compito ci adegua e ci addestra, o ci addestra e ci adegua, vedete voi.
Ergo, per traduzioni possibili di quel titolo che ho scaturito negli anni: Il libro della virtú naturale, della naturale efficacia, opportunità, del funzionamento, dell’agire, della possibilità naturale, della potenziale naturale, della potenza. Al limite Il libro della Ragione naturale e dei suoi effetti, anche se nessuno di questi regge l’impatto.
Ma se poi andiamo a ispezionare meglio e filologicamente l’ideogramma dào, vediamo che possiamo scomporlo nei radicali 首 qiú = testa + 止 zhĭ = piede, combinato con 行 xíng = percorrere, per cui, assieme a verrebbe: via corretta, via naturale, mostrare la via (ricordando en passant come dào abbia pure un significato non secondario del dire, l’esprimersi), metodo da seguire o, se vogliamo con nostra ascendenza greca, Ragione naturale e insieme modo di seguirla, o diaita.
Ma risolutiva arrivava a completare, e sempre attenendoci alle nostre ascendenze culturali al fine primario di naturalizzare lo straniero nella nostra lingua e tradizione mettendolo a suo agio per fare il meglio, di fare chiarezza insomma e permettere l’efficacia a quel pensiero, eccoci quindi alla piú perspicace tra le etimologie greche della parola metodo, la quale secondo autorevoli interpreti mette assieme il termine métis che vale grosso modo l’intelligenza intuitiva con l’òdos di cammino, vale a dire che tale intelligenza profonda si è poi messa in moto. Esattamente il dào insomma. A differenza del logos, ragione alta e astratta, la métis è frutto dell’esperienza volta a perseguire obiettivi concreti, riconnette con un controllo largo della mente, con una capacità penetrativa che permette di leggere istantaneamente le situazioni e anticiparne gli sviluppi. È l’intelligenza che preordina gli atti nel silenzio della mente, cosí a questo punto anche al possiamo affidare un messaggio ben piú ampio e sfumato, preciso per quanto si possa nel rendere l’intento della lingua del pensiero originale ma almeno pregnante, ed eccoci finalmente a qualcosa di credibile e utilizzabile anche dalle nostre parti, ossia: Il libro del metodo naturale.
Il metodo naturale è il modo e la maniera per ognuno di noi di “coltivare la propria parte di natura”, vale a dire fuori dalle costrizioni e dalle supposte convenienze obbedire all’unica autorità che la nostra coscienza riconosce, poiché ne fa parte. Vale a dire l’addestramento in grado di riconciliarci, armonizzarci con il funzionamento delle cose al mondo, e il capitolo X qui proposto ci dice piú di altri il come-fare, che posizione prendere, il fattapposta, la base, l’essenziale per metterci nelle condizioni di sovvertire il pronostico che ci proclama al riguardo sconfitti.
È insomma il libro stesso che chiede, implora quasi di rendersi efficace, in questo sí peculiarmente cinese (se si può affermare che nell’antichità ogni mito o rito sia ispirato a modelli psicologici, per quei cinesi ciò è vero in maniera terribilmente pragmatica e concreta). Un manuale di sopravvivenza, come tutti i libri di quella scuola e come tutti i libri importanti da qualsiasi parte del mondo provengano, che siano di pensieri come questi o di narrazioni ci mostrano, essendo le situazioni in vita sempre piú o meno le stesse e con un numero di variabili numerose ma comunque finite da quando c’è l’aria, quali siano stati in passato i modelli attuati di comportamento e di reazione da utilizzare.
Se esiste una buona ragione per la quale è difficile definire il daoismo non è solo perchè sfugge alle definizioni ma perché i suoi modi di espressione variano a tal punto che non c’è griglia concettuale capace di racchiudere tutte le forme di pensiero e di azione che vengono comunemente fatte risalire al daoismo. Se c’è un’unità in esso è più interiore che esteriore, una comune fonte di ispirazione e di conoscenza che si esprime nei modi più diversi secondo le circostanze in cui si trova ad agire.
Cosí di seguito, a riprova dell’universale laicità del percorso, diremo che il tal pensiero, nel tempo quasi trimillenario del suo sviluppo ha preso derive anche molto influenti e popolari, alcune ad esempio a carattere metafisico, religioso o esoterico addirittura, e affinché ci torni utile può rendersi necessario recuperarne le intuizioni basilari sfrondandole dai sovrappesi culturali, anche e soprattutto della cultura dove si è conservato ma dove ha forse accumulato gravami e un certo declino storico. Si tratta di tesori, anzi in questo caso di un tesoro ben conservato, che forse è oggi meno sicuro nelle sue antiche patrie che in altri luoghi. Ed è questo andare al midollo, come tra loro usano dire, che ad esempio ci permette di spendere al riguardo la seppur vaga definizione di materialismo naturalista.
Infine, secondo l’eminente studioso e traduttore statunitense Thomas Cleary, la missione e la natura fondamentali del daoismo non sono cinesi. Si potrebbe dire che, al contrario di quanto si crede, il dào non è prodotto della civiltà cinese bensí è la civiltà cinese originariamente un prodotto del dào, ma proprio ed esattamente come lo si potrebbe dire per tutte le altre culture. Se a dào infatti sostituissimo Ragione Naturale avremmo una situazione assai favorevole per l’occidente e il resto del mondo tutto, visto che per quella tradizione di pensiero è condizione privilegiata e ottimale quella di essere daoista senza saperlo.

 

Libro del metodo naturale

Capitolo X

Quello che possiamo fare

Per esempio, far sí che intelligenza e destino si abbraccino,
e non si separino.
O accorgersi del fatto che respiriamo e adoperarlo,
perché può far capaci di agire come principianti.
E cosí smetterla di rimestare nel torbido
di idee troppo inutilmente complicate.
Nei rapporti con gli altri o se si hanno responsabilità
aspettarsi il meno possibile.
E nell’alternarsi di fortuna e sfortuna,
allenarsi a guardarle passare tutte e due.
E cosí, nel cercare di orientarsi fra le cose del mondo,
usare la quiete come senso d’orientamento.
Se ti riesce di combinare qualcosa coltivalo,
senza credere però di farlo tuo.
E, appena ti fabbrichi un pensiero,
non credere mai troppo a quello che ti passa per la testa.
È questo il metodo migliore di adoperare la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“La tristezza dell’inchiostro”, calligrafia di Paolo Miorandi (la fotografia all’inizio è di Danilo Pierleoni)

 

Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #1

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[Oggi si svolge l’investitura di Trump, e possiamo senza difficoltà prevedere che una nuova fase storica si apre e che essa non riguarda solamente il destino degli Stati Uniti. Nei primi giorni della sua presidenza, Trump ha promesso di firmare una tempesta di decreti, che renderanno effettivi i suoi obiettivi in fatto di politiche migratorie, statali, commerciali e culturali. In questo nuovo contesto, mi sembra che sia necessario fare il punto su quali strumenti di difesa intellettuale abbiamo e vogliamo condividere con altri. Io in ogni caso comincio da qui. a. i.]

di Andrea Inglese

“I nuovi fascismi si limitano a risaldare le gerarchie di razza, genere, classe; la strategia politica rimane quella neoliberista. La missione dei nuovi fascismi non è combattere un’opposizione inesistente, ma portare a termine il progetto politico che è alla base delle politiche neoliberiste.”

Maurizio Lazzarato, Il capitalismo odia tutti

Per alcuni, il capitalismo è la notte in cui tutte le vacche sono nere. Esso è una realtà monolitica nello spazio e nel tempo. Ha senza dubbio un valore globalmente molto negativo, ma è considerata risibile la pretesa di rischiararne le articolazioni, d’ipotizzare che esso, avendo una dimensione storica, anche si distingua per fasi, e non sia soggetto a un fatale determinismo.

Quale che sia la definizione o il concetto che siamo in grado di formulare intorno al mostro “capitalismo”, che per altro ci culla giornalmente, dovrebbe apparire chiaro che esso sta manifestando una attitudine aggressiva e violenta, che non ha precedenti storici almeno dal Dopoguerra in poi. Tra i principali soggetti interessati a questa trasformazione, ossia tra quelli che dovrebbero innanzitutto percepirla, ci siamo noi europei, usciti dalle macerie e dai massacri della Seconda Guerra mondiale con uno slancio democratico largamente condiviso. Questo slancio si basava su un paio di presupposti fondamentali: le ideologie fasciste e razziste si consideravano incompatibili con lo sviluppo capitalistico e questo obbligava le élites politiche ed economiche a venire a patti con il resto del corpo sociale, lavoratori in testa. (Per altro, alcune organizzazioni politiche dei lavoratori avevano contribuito direttemente alla sconfitta delle forze nazi-fasciste in Europa.) Questo non ha di per sé fatto sparire né la mentalità razzista né i funzionamenti discriminatori delle istituzioni, ma li ha ogni volta esposti a varie forme di critica e anche a mobilitazioni d’ordine politico. La guerra francese in Algeria come la guerra in Vietnam degli Stati Uniti sono stati eventi che, piuttosto che creare consenso nella popolazione, hanno innescato divisioni, critiche, conflitti politici. Quello che sta accadendo, oggi, invece, è un riuso su larga scala, potenziato dalle piattaforme digitali, del razzismo e dell’autoritarismo come forme di governo e ordinamento sociale. Sotto nomi nuovi come “sovranismo”, “suprematismo”, “mascolinismo”, il fascismo storico riemerge, acquista legittimità mediatica e politica nei parlamenti, e ha nella superpotenza mondiale statunitense un nuovo propulsore, nell’era Trump 2. I nostri opinionisti sono ancora occupati a chiedersi se gli attacchi di Musk al primo ministro britannico laburista o al cancelliere tedesco Olaf Scholz siano motivati dagli interessi economici del suo impero aziendale o da una specifica convinzione ideologica. Ma Musk ha appunto mostrato che il suo capitalismo assume pienamente la dimensione ideologica del nuovo fascismo, ossia collima con le parole d’ordine dei partiti di estrema destra europei. E le parole d’ordine non sono mai solo parole d’ordine, sono anche uno stile, una modalità d’azione, basata su attacchi violenti e intimidazione.

A rendere le cose più chiare, in seno alle élites economiche, ci sono state le comunicazioni fatte dal padrone di Meta, il 5 e 7 gennaio. Dapprima Zuckerberg ha annunciato che sulle proprie piattaforme (Facebook, Instagram e Threads) rinunciava alla politica di moderazione e di fact-cheking affidata a esperti indipendenti, per salvaguardare “la libertà di parola”. In sostanza, Meta si allinea al modello promosso da Musk su X. Ancora più esplicito Zuckerberg lo è stato in un intervista concessa a Joe Rogan, curatore di podcast gratuiti ed estremamente popolari negli USA, oltreché convinto sostenitore di Trump. In quell’occasione Zuckerberg ha dichiarato di abbandonare anche il programma DEI, (diversity, equity and inclusion) che fino ad allora era adottato dalle risorse umane dell’azienda, e questo in nome della buona e sana “energia maschile” (“The masculine energy is good”), quella che si esprime ad esempio nelle arti marziali miste (MMA), che sia lui che Joe Rogan praticano. Qualcuno ha detto che il viraggio di Zuckerberg è una non-notizia, sempre perché nella notte capitalista non ci sono gradi, fasi, conflitti interni, lotte per l’egemonia, ma solo un continuum di cattivi e di cattiveria. Io considero che è un’ulteriore notizia inquietante dal fronte, dal momento che alla truppe d’opinione e intimidazione che Musk riesce a mobilitare attraverso X, ora si affiancano quelle che si potranno scatenare su Meta. Inoltre, il fatto che la facciata “liberal” sia caduta, non è solo una notizia di “facciata”. Il mondo californiano della tech è certo avanzato “mascherato” dagli anni Novanta in poi, ma questo era frutto di un’esigenza di consenso presso nuove generazioni che sognavano di sposare senza contraddizioni imprenditoria capitalista e sensibilità progressista, stipendi da fiaba e grande autonomia creativa. Ora anche la tech californiana decide di abbondonare del tutto la sua vecchia mitologia e di far proprio l’orizzonte ideologico del duo Trump-Musk.

Diciamo che in un contesto del genere, uno vorrebbe sentire crescere innanzitutto intorno a sé un certo spavento. Infatti, i nemici naturali di queste nuove élites e delle loro “milizie” più o meno virtuali, siamo noi, e lo siamo perché democratici convinti, perché anticapitalisti, perché socialisti, perché anarchici, perché femministi, perché gay e trans, perché immigrati, perché non-bianchi, perché lavoratori, perché disoccupati, ecc. Allora vorrei che questo “noi” avesse mantenuto, nonostante la confusione e l’insidia dei tempi, un sano istinto di autoconservazione sociale, e il relativo senso del pericolo che esso implica.

Vorrei cioè che uscissimo non tanto da Meta o da X, ma innanzitutto dal diniego e/o dalla paralisi. Vorrei, in altri termini, che non facessimo finta di niente, ma che iniziassimo a pensare alla nostra autodifesa e agli strumenti che possiamo mettere in campo per garantirla. Sono un po’ pessimista in questo momento, quindi non me la sentirei di parlare di contrattacco, anche se non lo escludo come principio. (Come non escludo la possibilità di manifestare la virtù del coraggio, ma per avere coraggio dovremmo già, prima, provare paura. Avere coraggio non significa non percepire la paura – questo si chiama incoscienza –, ma il vincerla.) In ogni caso, parlare di approntare strumenti di autodifesa vuol dire assumere una prospettiva strategica e di “guerra” in corso. Già questo mi sembrerebbe un grosso passo avanti.

Ora, oltre a voler giustificare con argomenti la mia percezione di “nuova fase” e di “pericolo crescente”, il senso di questo mio intervento è quello di fornire un’arma concettuale particolarmente solida e utile, in mezzo a tanti tentativi di analisi limitati o addirittura fuorvianti. Si tratta di Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione di Maurizio Lazzarato (DeriveApprodi).

È un libro che ho letto a sprazzi. Iniziato prima del 7 ottobre e del successivo scatenamento israeliano contro Gaza, continuato nella fase di distruzione e massacro sistematici nella striscia, e finito con la vittoria di Trump alla presidenza. Ad ogni tappa di lettura, mi rendevo conto che le analisi di Lazzarato si manifestavano sempre più efficaci nel leggere una realtà in rapida e caotica evoluzione. Ma questo libro è stato pubblicato nel 2019. Eppure lo si capisce fino in fondo solo oggi, nel 2025, con l’arrivo del duo Trump-Musk alla Casa Bianca..

Da tempo, e non sono certo l’unico, considero che la questione della tecnica e, nello specifico, delle nuove tecnologie informatiche, costituisca un nodo ambiguo ed enigmatico, ma centralissimo per definire lo statuto del capitalismo contemporaneo e dei suoi effetti di alienazione, sfruttamento e dominazione sulla popolazione. Tecnologie informatiche vuol dire, ad esempio, le piattaforme dei social, che sono divenute dei veri e propri ambienti, in cui si svolge una parte importante della nostra vita relazionale, comunicative e creativa, a cavallo tra tempo libero e tempo lavorativo. Ma tecnologie informatiche significa anche introduzione crescente in questi ambienti dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi specifici effetti.

Per parte mia, proprio su Nazione Indiana, ho dedicato a questa questione alcuni interventi approfonditi. Ne ricordo due: Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica e Citazioni sulla natura instabile dell’informazione (Darnton, Cristianini, Vonnegut). Il motivo ispiratore di entrambi gli interventi, è stato il tentativo di combattere due opinioni che considero false e dannose, e che puntellano una condivisa attitudine nei confronti delle nuove tecnologie in generale e dell’uso delle piattaforme in particolare.

La prima di queste opinioni è senz’altro la più insidiosa. La potremmo formulare semplicemente così: le conseguenze sulle nostre vite delle attuali evoluzioni tecnologiche sono inevitabili come lo sono queste stesse evoluzioni. Con questa frase, si vogliono affermare almeno due verità importanti. Le evoluzioni che riguardano il mondo della tecnica sono parte di un processo storico, ma quest’ultimo si svolge secondo una propria logica, indipendente dalla volontà politica dei soggetti umani che ne sono coinvolti. In altri termini, le macchine, con tutti i loro vantaggi e svantaggi, s’impongono per forza propria nelle nostre vite, e noi non possiamo che cercare di adattarci a esse nel modo migliore possibile.

La seconda opinione è quello riassumibile nella frase: ogni tecnica non è che uno strumento neutro, ciò che conta è il modo in cui un individuo la usa. Questa affermazione paradossalmente può coabitare in uno stesso discorso con l’affermazione precedente. Il progresso tecnologico così come lo conosciamo è ineluttabile, ma possiamo utilizzarlo bene o male secondo la nostra volontà individuale. In ogni caso, il problema non riguarda la convinzione che della tecnica sarebbe possibile appropriarsi, ossia piegarla ai nostri bisogni e alle nostre esigenze, ma la convinzione che ciò potrebbe essere frutto di una decisione e di una pratica individuale.

Il libro di Lazzarato ci fornisce un’analisi convincente, attraverso un dialogo critico con Anders, Foucault, Mumford, Fanon, Simondon, Negri, Deleuze e Guattari, del rapporto che esiste tra la dimensione politica e quella tecnologica, tra la strategia delle élites capitalistiche e le possibilità che le macchine offrono a essa. È un punto che necessita di essere sviluppato più approfonditamente, ma qui mi limito a fornire le conclusioni a cui perviene Lazzarato. Il modo in cui funzionano le nostre macchine, ciò che le nostre macchine fanno o non fanno, non è frutto di uno svolgimento “interno”, di una sorta di determinismo tecnologico, ma di un’incorporazione di certe loro funzioni, in quella che viene definita “la macchina da guerra del capitale”. Quest’ultima è una realtà di natura socio-politica, costituita da una costellazione ideologica e di pratiche, che orientano quella che Rossi-Landi avrebbe chiamato la “programmazione sociale”. In altri termini, la tecnica funziona come un organo del capitale, ma questo avviene in quanto il capitale (ossia i concreti capitalisti) intercettano, piegano alle proprie strategie di arricchimento e controllo, certe virtualità presenti nei dispositivi tecnologici. Se noi siamo asserviti alla tecnica, la tecnica lo è alle decisioni delle élites economiche e politiche.

Leggiamo, ad esempio, questo passo di Lazzarato, su quello che definisce il cyber-fascismo:

“[Il cyber-fascismo] Mette in crisi tutte le utopie – dal cyberpunk al cyberfemminismo, dalla cybersfera alla cybercultura – che, dal dopoguerra e con un’intensificazione negli anni Settanta, vedono nelle macchine la promessa di una nuova soggettività post-umana e una liberazione dal dominio capitalista. Bolsonaro e Trump hanno usato tutte le tecnologie disponibili della comunicazione digitale, ma la loro vittoria non deriva dalle tecnologia: scaturisce invece da una macchina politica e da una strategia, che articola la micropolitica delle passioni tristi (frustrazione, odio, invidia, angoscia, paura) con la macropolitica di un nuovo fascismo che dà consistenza alle soggettività devastate dalla finanziarizzazione.

Per dirla con i termini che adotteremo in questo capitolo: la macchina tecnica, in tutte le sue forme, è assoggettata alla strategia messa in campo dalla macchina sociale neofascista che, nelle condizioni del capitalismo, non può che essere una macchina da guerra.” (p. 73)

Potremmo chiamare in altri modi quello che Lazzarato definisce la “macchina da guerra”, ma la formula non è per nulla enfatica. Non lo è rispetto alla retorica che, per primi, personaggi come Bolsonaro, Trump, Musk, Milei, utilizzano. Ma sappiamo che, a questa retorica, corrispondono delle concrete scelte politiche, e soprattutto delle componenti della popolazione designate come pericolose, e quindi da combattere come un nemico interno: dagli immigrati ai disoccupati, dalle minoranze etniche e religiose agli ecologisti.

In quest’ottica, è chiaro che ogni pretesa individuale di non farsi condizionare dall’uso di certi dispositivi tecnologici è ingenua. Con questo non si vuol dire che le scelte individuali non contano, ma che esse contano in quanto anticipano o suggeriscono la necessità di scelte collettive. Queste scelte collettive, però, ci ricorda Lazzarato, devono elaborarsi a partire dalla “macchina da guerra capitalista”, ovvero in risposta alle strategie offensive dei nuovi fascismi. Ma questo atteggiamento necessita un certo grado di anamnesi storica. In perfetta sintonia con quanto sostiene un pensatore come Castoriadis, Il capitalismo odia tutti ci invita a considerare il ciclo di rotture rivoluzionarie che hanno scosso il Ventesimo secolo, non perché si peschi in esso qualche ricetta da applicare più o meno fedelmente, ma perché si esca almeno dalla superstizione del determinismo (che affligge anche i marxisti). Cito di nuovo Lazzarato:

“L’affermazione della discontinuità della storia, la critica della sua causalitàe dei sui determinismi ritrova l’imprevisto di [Carla] Lonzi e l’imprevedibilità di Fanon: il soggetto rivoluzionario deriva, ma non dipende, dalla storia; se proviene dalla situazione economica, politica e sociale, non è deducibile da questa situazione. Il soggetto rivoluzionario non può essere anticipato con l’immaginazione, con un progetto, con un programma, né compreso a dovere dal sapere, dalla scienza, dalla teoria” (134-135).”

Non si tratta qui di una semplice confessione di “agnosticismo” teorico, ma di ribadire la dimensione imprevedibile del divenire storico. Nello stesso tempo, sappiamo che la macchina da guerra del capitalismo attuale, nelle sue forme apertamente fasciste, ha come scopo invece di “prevedere” e quindi “controllare” i comportamenti collettivi. E questa previsione passa anche attraverso quegli ambienti digitali e telematici che ormai fanno parte integrante della nostra vita più intima. Cominciamo allora ad armarci per una nostra difesa. I libri (certi) possono servire anche a questo.

L’eremita delle ossa

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Immagine di Наталья Коллегова da Pixabay

(Questo racconto contiene testi espliciti e riferimenti alla violenza. Se ne sconsiglia la lettura a un pubblico non adulto, e a chiunque possa sentirsi offeso.)

di Enrico Di Coste

Fernando, aggiungi altre ossa.
Stanno per finire. Perché ti ostini, Monica?
Ne abbiamo bisogno ora.
Ce ne pentiremo. Fernando sospirò, e cedette.

Un gemito. Nicolas. In camera da letto. Accorsero.

No. Per favore.
Camila.

Scoprirono il sollievo inumano dell’annientamento dopo la veglia senza fine. Uccisero la propria figlia per la seconda volta.

Quando Fernando e Monica uscirono dalla stanza, Nicolas posò un bacio sulle labbra secche della sorella che non era più.

Le settimane riservarono ai Gutierrez l’estenuazione dell’insonnia. Nicolas non sapeva se lasciar vincere la voce che lo attanagliava. Quella voce suggeriva che raggiungere Camila fosse l’unico gesto sensato da compiere.

Non la assecondò. Fece capolino il sibilo della ragione: doveva perseverare. L’inverno della coscienza avrebbe abdicato al proprio regno. L’inverno fuori, che durava da decenni, mai.

Vado a Magondo per cercare provviste. Magari riesco a comprare ossa.
Sei l’unico figlio che mi è rimasto.
Lo so. Ma dobbiamo farci forza.
Non l’abbiamo fatto?
Lasciamo perdere, disse Fernando. Prendi il fucile.

Guardò il figlio. Uno zaino stracolmo di roba, due maglioni, un giubbotto consunto.

Indossa un cappotto in più, Cristo!

Appena fu solo, Nicolas si concesse la prima lacrima dalla morte di Camila. Ghiacciò sullo zigomo al primo passo nel gelo. Non poteva farsi vedere così. Non doveva. Per loro, per conferire senso a ciò che calpesta ogni senso possibile.

Imperversava un vento di morte.

Uno, due, tre, cento passi in un mondo rassegnato all’apocalisse come a una necessità incagliata nel tessuto dell’essere.

Tremava. Non per il freddo, ma per le ronde dell’Escuadrón de la muerte. Quando l’imprevedibile si fa abitudine e soggioga ogni pensiero, si può solo zittire di fronte alla trama delle cose.

Stavolta è la mia volta.

Nessuno sapeva quanti fossero sopravvissuti. Le abitazioni agibili erano occupate per chilometri. I beni primari si ottenevano con immane fatica. Le trattative con i forestieri si concludevano quasi sempre tramite baratto. Ogni barlume di civiltà annichilito dallo sciacallaggio, il denaro un indecifrabile ricordo.

L’Escuadrón non glissava su anima viva. Le ossa erano merce imprescindibile dinanzi la glaciazione, e dovunque fosse corpo d’uomo v’era potenziale guadagno. I rastrellamenti non suscitavano scalpore, morti o vivi faceva lo stesso.

L’anarchia muta l’ovvio in risorsa introvabile.

Le ossa, perlomeno finché la popolazione non fosse stata irrimediabilmente decimata, erano una risorsa molto più economica della legna, inestimabile perché sepolta sotto ataviche coltri di ghiaccio.

La sgommata di un’auto in avvicinamento.

Tu. Sì, tu. Hai degli zaini. Qui, subito.

Nicolas cessò di pensare. Obbedire e temere, imperativi di un’epoca irredimibile.

Vi prego. Sto solo cercando gente con cui barattare.
Non hai capito la musica. Facciamo quel che ci pare.
Non potete, non delle persone.
Soprattutto delle persone. Certo che hai fegato. Vieni. Adesso.
Non mi muovo di qui.
Sei simpatico, faremo un’eccezione per te. Però ti lasciamo un ricordino, ce lo concedi, vero?
Fate quel che dovete.

Nicolas si stese sulla terra gelida. Lo pestarono. Gli rubarono lo zaino. Furto categoria obsoleta, sradicata dai cuori prima che dalla mente.

Canta: dove sono gli altri? Voglio la canzone intera. Ti facciamo un favore, dopotutto. Ti leviamo un peso di dosso.

Nicolas sputò in faccia allo squadrista.

Violarono le carni, squadernarono ogni anfratto d’intimità.

Un milione di anni dopo, si fermarono. Ti basta o dobbiamo continuare?

Nicolas cantò.

Non era così difficile, visto? Meglio tardi che mai.
Fottetevi.

Un’altra raffica di calci. Ripartirono.

Nicolas corse. Le fratture non contavano. Lo sperma tra le natiche non contava.

Arrivò. Solchi nel ghiaccio.

Entrò. Non c’erano. Anzi, c’erano. Un tappeto di pelle e viscere.

Una lettera intrisa di sangue. La grafia della madre. Precipitosa.

Stanno per scuoiarci, vogliono le ossa. Ti scongiuro, figlio mio, prenditi cura di te stesso. È meglio senza addio.

In camera da letto, qualcosa avvolto nelle coperte. Un’intuizione orrida. Scostò un lembo. Il corpo di Camila. L’aveva congelato nel baule dello scantinato, all’insaputa dei suoi. Aveva promesso che l’avrebbe seppellito da solo. Avevano accettato.

Strattonò le coperte. Era intatto. Le labbra e i seni profanati. E il resto del corpo.

È colpa mia. Non sono stato capace di buttarti via. Non potevi chiedermelo.

Il silenzio rispose senza rimproveri a cui potersi aggrappare.

Pulì Camila, la prese in braccio, uscì di casa, la poggiò supina sulla frigida crosta del mondo. Le accarezzò i capelli, passò un dito sulle labbra ancora vischiose. Le baciò un’ultima volta cercando di trattenerne il sapore.

Rientrò. Cercò la pistola di riserva nascosta sotto un asse del pavimento, la trovò.

Sostò, ascoltò il proprio respiro. Incarnò la scelta che si preparava da millenni tra l’abominio e un orizzonte inconoscibile.

Non fu in grado di piangere. Un milione di anni dopo, gettò la pistola.

Essere come Gesù (extrema ratio)

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di Nicola Olla

Il mio dottore lo ripete spesso che non posso essere come Gesù, e visto che sarebbe una bestemmia anche solo pensarlo (e io non sono un bestemmiatore, Dio mi aiuti), non posso che essere d’accordo con lui. Però gli spiego che non voglio essere nemmeno come quella neve che, intiepidita dai raggi del sole, si stacca dalla cima della montagna. Inizialmente non è altro che un puro, innocuo, sbuffo bianco che allenta la presa con l’intento di fermarsi qualche metro più a valle, dove la pendenza si fa più dolce, ma una volta percorso il primo tratto, quell’esiziale manciata di neve si gonfia, si appesantisce, lievita di volume e supera di slancio il fresco avvallamento tra le rocce che doveva fungere da argine. L’esigua polverosa neve originale allora evolve in un accumulo più compatto, che sospinto dalla propria inerzia continua ad addizionarsi ad altra neve mista a detriti fino al raggiungimento di una massa tale da passare dall’addizione alla moltiplicazione, e quando questo accade siamo ormai al cospetto di una valanga che non fermerà la sua corsa fino al fondovalle, travolgendo e corrompendo altra neve che, per quanto stabile possa essere, verrà trascinata e fatta forzatamente partecipe dell’opera di distruzione che si compierà a causa di quel piccolo sbuffo di neve incapace di resistere al calore dei raggi solari qualche centinaio di metri più a monte.

E io non voglio essere quel piccolo sbuffo di neve: è questo ciò che ripeto tutte le settimane al tanto paziente dottor S. nel suo studio, l’unico che rimanga ad ascoltarmi quando cerco di esprimere il mio disagio, l’unico al quale possa confidare il mio intimo pensiero sul mondo di peccatori in cui viviamo, l’unico (e sono sicuro che il motivo non sia perché lo pagano i servizi sociali per starmi a sentire) che dimostri interesse verso i miei ammonimenti.

Il mio caro dottor S. è un uomo gentile e premuroso, gradevole sia nell’aspetto che nei modi, e anche se non è per questo motivo che continuo a venire da lui ogni mercoledì pomeriggio da anni ormai (mentre gli altri dottori li lasciavo prima della terza seduta perché alcuni non mi prendevano sul serio, altri mi trattavano da pazzo o non erano intellettualmente all’altezza e uno, per fortuna uno soltanto grazie a Dio, che ho dovuto lasciare prima dell’inizio delle sedute perché nonostante si chiamasse Andrea era una donna), è indubbio che il suo aspetto sia per me un fattore apprezzato, in quanto la sua gradevolezza estetica non si spinge fino a diventare bellezza, che per me è solitamente perturbante, sintomo di impudicizia e di tentazione. Sono grato di aver trovato in questa terra, tra le creature imperfette di Dio, un uomo buono e umile come lui, anche se sospetto che non sia un buon credente, con quel naso e quel cognome che puzzano di ebraico lontano un chilometro.

Quello che racconto il mercoledì pomeriggio al mio caro, sebbene probabilmente giudeo dottor S. (e nonostante pensi di non sbagliarmi questo è un aspetto che voglio evitare di approfondire) è qualcosa che secondo lui mi rende molto interessante, anche se non sono sicuro che questo equivalga ad un complimento. A quanto pare quello che gli dico lo aiuta ad aiutarmi (come piace dire a lui) a rendere più lucidi i miei pensieri, visto che è stato arbitrariamente e univocamente decretato che ho la mente un po’ in disordine a causa della mia (ci tengo a precisarlo, legittima) intransigenza verso i peccatori e le degenerazioni moderne. Questo mi ha portato ad essere ritenuto bisognoso di un dottore (e se dovesse rendersi necessario anche di qualche pillola) che mi aiuti a scongiurare un ricovero coatto, che è stato paventato come extrema ratio ma che sembrano desiderare tutti tranne me e il mio dottor S.. Per adesso nessuno mi ha ancora ricoverato forzatamente, e non sono nemmeno stato obbligato, o persuaso, o mi è stato suggerito dal mio caro dottor S. (quanto è caro il mio dottor S.) di prendere alcun tipo di pillola sedativa o cerebroanestetizzante. Anche se spesso cerca di insinuare in me l’idea che la tolleranza possa essere un atteggiamento ragionevole davanti alla follia dei peccatori, vedo dai suoi occhi scuri e vispi che la pensa come me, e anche se mi mette alla prova lo lascio fare, poiché è riuscito a tenermi lontano dalle pillole che stordiscono, dai ricoveri che annientano e dagli istituti che oblìano, e so che l’ha fatto per permettermi di continuare la battaglia contro il Demonio, per lasciarmi redimere qualche anima lussuriosa e riportarla sulla retta via. Vuole solo che lo faccia con discrezione, senza che lo vengano a sapere i vigili, i poliziotti e i servizi sociali, che difendono le nefandezze perché anche loro non operano nel nome del Signore.

Credo che sarà intimamente e segretamente d’accordo quando gli dirò che in quest’ultima settimana ho ricominciato la mia battaglia contro il maligno.

Oggi è mercoledì, sono quasi arrivato al suo studio e devo ammettere di sentirmi felice per quello che ho fatto. Mi aspetto che mi disapprovi, ma so che in cuor suo si sentirà fiero di me. Sarà comprensivo perché questo è il periodo dell’anno in cui la società mi ributta maggiormente, quando orpelli blasfemi che nulla hanno a che fare con la ricorrenza della nascita di Gesù inquinano i miei occhi e uomini barbuti vestiti di bianco e rosso come bibite gassate si prendono gioco della vera fede cristiana. Il mio dottor S. sa quanto sia difficile per me ignorare queste provocazioni e quanto debba sforzarmi per compiacere i servizi sociali e non farmi rinchiudere in istituto (extrema ratio). Nel periodo in questione, che riempie la città di luci colorate e decorazioni, nonché (incomprensibilmente per il periodo e la ricorrenza della Santa Nascita di Nostro Signore Gesù Cristo che si intende celebrare) di nudità ammiccanti e tentatrici, la situazione diventa insopportabile. Femmine essenzialmente spogliate, agghindate di bianco e rosso, campeggiano con dimensioni colossali sui cartelloni pubblicitari della città, sulle copertine delle riviste e alla televisione, violando i miei occhi con corpi irragionevolmente scoperti nelle parti più oscene, nonostante dalle immagini si evinca che l’ambientazione sia invernale e molto fredda, data la presenza di neve, abeti montani e talvolta renne artiche, e considerato che altre parti meno vitali di quei corpi appaiono coperte con sciarpe, guanti e addirittura cappelli. Tali donne, che sono piacevolmente addobbate soltanto nelle parti del corpo che richiedono addobbi (mentre vengono lasciate ignude là dove gli addobbi non sono necessari, per via del fatto che il Demonio è tentatore e seducente), creano dentro di me delle tensioni sessuali particolarmente intense, e la vista di quelle mammelle-gambe-fondischiena addobbati di luccicanti orpelli che celano soltanto i centimetri di epidermide sessualmente meno pregiata, lo sa il mio caro dottor S. l’effetto che mi fanno. È per questo, per il fatto che comprende il mio stato d’animo violentato, che sono convinto che una piccola parte del suo cuore, mentre mi rimprovererà per ciò che ho fatto (ma lo farà soltanto per via del suo obbligo con i servizi sociali), intimamente gioirà per me, ammirerà il mio coraggio e comincerà a desiderare di liberarsi dal suo giogo oppressore e, nonostante il suo naso e il suo cognome da ebreo, unirsi a me nell’azione di purificazione cristiana del mondo.

Mentre salgo le scale di marmo che portano al terzo piano pregustando la gioia della punizione (il rimprovero che uscirà dalla sua bocca ma sottintenderà l’elogio del suo cuore), ho proprio voglia di rivelare al mio caro dottor S. perché ho deciso, con le dovute precauzioni per non finire rinchiuso in un istituto (extrema ratio) e per non metterlo in imbarazzo coi servizi sociali (che ci permettono di incontrarci ogni mercoledì pomeriggio), di tornare ad essere un umile strumento di Dio. In realtà potrei spiegare al mio caro dottor S. che più che una decisione vera e propria, a guidarmi (e per questo mi sento di essere nel giusto, mosso dalla mano di Dio in questa non-decisione) è stata la necessità di reagire ad alcuni pensieri che l’influenza demoniaca ha inculcato nella mia povera mente esasperata da questo periodo dell’anno che dovrebbe essere Santo ma è blasfemo. Con i sensi infiammati dalla presenza assidua del corpo femminile spogliato dal suo pudore, ostentante le mammelle turgide e le gambe lunghe, così desiderabili perché iniziano dai piedi e finiscono dentro le mutande che racchiudono con stoffe morbide intessute dal Demonio il sesso che non si deve fare se non per procreare (e io che non devo procreare è meglio che al sesso non ci pensi), in questo periodo mi sento in difficoltà. Quando vedo le femmine vestite da lattine di bibita gassata non mi viene sete, ma mi capita, guardando il rosso e il bianco del loro vestito dove si notano le mammelle e le gambe e altre porzioni sensuali di pelle dorata (e se ci penso di nuovo mi succede ancora, Dio mi perdoni), che mi diventi duro. La colpa è di quei vestiti da lattina che sono stati costruiti con perfidia, se a me, durante questo periodo in cui le femmine si travestono da bibita ma sono molto più nude, mi viene duro troppo spesso, Dio mi perdoni. Ma siccome non voglio cadere in tentazione perché devo dare l’esempio ed essere il cumulo di neve che rimane aggrappato alla roccia in cima alla montagna, ho perfino pensato che fanno bene quegli eretici dei musulmani, che coprono le donne dalla testa ai piedi per non cadere in tentazione e non permettono loro di mostrare le mammelle a nessuno in pubblico (che poi in privato è un’altra cosa), ma mi sono reso subito conto che questo pensiero era più impuro del primo. Allora, cercando una soluzione più santa, ho pensato che sarebbe stato molto meglio se al mondo non ci fossero state le donne per farmi cadere in tentazione, visto che le mammelle attirano sempre l’occhio, le gambe finiscono sempre nelle mutande dove c’è il sesso e al giorno d’oggi sembra che non ci sia verso di far tenere alle femmine le gambe dentro i vestiti, per non parlare delle mammelle.

Immaginando un mondo senza donne sembrava che tutto fosse molto più puro e quieto, scevro di tentazioni maligne, ma è durato tutto troppo poco perché, vai a capire gli scherzi che tira il Demonio (che sarà pure lurido e schifoso però è furbo, perché sono sicuro che ci abbia messo lo zampino), ho immaginato un uomo in grazia di Dio con indosso il vestito da lattina di bibita gassata che indossava la femmina sulla rivista che ho visto dal barbiere, e non so spiegarmi perché ma (chiederò per sempre perdono al Signore per questo) mi è venuto duro anche così.

So che il mio caro dottor S. si arrabbierà per quello che ho fatto dopo, ma solo perché è costretto dai servizi sociali; in cuor suo mi comprenderà e mi perdonerà, e se devo dirla tutta immagino anche che in segreto, senza rivelarlo mai a nessuno perché è un pensiero che non si può rivelare, si sentirà orgoglioso di me e (anche se è possibile che qualcuno sarà triste e forse piangerà, anzi, sicuramente piangerà per quello che ho fatto) sarà fiero di me, ammirerà la mia rettitudine nonostante il suo naso e il suo cognome puzzino di ebreo, e comprenderà che non potevo rimanere inerte, col rischio di sentirmi un infedele o un frocio, con l’abominevole sensazione di avercelo avuto duro pensando ad un maschio senza porre rimedio in qualche modo.

Non importa per il sangue che è stato versato, perché per rimanere sulla retta via (la Santa Via del Signore) e continuare ad essere un candido cumulo di neve gelida aggrappato alla Santa Roccia, è necessario saper compiere sacrifici (extrema ratio). Adesso che mi trovo davanti alla porta del mio caro dottor S., deciso a raccontare quello che ho fatto anche se lui mi aveva chiesto di non farlo (e io gli avevo promesso che non l’avrei fatto), sono certo di essere nel giusto e mi sento pronto ad abbracciare il suo perdono, fosse l’ultima cosa che faccio.

 

E i vecchi del mattatoio dicevano che tutto doveva continuare come prima

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di Nadia Agustoni

 

 

fiori d’acqua sui vetri
— qui nella pioggia —
con la nostra vita
guardata.

 

 

 

 

 

in un tempo fermo è terra pura questa notte
un bruciare di uccelli piccoli in un canto
la bellezza che viene anche per noi
per un’ombra a nascondere il mondo.

 

 

 

 

 

il sole dei corpi ci raccoglie interi
i corpi sanno l’incerto, lo scarto,
lo sguardo disabitato
la figura dei fuggitivi

Una volta che abbiamo mostrato che tutti i problemi cosiddetti personali sono invece problemi tra classi sociali, resta comunque aperta la questione della soggettività di ogni donna —non del ‘mito’ ma di ciascuna di noi. E, a questo punto, dobbiamo dire che una nuova possibilità di definizione personale e soggettiva, per chiunque, la si può trovare solo oltre le categorie di sesso (donna e uomo)”.*

quelli che chiamati lei e lui
non si voltano
perché vivono
un’altra vita

D’altronde, il pensiero dominante è piuttosto restio a guardarsi dentro per tentare di comprendere ciò che lo revoca in dubbio”.*

*Monique Wittig – il corsivo è tratto dai suoi saggi critici

 

 

 

 

 

abitando quello che ci libera
né donne né uomini
spostarci dai margini
a noi stessi:

allora una vita
è la tenerezza
per ognuno:
un abbraccio.

 

 

 

 

 

nessun segreto, nessuna paura, non provate a spiegarci. c’è una realtà non prevista dal dominio.

abbiamo respiro e primavera.

 

 

 

 

 

datemi febbraio, un prato, la dolcezza della brina, il più chiaro mattino

nelle fabbriche una luce leggera sui volti
ci porta nel silenzio: viviamo coi morti
con la loro speranza per noi.

 

 

 

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È questo un estratto da Avrei voluto da giovane solo vivere, il nuovo libro di Nadia Agustoni (Aragno 2024). Si tratta dei testi che compongono la seconda sezione, con l’epigrafe a firma di Mercè Rodoreda usata qui come titolo del post.

Come spesso accade in Agustoni, a una frase che espone la crudeltà ottusa dei forti si oppone la semplicità dell’inerme, in una sequenza in cui un noi sul punto di estinguersi si appella alla contemplazione filosofica per trovare una forma di salvezza. Per trovarvi, prima ancora, una forma, contro la dissipazione delle omologazioni forzate. La libertà di essere e la libertà di fare non sono astrazioni in un mondo dove ‘ormai tutto è possibile’: solo a chi ha tutto, tutto è possibile. La libertà ha una realtà tangibile nell’uguaglianza, materiale e simbolica. Si tratta di una posizione lontana da populismi e vittimismi, che tenta la via non della retorica rivendicativa ma della ricostruzione di sè dal nulla ontologico in cui si è stati sospinti, privati di fondamento.

A questo lavoro di ricomposizione, del trovare uno sguardo e una casa che ospitino la propria totalità, partecipa Monique Wittig, la teorica francese che con le sue riflessioni ha contribuito a intrecciare in modo radicale lotta di classe, pensiero lesbico e liberazione femminista. Tra le sue idee centrali c’è quella dell’inconsistenza del ‘sesso’ come sistema naturale da cui discenderebbe l’oppressione: è invece tutta la categoria ‘sesso’ a venire creata dall’oppressione politica, non il contrario. Se non ci fosse alcun ‘sesso’, alcuna ripartizione, alcuna sessualità dominante, dunque? Nella mente solo spazio, nella vita “la tenerezza”.

Con due citazioni da Wittig (a cui tutta la raccolta è dedicata) Agustoni chiosa sull’aspirazione all’interezza del soggetto lirico, fatto di coloro che non possono rispondere agli appelli canonici perché “vivono / un’altra vita”. Forse è la vita di chi è inter-, fluidə o queer, ma in questo contesto non sono certo le definizioni che contano. Forse è la vita della poesia, “una realtà non prevista dal dominio”. Non vi è chissà quale solennità: entrano “nelle fabbriche” nell’ultimo testo di questa parte; eppure hanno con sè un segno di elezione.

(rm)

Sangue mio, corri!

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di Romano A. Fiocchi

Saba Anglana, La signora Meraviglia, Sellerio, 2024

Nel maggio 2009 mi trovavo a Santena per ritirare il Premio InediTO. Dopo i brani world music di un trio coordinato da Tatè Nsongan dei Mau Mau, la cantante del gruppo si esibì in una lettura espressiva del mio racconto Il gatto del soldato. Uno spettatore con gli occhi lucidi venne a stringermi la mano dicendo che non gli era mai successo di commuoversi per una storia inventata. Lo ringraziai e gli dissi: «Il merito non è mio, è della lettrice». La lettrice era Saba Anglana.

Santena, 2009, da sinistra a destra: Valerio Manni Vigliaturo, Saba Anglana, Domenico Trimboli, Romano A. Fiocchi

La conobbi in questo modo. E mi rimase il ricordo bellissimo di questa artista dalla voce e dalla dizione incantevoli, di profonda cultura e dai modi gentili. Ecco perché, non appena ho saputo della novità libraria, mi sono precipitato ad acquistare La signora Meraviglia. Che è una sorta di autobiografia di famiglia con l’atmosfera di Cent’anni di solitudine, proiettata non in Colombia bensì tra il Corno d’Africa e l’Italia. Il risvolto di copertina recita: «Saba Anglana (Mogadiscio, 1970), cantante, attrice, scrittrice». Sono gli elementi più autentici della sua identità, ossia il luogo di nascita e il suo essere artista. Il resto non ha importanza. Avere geni italiani ed etiopi, aver respirato per i primi cinque anni di vita l’aria della Somalia, sono tutti fattori che compongono la sua storia ma non fanno la sua persona. «La geografia aveva complottato con la storia e ne era uscito il capolavoro di un paradosso». Saba Anglana è un paradosso. Difficile capire chi si è quando si parte da un paradosso. Ecco, La signora Meraviglia racconta tutto questo.

Il libro che ha scritto Saba è un fiume che scorre con leggerezza, talvolta con vortici di umorismo, riuscendo così a rendere meno densa la drammaticità di certi eventi. Con una priorità: restare profondamente umani in ogni situazione narrativa. Saba crea il personaggio di se stessa e ne fa la voce narrante senza rubare la scena agli altri protagonisti, in primis ad Abebech, la nonna etiope, che sarà l’origine di tutto. È a lei che si rivolge sin dalle prime battute gridando: «Sangue mio, corri!», nonostante sappia benissimo che se l’inseguitore somalo fallisse, lei non potrebbe mai nascere. Questo è il paradosso: dal male nasce il bene. Dal gesto orribile di un rapimento nasce una saga familiare meravigliosa come il titolo del libro. La giovane Abebech, trascinata dalla natia Etiopia alla Somalia, in seguito abbandonata con due figli piccoli, saprà riscattarsi con una nuova vita in una nuova terra. A Mogadiscio troverà un amore vero, quello di Worku, che diventerà il nonno di Saba, partigiano etiope e reduce da un campo di concentramento italiano. Dalla loro unione arriveranno tutti gli altri: zia Marisa, zia Sofia, zia Esther, zio Domenico, zia Dighei, zio Bab, sua mamma Nina. E insieme a questa, suo padre Carlo, italianissimo.

Il libro è in realtà composto da due storie parallele che procedono a capitoli alterni. Alla saga della famiglia Worku si intrecciano le vicende recenti – pure queste frutto di un paradosso – della zia Dighei. Nata anche lei in Somalia, Dighei è in Italia da quarant’anni ma la guerra civile ha distrutto l’anagrafe di Mogadiscio e il suo atto di nascita è irrecuperabile. Ergo, non avendo provveduto all’epoca, non può richiedere la cittadinanza italiana (cittadinanza che, dopo una battuta di un’impiegata del Patronato, in famiglia chiamano ‘signora Meraviglia’). Ma l’irriducibile zia Dighei, aiutata da Saba, ci prova lo stesso e si lancia all’attacco della burocrazia in difesa dei propri diritti. In entrambe le storie emerge tutto un mondo fatto di miti, di leggende e di superstizioni, come i Wukabi, gli spiriti della famiglia. O il pozzo di Mogadiscio, da cui al calar della notte salgono i rumori dei lavori che le anime dei morti continuano a esercitare. O ancora personaggi magici come Wezero Dinkinesh, che tradotto significa proprio ‘Signora Meraviglia’, a cui bene o male bisogna affidarsi per combattere le influenze degli spiriti maligni e la ‘malattia’ che contamina ogni famiglia. Un mondo che il lettore riesce a penetrare proprio grazie alla mediazione culturale di Saba, ma anche alle sue denunce rabbiose:

«A guardare verso il mare con il sole alle spalle, oggi l’arenile a Mogadiscio sembra un tessuto di lamé. C’è un continuo bagliore, ma non sono i gusci a splendere, sono le pallottole, una quantità spaventosa di pallottole, munizioni esplose che si mescolano alle conchiglie».

Alla guerra civile (drammatica l’uccisione del medico italiano Giancarlo da parte delle bande degli indipendentisti somali), si aggiunge lo scempio dei rifiuti tossici:

«Il mare era diventato una distesa rossa come ruggine liquida. Di spalle, con la sua maglietta verde e le mani incrociate dietro la nuca, c’era Osman che guardava l’oceano, immobile. Davanti a lui brillava una distesa infinita di pesci morti che il mare aveva vomitato».

C’è spazio anche per episodi che costituiscono il bagaglio di memorie familiari, come la disperata storia sentimentale di Xalima, persa negli occhi color cobalto di Giorgio, per conto della quale Nina si presta a scrivere lettere d’amore in lingua italiana. Inutilmente. Perché Giorgio l’abbandonerà per tornare in patria e Xalima non troverà altra soluzione che farla finita:

«C’era tanto vento, il Gilal che soffia verso nord-est, forse era quello che portava i sussurri da lontano fin dentro il pozzo. Un bambino la vide aprire le braccia come un corvo e sparire improvvisamente dall’orizzonte della scogliera. Trovarono subito il suo corpo, la bassa marea non permise al mare di inghiottirlo».

A tutto questo inutile orrore – le guerre, l’inquinamento, le violenze, gli affetti traditi – Saba Anglana contrappone la frase più potente di tutto il libro: «La mancanza di amore si deve curare con l’amore».

In ultimo, segnalo l’esergo: Per Apo. Apo era il nomignolo affettuoso che la piccola Saba dava a suo padre. La signora Meraviglia è dedicata a lui.

Nel mondo di Francesca Alinovi. Intervista a Giulia Cavaliere

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a cura di Pasquale Palmieri

La memoria dell’intera esistenza di Francesca Alinovi è ancora oggi prigioniera della cronaca nera. Tutto quello che la riguarda sembra essere stato offuscato in modo inesorabile dalla sua morte, avvenuta il 12 giugno del 1983 tra le mura di un appartamento bolognese, in uno scenario segnato dalla violenza. Ma Francesca Alinovi fu, prima di tutto, una delle intellettuali più importanti e innovative del suo tempo. Alle sue iniziative culturali, alla sua creatività e alla sua scrittura è dedicato un libro appena uscito per Electa: Quel che piace a me (2024). L’autrice Giulia Cavaliere ha accettato con generosità di rispondere alle domande che le ho posto per Nazione Indiana.

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Il tuo incontro con Francesca Alinovi comincia proprio dalla casa di Via del Riccio 7, che nella prima metà degli anni Ottanta finì al centro di una tempesta mediatica di rara intensità. Descrivi in modo minuzioso gli oggetti d’uso quotidiano della tua protagonista: “due moke, un pentolino appoggiato storto sul piano cottura, tazze azzurre e piastrelle bianche con fiori e strisce ricurve arancioni”, insieme a “piccoli contenitori colorati per dipingersi le unghie, così ordinati e insieme così fuori posto”, inaspettatamente “schierati in cucina, allineati accanto alle vivande”. Come sei riuscita a separare il tuo sguardo dai tanti racconti (d’orrore) ambientati in quel luogo? Non temevi che la tua immaginazione e la tua indagine potessero uscirne condizionate, come del resto è accaduto a tante altre persone?

Questo piccolo libro è nato proprio dal desiderio di contribuire ad allontanare la figura di Francesca Alinovi dal pensiero unico del suo femminicidio per provare a unirmi a quelli che nel tempo hanno desiderato restituirla alla sua vita, al suo lavoro, alla sua rivoluzione di critica e scrittrice, insomma al suo operato e alla sua immensa vitalità creativa in un preciso momento della storia di questo Paese. Avendo a disposizione, per motivazioni legate alla struttura stessa della collana Oilà di Electa a cui il libro si è unito, un numero di pagine ridotto, ho cercato un espediente narrativo che mi permettesse di restituire subito agli eventuali lettori questa prospettiva. Alcuni anni fa, facendo ricerche sul lavoro di Alinovi, mi ero imbattuta in alcune fotografie della polizia scattate nel suo appartamento dopo il ritrovamento del suo corpo e per me quelle fotografie, da subito, sono diventate fotografie di vita e non più di morte, fotografie piene di libri letti, fogli scritti, oggetti della vita di ogni giorno, perché un luogo dove si vive e si lavora è un luogo di vita, di espressione della creatività, di scambio con le persone che lì entrano e da lì escono. Così ho pensato di partire proprio dalla descrizione di quelle foto, ingrandendo dettagli e angolazioni, per disegnare un racconto di quella casa, convinta del fatto che sospendere la narrazione della casa di Via del Riccio come scenario di un omicidio fosse un buon modo per sospendere per un attimo, e poi magari da lì in poi, anche il racconto di Francesca Alinovi come di una generica protagonista di un fatto di cronaca nera, per trasformare un racconto di morte nel racconto della vita di un’intellettuale rivoluzionaria la cui lettura resta, ancora oggi, uno strumento di conoscenza straordinario.

Nell’incontro con Francesca Alinovi metti in gioco anche la tua soggettività.

Non credo nella scrittura senza implicazione dell’autore o dell’autrice, cioè non amo chi cerca a tutti i costi di togliere il soggetto e la soggettività dalla scrittura. Non sono interessata, e non lo ero in questo caso, all’enfasi o alla perdita di controllo ma credo che proprio vista la materia incandescente sia stato essenziale muoversi in un racconto sì di prospettiva (quella dell’autrice cioè la mia, ovviamente) ma tenendo saldamente i piedi nella storia e nella vita di Alinovi senza perdere di vista la questione centrale, cioè il suo lavoro, la sua storia, ma semmai tenendola in tensione con il modo in cui chi scrive l’ha ricevuta, l’ha conosciuta e desidera condividerla con i lettori.

Uno dei tratti distintivi dell’attività intellettuale di Francesca Alinovi è il “continuo lavoro sullo sconfinamento”, che consente di far emergere contaminazioni, ibridazioni, spostamenti di prospettiva, sempre in bilico “tra basso e alto, massa ed élite, sporcizia e raffinatezza, tra gli angoli luridi e le feste esclusive, […] tra l’arte dei musei e quella della strada”. Ritieni che queste tendenze siano riconducibili all’atmosfera che si respirava nell’Italia della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta?  Pensi che siano riscontrabili in altre studiose e studiosi della stessa epoca? O ritieni che l’esperienza di Francesca Alinovi debba essere considerata come unica nel suo genere?

Ogni esperienza intellettuale è unica ma anche naturalmente in relazione con altre con cui condivide una visione, un approccio, uno sguardo. Nel libro ho cercato di raccontare come quei tratti distintivi nel discorso di Alinovi siano profondamente corrispondenti alle tensioni umane e culturali della sua contemporaneità, di quel passaggio di pieno postmodernismo, in cui i Settanta diventano Ottanta, in cui il collettivo e l’individuale sembrano coesistere per un attimo prima di darsi il cambio definitivamente. Alinovi sa esprimere e abitare quel momento storico molto bene e tramite le sue scelte e il suo lavoro di ricerca e di scrittura va a far parte, in posizione regale, di una costellazione di intellettuali, artisti, autori, creativi che sembravano vedere oltre, vederci più lungo. Penso a Pier Vittorio Tondelli, che infatti ho molto citato nel libro, che mentre le cose accadevano riusciva a codificarle con una lucidità quasi spaventosa, al punto che oggi le sue ‘cronache’ postmoderne restano la migliore fotografia di quel momento ed esprimono una capacità rarissima di trasformare il presente nel suo racconto per il futuro.

Il 1977 di Francesca Alinovi – lo sottolinei con forza nel tuo libro – non è solo un anno di conflitti e lacerazioni. Risulta invece cruciale “dal punto di vista del costume, dell’intrattenimento e della cultura”, e si configura soprattutto a Bologna come un “frammento rapidissimo di tempo, una porta delle illusioni, un antro di passaggio pronto, dopo un attimo soltanto, a cambiare forma, a diventare qualcosa di diverso”. Quanto credi sia importante provare a rileggere questo tornante della nostra storia?

In questi ultimi anni sono usciti molti libri che provano a raccontare gli anni ’70 e in particolare quel frammento che dal movimento del ’77 si getta negli 80s, dando origine insomma al famoso riflusso. Io la penso un po’ come Miguel Gotor che fa finire i ’70 nel 1982. Quel momento di passaggio, in cui quella che nel libro chiamo “porta delle illusioni” è appena stata varcata definitivamente, è secondo me un momento cruciale e dei momenti di passaggio esprime perfettamente la forza creativa, le pulsioni, il senso di rilancio, il gusto del tentativo, dell’osare. Dal punto di vista artistico e culturale in quegli anni sono nate o si sono consolidate per sempre alcune tra le realtà più interessanti della storia della cultura dell’occidente. Se penso per esempio alla musica, che è ciò di cui principalmente mi occupo, anche solo in questo campo stiamo parlando di un momento altamente prolifico, persino magico. Nel libro ho cercato di fare entrare, per quanto possibile, anche frammenti di questa magia del reale di quel periodo perché anche restituire un piccolo ritratto di quel mondo significava restituire qualcosa di e a Francesca Alinovi e a chi ha lavorato davvero con lei.

Negli scritti di Francesca Alinovi riesci a rintracciare “concetti che troveranno in alcuni casi spazio nel discorso critico solo decenni più avanti”. Ti riferisci in particolar modo alla “retromania”, che continua a essere una presenza ingombrante nella cultura, o forse nel mercato culturale del nostro tempo.  

Nel saggio che dà il titolo al mio libro e che uscì su Flash Art nell’estate del 1981, Alinovi a un certo punto sembra effettivamente profetizzare il concetto alla base del saggio Retromania di Simon Reynolds, uscito nel 2011. Alinovi scrive: «(…) in arte, architettura, design, musica, teatro-performance tutto sembra ritornare indietro per rilanciare in orbita maestri, stili, cose, suoni e corpi del passato. Un passato che galleggia in superficie e diventa pellicola estesa in senso orizzontale, su cui scorrono inventari di fronte ai quali ciascuno è chiamato a fare la propria scelta». Per la verità sono molti gli aspetti della fruizione e della relazione con l’arte (sia essa sonora, visiva, performativa) propria del nostro tempo che lei aveva già avvistato nel suo, anticipando teorie e visioni; lo stesso concetto di Arte mia, centrale nel suo discorso, racconta qualcosa di cruciale del modo in cui oggi l’arte entra e viene masticata dalle nostre vite e dalle nostre scelte, per non parlare dello scetticismo nei confronti della pratica artistica relegata alla produzione di oggetti confezionati dalla manualità.

Studiando i giornali dei primi anni Ottanta, ho provato stupore di fronte ai frequenti riferimenti al “delitto del DAMS”, se non addirittura ai “delitti del DAMS”. Ho fin da subito pensato che queste formule – usate per identificare diversi fatti di cronaca nera legati, anche in maniera indiretta, al celebre corso di laurea dell’ateneo di Bologna – avessero l’ambizione di sviluppare un paradigma denigratorio ad ampio raggio, finalizzato a condannare un’intera generazione di persone impegnate nel campo della scrittura, delle arti figurative e della critica, ma anche animate da un forte bisogno di cambiamento. Siamo forse di fronte a un’opera di costruzione mediatica della memoria incentrata sulla morte, che potrebbe aver cancellato gli aspetti più creativi e gioiosi di tante vite, proprio come è accaduto a Francesca Alinovi.  

Certo, sì, alla fine del libro dico proprio questa cosa, c’è stata una completa damnatio memoriae del lavoro di un’intellettuale in nome di uno scempio mediatico ai danni suoi, del suo ambiente creativo; anche nei titoli degli articoli è stato velocemente sostituito il nome proprio della vittima con un mondo intero (non più “Il delitto di Francesca Alinovi” ma “Il delitto del DAMS”), DAMS che a quel punto è stato trasformato dai media quasi in un carnefice. È un po’ come quando sentiamo dire che una donna, se esce con la minigonna, subirà un abuso ‘cercandosela’: Alinovi frequentando un certo ambiente aperto, nuovo, giovane, cosmopolita e non perfettamente allineato all’accademia e a chissà quali principi borghesi del tempo, se l’era dunque ‘cercata’ un pochino, no? Questa è una vergogna vera, c’è stato un vero e proprio tentativo di mistificazione e dunque di mortificazione di un mondo, un ambiente, intanto però era stata uccisa una grande scrittrice e critica d’arte e sarebbe stato fondamentale, anzitutto, lavorare da subito alla costruzione della sua memoria culturale proprio a partire da un’operazione di conservazione e di precisa organizzazione della sua produzione creativa e questo non è ancora accaduto.

 

Le lettere scarlatte (Letteratura e diritto #1)

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di Pasquale Vitagliano

Perché Giorgio Scerbanenco non è diventato popolare come i nuovi giallisti italiani? Solo di recente lo scrittore, ucraino di nascita e milanese di adozione, è stato recuperato e rivalutato. In passato i suoi romanzi al più avevano fornito soggetti per il cinema poliziesco anni ’70, anche questo snobbato e rivisitato solo di recente sull’onda di Quentin Tarantino. In questi giorni, e per curiosità, ho visto il film di Duccio Tessari, La morte risale alla notte scorsa, tratto dal romanzo I milanesi uccidono al sabato. Nelle sale uscì nel 1970. In quel periodo non esistevano commissari italiani resi famosi dalla letteratura. Cattani arriva nel 1984 con La Piovra, grazie alla televisione e alla lotta alla Mafia.

Se dagli anni 2000 in poi il giallo italiano è stato nobilitato, il filone del Diritto e Letteratura è sì apparso nei titoli di molti libri ma non ha attirato la stessa attenzione. Non esistono, neppure tra i contemporanei, autori italiani come Friedrich Durrenmatt. Forse, solo Leonardo Sciascia si è occupato delle relazioni esistenti tra temi, parole, storie derivanti dal diritto e la creazione letteraria. Fanno eccezione singole opere, rimaste isolate. E per ironia della sorte, il grande scrittore siciliano viene presentato troppo spesso nelle antologie scolastiche come un autore di gialli, con una connotazione che sullo scaffale dei classici suona ancora come una minorità.

Il dialogo tra diritto e letteratura a oggi ha seguito tre distinti percorsi: studi sul diritto nella letteratura, che analizzano come gli avvocati, le indagini giudiziarie, le leggi sono descritte nella narrativa; l’ermeneutica giuridica, ovvero lo studio delle teorie sul rapporto tra il lettore di opere di diritto e il testo giuridico; infine la stilistica giuridica, ovvero l’analisi degli stili, degli elementi narrativi, strutturali e retorici dei testi giuridici. Negli Stati Uniti questo rapporto risale agli anni ’70. Esiste persino un movimento di pensiero nato nel 1973 con l’opera The Legal Imagination di James Boyd White. La tesi è che diritto e letteratura sono uniti da una visione del linguaggio come comunità di discorso su specifici mondi culturali. Tanto il diritto quanto la letteratura dipendono dal linguaggio e questo lega i loro mondi particolari.

Adelphi ha pubblicato quest’anno Greco cerca greca di Friederich Durrenmatt, tradotto da Margherita Belardetti. Il sottocontabile di origine greca Arnolph Archilochos non immagina che la sua vita possa cambiare radicalmente, così come considera stabile e perenne la sua gerarchia di valori e il suo personale pantheon di grandi personalità. Sarà un innocente ma inconsulto annuncio matrimoniale a stravolgere la sua esistenza, non solo sentimentale ma anche etica. Una dopo l’altra cadranno tutte le sue certezze. Cosa che avviene progressivamente man mano che egli si trova a salire rapidamente e facilmente la scala sociale grazie all’incontro con una connazionale, la bellissima Chloé Saloniki. Il destino di Achilochos è quello di un Giobbe capovolto, al quale all’improvviso comincia ad andargli tutto bene, fino a raggiungere traguardi impensabili e imprevedibili. In ciò sta il mistero e in fondo la sua tragedia. L’intero sistema sociale nel quale verrà a trovarsi si rivelerà fondato sull’impostura, facendo della sua caduta il paradigma del crollo di un intero continente e della sua civiltà. Cosa rimane? A quale valore finale affidarsi? Le storie nere o gialle, angoscianti o grottesche di Durrenmatt non sono interessate alla meccanica dell’investigazione, che invece disarticola quasi con godimento. Eppure, questa profondità non ne ha limitato la capacità d’ispirazione più popolare come nel cinema. Su tutti ricordo La promessa, film perfetto girato da Sean Penn nel 2001. Insomma, Durrenmatt non ha avuto tanto bisogno di commissari.

Rock, amore, morte e follia… a Pomigliano d’Arco

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di Gianfranco Di Fiore

“Non ho mai scritto un diario. Avevo già le mani impegnate a vivere la mia vita, a provarci perlomeno, quindi non ne ho mai tenuto uno. E non credo che riuscirei a farcela se dovessi rivivere ogni momento della mia vita. Ma è stato proprio questo aspetto che mi ha affascinato quando il mio amico Anthony mi ha chiesto per l’ennesima volta di scrivere un libro sulla mia vita. Dentro di me si è attivato lo strano meccanismo che scatta ogni volta che penso a qualcosa che sembra impossibile: devo farcela. Anche se significa rivivere tutti gli eventi dolorosi che la mia memoria selettiva riesce a recuperare”.

Così scriveva Mark Oliver Everett, in un libro meraviglioso di qualche anno fa. Ma in che modo stanno insieme il cantante degli Eels, una delle più grandi rock band della storia, nato in Virginia, figlio di un rinomato fisico quantistico… morto quando il figlio Mark aveva solo 18 anni, a cui questa star del rock moderno decise di dedicare un libro di memorie, e uno sconosciuto scrittore del sud Italia? Come si intrecciano le chitarre distorte e i sintetizzatori dissonanti e il vocoder e i testi di Beautiful Freak e Souljacker e la stesura di un album come Electro-Shock Blues e la fama di essere il mito musicale di Wim Wenders con i riccioli privi di ammortizzatore, le corse mattutine nella villa comunale, i blues randagi e acustici mai incisi e i casatielli, i panzarotti, le gite a Napoli la domenica mattina, i cori e le bandiere dello stadio Maradona e le giornate trascorse in libreria, a parlare di letteratura e musica e cinema orientale di Salvatore Toscano? Come si tengono insieme gli Appalachi e la Terra dei fuochi, la CIA e il Pentagono con gli stabilimenti dell’Alenia e dell’Alfasud e la chiesa di San Felice? Cosa lega una rockstar da 21 album e milioni di copie vendute, in tutto il mondo, e uno scugnizzo della periferia napoletana al suo esordio letterario? La morte, sicuramente, e un talento inafferrabile, non banale, non accademico, sano, puro e onesto. Perché, proprio come il cantante degli Eels, Salvatore Toscano a un certo punto della sua vita ha deciso che forse era arrivato anche per lui il momento di fare i conti con la morte, con la follia del dolore inaspettato e improvviso, con l’amore mai consumato né compreso nei confronti di un padre perso in fretta, all’età di 8 anni… Everett ne aveva 18 e poteva già mettere in musica, con la chitarra e il piano, le note e gli accordi grevi scritti su carta, le tonalità di un vuoto che solo dentro la pienezza della musica, e della scrittura ‒ o della musicalità delle armonie della riflessione profonda ‒ poteva trovare una spiegazione, un posto, una fragile espiazione.

“Mio padre muore giocando a pallone.

Mio padre muore circondato dai medici che partecipavano alla partita, resi impotenti dal suo infarto fulminante.

Mio padre muore nel campetto di calcio costruito accanto alla clinica in cui sono nato io, poi viene trasportato e intubato inutilmente in una stanza che poteva benissimo essere quella in cui mia madre mi ha partorito.

Mio padre muore in un Venerdì Santo, quando tutto il mondo cristiano è in lutto per la morte di Gesù che poi risorge a Pasqua.

Era così assurdo aspettarsi che risorgesse?”.

Così scrive invece Salvatore Toscano ‒ a un certo punto ‒ in quel memoir meraviglioso e dolcemente triste intitolato Gli stupidi e i furfanti, edito da Baldini+Castoldi. Ed è così insolita la forma e così irriverente e leggero lo stupore solido che questo libro genera nello spettatore, mentre lo trascina con disincanto nella forma di vita più atroce, più scura, più ingiusta, quella del lutto, di un lutto per altro mai realizzato, mai superato, mai vissuto per davvero, che scrive questo che poteva essere uno splendido incipit a pagina 133; perché non c’è ordine in questo diario/confessione, non c’è trama, non esiste alcun prima né alcun dopo da allineare; Gli stupidi e i furfanti è una discesa fra le ripide di un’infanzia negata, o forse sarebbe più giusto dire annegata in un mare di rimozioni, di silenzi, di paradossi, di giornate vissute in casa, nelle case dei parenti, in qualsiasi luogo che non fosse quello dell’accettazione, del dolore pieno, della presa di coscienza. La scrittura di Toscano viene fuori dalla pagina come un fluido magico, un incantesimo, ha la grande capacità di far sorridere e coinvolgere il lettore come solo le anime pulite e sgombre da qualsiasi appiglio cinico e di rancore verso il mondo sanno essere; e allora mentre Toscano ci accompagna per mano nei luoghi della sua infanzia, nelle case dei cugini musicisti, sulle rive delle coste calabresi infestate di fantasmi notturni, mentre ci porta sorridendo fin dentro la bara scoperta dove giacciono le ossa del padre, senza mai ingenerare pietà, morbosa malinconia, sofferenza, è in grado con l’altra mano – quella mancina, con cui da bambino scriveva prima che la sua maestra lo obbligasse a cambiare arto – con l’altra mano lui è capace di suonare un blues lento e inesorabile alla Clapton, di sospendere immagini e visioni e paesaggi dentro alla sua scrittura e organizzare uno strambo luna-park emozionale e visivo, fatto di citazioni e racconti musicali di artisti sconosciuti le cui armonie gli hanno permesso, nel tempo, non solo di rinunciare al dolore lacerante ma di costruire nella sua cameretta, nella casa che da sempre Toscano condivide con sua madre, lì alla periferia di Napoli, in una Pomigliano che a tratti sembra recuperare le sembianze dei grandi spazi della Virginia di Everett, con la sua mano sinistra, dicevo, Salvatore Toscano può mettere su con le parole un paesaggio buffo, colorato e assai significante, un racconto pieno di aneddoti e digressioni e paure innamorate con le quali il lettore non può che entrare in empatia.

Cosa vuol dire allora raccontare la morte, uscire dalla follia dei mancati ricordi, misurare l’amore, utilizzare il rock per riuscire finalmente a farsi carico del proprio lutto; cosa vuol dire per Toscano scrivere del proprio padre, ipotizzare la sua vita, cercare di esprimere più che il vuoto di una perdita subita a 8 anni la necessità di confessare il suo lungo silenzio, riguardo a una tale tragedia? Ecco che Gli stupidi e i furfanti assume le geometrie di una specie di girone dantesco/napoletano, le figure presenti nel libro vagano in uno spazio di attesa eterna, di sospensione mai tragica ma sempre disperante, colpevole in qualche modo, e i dettagli a cui Toscano si aggrappa, per rimontare pezzi di vita ed emozioni andate forse perdute appaiono sulla pagina come quei disperati frammenti di Dovlatov, quando nel suo romanzo La valigia ricostruisce la partenza e la fuga dalla Madre Russia attraverso una serie di oggetti riposti nel bagaglio, prima dell’inizio del viaggio. Ma lo si può immaginare, questo libro particolare, senza regole, come una versione depurata e tenera di L’anno scorso a Marienbad, proprio come nel film di Resnais non sappiamo quanto siano veri e certi i ricordi di Toscano, se le scene descritte con suo padre siano accadute davvero o siano solo una favola immaginata da un adulto ancora sofferente (come il bambino rimasto orfano).

A un certo punto, nel suo memoir, Mark Oliver Everett scrive:

“… Mia madre decise che era giunto il momento di organizzare il suo funerale. Non ne fece una tragedia. Affrontò la questione in modo molto pratico, come se fosse un compito semplice. Presi un blocco e scrissi le sue volontà: una cerimonia nella chiesa di Lewinsville Road, alcuni inni che le piacevano e niente discorsi. Soltanto la musica”.

Cosa decise, cosa fece, come reagì a 8 anni Salvatore Toscano al momento del funerale di suo padre? Non ve lo dico. Voglio dire però a questo scugnizzo di Pomigliano d’Arco, e sono certo che tutti i lettori di questo romanzo direbbero la stessa cosa, a lettura ultimata, che: “… Anche se questa è la prima volta che ci incontriamo, ho voglia di riabbracciarti”.

 

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Foto: Salvatore Toscano

La tua foto di stupido a Zante

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Immagine generata da AI

(Questo racconto contiene testi espliciti. Se ne sconsiglia la lettura a un pubblico non adulto, e a chiunque possa sentirsi offeso da temi e parole che riguardano la sessualità.)

di Alberto Pascazio

Non sono mai riuscita a masturbarmi pensandoti. Ieri ci ho riprovato nel bagno dell’ufficio, ma non ho sentito niente: niente. Allora ho spostato lo sgabello con la carta igienica di fronte al water e ci ho messo sopra il cellulare con la tua foto, quella che ti ho fatto a Zante. Non sei venuto proprio bene, ma dà l’idea di quanto tu sia stupido, che è l’unica cosa di te che mi ha sempre davvero eccitata. Avrei potuto usare quella di LinkedIn, in cui sei bello e sei serio — a volte c’ho provato anche con quella — ma non mi fa lo stesso effetto. Quando su quella spiaggia hai provato a dimostrarmi che anche tu ne sapevi di poesia e mi hai letto Alda Merini cercandola su Google e io ti ho compatito perché non sapevi niente — e per fortuna non sai davvero niente — e allora tu sei tornato a fare le tue cose e ti sei messo a saltare sul fuoco, da una parte all’altra, come un grillo ritardato, e allora ho tirato fuori il telefono e ti ho fatto una foto, ecco, quando eri a Zante, storto e fuori fuoco: avrei potuto usare solo quella.

Che poi io non sono mai riuscita a masturbarmi pensando a qualcuno: non te, proprio nessuno. La verità è che non penso a niente, forse solo a me stessa, a quello che provo e basta. Quindi non sono proprio pensieri, perché non vanno dal cervello al cervello. Vengono dal corpo, credo, nemmeno dagli occhi: non lo so. Comunque non l’ho mai capita questa cosa che fate — che fai — di pensare mentre avete il cazzo in mano. Io quando mi tocco è proprio per non pensare. Ci litigavamo anche, ti ricordi? Tu mi dicevi che era impossibile, che mi doveva per forza essere successo di pensare a qualcuno mentre mi toccavo, magari al liceo, e io ti dicevo che no, non mi era mai successo. E tu ti arrabbiavi, dicevi che non era vero, che ero una santarellina ipocrita. E io ti giuro ancora adesso che è tutto vero, che ipocrita lo sono fino alle ossa, ma santarellina proprio no. Infatti oggi in bagno non ci sono riuscita, di nuovo, nonostante la tua foto di stupido a Zante. Ho persino messo la luminosità al massimo, ma anche se in quella foto sei davvero un minus habens, niente: niente.

Allora sono tornata alla scrivania e mi è venuto in mente di parlarne con Sandra e Sharon. Di chiedere a cosa pensino loro — ai loro tipi, forse? — quando si toccano. Buttarla lì insomma, magari più tardi, all’aperitivo, quando cominciano a lamentarsi dei colleghi e finiscono a parlare di cazzi. Ma poi ho pensato che da ubriaca avrei spifferato tutto, che avrei detto il vero motivo di quella curiosità così innocua e non potevo, insomma: non posso. Perché sei morto e non ci si masturba pensando ai morti. Però mi chiedo: da vedova, non avrò il diritto di masturbarmi pensando a mio marito? È così strano? Va bene, mi sono risposata, ma una smette di essere vedova? — Sai che non lo so? — Comunque, forse è strano dirlo: “oggi sono venuta pensando a mio marito… no, non Mauro, l’altro, quello morto”, ma allora perché non riesco neanche a farlo? Vorrei così tanto riuscirci. Stupido gigantesco tamarro di un morto tatuato: sarai tutto poltiglia adesso. Anche per questo avevamo litigato una volta: quando mi hai detto che ti eri segato guardando le foto di Anna Karina. Dicevi che era la tua nostalgia della figa passata — Dio quanto sei stupido — e io mi incazzavo di brutto, ti urlavo che è assurdo masturbarsi pensando a una morta. Forse hai ragione tu, sono solo una santarellina ipocrita.

Comunque, mi sono arresa e sono tornata a casa. Ho cenato con Mauro e Martina. Dovresti vedere quanto ti somiglia adesso. Però lei è più in gamba. Sarà perché Mauro la tratta come fosse sua figlia da quando siamo andati a vivere da lui. E lui è come me: è cresciuto tra i libri. Mi è sempre morto dietro e tu ci ridevi su, ti sbellicavi proprio. Gli dicevi: “leggi, leggi…”. Poi sei caduto su quella moto, stupida quanto te, e io che avrei dovuto fare? Me lo sono fatta andar bene. Soldi ne ha un bel po’, ha una casa qui in centro e una a Ponza, i suoi sono ancora vivi, e pure lui è vivo. Insomma dai, mi capisci. Ad ogni modo, abbiamo mangiato un’insalatona che aveva preparato prima che tornassi, ci siamo guardati un cartone — uno nuovo, con le fate queer, non lo conosci — e Martina ha preteso il gelato. Io lo sapevo perché le insalatone a cena sono tanto giuste quanto sbagliate. Però non ho detto niente perché sapevo che l’avrebbe detto lei. Mica è scema quella. Lui sì: non come te, è uno scemo intelligente, ma sempre scemo è. Però non mi fa lo stesso effetto. Per farmi eccitare uno dev’essere scemo per davvero. E poi è normale: né alto né basso, né bello né brutto, né piccolo né grosso. So che hai capito. Ad ogni modo, ci siamo mangiati questo sacrosanto gelato — sì, pure lui — e siamo andati a letto, tutti e tre insieme. È un po’ che Martina vuole dormire con noi: da quando ha cambiato scuola ora che ci penso.

È successo nel letto. Appena il fresco delle lenzuola si è intiepidito di corpi, mi è venuta una voglia matta di pensarti. Sì, ho detto voglia matta, ma tu che ne sai di cliché letterari? Comunque, era buio, ma io vedevo i colori di quella foto. Però non era una foto: si muoveva. C’eri tu che saltavi da un punto all’altro, sul fuoco, e a ogni salto vedevo il tuo cazzo che rimbalzava nel costume. E i tuoi tatuaggi così pretenziosi e squallidi — non so come abbia fatto mia madre a lasciare che ti sposassi. In ogni caso, ho infilato la mano sotto le lenzuola. Ero terrorizzata: non sapevo se Mauro e Martina stessero già dormendo. Dopo tipo sette secoli sono arrivata sotto ed ero un disastro: devo aver bagnato tutto il coprimaterasso. Però ero così felice amore mio. Mi sono sfilata pianissimo e sono andata in bagno: non ho avuto neanche bisogno della foto sul telefono.

Quando mi sono svegliata, stamattina, Mauro e Martina erano allegri: abbiamo preparato i pancake. Devo ammettere che se riuscirò a ripensarti di nuovo forse questa vita mi andrà bene. Mauro dice che posso lasciare il lavoro, vuole aiutarmi ad aprire un negozio da mantenuta: non lo chiama così, ma so che lo pensa. E ha ragione, però che mi importa? Fiori secchi o vestiti per bambini ricchi: non ho ancora deciso. Martina è contenta: un po’ le manchi, ma almeno ha una specie di padre. E io ho te, cioè: ho quel ricordo e questa mano. Credo mi basti, davvero. Spero che i fiori ti piacciano.

Malizia Christi, o il mondo salvato da Davide Cortese

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di Giorgiomaria Cornelio

Tra i libri favoleggiati in Malizia Christi (Eccedere eccetera, Sbarcare il sudario, Il libro nero dei poeti bambini)  manca sicuramente la biografia del suo autore, che costituirebbe uno dei titoli più interessanti.  Eppure, sono convinto che la biografia del poeta Davide Cortese somiglierebbe un poco a quella scritta a tre anni dal protagonista-prodigio di questo libro sorprendente, un ragazzino vestito con capello a cilindro e chiamato Il signor Babelsberg. In fondo, con i suoi numerosi certificati d’inesistenza, Davide Cortese è la somma sghemba di tutti gli strampalati personaggi che adagia sulla pagina scritta, senza tuttavia che la letteratura riesca ad esaurirne la portata.

«Malizia Christi. Prova a vedere tra quei libri accanto alla statua di Gilgamesh, anzi no: deve essere proprio lì, vicino all’altare di Martin Jarmud»… C’è tantissimo in Davide Cortese, nel suo esondare ogni volta: piccoli ragni e labirintiche ragnatele, folletti e mongolfiere, dive e ballerini. Una camera delle meraviglie che non è più soltanto un libro, ma l’indizio -la figura- del modo in cui Cortese guarda al mondo, tracciando ogni volta nuove relazione tra cose, libri, animali-umani e altre figure soltanto sognate.

Davide Cortese, in ogni riga, è un tesoro da leggere perché dona una certezza medicinale:  che si possa continuare a fare letteratura così, come scrive Renzo Paris, con leggerezza palazzeschiana. Salvando, a ghigno, a gioco, a mani lievi, tutto il mondo.

Ospito qui due estratti dal libro, seguiti dalla prefazione al libro di Renzo Paris.

***

Tornato a casa, il signor Babelsberg lanciò il cilindro sulla testa del mezzobusto di Platone ed entrò nella stanza che amava definire la sua wunderkammer. Un angolo di quella stanza era occupato da una straripante accozzaglia di carillon. Ce n’erano di ogni forma e misura, di ogni tempo e colore. Ancora più che ascoltarli, il signor Babelsberg adorava guardarli. Conosceva le melodie che essi tacevano. Sapeva a memoria ciò che ciascuno dei suoi carillon aveva da dirgli. Guardò le piccole ballerine, gli elefanti, le giostre, le scimmiette, gli innamorati, le gondole, le pagode, gli arlecchini, i folletti, le dame, i galli, i fari, gli spadaccini. Sorrise impercettibilmente. Poi andò a mettere un disco sul suo grammofono e chiudendo le porte e le finestre per fare buio nella stanza, ascoltò la Passacaglia di Händel.

***

Sul taccuino nero che un giorno gli aveva regalato Teo, il signor Babelsberg, dopo avere per lungo tempo disegnato piccoli ragni e labirintiche ragnatele, folletti e mongolfiere, iniziò a mettere per iscritto alcuni titoli di libri inesistenti, libri di sua invenzione, accompagnati dai nomi dei loro inesistenti autori. Erano libri che, prima o poi, avrebbe chiesto in prestito a Dorando Marradi. Libri di cui il vecchio poeta gli avrebbe parlato, poiché di certo gli avrebbe detto che li conosceva e in un remoto passato li aveva letti.

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Prefazione

Davide Cortese è un poeta. Una sua plaquette di versi s’ intitola: L’unicorno o il libro delle poesie inesistenti. L’inesistente è anche al centro di Malizia Christi, il suo secondo romanzo. Siamo in un’immaginaria cittadina inglese nel 1912, un poco prima della Grande Guerra. Il protagonista è un ragazzino di appena sei anni che ha già scritto tre anni prima la sua autobiografia di successo: Io sono Adam. Veste come un adulto, con tanto di cappello a cilindro e vive in una casa zeppa di gingilli e di libri, da solo. Lo allietano le visite di una banda di amici dall’aria di attardati bohémien, tra cui spicca Maeva, la diva del cinema muto che ha appena girato Cleopatra. Compare un poeta centenario che ha una biblioteca enorme, di cui si serve Adam con una lunga lista di libri inesistenti. Bisogna aggiungere il pittore degli ombelichi, che dipingerà anche quello del protagonista. Il pittore sostiene che il primo uomo, Adamo, non può avere l’ombelico perché non è nato da una donna con il suo cordone ombelicale e dunque anche Michelangelo si sbagliava. Sullo sfondo ci sono: un conte Marsicano, un orso di pezza che convive con una marchesa, una coppia di gemelli e il ventriloquo più famoso della cittadina inglese di Debrama, nel cui grigiore si muovono cerimoniosi. Oltre a festeggiare il compleanno di Adam, che continua a elencare libri inesistenti nel suo Biblirinto, a girare film muti, a visitare cimiteri e musei delle cere, a invitare fioraie bellissime a cena, si apprestano tutti a salutare Adam e Maeva quando salgono sul Titanic alla volta dell’America, dove la grande attrice riceverà un premio ambito. Avrete capito che Davide Cortese nuota controcorrente. È attratto dal grottesco della vita inesistente come quella di oggi vissuta per metà nel virtuale. Già il titolo Malizia Christi è quello dell’unico libro vero che Adam si fa prestare dal poeta centenario e di cui non ha bisogno di raccontare la storia perché è proprio quella che il lettore sta finendo di leggere. Suggestioni borgesiane, calviniane? Appena. Per riparlare della Realtà i suoi colleghi scrivono di vite frantumate, colpite da malattie gravi, affannate autobiografie. Davide ama invece l’inesistenza della sua generazione, affondata nei social, a cui vorrebbe raccontare con leggerezza palazzeschiana, come stanno le cose oggi.

roma, febbraio 2024

Renzo Paris

 

Immagini fantasma: Rimbaud, Michon, Proust, Carson

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Hervé Guibert, Chambre de Mathieu, c. 1989; © Christine Guibert/Courtesy Les Douches la Galerie, Paris.

 

Hervé Guibert, Chambre de Mathieu, c. 1989; © Christine Guibert/Courtesy Les Douches la Galerie, Paris.

 

di Ornella Tajani

Nel 1981 Hervé Guibert ha dimostrato definitivamente le potenzialità del racconto di una foto in absentia: con L’Image fantôme l’autore crea un percorso fra scatti mai sviluppati, perduti o in via di decomposizione, in ogni caso invisibili a chi legge. Il supporto diventa irrilevante: in una scrittura di questo tipo, «che la fotografia di cui [si] parla sia vera o inesistente è esattamente la stessa cosa», anticipa Emanuele Trevi nell’introduzione all’edizione italiana (Contrasto, traduzione di Matteo Martelli).

Càpita spesso che un racconto prenda spunto da un’immagine, o che una narrazione incroci uno scatto fotografico; l’idea era alla base di un volumetto collettivo, uscito dieci anni fa per Donzelli, che esplorava in maniera eterogenea la pratica dell’ecfrasi: Nell’occhio di chi guarda, curato da Tilli Bertoni, Massimo Fusillo e Gianluigi Simonetti e recensito qui. Ma gli esempi sono numerosi.

In quella «biografia immaginaria» che è Rimbaud le fils (riedito in italiano per De Piante Editore a cura di Leo Ninor), Pierre Michon descrive il momento in cui Étienne Carjat immortala Rimbaud nel ritratto che passerà alla storia (e il cui originale pare sia andato perduto per romanzesche vicende; dev’essere il destino di una meteora: anche le poche foto scattate dal poeta in Etiopia si avviano a scomparire).

 

Michon immagina che, mentre sta posando, il poeta reciti mentalmente il Bateau ivre, e prova persino a indovinare a quale verso sia arrivato nel momento in cui il fotografo scatta:

Carjat revient avec les plaques, il a tombé le paletot. Il décoiffe le cylindre. Il est sous la cagoule noire. Rimbaud a écrit Le Bateau ivre comme s’il allait mourir c’est à cela qu’il pense, même si Le Bateau ivre n’est pas exactement la poésie, quand bien même il l’a limé au plus juste pour le Parnasse, tout de même il l’a fait. […] Entre lui et le brassard, entre lui et le puits, cascadent les cent vers du Bateau ivre. Il attaque par le début, il descend les fleuves impassibles, puis il court, puis il danse ; ses lèvres ne bougent pas ; sa mère se lève. Elle est penchée sur le lambeau, elle a écrit les cent vers définitifs du Parnasse, elle sanglote et tombe, elle se relève et triomphe. Elle plonge et vient comme un bouchon sur l’eau. De sous la cagoule noire Carjat dit de bouger un peu la tête, comme ceci, puis comme cela. Il fait comme on lui dit dans la tête qui bouge à peine les strophes impeccables, les strophes impassibles vers sur vers tombent, comme des vagues, comme du vent […]. Carjat déclenche […]. Rimbaud à cet instant regrette l’Europe.

Che cos’è questa se non una visione? Michon osserva Rimbaud con gli occhi di un biografo veggente, che non si prende sul serio tanto da spacciarci per vera questa scena, ma si prende sufficientemente sul serio da immaginare con una certa coerenza che Rimbaud, nel 1871, arrivato da poco a Parigi con in tasca Le Bateau ivre, il componimento concepito proprio «per piacere alla gente di Parigi», mentre aspetta immobile che Carjat compia il suo lavoro – si tratta pur sempre del fotografo che aveva immortalato anche Baudelaire – stia in realtà «sgranando le rime», come nel componimento Ma Bohème. I cento versi scandiscono questo momento così emblematico: il ritratto visivo, fotografico, del mito che verrà. Il testo di Michon continua nella pagina seguente, utilizzando frammenti celebri per descrivere il poeta che, alla fine della Saison en enfer, prevede di riuscire a possedere «la verità in un’anima e in un corpo».

Tout le monde connaît cet instant précis d’octobre. C’est la vérité peut-être, dans une âme et dans un corps […]. On ne voit que le corps. Et dans les vers, est-ce qu’on voit l’âme ? Le vent passe dans toute cette lumière.

Nei versi di Rimbaud si vede l’anima (almeno in parte) e nella prosa di Michon si riflettono autore e soggetto della biografia, facendo risuonare in tutto il volume, come notato da Jean-Pierre Richard, una «voix double».

Le voci si incrociano anche in un testo di Anne Carson, The Albertine Workout (apparso in inglese nel 2014, tradotto per Tlon da Giulio Silvano nel 2019, introduzione di Eleonora Marangoni), che ho letto nella traduzione francese dal suggestivo titolo Atelier Albertine. In questo piccolissimo libro Carson compie una serie di «esercizi» sul personaggio proustiano che «dorme nel 19% delle pagine del libro», provocando alcuni interessanti accostamenti nelle «appendici» finali.

 

 

Commentando ad esempio la foto di cui sopra, si chiede se ad Alfred Agostinelli abbia fatto male la nuca, mentre posava con la testa rovesciata all’indietro, forse per suggerire l’idea di velocità; o di cosa lui e Proust stessero parlando, mentre quel pomeriggio d’estate si allungava davanti a loro «fin dentro l’eternità». Il tempo, protagonista dell’opera proustiana, fa capolino anche nell’immobilità di uno scatto.

In realtà la lettura è frutto di un errore di interpretazione, in cui casca anche Carson sulla scorta di Jean-Yves Tadié: l’uomo accanto all’Agostinelli amato da Proust non è Proust bensì Odilon Albaret, marito di Céleste. È davvero così importante? Per ragioni storiche ed esattezza filologica, sì; ai fini di una scrittura creativa orchestrata intorno a un’immagine, molto meno. Mi sembra non si possa volerne troppo a Carson, che si è lasciata ispirare dal finto ritratto dei due amanti al punto da sceglierlo come chiusa del suo testo, e che in questa affabulazione ha trovato il modo di continuare a ragionare sull’opera proustiana con intelligenza. Il falso fotografico finisce qui col rappresentare una peculiare declinazione di image fantôme.

Ma c’è di meglio in questo atelier: il terzo paradosso di Zenone, ricorda Carson, sostiene che una freccia in volo non si muove, perché riempie completamente lo spazio di ogni attimo. Nessuno, commenta l’autrice, potrebbe negare che la Recherche sia costituita di frecce che partono in ogni direzione, ma parallelamente il romanzo proustiano può essere interpretato come un immenso attimo dilatato, poiché il narratore ha bisogno di migliaia di pagine per arrivare al punto iniziale, in cui comincia a scrivere le livre à venir; e tuttavia in quel momento Proust supera Zenone, perché scocca una freccia che, in qualche modo, va a ritroso nel tempo.
Dopo questa riflessione Carson ammette di non riuscire a pensare troppo a lungo a Zenone senza percepire un principio di emicrania e così, per sparigliare le carte, cita il «devoto proustiano» Chris Marker:

C’est ainsi qu’avance l’histoire, en se bouchant la mémoire comme on se bouche les oreilles […] un instant arrêté grillerait comme l’image d’un film bloquée devant la fournaise du projecteur (da Sans soleil).

Ho già detto di come sia facile precipitare dentro certe frasi di Chris Marker. Qui accade lo stesso, e in fondo l’attimo immobile di cui si parla, che rischia di bruciare l’intera pellicola (o l’intera narrazione), mi sembra proprio il motivo che spinge tanti autori a descrivere, commentare, attraversare le foto: forse perché, come concludeva Stefano Chiodi nella postfazione al volume Donzelli citato, ciò che vediamo «tende a scadere nel puro riflesso se non è rinnovato, vivificato» dalla parola scritta. Un simile rinnovamento è ancor più percepibile nel caso di un’immagine assente: il racconto permette di non costringerla in una vincolante associazione con il testo, di non chiuderla in una cornice, ma di liberarla e moltiplicarla all’infinito, in tante varietà di forme quanti sono gli universi immaginifici di chi legge.

 

L’Avana. La rivoluzione tradita

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di Alimaj

C’è una battuta sulla crisi demografica e le ricorrenti emorragie migratorie che circola da decine di anni a Cuba: el último que apague el Morro, ovvero l’ultimo (che lascia l’isola) spenga la luce del faro al Castillo del Morro, la fortezza spagnola cinquecentesca che troneggia sulla baia de L’Avana. Secondo Pablo Socorro, giornalista, a Miami dal 1996, e autore di un libro dal titolo omonimo che racconta dieci storie di esilio da Cuba, la paternità del motto di spirito deve essere attribuita al popolo uruguyano. Negli anni Sessanta, infatti, decine di migliaia di uruguayani emigrarono in massa verso l’Argentina in cerca di fortuna. Nell’aeroporto Carrasco di Montevideo comparve allora la scritta “El último que apague la luz”. C’è chi sostiene, invece, che sia un’invenzione cubana risalente all’epoca della crisi dei balseros del 1995, anno in cui, a causa del collasso economico che fece seguito alla frantumazione del blocco sovietico, e approfittando del via libera di Fidel Castro all’esodo, oltre 125mila persone fuggirono dal porto di Mariel saltando a bordo di fragili imbarcazioni improvvisate dirette verso la Florida a poco più di un centinaio di chilometri.

Poco importa se si tratti davvero del frutto dell’umorismo cubano; a Cuba, dove il desiderio di fuga è palpabile, soprattutto tra la giovani generazioni, l’espressione calza a pennello, ed è tornata in voga rimbalzando sui social media dopo il black out del 18 ottobre che ha lasciato al buio tutta l’isola per qualche giorno – “Ma non eri l’ultimo, siamo ancora in tanti qua, riaccendi per favore!”.

Dal 18 ottobre ad oggi le interruzioni di corrente, parziali o totali, di un’intera giornata o di qualche ora, si sono ripetute con frequenza. Da una parte, l’avaria continua delle sette vetuste centrali termoelettriche, dall’altra la carenza di combustibile che lascia a secco i trenta generatori di cui dispone il paese. “È una questione matematica”, spiega Adalberto, ingegnere presso la Empresa de Construcciones de la Industria Eléctrica (ECIE). “Se l’isola ha bisogno di 3000 MW e la capacità di generazione riesce a garantirne poco meno della metà, c’è metà della rete che non potrà funzionare”. Gli operatori dell’ECIE e dell’EMCE (Empresa de Mantenimiento a Centrales Eléctricas) lavorano in stato di emergenza permanente. Nel frattempo il ministero dell’Energia e delle Miniere da alcuni anni sta tentando di espandere lo sfruttamento delle energie rinnovabili. Nella provincia orientale di Holguín ci sono già due grandi parchi eolici, e altrettanti sono in procinto di essere costruiti. L’energia fotovoltaica, invece, rappresenta ancora un apporto assai limitato al fabbisogno nazionale. I tre stabilimenti fotovoltaici donati dalla Cina – La Criolla a Villa Clara, il Morón a Ciego de Ávila e il  Miramar a Holguín ­– producono in totale soltanto 12 MW. “Non è con il fotovoltaico che riusciremo a cavarcela, purtroppo, ma è un peccato, visto che di sole ne abbiamo tanto, no?”.

La sede dell’Empresa de Construcciones de la Industria Eléctrica (ECIE) in Tejadillo 57-59.

Adalberto  è in procinto  di partire in missione con la sua squadra verso l’est, a bordo di un pulmino bianco che passa a prenderlo di fronte alla sede dell’ECIE nel centro de L’Avana. L’indirizzo, Tejadillo 57-59, è curiosamente lo stesso dello studio da avvocato del giovane Fidel Castro, che si trova al piano superiore ed è conservato come una reliquia da oltre settant’anni, perciò non visitabile, ma solo reperibile grazie a una targa commemorativa discreta affissa sulla facciata dell’edificio.

“Se ci fosse stato lui”, ammette Rolando, rammaricato, alludendo a Fidel con un gesto che ne mima la barba, “non staremmo in questa situazione, perché lui non avrebbe mai lasciato il suo popolo in questo stato, senza acqua né luce”. Poi tira fuori dal portafoglio una foto da giovane con Raúl Castro, e confessa a malincuore che nemmeno Raúl da presidente è mai stato all’altezza di suo fratello. Ex impiegato delle poste, Rolando si è dimesso nei primi anni duemila e ha poi lavorato per tanti anni nelle cucine degli alberghi di Varadero per mettere da parte i soldi e comprarsi finalmente una Cadillac decappottabile usata, rosa smagliante, con cui trasporta in giro turisti nostalgici. “Agli americani soprattutto piacciono da morire queste macchine, perché negli anni Cinquanta erano le loro. Si mettono un cappello di paglia, un sigaro in bocca e via, tutto è amazing!”.

L’Avana pullula di macchine d’epoca, alla faccia dell’obsolescenza programmata: dalle Cadillac, Buick, Chevrolet, Pontiac, Mercury che sfrecciano sul lungomare, il Malecon, scarrozzando turisti, alle Fiat 126, Lada e Maggiolini privati, spesso riconvertiti in taxi collettivi per i locali. Rolando non ce l’ha affatto con i turisti, anzi rimpiange che dalla pandemia in poi le cifre siano andate scemando in picchiata, da 5 milioni a 1 e mezzo. “Cuba è sempre stata un paradiso per il turismo. Ce n’è per tutti i gusti, per chi viene a prendere il sole e riposarsi, e per chi viene a divertirsi con le ragazze. Perché qui anche las chicas hanno la laurea, conoscono la storia e ti fanno girare la città come guide professioniste”.

Sul Malecón
Sul Malecón inondato

Nei primi anni Novanta, durante il cosiddetto periodo speciale quando in seguito al crollo dell’URSS, il PIL del paese in caduta libera diminuì del 35%, il governo cubano aveva cominciato a puntare tutto sul turismo, fino a fare dell’isola la terza meta dei Caraibi dopo Santo Domingo e Cancún. In quegli anni, per far fronte alla crisi economica dilagante, Castro aveva aperto ai colossi dell’hôtellerie internazionale, consentendo delle joint ventures con il capitale di stato, e creando nel 1994 il Mintur, il ministero del Turismo. In quello stesso periodo fu legalizzato il dollaro e consentita la creazione di piccole aziende private, benché solo in alcuni settori, tra cui la ristorazione. L’avvento del turismo di massa, però, aveva funzionato un po’ come una macchina del tempo, nonostante la costruzione di complessi alberghieri ultramoderni. Il dollaro era di ritorno, insieme agli americani in vacanza in camicie hawaiane, i night-club e il sesso a pagamento. Un tuffo indietro negli anni Cinquanta, ma senza i casinò, la droga e la malavita organizzata.

I vecchi alberghi di L’Avana ancora raccontano quella storia a cui la Rivoluzione ha messo drasticamente fine e che però poi sembra quasi essere ritornata in auge. Il più antico di tutti è l’Hotel Inglaterra, sul Paseo del Prado di fronte al Parque Central. Costruito nel 1875 dall’architetto Juan de Villamil, ex tenente colonnello dell’esercito in pensione, con la Gran Bretagna non ha nulla a che vedere e anzi ostenta i fasti della bella époque spagnola.  L’Hotel Habana Riviera, invece, è un esempio tipico dell’architettura cubana degli anni cinquanta, cementosa e prepotentemente verticale. Gli anni Cinquanta, infatti, segnano il boom dell’edilizia alberghiera in seguito alla promulgazione da parte dell’allora dittatore Fulgencio Batista della Hotel Law 2074 che regalava incentivi fiscali e license per i casinò ai costruttori di grand hotel e night-club. Inaugurato nel 1957 con la presenza di star hollywodiane come Ginger Rogers e Lou Costello e altri illustri rappresentanti della mafia nordamericana, l’Habana Riviera ospitava un enorme casinò, il più grande di tutta Cuba, gestito da Meyer Lansky, boss della mafia statunitense sull’isola.

L’Hotel Deauville

Nel 1957 fu inaugurato anche un altro famoso hotel collegato alla presenza della malavita organizzata a Cuba, l’Hotel Deauville, nei pressi del lungomare e di proprietà di Santo Trafficante Jr, come anche l’Hotel Capri, l’Hotel Comodoro e il casinò Sans Souci.

Di fronte all’ingresso dell’Hotel Deauville

Poco dopo, però, con l’avvento della Rivoluzione, tutte le proprietà di Trafficante sarebbero state confiscate dallo Stato e il boss, originario della Florida, espulso dall’isola in quanto persona non grata, a sua volta, nel 1961, avrebbe collaborato con la CIA a uno dei numerosi tentativi di assassinare Castro per avvelenamento.

Ma l’hotel più emblematicamente intrecciato alla storia della Rivoluzione è l’Habana Libre, che nel gennaio del 1959 – un anno dopo la sua apertura – accolse Castro e le sue truppe  in arrivo nella capitale con la barba lunga e le armi in pugno, come ritratti nelle poche foto d’epoca che testimoniano dello sbarco dei barbudos in quello che al tempo era ancora l’Hotel Hilton, presto nazionalizzato e ribattezzato.

L’Habana Libre

Da allora La Castellana, la suite 2324 in cui Castro, Celia Sánchez e una decina di altri membri dell’Esercito Ribelle festeggiarono l’8 gennaio l’avvento della Rivoluzione a L’Avana, sarebbe diventata il quartiere generale dal nuovo presidente in visita in città e la sede da lui prescelta per ospitare eventi epocali come la firma della seconda riforma agraria nel 1963 e l’organizzazione della Tricontinental nel 1966.

La porta della Castellana, la suite di Fidel Castro nell’Habana Libre

L’albergo, eletto da Castro a simbolo della Rivoluzione e del nuovo corso, era stato fino a poco prima – per l’esattezza fino alla sua fuga da Cuba il 1 gennaio 1959 mentre nella sala da ballo dell’hotel la buona società cubana celebrava il capodanno, un trofeo di Batista: la dimostrazione che Conrad Hilton, il magnate statunitense dell’hôtellerie, aveva fiducia nel futuro prospero dell’isola. Occupando l’Hilton Castro occupava l’emblema della Cuba che era e che non sarebbe più stata, e insieme un avamposto strategico, uno degli edifici più alti de L’Avana con un’incredibile vista su tutta la città fino al mare.

La vista dalla Castellana
La vista dalla Castellana

La Rivoluzione avrebbe segnato la fine della dolce vita cubana per il capitale e il turismo nordamericano: la fine della notti brave sul Miramar, di cui l’Hotel Nacional, maestoso complesso extra lusso edificato negli anni 1930, era la vetrina più vistosa.

Di fronte all’entrata dell’Hotel Nacional
Cortile interno dell’Hotel Nacional

A distanza di oltre sessant’anni però, il Vedado, il quartiere dove sorge per l’appunto l’Habana Libre, è tornato ad essere il barrio mondano dei club e dei cinema, dei bar e dei ristoranti, non solo per turisti, ma anche per un’élite di nuovi ricchi cubani che degustano ceviche bevendo birre rigorosamente d’importazione e consumando in una serata il salario mensile di un direttore di scuola media.

Il cinema La Rampa al Vedado

Questa è la Cuba che Nene non avrebbe mai voluto vedere. A L’ Avana da due anni, Nene è originario della provincia di Santiago che ha abbandonato, perché dice che è diventata un cimitero. Figlio di contadini in pensione, a cui la pensione consente appena di sopravvivere, Nene dispera di vedere il suo paese degradarsi così. “Per noi afrocubani la rivoluzione è stata la vera fine della schiavitù. I neri di Santiago erano quelli che lavoravano nelle piantagioni, a differenza dei neri di L’ Avana impiegati prevalentemente come domestici nelle case dei bianchi. La mia famiglia viene da quella storia lì, e per i miei è stata una cosa assolutamente incredibile che io e mio fratello siamo andati all’università. Anche se all’università alla fine poi ci andavano tutti, perché era cosi che funzionava prima. Non so ora se i miei figli vorranno studiare, ne dubito. I ragazzi sognano di andarsene, oppure magari di lavorare con il turismo per guadagnare meglio”. Da quando è a L’Avana Nene si mantiene facendo consegne a domicilio in città. Così, bussando alle porte del Vedado, ha potuto vedere da vicino le facce di questa nuova classe agiata che vive in un mondo parallelo e distantissimo dalla grande maggioranza della popolazione.

Al Vedado

Per chi come lui è stato giovane durante il boom della rivoluzione, alla fine degli anni Settanta-inizio anni Ottanta, quando con la juventud comunista si viaggiava in giro per il mondo, e quando a scuola si impartivano corsi di marxismo e leninismo, la Cuba di oggi è irriconoscibile. Non ha nessuna fiducia nel presidente Díaz-Canel e nemmeno nel suo vice, Salvador Valdés Mesa, primo afrocubano a ricoprire un incarico di questo rango. Teme soprattutto che la situazione attuale sia esplosiva. “La gente è stanca di resistere, perché sono anni che il governo ci chiede di resistere. Ed è anche disgustata nel constatare che c’è chi va avanti a malapena a riso e chícharos, e chi fa la bella vita. Quando le cose si mettono così, non promette bene, rischiamo la guerra civile”.

Al vertice della Rampa, la avenida 23, la gelateria statale Coppelia, un immenso ufo di colore azzurro avvolto in un giardino verdeggiante all’ingresso del quale troneggia la scritta La Habana real y maravillosa, non è più la cattedrale del gelato che fu, nonostante la fama internazionale a cui l’aveva consacrata nel 1993 il film Fragole e cioccolato.

All’ingresso del giardino della gelateria Coppelia

Voluta personalmente da Fidel nel 1966 per offrire ai cubani una varietà infinita di gusti e battezzata in onore del suo balletto classico preferito, Coppelia contava qualche centinaia di dipendenti e serviva decine di migliaia di gelati al giorno. Ma le interruzioni di corrente che da anni interessano il paese hanno progressivamente tarpato le ali e le ambizioni della gelateria, che negli anni si è vista costretta a ridurre drasticamente l’offerta di gelato.

A pochi passi da Coppelia e proprio di fronte all’Habana Libre, svetta una edificio di 152 metri che per ragioni comprensibili ha catalizzato l’ostilità degli habaneros. Si tratta di un hotel 5 stelle (42 piani e 565 stanze) in cui il governo ha investito 17mila milioni di pesos e che è in costruzione dal 2018. C’è chi dice che è come un pugnale conficcato nello skyline di L’Avana, ma anche un affronto sfrontato alle ristrettezze in cui vive la popolazione. Alla guida di questo progetto, fino alla sua morte inaspettata nel 2022, c’era Luis Alberto Rodríguez López-Calleja, ex generale dell’esercito riconvertito in dirigente d’impresa – la GAESA, il grande consorzio aziendale gestito dalle Forze armate rivoluzionarie – ed ex marito della figlia di Raúl Castro. Quando basta per rendere la Torre K un’iniziativa più che chiacchierata.

La Torre K al Vedado

A ciò si aggiunge il fatto che i lavoratori impiegati sul cantiere del gruppo francese Bouygues Bâtiment International sono per la maggior parte bengalesi. Maria, un’ingegnera che durante la pausa pranzo legge Los Trabajadores, la testata ufficiale del sindacato nazionale, si rivolge a loro in spagnolo. “Capiscono abbastanza, perché sono qui da mesi. Lavorano tantissimo e con contratti che non sarebbero possibili per noi cubani, perciò li hanno fatti venire da fuori. Ma li pagano più di quanto non ci pagherebbero”. Maria è di poche parole e si esime dal dire cosa pensi. Forse nemmeno lei riesce a capire fino in fondo perché un governo che fatica a sfamare il popolo possa lanciarsi in un progetto del genere. Qui si lavora incessantemente, anche durante i black out, mentre il resto dell’isola è sospesa nel limbo dell’inattività, perché la corrente è sempre garantita dai generatori dell’Hager group, multinazionale originariamente tedesca che sul proprio sito vanta la Torre K come un fiore all’occhiello.

Una tienda de l’estado chiusa in L’Avana vecchia

Qui si lavorava perfino il 28 ottobre, mentre Cuba celebrava il terzo e forse più amato eroe della rivoluzione prematuramente scomparso. “Camilo Cienfuegos era il migliore, un uomo del popolo, mentre Raùl e Guevara erano due sanguinari, lo sanno tutti”. A Juan lo ha raccontato suo padre, comunista appassionato e poi disamorato del castrismo dopo la morte di Fidel, e sua nonna, 101 anni, che la sa lunga più di chiunque altro. “Mio padre sì, era comunista, io non lo so cosa sono. Sono soprattutto stufo della situazione di questo paese”. Juan lavora in una tienda del estado ne l’Avana vecchia in cui la carne appena arriva va a ruba, e restano in bella mostra soltanto pochi detergenti venduti a caro prezzo.

Una tienda del estado nel cuore de L’Avana vecchia
La fila con la libreta di fronte a una panetteria

In negozio da mesi non c’è quasi mai da lavorare, perché non c’e tristemente nulla da vendere. Allora Juan ha avviato un attività commerciale, organizza fiere di artigianato locale per turisti. Il suo sogno è comprarsi una macchina d’epoca e scarrozzare i visitatori, perché così si fanno i soldi, a meno che non li mandino le famiglie dall’estero. A sua moglie Raquel, invece, piacerebbe poter lanciare una piccola impresa di vendita al dettaglio, una delle tanto vituperate mypimes che pullulano in città e ostentano un’abbondanza smisurata che cozza crudelmente con la penuria che si respira in giro. Juan e Raquel non hanno figli e ringraziano il cielo perché alcuni tra i figli dei loro amici nel corso dell’ultimo anno e mezzo hanno preso la strada dell’esilio, ma non tutti sono arrivati a destinazione passando per il Messico, mentre altri sono stati dati per dispersi. “Per chi ci riesce però poi è bingo: possono mandare dei soldi alla famiglia che può cominciare fare import/export, ed è  tutta un’altra vita”, spiega Raquel. Il paradosso di Cuba infatti è che mentre lo stato subisce da più di mezzo secolo un embargo asfissiante, ampiamente contestato anche in occasione dell’ultimo voto del 30 ottobre all’Assemblea dell’ONU (solo Usa e Israele a favore), ai privati è consentito di acquistare la merce made in Usa. Così, mentre nel paradiso socialista della canna da zucchero, che fu in origine l’inferno delle piantagioni schiaviste, oggi lo zucchero scarseggia ed è praticamente assente dalla canasta mensile, i cookies si vendono a prezzi folli nei nuovi negozi dei nuovi ricchi, tutti scintillanti e climatizzati.

“La rivoluzione non è una pranzo di gala, ma nemmeno la denutrizione”, ironizza Esteban, insegnante sulla cinquantina. “Non è che non ci tenga alla Rivoluzione, anzi la amo la Rivoluzione, la amiamo tutti. Però Díaz-Canel non ha nulla a che vedere con la Rivoluzione e parla a vanvera.  Dice che la sovranità è la cosa più importante, ma purtroppo non ci riempie lo stomaco. Dice che siamo un popolo di luchadores e dobbiamo continuare a lottare, ma come fai a dirlo ai contadini che non ricevono le provviste da due mesi?”. Esteban si preoccupa per le giovani generazioni, i ragazzi e ragazze che accoglie ogni giorno sui banchi di scuola. Dice che è difficile trasmettere loro l’entusiasmo per una storia che non corrisponde neanche lontanamente a quel che vedono e vivono ogni giorno.

A sessantacinque anni di distanza, la memoria storica della rivoluzione perde colore, come sbiadiscono sui muri della città, tra bloqueo, uragani e black out, i volti del Che, i Patria o Muerte, i Venceremos.

L’ufficio di un commissariato di polizia a L’Avana vecchia

Pablo, studente di storia all’Università de L’ Avana prossimo alla laurea e membro della Unión de Jóvenes Comunistas, fa parte di quei millennials cubani che, nonostante tutto e sebbene spesso in disaccordo con il Partito, vogliono continuare a darsi da fare per riscattare la memoria della rivoluzione. “Ma non sono l’unico, davvero. Non è che tutti i ventenni qui sognano l’America. Alcuni, come me, preferiscono la rivoluzione alla restaurazione, e credono ancora nei valori della giustizia e dell’uguaglianza socialista. Questo però non significa essere ciechi alla crisi”.

La scalinata dell’Universita de L’Avana

Pablo ritiene che la soluzione della crisi, morale e politica oltre che economica, non debba essere poliziesca né repressiva da parte del governo. Se la popolazione s’interessa sempre meno alla cosa pubblica, si tratta di riattivare un desiderio di condivisione e gestione del comune che il via libera alle privatizzazioni, nel corso degli ultimi anni, ha soltanto contribuito a sotterrare. Quel desiderio è manifestamente scomparso. “C’è un calo del desiderio, senza dubbio, e allora che si fa?”. Pablo, nonostante tutto, sembra non disperare: la speranza è risvegliare quell’orgoglio rivoluzionario, così vivo e potente nella memoria dei cubani delle generazioni precedenti, che per decenni è stato il vero bastione del socialismo a Cuba.

Sul Malecon, non lontano dal Castillo del Morro