[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la postfazione al volume L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014]
di Stefano Lucarelli
[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la postfazione al volume L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014]
di Stefano Lucarelli
Dalla luce del mio sepolcro
canto la parola armata
di Antonella Bukovaz
dedicato a Hanna Preuss
Soltanto solo,/sperduto,/muto, a piedi/riesco a riconoscere le cose.
Pier Paolo Pasolini
(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)
Ho sognato che ero un uomo
un uomo perso nella terra
ho fatto un sogno che mi perdeva nella terra
ero un uomo
dovevo andare andare
attraversare la montagna
raggiungere… nel sogno, sono un uomo
raggiungere arrivare – andare andare…
Vani, scavati nella roccia
sono umidi e bui, entro
esco, per entrare in altri cunicoli
più piccoli più grandi… sono solo
perso
nella terra
… sono uomo
(Antigona)
guardami
sono lo specchio del corpo insepolto
riflessa, capovolta
la legge divina dimora e scorre
mentre viva, sepolta, mi divora
nel corpo acceso
sua dimora
guardami
tu sei in me
non per fusione ma per riduzione
ridotto a me
dico di me e di te
del tradimento e della legge
dico che sono sola
integra, incarnata
sola con te dentro di me
ora nasco alla storia
aspettavo da molto tempo
sola nella violenza del silenzio
in questo vuoto
in bilico
tra amore e conoscenza
(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)
Ho sognato che ero un uomo
un uomo perso nella terra
ho fatto un sogno che mi perdeva nella terra
ero un uomo…
sono un uomo che parla alla terra
con la voce della terra… ho sognato… sono perso…
un uomo nel sogno… nella terra…
Quali parole? Dov’è la mia parola… la mia voce…
…
la parola di superficie
non corrisponde ai luoghi dentro la terra
non conosco i miei passi… le mie mani…
i miei occhi vedono ciò che non riconosco…
ma sono certo della prossima luce
stupito! del buio dopo altro buio
mai uguale ma altro e altro ancora…
guardami
qui dove ho posato il mio cuore, nasco
nasco dalla legge prima
dal diritto alla pietà, alla solidarietà
sono il diritto alla morte
sono la debolezza
la carezza del dolore
guardami
sono il tempo della resistenza
sono tutti gli antenati
e tutta la discendenza
la carne
innestata alla carne
un lupo affamato è il peccato di mio padre
in me, riflesso capovolto
che veglio sul dio disarmato
guardami
io dico che l’aria aperta dal flusso del cuore
porta in sé una forma di rivoluzione
degli spazi
può rivoltare i margini una corrente così
porta venti che arrossano
le nuvole all’orizzonte, disorienta
gli occhi dei tronchi dei faggi
(voci fuori scena – inglese, sloveno italiano)
Qualcuno mi aspetta e io sono un uomo, un uomo
perso nelle viscere della terra
un uomo, un uomo calmo e smarrito
di cunicolo in cunicolo… abito nel passaggio
nella frattura, nella frana…
Io partorisco qui il mio seme
lo rilascio intero alla terra e alla pietra
all’aria ai muschi al buio
alla corrente e al tempo.
guardami
muove verso la soglia la vita
non c’è luogo migliore per la rivolta
e sarà amore per l’ultima parola
e sarà parola-fondamento
sarà amore che genera metamorfosi
sarà civiltà, sarà diritto
parlerà la legge della creazione
intrecciata all’ultimo mio respiro
e tu? per chi? ricopri di splendore
il tuo potere cieco
dalla luce del mio sepolcro
canto la parola armata
nella sfida ti sfido e creo
sto nella cerimonia
col mio canto ti tengo, proteggo
tra le braccia della mia debolezza
la tua parola è muro senza salvezza
solo sangue senza rito
che uomini dopo di te tradiranno
moriranno i tuoi figli
io alzo la polvere – ricopro la pena
tra le mie dita scorre l’acqua
rigenera la vita, dà vita alla terra
saranno poi uomini nuovi
saranno donne con le figlie sulle spalle
i figli al fianco
(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)
… nel buio della terra
nella commozione dell’ascesa
nelle braccia e nella forza
nell’oscurità
ho ancora mani per cercare il pane
dalla voragine apertasi alla mia ombra, risalgo
aggrappandomi ai sassi e alle radici che viscide
il vuoto della terra ha scoperte
mi aggrappo e risalgo intero, colmo, roteando, rilascio
odori di marcescenza e in questo, la vita
risuono e sono in me
spargo la mia voce nel tutto
e nel niente della storia
del buio trasudo la vita
seguo dentro me il dio sconosciuto
e non temo memoria
rallento, risalgo al fondo
mi attende un ritorno
lungo i sentieri della montagna
m’incammino con il pensiero ancora dentro
dove mi ero quasi perso l’animo
e nel buio dopo altro buio
mai uguale ma altro e altro ancora
che appartiene anche alla superficie
qualcuno mi aspetta e io sono l’uomo
l’uomo
e torno
…
“e nevi e piogge cadono su lei che si dissolve goccia a goccia”
Sezione Culturale-Educativa dell’Esercito degli Insorti [Makhnovisti]
27 aprile 19201. Chi sono i makhnovisti e per che cosa si battono?
I Makhnovisti sono operai e contadini che insorsero fin dal 1918 contro la tirannia del potere della borghesia germano-magiara, austriaca e hetmanita in Ucraina. I Makhnovisti sono quei lavoratori che per primi innalzarono lo stendardo della lotta contro il governo di Denikin e tutte le altre forme di oppressione, di violenza e di menzogna, qualunque fosse la loro origine. I Makhnovisti sono quei lavoratori sulla cui fatica la borghesia in generale, ed ora quella sovietica in particolare, ha costruito il proprio benessere ed è divenuta grassa e potente.
2. Perché ci chiamiamo Makhnovisti?
Perché per la prima volta durante i giorni più oscuri della reazione in Ucraina, abbiamo visto tra noi un amico leale, Makhno, la cui voce di protesta contro ogni forma di oppressione dei lavoratori risuonò per tutta l’Ucraina, esortando alla lotta contro tutti i tiranni, i malfattori e i ciarlatani della politica che ci ingannavano, Makhno, che ora marcia deciso al nostro fianco verso la mèta finale, l’emancipazione del proletariato da ogni forma di oppressione.
3. Che cosa intendiamo per emancipazione?
Il rovesciamento dei governi monarchici, di coalizione, di repubblicani, socialdemocratici e del partito comunista bolscevico, cui deve sostituirsi un ordine indipendente di soviet dei lavoratori, senza più governanti né leggi arbitrarie. Perché il vero ordine dei soviet non è quello instaurato dal governo socialdemocratico-comunista bolscevico, che ora si definisce potere sovietico, ma una forma più alta di socialismo antiautoritario e antistatale, che si manifesta nell’organizzazione di una struttura libera, felice e indipendente della vita dei lavoratori, nella quale ciascun individuo, così come la società nel suo complesso, possa costruirsi da sé la propria felicità e il proprio benessere secondo i principî di solidarietà, di amicizia e di uguaglianza.
4. Come consideriamo il sistema dei soviet?
I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate.
5. Attraverso quale via i Makhnovisti potranno realizzare i loro obiettivi?
Con una rivoluzione senza compromessi e una lotta diretta contro ogni arbitrio, menzogna ed oppressione, da qualunque fonte provengano; una lotta all’ultimo sangue, una lotta per la libertà di parola e per la giusta causa, una lotta con le armi in mano. Solo attraverso l’abolizione di tutti i governanti, distruggendo le fondamenta delle loro menzogne, negli affari di stato come in quelli economici, solo con la distruzione dello stato per mezzo della rivoluzione sociale potremo ottenere un vero ordine di soviet e giungere al socialismo.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
di Marco Zerbino
Uno dei lasciti più problematici di atti criminali come quello verificatosi lo scorso 7 gennaio nella redazione di Charlie Hebdo ha a che fare con il clima binario che tipicamente essi generano. “O di qua, o di là”, suonano sempre i primi commenti a caldo, e questo sembrava dire anche l’oceanica manifestazione tenutasi la domenica successiva al massacro, il cui slogan principale era “Je suis Charlie” (associato anche all’altro “Je suis Charlie, flic, juif”: “Sono Charlie, poliziotto, ebreo”). Buona parte delle analisi e delle ricostruzioni, come anche il vissuto (più o meno conscio e ammesso) del cittadino medio occidentale bianco, finiscono fatalmente per strutturarsi attorno alle ben note coppie antinomiche “bene/male”, “libertà/dispotismo”, “democrazia/teocrazia”, “lumi della ragione/tenebre oscurantiste”, “occidente/islam”, “civiltà/barbarie”, “Noi/Loro”… Lista che, va da sé, potrebbe continuare.
Vorrei tuttavia rassicurare il lettore. Quanto sta per leggere non contiene l’ennesima tiritera sulla falsariga di quelle che le prefiche liberal e progressiste amano intonare in riferimento ad accadimenti terribili come quello di rue Nicolas Appert: che il “vero” islam non ha niente a che fare con il fondamentalismo; che esso è anzi religione di pace e di tolleranza; che l’islam ha contribuito tantissimo allo sviluppo della civiltà umana sin dal Medioevo e via discorrendo.
Di capire se il messaggio del Corano sia o meno un messaggio di pace e tolleranza confesso infatti, mea culpa, che non me ne importa granché, e d’altro lato dubito che abbia molto senso un simile esercizio, considerato come il testo sacro dei musulmani, al pari della Bibbia cristiana e della Torah ebraica, sia un libro dal contenuto spesso simbolico, evocativo e contraddittorio, non un saggio fresco di stampa dal quale si possano pretendere una coerenza interna e una weltanschauung organica. Un prodotto storico, oltretutto, che non può non risentire, in termini di valori e mentalità sottostanti, delle caratteristiche della realtà sociale e culturale che lo ha espresso.
Quanto alla presunta esistenza di un “vero” islam da contrapporre al fondamentalismo islamista, facilmente liquidato come “falsa” impostura, ritengo si sia ben espresso nei giorni immediatamente successivi alla carneficina parigina Tariq Ali: “Ci sono diverse versioni dell’islam […]; è insensato parlare in nome del ‘vero’ islam. La storia dell’islam, sin dai primordi, è stracolma di conflitti fra fazioni diverse. […] Differenze di questo tipo esistono ancora oggi”.
Ovvero: proprio perché stiamo parlando di un fenomeno storico multiforme non ha molto senso andare alla ricerca di un’essenza “vera”, né distinguere aristotelicamente fra sostanza e accidente; d’altro lato e per lo stesso motivo, come è stato giustamente osservato, non ha neanche senso pretendere assurdi atti pubblici di dissociazione da parte di quella maggioranza di musulmani che non è mai stata sfiorata dall’idea di fare visita alla redazione di un giornale imbracciando un AK-47. È chiaro che il fenomeno social-religioso che chiamiamo islam ha assunto anche, particolarmente nel corso degli ultimi tre o quattro decenni, le sembianze del fondamentalismo islamista. Che in ciò abbiano avuto un ruolo importantissimo l’eclissi di un’opzione anticolonialista laica, diversamente marxisteggiante e socialisteggiante, e gli interessi delle nazioni capitalistiche occidentali che oggi dichiarano guerra al fondamentalismo in nome della libertà e della democrazia, e che tale situazione perduri tuttora, non cambia la sostanza: l’islam (analogamente alle altre due religioni del libro) ha anche un volto fondamentalista e lo ha oggi, per ragioni storiche precise, in misura maggiore degli altri due monoteismi, la cui forma attuale è il risultato di un lungo e per nulla pacifico processo di secolarizzazione.
Insomma e per farla breve: non penso che le tristi generalizzazioni richiamate all’inizio possano essere contrastate col piagnisteo intriso di senso di colpa tipico del liberal occidentale che mette le mani avanti esclamando contrito di fronte all’islamofobo di turno “Loro non sono così!”. Una parte (minoritaria) di “Loro”, in realtà, è anche così. Può esserlo e può diventarlo. Il problema vero nasce tuttavia nel momento stesso in cui, quando ancora riecheggiano i colpi dei kalashnikov, lo scenario del “Noi” e del “Loro”, questi fastidiosi fantasmi, viene posto in essere o nella maggior parte dei casi riattivato dopo un periodo più o meno lungo di stand-by.
Scenari e fantasmi: eccoli, i frutti avvelenati del massacro, quegli stessi che il jihadismo (al pari del lepenismo e del “salvinismo”) si propone consapevolmente di alimentare. Sono il Noi e il Loro ad avere la meglio su tutto il resto, a divorarlo. Non si è più lavoratori, colleghi, vicini di casa, compagni di scuola o di università. Si è innanzitutto arabi e musulmani, europei, bianchi e “cristiani” (che magari hanno messo piede in chiesa l’ultima volta al matrimonio dell’amico).
Questa lente deformante, sempre lì pronta ad essere utilizzata, dopo eventi come quello del 7 gennaio tende a diventare lo strumento privilegiato tramite il quale osservare il mondo. La questione che qui vorrei affrontare è quindi la seguente: in che misura la “sinistra reale”, ovvero la sinistra tardoriformista non-più-comunista-né-marxista odierna, disancorata com’è da una lettura di classe della realtà storico sociale e dimentica della nozione di imperialismo, ha finito per indossare anch’essa quelle lenti nei giorni successivi alla strage di rue Nicolas Appert? Di sinistra vorrei parlare, nelle righe che seguono, non tanto di Charlie, specificando preventivamente che non faccio rientrare all’interna di questa categoria la famiglia socialdemocratica tradizionale (che di sinistra non ha più nulla da decenni) e che mi riferisco invece a ciò che si muove “alla sinistra”, per l’appunto, del Pse. Per fare ciò, tuttavia, dovrò necessariamente parlare di Charlie.
Ridi, rivoluzione!
Nei giorni a cavallo fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 gli scenari e i fantasmi che da circa un decennio turbavano i sonni dei cittadini europei e americani subivano un duro ridimensionamento. Prima a Tunisi e poi al Cairo centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza non per inneggiare ad Allah o chiedere di censurare qualche vignetta ma per ottenere democrazia, lavoro e la fine di regimi repressivi e corrotti. Meglio: il loro gridare, talvolta, “Allah akbar” non gli impediva di battersi per un futuro di democrazia e di diritti. Le immagini televisive delle strade di Tunisi lasciavano intravedere, oltre alle numerose bandiere nazionali, anche qualche bandiera rossa con l’effigie di Che Guevara e dopo le prime manifestazioni spontanee un ruolo importante veniva giocato nella convocazione dei successivi appuntamenti dall’Ugtt, la centrale sindacale del paese nordafricano. L’onda, cominciata ad ingrossarsi subito dopo il sacrificio dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, in poche settimane spazzava via due regimi decennali come quelli di Zine El-Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak.
Nell’estate successiva a quegli eventi mi trovavo al Cairo con alcuni amici. Era Ramadan e, nella sede di un piccolo partito di estrema sinistra da poco emerso dall’illegalità, guardavo con uno stupore destinato a dissolversi nel giro di qualche giorno alcuni militanti di quell’organizzazione (non tutti) che osservavano il tradizionale digiuno. Ricordo bene come, nel corso di una riunione su questioni sindacali (l’Egitto postrivoluzionario vedeva allora la nascita di nuove confederazioni indipendenti contrapposte a quella ufficiale legata a doppio filo al passato regime), una donna velata prendesse la parola per fare un intervento quanto mai combattivo a sostegno delle nuove esperienze e contro l’Etuf, il sindacato governativo corrotto e colluso con la dittatura. Era una leader operaia nella sua fabbrica, mi venne detto dalla persona che si era offerta gentilmente di farmi da interprete. Se fosse anche una militante socialista non lo riuscii a capire, quel che è certo è che stava tenendo un comizio dentro la sede di un partito che si definiva socialista rivoluzionario. Lì per lì, mi tornarono in mente le parole del ritornello della canzone che avevo sentito qualche sera prima in piazza Tahrir: Idhaki Ya Thawra (letteralmente “Ridi, rivoluzione!”), un motivo composto e suonato durante le oceaniche manifestazioni di febbraio dal giovane cantautore autodidatta Ramy Essam, al quale la folla rispondeva immancabilmente con un fragoroso e liberatorio “Ah! Ah! Ah!”.
Voglio dire: cos’è una donna velata? Se a prevalere sono gli scenari e i fantasmi, il Noi-Loro, sarà inevitabilmente una donna sottomessa, o tutt’al più una bigotta felice di esserlo. Non nego che il velo sia in ultima analisi un segno di sottomissione, un’imposizione determinata fondamentalmente dallo sguardo dell’uomo-padre-fratello-marito che si posa sul corpo femminile. Contesto tuttavia che il concreto soggetto di sesso femminile che porta il velo debba essere privato, una volta immerso nello scenario del Noi-Loro, di una sua personale elaborazione riguardante il fatto di portarlo, vale a dire del suo status stesso di soggetto, e del diritto di non vedere ridotta la complessità della propria vita ed esperienza al fatto di essere una “portatrice-di-velo”. È un processo tipico della dinamica della vittimizzazione, del resto: alla vittima è assegnato il ruolo di passivo-abusato e nulla più e, in quest’ottica, non rimane che aspettare la Femen di turno in grado di spezzarne le catene (augurando alla forsennata in topless di spezzare magari un giorno anche le proprie).
Al contrario, una donna velata può essere mille cose: una lavoratrice incazzata, una bigotta, tutte e due le cose insieme, una lavoratrice tendente al bigotto ma non troppo, una vignettista di un quotidiano laico e progressista accusata di blasfemia dal governo dei Fratelli Musulmani, una per la quale il velo ha soprattutto un valore estetico e va ben abbinato alle scarpe, una donna che il velo non vorrebbe portarlo affatto ma che deve farlo perché glielo impone la famiglia (o lo Stato, o entrambi), una fondamentalista convinta e ideologizzata, una che vede il velo innanzitutto come simbolo di un’identità e di radici che ritiene importante rivendicare nella società occidentale in cui vive, eccetera. Da questo punto di vista, le differenze fra “Noi” e “Loro”, che pure possono esserci, sono senz’altro riconducibili a un più marcato processo di secolarizzazione che ha investito le nostre società, ma è altrettanto vero che la nostra realtà non è l’unica ad essere (stata) conflittuale e che non disponiamo del copyright della contraddittorietà. Tutto ciò senza tralasciare il fatto che un certo riflusso di tipo religioso e tradizionalista che ha caratterizzato diverse società mediorientali negli ultimi decenni ha cause politiche e geopolitiche: in fin de conti, nell’Egitto di Nasser le donne andavano al mare in bikini…
Per fortuna, sprazzi di tale complessità possono arrivare fino a noi, ad esempio quando le masse di paesi musulmani come la Tunisia e l’Egitto decidono di darci una lezione di dignità e democrazia rovesciando regimi basati sulla repressione poliziesca e la tortura (ridendoci poi anche su: “Ah! Ah! Ah!”), oppure (avviene sempre più spesso fra le giovani generazioni) quando la prossimità con “Loro” riesce a fare da contrappeso a scenari e fantasmi. Ciononostante, il Mar Rosso dei fantasmi fa presto a richiudersi al di sopra della complessità, soprattutto dopo fatti come quelli di Parigi.
Per venire quindi al “Je suis Charlie”: certo che lo sono, se lo slogan sta a significare l’orrore verso un atto barbaro e la difesa della sacrosanta libertà di offendere qualsiasi religione. Il punto però è che la versione del “Je suis Charlie” vista all’opera domenica 11 gennaio ammiccava troppo, veramente troppo, a scenari e fantasmi. Non solo a sfilare era un Noi assolutamente contraddittorio (bastava dare un’occhiata alle prime file del corteo) ma era anche un Noi che si presupponeva come al solito immacolato, privo di scheletri nell’armadio e scevro da responsabilità in relazione al sorgere del jihadismo. Era, nello specifico contesto francese, il Noi della République dal passato coloniale che ben conosciamo, il Noi di una laicità di Stato troppo spesso usata come strumento di controllo e di discriminazione nei confronti di milioni di musulmani residenti in Francia.
Dunque, la sinistra. Può accettare di sfilare con Hollande, Netanyahu &Co una sinistra in grado di distinguere e di mantenere alcuni punti fermi, tipo che la responsabilità principale del sorgere del jihadismo è dell’imperialismo e che i palestinesi hanno diritto a una vita decente nella loro terra senza essere occupati militarmente? Può scendere in strada al fianco delle istituzioni della République, quella stessa République che ha ridotto in catene mezza Africa e che penalizza in diversi modi i propri cittadini di fede musulmana collocati ai gradini più bassi della scala sociale, una sinistra che aspiri realmente a cambiare il mondo rendendo protagonista di tale cambiamento chi per vivere deve lavorare (quando il lavoro lo trova) e non ha patrimoni accumulati né santi in paradiso?
Sta di fatto che la quasi totalità delle sigle della sinistra politica e sindacale transalpina hanno partecipato a quella marcia senza batter ciglio. Lo ha fatto ad esempio il Front de Gauche di Jean-Luc Mélenchon (che comprende anche il Partito Comunista Francese) e lo hanno fatto diversi sindacati, dalla Cgt al radicale Solidaires-Sud (qualcosa di simile ai nostri Cobas). Uniche eccezioni il Nuovo Partito Anticapitalista (erede della Ligue Communiste Révolutionnaire di Alain Krivine e Daniel Bensaïd) e Lutte Ouvrière. Di questa “sinistra reale”, il minimo che si possa dire è che è subalterna alla retorica ufficiale della laïcité e restia ad agire sulle contraddizioni di classe, come anche a guardare in faccia il passato coloniale del proprio paese.
Charlie razzista?
Charlie Hebdo, settimanale “ateo” fatto da ex sessantottini e da gauchisti anticlericali impegnati nella battaglia in difesa della laicità, risentiva non poco di questa impostazione. Nei giorni successivi all’attentato ho faticato parecchio, complici anche la distanza e il fatto di non essere francese, a chiarirmi le idee su quale fosse la vera natura del giornale. Estremizzazioni di segno opposto corrispondenti in parte a fasi successive di “digestione mediatica” dell’evento non mi sono state affatto di aiuto.
L’iniziale coro unanime attorno al “Je suis Charlie” e l’invito ossessivo rivolto a singoli e testate a ripubblicare vignette delle quali il minimo che si può dire è che possono non piacere ha in un primo momento offuscato un fatto. Stiamo parlando di un giornale che ospitava sì anche editoriali e articoli “seri”, firmati talvolta da personalità di spessore intellettuale come l’economista Bernard Maris, anche lui barbaramente assassinato il giorno della strage. Ciò non toglie, tuttavia, che le pagine più espressamente satiriche fossero per lo più animate dal gusto goliardico della battuta da spogliatoio e dell’oltrepassamento dei limiti fine a se stesso, conducendo non di rado sull’orlo della demenzialità nichilista. Nulla di male, per carità, senonché, nelle prime ore dopo il massacro, il processo di santificazione delle vittime della mattanza ha rapidamente raggiunto livelli di guardia, seguendo modalità che esse stesse avrebbero verosimilmente aborrito, fossero state ancora in vita. Non a caso il disegnatore Luz, uno dei superstiti, ha espresso in quei giorni il proprio smarrimento affermando in un’intervista: “Oggi tutti ci guardano, siamo diventati dei simboli, ma quelle che sono state uccise erano semplicemente delle persone che disegnavano pupazzetti”. Un’affermazione che lascia l’amaro in bocca, che comunica tutta l’insensatezza del gesto omicida, ma che è ciononostante tragicamente vera.
D’altro lato, nel giro di qualche giorno sono cominciate a fioccare, oltre alle analisi dietrologiche e complottistiche, le accuse di “razzismo” rivolte a Charlie (in realtà già al centro di polemiche passate, fra cui quella sollevata dall’ex redattore del giornale Olivier Cyran). Va detto che sono stati soprattutto autori e testate del mondo anglofono a indulgere a questo tipo di rappresentazione del lavoro di Charb e compagni, senza dubbio anche sotto l’influsso e del modello multiculturalista che vige negli Usa e in Gran Bretagna e dell’idea, peculiarmente statunitense, di una totale libertà di espressione, quella prevista dal Primo Emendamento, debitamente “calmierata” dall’osservanza del politically correct e delle leggi contro gli hate speech.
La tendenza a parlare di “razzismo” tout court ha inoltre contagiato nelle settimane passate la stragrande maggioranza delle realtà politiche e culturali di sinistra e di estrema sinistra inglesi e statunitensi, in una sorta di rovesciamento di quanto avvenuto in Francia. Se, come si è visto, la gauche e l’extreme gauche hanno dimostrato in questa circostanza di avere serie difficoltà a sottrarsi alla retorica laico-repubblicana e al clima da union sacrée, i vari partitini “extraparlamentari” della sinistra anglosassone (a partire dal britannico Socialist Workers Party) si mostravano subito inclini nelle loro prese di posizione pubbliche a calcare la mano contro Charlie Hebdo, menzionando solo di sfuggita l’attentato. Jacobin Magazine, la bella rivista creata da alcuni giovani leftists statunitensi che da qualche anno è ormai sulla cresta dell’onda, ha pubblicato lo stesso giorno dell’attentato un articolo firmato dall’intellettuale marxista Richard Seymour che definiva Charlie “a racist publication”, rimandando coloro che non ne fossero ancora convinti alla lettura di Edward Said.
Confesso di non aver letto Said, e cercherò di rimediare. Tuttavia, ritengo che l’uso di una categoria così fortemente connotata come quella del razzismo non aiuti molto a comprendere la vera natura di Charlie e ciò che in essa dovrebbe risultare problematico per una sinistra degna del nome. A tal fine, è necessaria un’analisi accurata del contenuto delle pagine del giornale, cosa che personalmente ho cercato per quanto possibile di fare (mentre c’è chi ostenta volentieri la propria ignoranza in materia dopo aver dispensato giudizi apodittici). La conclusione a cui sono giunto è che le accuse di razzismo non tengono, se per razzismo intendiamo un atteggiamento coscientemente volto a stigmatizzare un gruppo sociale e a sostenerne l’inferiorità in rapporto al resto della società, vale a dire un’intenzione razzista. Vignette fra le più controverse, come quella che ritrae la ministra francese Christiane Taubira nei panni di una scimmia o quella sulle ragazze nigeriane rapite da Boko Haram, sono state spesso citate da diversi organi di informazione di lingua inglese come prova del razzismo di Charlie. In realtà, per quanto personalmente le consideri detestabili e niente affatto divertenti, credo vadano viste in relazione al contesto che le ha prodotte e, per l’appunto, all’intenzione sottostante.
La “caricatura” della ministra venne ad esempio pubblicata in risposta alla sortita di un membro del Front National che aveva, lui, paragonato Taubira, originaria della Guiana francese, a una scimmia, ed aveva come obiettivo polemico innanzitutto lo stesso partito di Marine Le Pen (peraltro preso spesso di mira da Charlie). Scelta editoriale discutibilissima, va da sé, ma non direttamente equiparabile alla pubblicazione di una caricatura a sfondo razzista da parte del settimanale nazista Der Stürmer o di una rivista satirica letta dagli americani wasp negli Stati Uniti del Sud all’epoca delle segregazione razziale. Lo stesso dicasi per la copertina con le schiave sessuali di Boko Haram che gridano, gravide in seguito alle violenze subite (!), “Non toccate i nostri sussidi!”: la trovo francamente disgustosa, ma mi sembra abbastanza chiaro che è più che altro volta ad ironizzare sulla paranoia destrorsa che vede in qualsiasi donna di colore con figli una potenziale “welfare queen”, una “regina del welfare” che vivrebbe alle spalle dello Stato francese.
Detto ciò è altrettanto chiaro che ci troviamo di fronte a un esercizio dell’ironia che procede su una china pericolosa e che, nel suo disprezzo integralista per il politically correct, se pure non risponde a intenzioni esplicitamente razziste finisce di fatto per rinforzare pregiudizi e stereotipi razzisti. A conferma di ciò si potrebbero citare anche altre chicche su “negri” e affini che appaiono francamente raggelanti, tanto più se consideriamo che sono state pubblicate da un giornale “di sinistra” in un paese che ha il passato coloniale che sappiamo.
Anni fa, quando insieme a un caro amico conducevo un programma satirico su una radio locale romana, ebbi modo di confrontarmi in prima persona con i problemi etici connessi col mestiere di far ridere la gente. Una specie di rassegna stampa settimanale ci offriva il pretesto per ironie varie, tormentoni e battute. Eravamo ben lungi dall’essere dei professionisti, lo stile era casareccio, la preparazione prima di andare in onda minima e spesso limitata alla scelta dei materiali e degli interludi musicali, eppure ricordo perfettamente come più di una volta mi dovetti porre il problema del messaggio che avrei veicolato facendo una certa battuta. Non solo: in maniera anche più radicale, dovetti interrogarmi su quanto fosse lecito o meno ironizzare in assoluto su determinati argomenti. Con buona pace di Charlie, penso ancora oggi che fare satira comporti una responsabilità e che il fatto di sparare a zero indifferentemente su tutti non sia sufficiente, di per sé, ad eliminare il problema.

Veniamo quindi proprio all’idea per cui i redattori del giornale sarebbero stati degli equal opportunity offenders, equanimemente schierati contro tutte le religioni e soprattutto contro le loro manifestazioni più integraliste. Non credo si allontani troppo dalla verità, almeno per quanto riguarda cristianesimo, ebraismo e islam, tutti e tre presi di mira dal giornale. Com’è pure abbastanza vero che, se limitiamo lo sguardo alle vignette, la tendenza che emerge in linea di massima è quella a prendere per i fondelli le religioni in quanto tali più che i gruppi sociali associabili alla tal fede religiosa. La distinzione non è di poco conto: c’è differenza fra prendersela con Maometto pubblicando le famose vignette e prendersela con i musulmani (soprattutto se nel paese in cui usciamo in edicola quest’ultimi sono una minoranza che non se la passa poi benissimo), ed è diverso usare la caricatura di un barbuto dai tratti mediorientali e il naso adunco per significare un fondamentalista (cosa che si evince in genere dal testo e dal contesto) o per veicolare semplicemente lo stereotipo del musulmano.
Anche qui, tuttavia, il rischio di scivolare nella stigmatizzazione e nell’alimentazione del pregiudizio è sempre dietro l’angolo, come dimostrano alcune immagini che stereotipate lo sono eccome, basti pensare a quelle delle donne musulmane velate sottomesse e sgobbone in balia di un marito fannullone e maschilista (scenari e fantasmi, dicevamo…), o altre che suggeriscono un’associazione automatica fra islam/barbuti da un lato e spose bambine o mogli in saldo dall’altro. Perché non rappresentare allora l’Italiano con la coppola e la lupara, il mandolino e i baffi neri, la canottiera macchiata di sugo e la moglie vestita di nero che lava i piatti sullo sfondo? E perché non tratteggiare la figura dell’Ebreo con tanto di naso adunco e barbetta, intento a maneggiare soldi o a manovrare nell’ombra le sue pedine collocate nel sistema politico, mediatico e giudiziario?
Ateismo e guerra al terrore
In realtà, Charlie Hebdo ha mostrato di aver ben chiaro il concetto di stereotipo quando si è trattato di licenziare su due piedi Siné, lo storico collaboratore del giornale accusato di aver scritto un articolo in cui la presunta conversione all’ebraismo del figlio dell’allora presidente Nicolas Sarkozy, da poco convolato a nozze con la ricca ereditiera ebrea Jessica Sebaoun-Darty, veniva commentata con le parole “Farà strada, il ragazzo!”. “L’iter giudiziario” ha scritto su questo sito Jamila Mascat “avrebbe scagionato Siné e condannato Charlie a risarcirlo cospicuamente, ma intanto un gesto del genere, da parte di un giornale che si è sempre vantato di cantarle a tutti e non risparmiarle a nessuno, avrebbe suscitato più di qualche reazione sgomenta in redazione e fuori”. La decisione di silurare Siné venne presa dal direttore dell’epoca, Philippe Val, in seguito nominato da Sarkozy al vertice di France Inter, una delle maggiori radio pubbliche francesi.
Val (che da direttore dell’emittente avrebbe poi accusato Edward Snowden, la “talpa” dello scandalo Nsa, di essere un traditore della democrazia) rimase alla guida di Charlie Hebdo dal 1992 al 2009, ed è a lui che si deve la deriva parzialmente islamofoba del giornale verificatasi negli anni Duemila. Poiché da più parti si contesta l’uso di tale concetto sostenendo che è privo di significato o, peggio, indice di un atteggiamento pregiudizialmente favorevole all’islam (o anche paternalisticamente incline a risparmiarlo da ogni critica in quanto “religione degli oppressi”), tenderei a definirlo nel seguente modo: l’“islamofobia” è la costruzione sistematica dello spauracchio dell’islam prestantesi al clima da scontro di civiltà seguito all’11 settembre 2001 e funzionale alle campagne militari imperialiste successive. Esempio abbastanza paradigmatico di un atteggiamento islamofobo originato da un’attenzione esclusiva al tema della laicità nel quadro di un ateismo astratto è ad esempio quello di Christopher Hitchens, l’intellettuale britannico esponente del movimento dei new atheists deceduto nel 2011 e già sostenitore, in nome della critica antireligiosa, delle imprese militari di Bush jr. in Afghanistan e in Iraq. Con riferimento all’Italia si potrebbe invece citare il caso di Oriana Fallaci che, se pure arrivò a definirsi nell’ultima parte della sua vita un’“atea-cristiana” e un’ammiratrice di Benedetto XVI proprio in funzione filoccidentale e anti-islam, seguì una traiettoria simile a quella di Hitchens dopo l’11 settembre.
Ed è proprio alla Fallaci che rendeva omaggio nel 2002 dalle colonne di Charlie il filosofo Robert Misrahi. Erano gli anni immediatamente successivi alla carneficina delle torri gemelle, anni che videro almeno una parte della redazione del settimanale, a partire dal direttore e da alcune firme di punta come la giornalista Caroline Fourest, spostarsi su posizioni sempre più inclini ad accettare l’idea dello scontro di civiltà, così essenziale alla legittimazione ideologica della war on terror che muoveva allora i suoi primi passi. Diversi esempi di tale deriva potrebbero essere citati, tutti ricavabili dalle prese di posizione serie del giornale: dal furioso attacco di Val a Noam Chomsky, colpevole di essere “un americano che odia l’America”, alla pubblicazione, in piene campagne militari d’Iraq e Afghanistan, del Manifesto dei dodici, firmato da Val insieme a Bernard-Henri Lévy e Ayaan Irsi Ali e diretto contro la “nuova minaccia globale di tipo totalitario” rappresentata dall’islamismo, per finire con editoriali come quello vergato dal direttore nel 2006, nei giorni dell’offensiva israeliana in Libano: “Se prendiamo in mano una carta geografica del mondo e ci spostiamo verso est, osserviamo che al di là delle frontiere dell’Europa, e cioè della Grecia, il mondo democratico finisce. Troviamo solo un piccolo coriandolo nel Medio Oriente: lo stato di Israele. Dopo di che, più nulla fino al Giappone. […] Fra Tel Aviv e Tokyo regnano poteri arbitrari che hanno un unico modo per rimanere a galla, quello di tenere in vita, fra popolazioni all’80% analfabete, un odio selvaggio nei confronti dell’Occidente, per via del fatto che esso si compone di democrazie”.
Insomma, il problema non sono le vignette su Maometto o sull’islam. Lo sono forse un po’ di più quelle che, consapevolmente o no, finiscono per veicolare fastidiosi stereotipi. Ciò che dovrebbe invece realmente fare difficoltà, soprattutto a sinistra, è l’aver sacrificato sull’altare della laicità tutto il resto, trasformando così la battaglia atea e anticlericale in una linea politica “permeabile al sionismo” (l’espressione è di Jean-Patrick Clech), orfana di un’analisi di classe, totalmente dimentica della nozione di imperialismo e in ultima analisi incline a far propria l’idea di uno scontro in atto fra “civiltà” e barbarie. Il tutto è avvenuto all’ombra delle credenziali gauchiste del giornale, considerate come immunizzanti rispetto a qualsiasi tipo di critica, una sorta di lasciapassare utilizzabile all’occorrenza. In realtà, che alcuni dei membri della redazione di Charlie Hebdo fossero vicini a organizzazioni politiche della sinistra radicale francese (ai funerali di Charb l’orazione funebre è stata tenuta da Mélenchon in persona) non significa granché. Anzi, come si è già detto, suona piuttosto come una conferma dell’orizzonte “tricolore” e repubblicano entro il quale si muoveva da più di un decennio il giornale.

Le belle bandiere
Noi-Loro. Fantasmi. O anche “totem”, come ha scritto recentemente Alain Badiou. In quella che il filosofo definisce una guerra delle identità “la Francia tenta di distinguersi tramite un totem di sua invenzione: la ‘Repubblica democratica e laica’, o ‘il patto repubblicano’”. Tale totem serve a valorizzare, secondo Badiou, l’“ordine costituito parlamentare francese”, avendo svolto questa funzione sin dal momento della sua fondazione: “il massacro di 20.000 operai nelle strade di Parigi avvenuto nel 1871 ad opera degli Adolphe Thiers, dei Jules Ferry, dei Jules Favre e di altre star della sinistra ‘repubblicana’”.
“Questo ‘patto repubblicano’, al quale hanno aderito anche alcuni ex gauchisti, fra i quali quelli di Charlie Hebdo, ha sempre sospettato che si tramassero cose spaventose nei quartieri popolari, nelle fabbriche e negli oscuri bistrot di periferia”. “La Repubblica”, prosegue il filosofo “ha sempre riempito le proprie prigioni di giovani sospetti che in quei quartieri abitavano, utilizzando a tal fine i pretesti più vari. Si è anche, la Repubblica, resa autrice di diversi massacri e dell’istituzione di nuove forme di schiavitù necessarie al mantenimento dell’ordine nell’impero coloniale. […] Si dà il caso che attualmente una gran quantità di giovani che abitano in periferia, oltre ad essere dediti ad attività losche e ad essere poco istruiti, abbiano dei genitori proletari di origine africana, o siano essi stessi venuti dall’Africa per poter sopravvivere e che, conseguentemente, siano spesso di religione musulmana. Sono quindi ad un tempo proletari e colonizzati. Due motivi per guardarli con sospetto e per renderli oggetto di serie misure repressive”.
A partire dal 1905, anno di introduzione nell’ordinamento francese della loi de séparation des Églises et de l’État, il totem repubblicano individua nella laicità delle istituzioni pubbliche uno dei suoi elementi costitutivi. Nulla di sbagliato, anzi, ma l’uso che della laicità fa da qualche decennio a questa parte la République appare quanto meno intrecciato con le contraddizioni sociali innescate nella madre patria dalla smobilitazione dell’impero coloniale e dai flussi migratori ad essa connessi. Contraddizioni che arrivano a piena maturazione negli anni Ottanta e di cui le prime rivolte delle banlieues, che vedono protagonista un’intera generazione di giovani musulmani nati in Francia e cresciuti da apolidi de facto, sono la spia allarmante. È la generazione che, come il protagonista di Arabico, il fumetto del disegnatore franco-algerino Halim Mahmoudi, si pone domande circa la propria identità senza riuscire a darsi una risposta: “arabi” in Francia (anche quando formalmente cittadini francesi) e stranieri nel proprio paese di origine. In tale contesto, il confine fra la giusta applicazione del principio di laicità e la sua strumentalizzazione da parte dello Stato francese nel quadro della guerra delle identità di cui parla Badiou si fa sempre più labile.
La vicenda della legge contro i simboli religiosi nelle scuole pubbliche approvata dall’Assemblea Nazionale nel 2004 è da questo punto di vista paradigmatica. Non è certo un mistero il fatto che l’idea di una simile normativa, formalmente rivolta contro tutti i simboli religiosi appariscenti, sia nata in realtà soprattutto con la finalità di proibire l’uso del velo da parte delle allieve di religione islamica. Sostenuta a destra e a sinistra (compattamente dal Partito Socialista e con qualche mal di pancia in più dal Pcf) in quanto legge “femminista” e volta a scoraggiare derive identitarie e comunitariste, a più di dieci anni dalla sua introduzione la sua efficacia in tal senso è ancora fortemente in discussione. Più plausibile è che essa abbia invece contribuito ad esasperare la polarizzazione identitaria, verosimilmente anche nelle ragazze che ha inteso liberare e che, piaccia o no, oltre che donne si sentono magari anche musulmane e membri della propria comunità di origine.
Che anche la sinistra di matrice socialista e comunista abbia, con buona pace di Élisabeth Badinter che afferma il contrario, perso la bussola fuorviata dal proprio lealismo nei confronti delle istituzioni laico-repubblicane dovrebbe far riflettere. In realtà, già quasi trent’anni prima di quel 1871 in cui le strade di Parigi si macchiavano del rosso del sangue dei comunardi, il Marx della Questione ebraica faceva notare come la religione non costituisse “il fondamento”, ma “soltanto il fenomeno della limitatezza mondana”. “Per questo” proseguiva il giovane pensatore, “noi spieghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pregiudizio mondano. Non riteniamo che essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti mondani. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti mondani”. Nel polemizzare quindi con Bauer e con la sua idea di Stato laico figlia di una critica astratta della religione incapace di spingersi oltre il terreno non pratico delle idee, Marx era senz’altro disposto a concedere che “nella sua forma, nel modo proprio della sua essenza, in quanto Stato, lo Stato si emancipa dalla religione emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come Stato non professa religione alcuna, quando lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato”, ma aggiungeva anche: “L’emancipazione politica dalla religione non è l’emancipazione compiuta, senza contraddizioni, dalla religione, perché l’emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell’emancipazione umana”. O anche: “La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana”.
Quindi: che fare? Può il patrimonio di idee della sinistra e del movimento operaio esserci d’aiuto al fine di liberarci da scenari e fantasmi o siamo invece destinati a soccombere ad essi? L’emancipazione politica che si dà entro lo Stato democratico-borghese, anche uno Stato più avanzato del nostro come quello francese, è un punto d’arrivo finale e indiscutibile o va piuttosto considerata un punto di partenza, immersa com’è in un universo di rapporti sociali nel quale l’“emancipazione umana” di cui parla Marx è di là da venire? Una cosa è certa: se vogliamo porci seriamente queste domande dobbiamo anche cominciare a fare lo sforzo di distinguere, cercando di capire sotto quali bandiere vogliamo sfilare. “C’era un tempo” scrive sempre Badiou, “nel quale in Francia si tenevano due tipi di manifestazioni: quelle con le bandiere rosse e quelle con le bandiere tricolore. Credetemi: anche al fine di annientare le bande fasciste e assassine, tanto quelle che si rifanno alle versioni più settarie della religione musulmana quanto quelle che invocano l’identità nazionale francese o la superiorità dell’Occidente, non sarà il tricolore, imposto e utilizzato dai nostri padroni, ad esserci d’aiuto. Sono le bandiere rosse, piuttosto, a dover tornare”. Scegliendo con discernimento in che piazze stare e accanto a chi lottare potremo senz’altro anche dedicarci alla critica della religione, tenendo sempre presente che essa è “in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola”.
Installazione | Performance | Suoni | Visioni
Site specific | Rialto Sant’Ambrogio, Roma | 22/02/2015 – dalle ore 19
a cura di Fabio Orecchini
°
di casa in casa, a stanare a far mambassa hanno mannaie
e tubi col gas, per amnesie ordinarie, manuali di rito ortodossi al
martirio di anime hanno l’anima, l’anonimato li preserva
sono abili, abilitati al male pre-ordinato, sono morfine mordono
i polsi le caviglie vene in combustione sono muta di cani
leccano i crani ancora aperti, le ferite dei colpevoli
parti adunche sbavando di sorrisi e suppliche
un, enzima del tempo rovinando decortica
[donando nuova vita
proprio ora che mi sbrani]
°
L’atto poetico come funzione_finzione rammemorante, oscillazione e scarto che apre al senso del presente, contagiato_ricontamina il passato, nella forma aporetica del dialogo mancante -inutile dire, inutile non dire- omesso il vero, il verso: come porsi nell’abisso_l’epicentro, tracciare un nesso, col mondo della realtà superstite, la memoria estromessa: tenere a mente non occorre, cosa occorre ? ricucire la frattura, lo iato tra rimozione e rigenerazione, tra scrittura e storia, la faglia emersa della gola: spalancare la bocca, seppur l’ultima, inseppellibile che slarga, rantola, si fagocita nel dirsi: sondare i buchi con l’orecchio, le porte di legno, toccare con mano la ferita, che rimargina e riapre, essere un tramite tremante, voce trapassata, che trapassa, occultata traccia del remoto, della terra il moto : l’Aquila estinta, la città che sprofonda nel giorno, infinito tendere e tenere di mani, con mani, questo scavare, continuo come di cani, in un infinito presente.
Il Rialto immaginato come paesaggio/passaggio [ visivo/semantico/sonoro ] di rimemorazione che sedimenta_si dimentica, sequenza di bocche per voci mancanti, allegoria dell’odierno luogo “comune”: il nostro tempo, che non da scampo, e come un forcipe attrae_sottrae vita, verità e vita. (fo)
°
Artisti coinvolti :
Fabio Orecchini/poeta, ideazione e cura | Kate Louise Samuels/performer | Pane/musiche e voce Marco Vitale/video | Alessandro Morino/artista
°
a seguire – dalle ore 21:00
Pane [Live Acustico]
Claudio Orlandi/voce
Vito Andrea Arcomano/chitarra acustica
Claudio Madaudo/flauto traverso
Pane, folk impregnato di radici jazz, colta, etnica e palpabili impronte progressive. Un folk-rock prima del rock, acustico ma scosso da un’energia che presagisce elettricità, il lirismo che si nutre di inquietudini antiche come base e sfondo di una crisi contemporanea; ogni brano un atto di questa tragicommedia umana troppo umana appesa al filo della voce vibrante e stentorea di Claudio Orlandi, interprete dalla vasta e furibonda sensibilità che diresti discendere in qualche modo dalle evoluzioni terrigne e febbricitanti d’un Demetrio Stratos e di Tim Buckley.
°
fa parte di
Giardini d’Inverno 015
poesia contemporanea riconnessa [ritrasmessa] relata
a cura di Ivan Schiavone
di Francesco Clemente
Un gomitolo di vicende che si dipanano fra intimismo profondo e turbinosa peregrinazione geografica è il nocciolo ossuto del nuovo cimento narrativo di Andrea Melone, che con il suo Strategia delle ombre (2014) rinnova il connubio editoriale con l’editore Gaffi di Roma. Questo nuovo romanzo segue quei Giardini di loto del 2010, nei confronti del quale dimostra di possedere una certa affinità, intuibile nell’impianto narrativo. Tuttavia, mentre nell’opera di quattro anni fa Melone offriva al pubblico un plot in cui il protagonista si affannava nella ricerca del misterioso musicista Friedrich Thomas Ashkenazy in lungo e in largo per il nord e l’est dell’Europa, adesso, in queste nuove pagine, il protagonista non insegue nessuno, ma avviene il contrario: s’invita il lettore a braccarlo, alla ricerca dei motivi profondi che lo spingono continuamente a fuggire da una città all’altra. Melone appare come uno scrittore “poco italiano”, predilige atmosfere psicologiche scandinave, abbandona qualsiasi indulgenza verso l’immediatezza esemplificata, l’edulcorazione di maniera, lo smussamento degli angoli esistenziali per far deglutire l’indigeribile.
di Daniele Ventre
3. Opinion-makers
in fondo siamo tutti opinionisti ci facciamo opinioni
opiniamo davvero opinabile è tutto anche la morte
anche la vita opinabile è tutto anche l’aria anche l’acqua
opinabile è anche la legittimità dell’opinione
il diritto a opinare opiniamo su tutto purché sia
opinata perfino l’opinabilità dell’illegittimo
e di ciò che è legittimo opinare inventiamo perfino
la figura opinante del fascista opinoso e dubitoso
il fascista del dubbio per cui si è nati colpa d’opinione
il fascista opinoso e liquido che poi non c’è ragione
opinioni le cose perfino il sasso che ti rompe il naso
opinione anche il colpo di fucile verità solo il grido
di chi siede più in alto nella cattedra e sa insultarti meglio
bambina mia bambino mio perché non sèi alto abbastanza
e tu sai che i papaveri dell’oppio dei popoli son alti
alti alti alti alti e la tua opinioncina piccola no non conta
specie se sèi l’agnello a pie’ di fonte con il lupo sul monte
in fondo siamo tutti opinionisti opinione anche il lupo
opinione l’agnello opinione anche il caldo il freddo e il dolce
e l’amaro ma vero solo il vuoto di mente e le opinioni
atomiche se è vero che il mondo è collezione d’opinioni
meglio se espresse solo per insulto meglio se poi morbose
della morbilità dell’opinione di vagina o di verga
meglio se un po’ curiose maliziose meglio ancora ominose
d’ominazioni e disominazioni d’omuncoli e d’omini
e domini e strutture a dominante troni dominazioni
da omarini di carta e d’accademia da paranoici anziani
attenti a non usare le parole che usano anche loro
perché è quella la lingua che si parla se no poi anche i microbi
se solo adorni di pubblicazione sia pur in condominio
nel loro piccolo hanno poi materia di inventarsi una rabbia
una rabbia che poi si fa opinione una rabbia qualunque
che poi si fa opinione per la rabbia d’opinare comunque
su chiunque si opini l’opinabile come l’inopinabile
così che per finire non ci resta altro che l’opinione
implausibile senza più criterio d’essere o verità
senza definizione d’essere o verità segno segnato
dalla mancanza di significato di significazione
la civiltà dell’insignificanza fatta ormai d’opinione
opinione incarnata e poi disincarnata per ragione
di chiacchiera che poi vale per sé non si può confutare
d’argomento o ragione perché noi non s’ha più che l’opinione
e l’opinione di comunicare e di comunicarsi
di pensare al da farsi avendo l’accortezza di opinare
anche se dietro l’opinione in tanto non esistono fatti
non esistono dati anche se dietro il tuo comunicare
così comunicato e comunicativo per tuoi vasi
comunicanti il vas dell’elezione o del colpo di stato
mediatico per mezzo d’opinione in mezzo al vuoto statico
non esiste più nulla da opinare né da comunicare
non resta che la febbre in cui mi rodo e mi detta ragioni
febbrili non rimane che la furia e la termodinamica
del tuo corpo alterata dalla febbre opinione anche il caldo
opinione anche il freddo anche l’ipotermia da antipiretico
opinione anche gli atomi che siamo isolati nel giorno
senza giudizio opinione la storia che non mette giudizio
e difficile è poi che si riesca a cambiare opinione
se dietro l’opinione non c’è nulla da obbiettare davvero
che dietro l’opinione non c’è nulla e al nulla non si obbietta
se l’obbiettivo è il nulla e non si vede nulla in obbiettivo
* * *
2. Le goût nouveau
in fondo è veramente molto facile seguire ciò che è male
e di cattivo gusto poiché in genere la stupidità è facile
l’intelligenza e la bontà difficile i buoni sono falsi
difficile capire ciò che è bello al tempo della plastica
che copre i monumenti e i monumenti in fondo se li scorda
chi c’è davanti tutti i giorni in fondo scordate il paesaggio
perché il cemento l’ha coperto in fondo scordate anche le nuvole
perché le piogge sono inacidite come vecchie zitelle
e sono spesso sterili scordate i monumenti in fondo
quei monumenti sono noiosi tutta quella geometria
ma avete il postmoderno e il postmoderno ci va bene tutto
e col postdemoderno potete fare tutto che ci costa
ci costa solo un po’ di civiltà quel poco che rimane
della decenza a stento accumulata in secoli di sangue
perché a guardare bene d’una certa politica hanno colpa
gli amorfi che non sanno mettere in riga i contorni d’un volto
hanno bisogno di sponsor potenti che gli va bene tutto
e di tifoserie e di segnalazioni a buon mercato
e parentele e consanguineità e tutta la catena
tirata alle privadi del potere e ben inscatolata
e chiamano poi questo denuncia dell’artista ripetibile
e inscatolano merda e merda si produce dalla merda
inscatolata perché poi gli sciocchi credevano che al tempo
delle statue di marmo si vivesse nell’eden della storia
e invece le città traboccavano fogne a cielo aperto
e non era che sangue e patiboli e fuoco nei villaggi
braccia e gambe segate dai boia dei soldati di ventura
e stermini di massa e guerre di cent’anni e di trent’anni
e non è poi che intorno al Partenone si campasse da dio
anche l’effigie crisoelefantina che funge da tesoro
è fiorita fra il tifo petecchiale e le stragi di Melo
in fondo è veramente molto facile seguire ciò che è male
ed estenuare il gusto e venerare la plastica che copre
i monumenti e dura mezzo secondo in un mondo che dura
mezzo minuto il tempo di espellere la merda dell’artista
giusto il tempo che basta a premere un pulsante dentro un silo
e sì potrete dirmi meglio forse la merda inscatolata
fra le città ordinate che il Partenone fra il tifo e le stragi
si potrebbe pensare che abbia senso non fosse il controsenso
che le città ordinate e le democrazie restano figlie
del Partenone ma non so che figli possa avere nel tempo
dal declino la merda inscatolata e le città ordinate
di scuole semichiuse di ospedali che funzionano male
e di amministrazioni un po’ colluse per mafia-capitale
e capitale mafioso non sono dopotutto ordinate
come si crederebbe a prima vista e la merda rimane
inscatolata e ben confezionata e ben convenzionata
e ben convenzionale e finanziata e la merda servita
a chi e da chi lo si vede in un vecchio film della neoavanguardia
e nel suo paradigma letterario che l’uomo si consuma
e nei muffin di Ikea e nei piattini del cinese all’angolo
e per tutta l’Eurasia e l’immondizia che è isola in oceano
e nel frattempo però fra le stragi non ci cresce nemmeno
il Partenone ma solo le buone confezioni di merda
che sembra quasi non si dica d’altro né si conosca d’altro
che il rifiuto l’organico rifiuto d’ogni corpo e futuro
è facile del resto ritirarsi a meditare in cesso
e stiano i malebranche un poco in cesso che ne verranno sette
che ne verranno sètte e i settari e i serpenti e gli altri sciocchi
si appagheranno di quest’acqua reflua percolati coi fiocchi
finché da un’arte d’amorfo risorga la frusta coi suoi schiocchi
* * *
3. Scuole
congrega delle suore fantaccine del sacro parapiglia
per insegnare nelle scuole pie si deve essere pii
ma per gestirle tante scuole pie si deve essere spie
del tempo del degrado e della crisi e delle sue gramaglie
per vasto piglia-piglia ci trovi pie suorine fantaccine
in via dell’evangelo pascalino del sangiovanni bleso
dove la vecchia musica si intona al nuovo contratto capestro
ut queant laxis resonare fibris ti pagheremo ex libris
libri truccati ai conti mira gestorum famuli tuorum
a un quarto della busta solve polluti labii reatum
sancte johannes pagarli è reato pagarli troppo quanto
serve a mangiare pagare bollette riempire mezzecalze
di befane che è poi quello che siamo suorine fantaccine
è più importante pro sanctus johannes e lascio stare i santi
e tasso sempre i fanti e le fantesche e poi le maestrine
quelle da malpagare maltrattare quelle da malpalpare
quelle da licenziare da tagliare di cattedra e lavagna
che vengono da noi e le paghiamo poco o meglio niente
che insegniamo da sempre la carità cristiana da schiodare
cristi e madonne per le blasfemie del sacro parapiglia
della sacra famiglia beata me che poi chi mi si piglia
beata te maestrina che ci servi da serva e non ti piglia
lo Stato ademocratico che noi l’abbiamo ademocratizzato
noi suore fantaccini e noi papi e papini e padri e madri
e sorelle e la grande famiglia che noi siamo di cristiana
immanità congrega delle sacre di paese le sagre
del Paese dei furbi e delle suore è questo il compromesso
il compromesso storico che serve a darvi l’ignoranza
la beata ignoranza dei beati l’ignoranza che è forza
che regna il bispensiero ma non era però da comunisti
questo lavoro ma da banche e banchi dell’università
e della chiesa e delle fantaccine e delle società
nostre inegualitarie e per deprivazioni identitarie
e delle loro scuole e scolette private o paritarie
che sempre venne quello papa sancto nel sacro parlamento
parlamentò di parità di scuola universis plaudentibus
universis gaudentibus trovata la formula che forma
la formazione deforme e conforme degli informi ignoranti
manipolati per informazione la disinformazione
pura e semplice è roba da totalitarietti dilettanti
da siparietti e guitti recitanti con la feluca in capo
e lo sanno le suore fantaccine del sacro parapiglia
che ti pagano a un quarto della paga le caste maestrine
con la cintura di metallo stretta sotto il tailleur dimesso
perché non accettiamo conviventi o coppie non conformi
alla cristiana immanità di nostra empia inumana chiesa
perché serviamo dio danaro e nostra signora delle paghe
ridotte a un quarto per nostro imponibile e rivediamo i conti
in nero come l’abito delle nostre suorine fantaccine
mandiamo avanti il sacro parapiglia con le nostre bugie
con le nostre asofie coi nostri conti santamente truccati
moltiplichiamo sempre i pani e i pesci però le paghe a un quarto
perché siamo cattolici sapete si prega e si lavora
si prega e si lavora il lavoro è preghiera e non vorrete
essere poi pagati per pregare i poveri dovranno
fare ai ricchi elemosine infinite per tante iniziative
caritative e non caritative è questo il compromesso
il compromesso isterico che serve a darvi la speranza
e a toglierla di nuovo da mihi animas cetera tolle
cetera tolle tolle lo stipendio ma adde il vilipendio
arte che non si vende è vilipesa non ne franca la spesa
e le nostre suorine fantaccine del sacro parapiglia
di spese ne hanno tante s’ha da allestire il presepe morente
del dio morente che non è già morto e non sarà risorto
perché gli dèi non muoiono per chiodi e croce non per fuoco e ferro
ipocrisia ci serve per uccidere un dio come si deve
e falsità e tortura per uccidere un dio come si vede
nella storia infinita finita a volontà di Fukuyama
che non abbiamo letto noi suore fantaccine non leggiamo
altro che il libro truccato dei conti e te lo ritrucchiamo
non potendo truccarci noialtre per il voto d’umiltà
d’umiliazione che infliggiamo ad altri umiliando noi stesse
nell’umiliare quelle maestrine le caste maestrine
che volevano streghe tizzoncine da roghi avere paghe
per lavorare chiedere una paga per chi lavora-prega
è contra ecclesiam pravitate eretica da tizzoni da rogo
perché pregare è lavoro e il lavoro è preghiera è la regola
della congrega delle fantaccine del sacro piglia-piglia
e non credete che per la faccenda del papa di facciata
che ci ridona orgoglio e bergoglio la messa sia cantata
in altra nota che non sia la vecchia infine lo spettacolo
è lo stesso non cambiano i contorni l’abuso di miracolo
è da sempre lo stesso e non ci cambia soluzione al contorno
e perfino ripeterlo è banale è banale ridirlo
è banale riscriverlo le nenie dei vecchi mangiapreti
è materia banale la salmodia dell’anticlericale
anticlerico errante non è al passo coi tempi e coi post-tempi
perché avete imparato a credere di credere e a pensare
di pensare però nessuno pensa che poi le maestrine
licenziate ti sporgono denuncia che hanno la pretesa
di farsi parte civile in contesa per causa di lavoro
come se poi il lavoro fosse ancora compreso in questa causa
inefficiente dell’economia ma noi siamo cattolici
e non paghiamo che a un quarto di paga o meglio ancora niente
e mandiamo finite locazioni la notte di natale
così vedrete le sacre famiglie aggirarsi per strada
perché l’affitto si paga è la legge della nostra congrega
di preti fantaccini di suore fantaccine e il piglia piglia
angele stelle gemme del carmelo madonnine infilzate
non da quel che vorrebbero resta l’affare del pregalavoro
ché arte non si paga e non si vende però si vilipende
sono tutti cattolici e dio ce l’ha mandata questa piaga
con altre due d’oriente e non d’Egitto il sabato non paga
e non paga domenica né il venerdì ma la piaga ci resta
col suo pregalavoro e ricorda santifica la festa
santifica il bonifico per noi e tieniti la paga
ridotta a un quarto o vattene questo passa il convento e questo vento
tira da queste parti in questo tempo che ti rubano il tempo
e non rendono indietro il contrappeso ma solo il contrattempo
dio del tempo è padrone e per ciascuno ti ripaga cento
ma noi l’amministriamo quel che paga noi suore fantaccine
e preti fantaccini del sacro parapiglia essere pii
costa fatica e certo la fatica dovrà pagarsi a modo
in via dell’evangelo pascalino del sangiovanni bleso
ut queant laxis resonare fibris ti pagheremo ex libris
libri truccati ai conti mira gestorum famuli tuorum
a un quarto della busta solve polluti labii reatum
sancte johannes ci cambiano i tempi la musica è la stessa
di quando si era pie da inquisizione da quando si era spie
per gli sgherri di Spagna o di Lamagna per boia o per tenaglie
in laude del mistero gaudioso della fiamma e del capestro

C’è un crinale sottilissimo dunque che merita la nostra attenzione; le parole devono essere maneggiate con cura ma allo stesso tempo vissute, viste, assaporate, ascoltate.
Ecco:
«Fry
Rye
Die
Cry
My
My
My
My
My.»
Un triplo elogio al ritmo, al suono, al cibo. Non è forse questo, farsi trasformare dai fulmini delle parole?
Antonella Anedda.
Esce oggi, per L’orma editore, nella collana fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa, Arrenditi Dorothy!, il nuovo libro di Marilena Renda. Ne proponiamo qui di seguito un estratto.

di Francesco Borrasso
C’è un luogo dove le cose assumono forme straniere. Questo luogo è un evento, il ricordo di un addio che non sono riuscito a bruciare; come una foto piantata davanti agli occhi, è la zona dalla quale non sono stato di capace di evadere.
Una parte di me ha cominciato a pretendere una scissione, è stata messa in dubbio la mia unicità, il mio fisico è venuto a conoscenza dello scontro contro se stesso; ho imparato l’odio per un movimento, la rabbia per un atteggiamento, la collera è diventata presenza naturale, frustate veloci verso l’atro io, sacrificato nella sottrazione. È stato facile non muovermi da quel luogo, è stato naturale restare nella sofferenza, perché il dolore è una terra fertile, ti ammalia in fretta, ti stordisce il corpo con la continuità, vince sul tempo. Il mio uno diviso, in conflitto, assomigliava ad una battaglia tra due guerrieri della stessa armata, che si conoscono alla perfezione, che si annullano continuamente.
Come fai a credere che una persona possa non esserci più? Possa smettere la sua solidità perdendo materia? In quale parte della testa bisogna andare a cercare l’accettazione?
I primi giorni avevo un viso teso, la pelle livida, i muscoli in coma, le braccia dure, le guance bianche; non piangevo. Le lacrime sono arrivate successivamente, sono state la sua presenza che cercava di emigrare dal mio corpo. La parte mia disubbidiente ha perduto la memoria, ha codificato il linguaggio delle emozioni, trafugandolo, nascondendolo. Mi ha fatto svenire per la paura, tremare per la rabbia, ha spinto le mani contro il petto ingolfandomi i polmoni, ha annullato le mie convinzioni.
Non sarei mai stato preparato a trovare questo posto vuoto vicino al mio fianco; forse, con un po’ di allenamento, sarei riuscito almeno ad usare il pensiero come palliativo.
Un giorno sono stato costretto ad arretrare, arrestare la corsa verso l’autodistruzione; un obbligo feroce quando ho scrutato i mostri vicino alle mie figure preziose; le lacrime di una madre che non riusciva a dare forma alle parole; la desolazione struggente di una sorella, spogliata dalla protezione, con un fisico crollato e un viso collassato. Sono diventato permeabile al vento, agli umori, alla pioggia; permeabile ai volti, ai loro movimenti. Ho assorbito la stanchezza; la mia pelle ha perso spessore, fino a sparire sotto gli abbracci pieni di domande vicine alla scadenza, risposte cercate a morsi, non trovate, a denti rotti. Ho permesso al dolore degli altri di diventarmi amico, ho permesso al dolore straniero di entrare nel mio stomaco; ne ho subito le conseguenze con un cuore che balzava perdendosi qualche battito, spezzandomi in un terrore che non conosceva padrone.
Cosa rimane di un’assenza quando ammetti materialmente il suo esilio? Abituarmi alla sua mancanza è stato come riabilitare un corpo dopo una stasi durevole e forzata; come aprire le finestre di una casa, sigillate da anni, e trovarle murate. Rendere familiare il suo posto vuoto è stato come provare a nascere nuovamente, ma con il carico di consapevolezze che mi hanno dato tutti questi anni. Quelle notti in cui ho provato ad abbracciare un ricordo ho avvertito le gambe vuote, erano involucri prosciugati, la testa pesante; ho visto oggetti che imitavano la vita vera. Quel ricordo non si poteva toccare, era materia astratta. Tutte la parti di me hanno dovuto imparare una vita nuova: le mani si sono dovute abituare a trovare il vuoto, dopo i sogni in cui si era fatto presenza; gli occhi hanno dovuto accettare che non c’era più niente su quella sedia, su quel letto, su quel divano; le bestemmie sono dovute diventare silenziose, a bocca chiusa, per non disturbare la fede degli altri; le lacrime sono diventate fredde, i giorni di festa, nascosti dai sorrisi per forza. Cosa ha pensato nell’ultimo istante? A lui o a me? Che non voleva morire? Oppure a come io, noi, avremmo fatto senza la sua presenza? La forza del lutto è un oggetto meccanico che ti si aggancia alle membra, se non c’è rigetto, puoi andare avanti, avvertendo per sempre un corpo estraneo che fa peso; altrimenti spegni la luce, e decidi di restare al buio, di provare in anticipo a stare in mezzo ai morti.
Dopo tutti gli abbracci: quando piangevo per le sciocchezze, quando mi spiegava come si vive; dopo i contatti della pelle, della mani, le mie piccine dentro le sue, grandi, che facevano protezione; dopo tutte le grida, le delusioni, autonome o inflitte; dopo i sogni messi in condivisione, raccontati; dopo tutto, non resta niente; se non la mia vita che trascina ostinata la sua assenza.
Ho dovuto correggere e modificare tutte le mie parti, perché convivevo con un segnale che mi scattava dentro continuamente, un allarme fasullo, che raccontava al mio corpo un pericolo che non c’era; un pericolo fantasma che non smetteva di farmi paura; che non finisce, mai.
* foto: mariasole ariot
di Helena Janeczek

Denegazione (ted. Verneinung) In psicanalisi, il procedimento usato dal soggetto per impedirsi di riconoscere un desiderio che invece ha prima affermato; S. Freud vi scorgeva l’affermazione difensiva del rimosso. (Enciclopedia Treccani)
Nevicava stamattina a Salonicco,
la prima neve, non destinata a durare;
mentre il tempo meteorologico
nel resto dell’Europa è nella media: freddo
di Giacomo Verri
Nel Ritratto di giovane donna (2008) di Giorgio Magister, la dama ha i capelli raccolti da una fettuccia nera, il caschetto, le labbra e il naso rilevati, lo sguardo egizio, il collo lungo su spalle strette che s’aprono in un seno ampio, un libricino tra le dita. A sinistra, sulla tela, un insetto, forse una piccola libellula. La bestiola, da sola, toglie equilibrio alla figura, storna l’attenzione di chi osserva. Infastidisce. Quasi come una mosca. La donna del ritratto riesce a ignorarla, sì, ma ancora per quanto?
Un’intervista di Laura Di Corcia a Telmo Pievani
Secondo Leopardi la “natura” è crudele e la teoria evoluzionistica darwiniana non ha fatto che confermare questo sospetto, quello di un grosso meccanismo continuamente stritolante, dove ogni tassello non ha nessun altro interesse se non quello di badare a se stesso, pensare alla propria sopravvivenza. È davvero così? Perché, allora, esiste l’empatia, come mai gli uomini (alcuni fra loro) tendono a far comunità, ad aiutarsi reciprocamente? In parole semplici, l’uomo è un animale individuale o sociale? Abbiamo posto queste domande a Telmo Pievani, filosofo della scienza ed epistemologo, grande conoscitore delle teorie evoluzionistiche che ci ha parlato di nuove frontiere, nello studio della nostra storia di uomini, di una selezione, operata a livello macro-individuale, fra gruppi, che tenderebbe a favorire gli individui cooperativi, a fare in modo che siano proprio loro (in apparente contraddizione con quanto sostenuto da Darwin nel suo L’origine della specie, 1859) a resistere nel tempo come modello vincente.
Parto con una domanda a bruciapelo: Homo sapiens è una specie individuale o sociale?
Non c’è alcun dubbio su questo punto: siamo una specie fortemente sociale. Dobbiamo la nostra fortuna, il successo demografico e quello evolutivo, che ci ha portato fin qua, alla socialità. Il problema è che si tratta di una socialità ambivalente. Non è una socialità che ci fa essere buoni e solidali con tutti. Quello che viene fuori dalle ricerche è che siamo capaci di grande cooperazione all’interno del gruppo in cui ci riconosciamo, ma esiste un rovescio della medaglia, quello che ci porta ad essere sospettosi, e talvolta aggressivi, nei confronti di chi non fa parte del nostro “noi”.
Quindi si creerebbe una sorta di competizione fra gruppi?
Esattamente. In base a quello che sappiamo, Homo sapiens da tantissimo tempo è una specie organizzata in piccoli gruppi, composti da una manciata di nuclei familiari, che formano unità che vanno dai 25 ai 150 individui. Ovviamente, ogni gruppo combatteva per la sopravvivenza, competeva per affermarsi. Quindi si rivelava per il singolo molto vantaggioso fare parte di un gruppo solidale, compatto e coeso al suo interno: le possibilità di sopravvivere, di ottenere risorse e di diffondere i propri caratteri aumentavano proporzionalmente. A questo punto si capisce come sia il gruppo a fare la selezione, operando in direzione di individui maggiormente cooperativi.
Mi spieghi meglio questo punto.
Immaginiamo che all’inizio vi fossero tanti piccoli gruppi, dove sono mescolati individui con atteggiamenti rivolti più verso i propri interessi e altri più tesi alla cooperazione, al benessere della comunità. Cosa hanno potuto verificare gli studiosi? All’inizio nulla di stupefacente: all’interno del gruppo, gli “egoisti” tendono ad aumentare, secondo le previsioni della selezione darwiniana, che privilegia gli individui più abili nel fare i propri interessi singoli. Ma in un secondo momento la situazione tende al ribaltamento: questo perché i gruppi dove prevalgono i generosi e gli altruisti hanno più chance di successo come gruppo. Quindi, se gli egoisti prevalgono numericamente nel corto termine e dentro il gruppo, poi, in virtù della selezione fra gruppi e dell’espansione demografica dei gruppi con più cooperatori, alla fine gli egoisti si ritrovano in minoranza e non prevalgono.
La cattiveria, mi conceda questo termine, c’è sempre, quindi, ma spostata, decentrata dall’io e rivolta al noi.
I termini di bontà e cattiveria non fanno parte del linguaggio degli scienziati. Sono giudizi morali. Quello che la biologia ci dice è qualcosa se vogliamo di un po’ frustrante, ma anche più corretto: noi siamo per natura ambivalenti. Non dobbiamo cercare nella natura se siamo buoni o cattivi. Siamo entrambe le cose. La scelta dipende da noi, dallo scarto umano di innovazione che siamo capaci di produrre. Siamo figli dell’evoluzione biologica, ma anche una specie capace di scrivere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui contenuto è profondamente contro-selettivo. Questo significa una cosa sola, che noi siamo capaci di creare innovazione, di produrre comportamenti inediti rispetto all’evoluzione passata.
L’altruismo sfugge quindi a qualsiasi inquadramento biologico. È un surplus, il figlio illegittimo della natura?
Direi di no. La parola “altruismo”, in natura, vuol dire due cose: c’è l’altruismo con reciprocità, che ti porta a comportarti in modo altruista perché sai che avrai una ricompensa immediata. Le leonesse cacciano in gruppo, è vero, ma perché sono consapevoli del fatto che in questo modo hanno molta più probabilità di raggiungere prede grosse e dunque più cibo in media. L’altra faccia della medaglia è più difficile da spiegare: Homo sapiens – ma anche altre specie di primati, come gli scimpanzé – è capace di comportarsi in modo altruista senza aspettarsi una contropartita, almeno non nell’immediato. La selezione di gruppo fornisce qualche risposta in merito: l’individuo rinuncia in parte ai propri interessi in virtù di un benessere più grande, quello del gruppo, che poi porterà un vantaggio a tutti, compresi i singoli.
Ma come si spiegano quelle utopie che mirano al benessere di tutti i gruppi? Dov’è il nemico in questo caso? Quale pressione esterna li spinge a spendersi per quegli ideali più alti, universali?
L’evoluzione biologica fornisce delle potenzialità, fa sì che siano possibili certi comportamenti. La logica del gruppo spinge l’individuo a rendersi conto che, rinunciando momentaneamente al proprio interesse, può ricavare un vantaggio per il futuro. Poi la specie umana, quando ha interiorizzato un comportamento, tende a generalizzarlo. È quindi possibile che la nostra mente sia capace di pensare a gruppi sempre più grandi. In questi anni siamo stati capaci di concepire la specie umana intera come un soggetto di solidarietà e quindi di dire che siamo tutti esseri umani, titolari di pari diritti e pari dignità. L’attitudine dell’egualitarismo è qualcosa di profondamente radicato in questa logica di gruppo. I gruppi che abbiamo citato all’inizio tendevano a essere egualitari, non ci dovevano essere troppi squilibri di possesso. È stata la rivoluzione agricola a scardinare questo meccanismo, perché ha reso possibile l’accumulo delle risorse e ha cambiato profondamente i rapporti di potere fra i membri del sistema.
Quando parliamo di individui capaci di fare breccia nella fredda logica della vita, che vorrebbe ciascun individuo col naso sprofondato nel suo personalissimo orizzonte di interessi e guadagni, viene in mente anche l’arte, ovvero la capacità, da parte di Homo sapiens, di stupirsi e autocompiacersi della qualità del messaggio usato per comunicare. Anche questo pare aver poco a che fare con la natura spietata e ego-riferita di cui soliamo sempre parlare.
Sì, l’arte fa parte di quelle novità inedite, mai viste prima, che sono comparse in natura con Homo sapiens. Sappiamo anche quando è apparsa nella storia evolutiva: tra i settanta e gli ottantamila anni fa, in Africa, c’è stata una vera e propria rivoluzione culturale che ha portato una sola specie umana tra le diverse presenti a fare una serie di cose strane e apparentemente inspiegabili tutte insieme. È Homo sapiens che inizia a produrre pitture rupestri, oggetti con caratteristiche simboliche, segni regolari con un significato. Per non parlare delle sepolture rituali, degli strumenti musicali, dell’abbellimento del corpo. Il tutto in modo sistematico, non occasionale. Questo è un po’ un mistero oggi, noi non sappiamo dire che cosa sia successo esattamente. La nostra mente ha iniziato a lavorare in maniera diversa, nuova. Sono comportamenti di una specie che non è più dedita soltanto alla mera sopravvivenza, ma ha trovato il tempo e le risorse per fare dell’altro, per sviluppare la capacità di associare a oggetti concreti significati altri. È l’apertura al simbolico.
Lei dice: mistero. Ma non ci sono delle interpretazioni? Credo che sia stato il gruppo a rendere possibile uno scarto di energie tale per cui si potesse iniziare a riflettere su elementi e campi non necessariamente legati alla sopravvivenza e alla riproduzione, o sbaglio?
Non c’è dubbio. Ho detto mistero perché non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma abbiamo a disposizione due ipotesi, fondamentalmente. La prima è proprio la socialità, la capacità di trasformare il gruppo in una sorta di meta-individuo, di “super-organismo” come ha scritto Edward O. Wilson. Il secondo segreto risiede nel linguaggio articolato, cioè la capacità di comunicare in un modo più flessibile e più preciso. Siamo quasi sicuri che tutte le altre specie umane non avessero in dotazione un elemento così potente, almeno non come noi, che permette fra le altre cose di condividere con i propri compagni esperienze e cose viste, sviluppando in chi parla e in chi ascolta la capacità immaginativa.
Tornando alla questione iniziale, uomo animale sociale o individuale, le chiederei come mai nella stessa epoca, individui sottoposti agli stessi impulsi culturali tendano ad adottare strategie diverse, alcune cooperative e altre egoistiche.
È una domanda difficile. Non dobbiamo pensare che l’evoluzione biologica determini i nostri comportamenti, ci dice soltanto quali sono le nostre potenzialità. Che cosa fa un individuo singolo dipende da altri due fattori: il primo è l’individualità. La stessa evoluzione ci dice che ogni essere umano nasce unico, che non esistono due individui biologici perfettamente identici. Il secondo fattore riguarda la formazione del nostro cervello: esso si plasma per due terzi dopo la nascita. È vero che abbiamo dei vincoli biologici, che ci vengono dal passato, ma siamo una specie molto plastica, influenzata enormemente dalla storia, dall’educazione e dalla cultura.
Poi c’è la famosa questione del libero arbitrio. Come si pone, lei, di fronte a questo tema?
La scienza a mio avviso non può rispondere direttamente a questo quesito. Il libero arbitrio è un’ipotesi plausibile solo se rinunciamo al determinismo, quindi all’idea che le scelte dell’essere umano siano determinate da qualche fattore, che sia naturale o sovrannaturale. Io credo che non sia un’illusione, il libero arbitrio, come hanno sostenuto molti importanti filosofi: esso si giustifica con il principio della contingenza, tema filosofico su cui ho lavorato molto. Siamo frutto di vincoli del passato, ma in ultima analisi siamo ancora liberi di scegliere. La natura non ci determina, e nemmeno la cultura. C’è uno spazio per la volontà del singolo. Questo ce lo dimostra la storia, che ci pone di fronte a figure capaci di dire di no ai vincoli che la natura ha posto all’uomo. Noi esseri umani abbiamo questo di straordinario, di inedito: sappiamo di avere degli istinti che ci ha dato la natura, e li studiamo, ma possiamo anche scegliere di non essere marionette passive nelle loro mani.
(precedentemente pubblicato su Confronti, n° 60, del 29 gennaio 2014)
di Cristiano Tinazzi*
I media italiani sembrano completamente impazziti. Articoli che raccontando di tagliagole scatenati e terrore per le strade di Tripoli, ci rendono una versione terribilmente naif di quello che sta avvenendo in realtà in Libia. Un po’ come nel 2011, quando si era un pugno di inviati in Tripolitania e dall’Italia arrivavano notizie pazzesche che, però, non avevano nessun fondamento sul terreno.
La strada per la quale voglio accompagnarvi oggi non è un esercizio di dietrologia complottistica, ma una analisi fredda e (spero) logica dei fatti che ci hanno portato a ingigantire in maniera abnorme delle notizie reali. Ho una opinione che potrà essere o meno condivisa, ma che, per esperienza pregressa sulla Libia, trovo abbastanza aderente alla realtà. Premetto che non voglio assolutamente sottostimare la presenza dello Stato Islamico nel Paese. Ma andiamo per gradi.
Prova di analisi di lettura
Il Ministro degli Esteri Gentiloni rilascia dichiarazioni allarmanti sulla situazione in Libia dopo che l’Ansa, dal Cairo, pubblica un lancio d’agenzia nel quale la Farnesina invita tutti gli italiani a lasciare il Paese.
La nota però è del 1 febbraio, come si può leggere sul sito della Ministero degli Affari Esteri ‘Viaggiare Sicuri’. Passano quindi dodici giorni senza che nessuno faccia notare l’avviso. Il 13 però avviene qualcosa: a Sirte appaiono uomini armati che occupano una stazione radio e lanciano proclami pro-Isis.
Sirte, ex città natale di Gheddafi, non è nuova a omicidi mirati e attentati da parte di gruppi radicali, per chi segue quasi quotidianamente le vicende libiche. È una delle roccaforti di Ansar al-Sharia, gruppo jihadista che rientra nell’orbita della coalizione ‘Alba Libica’, contrapposta alle milizie dell”Operazione dignità’ del generale Haftar.
È fatto anche abbastanza noto, che poco fuori Sirte si trovino suoi campi di addestramento. Nell’ottobre 2013, una esplosione elimina sette miliziani di Ansar. Non è chiaro il motivo ma molti siti che si occupano di intelligence parlano di un attacco Usa con un drone. A Sirte non ci sono solo gli uomini di Ansar, ma anche quelli di Misurata e di milizie loro alleate. Torniamo ad oggi: uomini armati, dicevamo, occupano alcuni edifici pubblici e una radio. La notizia che viene diffusa dai media italiani è che Sirte sarebbe completamente in mano allo Stato Islamico.
L’ambasciata italiana si prepara a chiudere. La scena ricorda l’evacuazione della nostra ambasciata nel marzo 2011. Stesse modalità. Anche in quel caso era pronta a salpare una nave nel porto di Tripoli ma tutto il personale diplomatico, insieme a qualche giornalista, alla fine lasciò la capitale con un C-130 dell’Aeronautica militare italiana.
Il ministro della Difesa Pinotti rilascia una intervista dove si dice pronta ad inviare 5mila uomini in Libia, anche se poi corregge il tiro e ammette che «sono solo ipotesi».
Intanto Gentiloni fa sapere che il governo riferirà per il giorno 19 in aula sulla situazione libica. Tanti politici italiani chiedono un intervento militare. E il vicepresidente della commissione Difesa del Senato, il leghista Sergio Divina, si spinge fino a chiedere a Pantelleria «l’invio di battaglioni specializzati nella lotta al terrorismo e la Marina a schierare le fregate a protezione delle acque territoriali. Sirte e Derna in mano all’Isis vuol dire – ribadisce Divina – il Califfato a 200 km come la distanza tra Napoli e Roma».
Divina mescola il problema dei migranti con il possibile arrivo di terroristi via mare. Molti non aspettavano che questo momento per criminalizzare i disperati che arrivano via mare. La gara a chi rende più vicino l’Isis è partita. Sirte è a 600 chilometri circa da Lampedusa. Via mare, non terra. La stessa Pinotti riferisce nell’intervista sopra citata che lo Stato Islamico sarebbe a «350 chilometri dalle coste italiane». Gentiloni parla invece di «200 miglia marine», che sono 371 chilometri, riferendosi entrambi probabilmente alla distanza marittima tra Tripoli e Lampedusa. Ma Sirte è a circa 500 chilometri a est di Tripoli. E Tripoli è ad almeno 500 chilometri dalla Sicilia. Via mare.
Le notizie che vengono dalla Libia, riportate dalla stampa italiana sono sempre più allarmanti. Si parla di Sirte in mano ai miliziani dell’Isis, di possibilità di colpire l’Italia con degli Scud, mentre arriva la notizia delle terribile esecuzione di 21 copti egiziani e delle minacce all’Italia: «Siamo a sud di Roma».
L’Ansa riferisce addirittura di volantini dell’Isis che annunciano la marcia su Misurata. La Stampa, in uno degli articoli più insensati e privi di fondamento intitolato Libia, gli italiani: “Tagliagole in strada, è il terrore”, raggiunge il suo apice, raccontando di fantomatiche presenze dell’Isis a Tripoli presto seguita da «bandiere nere dell’Isis a Tripoli» di altre testate radiotelevisive.
L’autore dell’articolo, che di Libia ha visto forse molto poco, intervista Bruno Dalmasso, il custode del cimitero italiano di Tripoli, che è un personaggio interessante per la sua storia personale ma non dal punto di vista politico su cosa succede o non succede in città. È anziano e non è un analista, ma va bene lo stesso se dice: “Chi comanda ormai a Tripoli – dice Dalmasso – sono le bandiere nere, quelli dell’Is. In città vedi molti stranieri, siriani o iracheni che magari si sono tagliati le barbe o i capelli ma poi quando si tratta di accoltellare o sparare sono in prima fila».
Sempre per l’autore dell’articolo Tripoli sarebbe «una città fantasma». A ruota le televisioni nazionali intervistano uno degli italiani rientrati dal Paese che afferma: »La situazione a Tripoli è critica…E l’Isis è già da un pezzo che è a Tripoli, lo ha detto anche la televisione».
Se lo dice la televisione…allora è tutto a posto. L’Huffington Post pubblica un discutibilissimo articolo sull’impiego dei nostri militari in Libia. Irreale. Chiunque sa benissimo che mandare truppe in un Paese con una guerra civile in atto e che tra l’altro non ha richiesto nessun intervento esterno, non ha nessun senso pratico ed è irrealizzabile dal punto di vista normativo internazionale.
È un solo mero esercizio di retorica, quello sfoggiato da Gentiloni e dalla Pinotti. Nei fatti non c’è nessun modo per mandare truppe straniere nel Paese. E di sicuro non basterebbero 5mila uomini. Quindi analisi su chi si sarebbe già scelto di mandare con corpi e supercorpi alla ‘marines’ fanno molto ridere. Gli italiani non metteranno mai piede in Libia.
In ultimo Wired ci regala una perla indimenticabile, paragonando Lampedusa a Kobane, articolo che vi consiglierei di leggere per farvi due grasse risate e capire cosa voglia dire non avere il minimo senso della geografia in questo mare di allucinazioni collettive: «La situazione è seria: l’Italia è vicinissima alla Libia, l’isola è l’avamposto nazionale, è esposta al mare e presidiata prevalentemente per accogliere migranti o disperati; certo non per fronteggiare l’eventuale attacco delle milizie nere. Inoltre in Libia ci sono gli SS-1 Scud, missili sovietici a corto raggio con una gittata che va dai 300 ai 450 chilometri»…
Quindi, dopo aver analizzato gli eventi e la copertura mediatica, ci rimane il motivo per il quale si è scatenato un tandem di illazioni sia da parte della comunicazione pubblica che dei media italiani. Se date un’occhiata alla stampa estera, non c’è nulla o quasi a parte la notizia della chiusura della nostra ambasciata.
Per la stragrande maggioranza dei media internazionali Sirte non è caduta in mano all’Isis, anche perché non ci sono stati combattimenti di rilievo. Non ci sono ‘marce’ su Misurata e a Tripoli a parte una lunga sparatoria a Fashloum tra una milizia e dei sostenitori di Haftar non è successo niente di diverso da quello che succede da mesi. D’altronde solo un cretino potrebbe pensare che una milizia, che sia l’Isis o altre, possa «marciare su Misurata» senza problemi, visto che si scontrerebbe con la formazione militare più potente e più agguerrita della Libia.
L’Italia ha sempre mantenuto una equidistanza tra le due fazioni principali in campo. L’ambasciatore Buccino è anche andato a Ginevra nelle scorse settimane per partecipare ai round negoziali per i colloqui di pacificazione nell’ambito della missione Onu Unsmil (United Nations Support Mission in Libya, richiesta nel 2011 dalle autorità libiche e più volte prorogata).
È ovvio che la comparsa di gruppi legati all’Isis, probabilmente fuoriusciti dall’ombrello di Ansar al Sharia, e le successive azioni su Sirte, seguite all’attentato a Tripoli contro l’Hotel Corinthia, hanno spostato il baricentro italiano verso il governo esiliato a Tobruk, da qui la partenza dell’ambasciatore e del corpo diplomatico.
Abbiamo preso posizione con Tobruk senza dirlo ufficialmente e utilizzando il problema (reale) della sicurezza per allontanarci in maniera plateale e senza dover fornire ulteriori giustificazioni. Il timore è che il nostro interesse non sia soltanto concentrato sul governo di Al Thani, ma, molto più probabilmente suo più potente alleato, ovvero il generale ribelle Khalifa Haftar. Haftar ha il supporto delle forze armate egiziane e probabilmente sta guadagnando credibilità presso le cancellerie occidentali. L’uomo sul quale giocare l’ultima carta.
—
* L’autore è più volte stato in Libia, a partire dal 2011, come giornalista free lance. Questo articolo è stato pubblicato su Q Code Magazine.
Recital Majakovskij
Da “Un male incontenibile – Sylvano Bussotti artista senza confini”
– di Luigi Esposito – ed. Bietti, Milano 2013)
Prima biografia ufficiale approvata da Sylvano Bussotti
«Il peggio che può capitare ad un artista è di essere compreso», affermava Carmelo Bene nelle sue Lezioni sull’arte, e dava una esplicitazione chiara, legata al mondo della mercanzia e al gusto del pubblico, spesso manovrato e pilotato dalla condotta editoriale di gente d’apparato, e alle politiche di critici e galleristi, i quali convergono verso tutto ciò che è comprensibile alla massa perché immediatamente commerciabile, vendibile e, addirittura, venerabile. «Accidenti ai quattrini, accidenti alla cartaccia moneta. Questa orrenda matrigna dell’arte, di tutte le arti»[i].
E nella sua lezione-saggio non risparmia affatto «l’artista stesso», criticando sia la cosiddetta «vocazione del bello» (in cui ogni artista si rifugia e, negando altra scelta, condiziona ad un unico risultato la propria natura espressiva), sia gli «stati di vanità», che inesorabilmente provocano l’ansia di esprimersi attraverso l’ambizioso tarlo della «comunicazione» subordinata al successo tributato dal pubblico e dall’apprezzamento della critica: «Vediamo d’uscirne evitando inutili gineprai», cita una frase centrale dell’intero saggio: «Tutto il falso problema della produzione artistica è … sempre questo pervenire a questa o quella FORMA e comunque, solamente a UNA FORMA (identificata al suo contenuto); ma questa FORMA è nient’altro che una traccia residuale di un chissà quale ALTROVE, tuttavia, inespresso e puntualmente tollerato e spacciato dall’artista! Che fare? È chiaro, quanto meno nell’intento e nel metodo: […] = Bisogna ECCEDERE le FORME […]»[ii].
L’arte è una disciplina eternamente provocatoria, sempre al confronto con l’oscuro senso dell’essere. E in queste oscurità l’artista si impegna ad accendere lumignoli di conoscenza: simboli nuovi, nuove apparenze descritte, nuove scritture che reintegrino ed evolvano il presente già assimilato.
Ma spesso l’arte è manovrata da poteri e da dogmi subdoli, fino a diventare «borghese, idiota, mentecatta, soprattutto cialtrona e puttanesca e ruffiana»[iii]. E invece «l’arte deve essere incomunicabile, deve solamente superare se stessa»[iv], continua Bene. Ma per convergere verso questi risultati andrebbe assolutamente auspicata la provocazione pasoliniana sull’abolizione delle scuole, di tutte le scuole, e la riapertura delle «botteghe rinascimentali», il ritorno della cultura cosiddetta “alta e libera”, in una sola parola, della «cultura».
Con Carmelo Bene, Bussotti ha fatto uno spettacolo, Recital Majakovskij, o Spettacolo-concerto Majakovskij, un unicum messo in scena al Teatro alla Ribalta di Bologna e datato il 26 gennaio 1961, secondo le cronache dei quotidiani; mentre nella Vita di Carmelo Bene (un’autobiografia stilata assieme a Giancarlo Dotto, dove spesso scorre una frase a mo’ di motto: «ogni autobiografia è sempre immaginaria»), ci si riferisce all’anno precedente: «Era il 1960. Carlo Maria Badini, allora assessore alla cultura a Bologna, invitò me e Sylvano Bussotti a presentare qualcosa al Teatro alla Ribalta, importante all’epoca come spazio di avanguardia. Insieme a Bussotti concertammo un Majakovskij. Lui suonava in scena, improvvisando un sacco di cose, io ero la voce recitante. Ne ho fatti tanti di Majakovskij, questo fu il primo. Andammo alla “Ribalta” per quattro soldi, quanto bastava per mangiare e dormire due, tre giorni. Cose che si fanno da giovani»[v].
Erano anni magnifici, dove l’avanguardia era una dea desiderosa di avvenimenti, che emanava entusiasmo. E i protagonisti erano disposti anche a ricevere compensi stentati pur di esibirsi.
«[…] la Firenze-Bologna andata e ritorno, temerari, a tutto gas, su una “Giardinetta” che andava a spinta. Fu un trionfo. Sylvano mi precedeva a teatro. Una volta lo beccai alla tastiera, che trattava con la grazia d’un cherubino. Di solito lo sventrava il pianoforte, lo prendeva a calci, faceva di tutto, alla Tudor. Quella volta, era il nostro debutto, lo sorpresi che suonava con grande trasporto, forse ebbi un po’ d’invidia, “O terra addio, addio valle di pianti”…»[vi].
Non vi era una scenografia, tantomeno dei veri costumi per la serata al teatro bolognese. Tutto l’addobbo del palcoscenico era stato improvvisato, utilizzando quello che si aveva a disposizione o mettendo a disposizione le proprie cose che si portavano in scena: «I costumi di Carmelo Bene erano fantastici», racconta Bussotti, «solitamente non erano dei costumi veri e propri, lui comprava delle partite di stoffa costosissima, d’arredamento, velluti, sete, e se li drappeggiava addosso, buttandoli in scena e facendo lunghissimi strascichi, ottenendo anche degli effetti altamente scenografici, perché se sali su uno sgabello e dietro hai una stoffa lunghissima che si srotola davanti agli occhi degli spettatori, diventa un momento molto forte di teatro. Tutto questo avveniva con molta attenzione alla tecnica di palcoscenico, nel riavvolgere i drappeggi, nel tirarli su, farli diventare fondale, o utilizzando parte della stoffa anche come scenografia. Io ci andavo a nozze! E lui lo sapeva che ci andavo a nozze con queste cose, infatti riconosceva che le aveva imparate da me!»[vii].
Non era mai un’improvvisazione approssimativa quella attuata nelle loro azioni teatrali. Anche se realizzato con mezzi precari, tutto veniva accuratamente meditato, passava sotto il setaccio del loro senso critico, si arricchiva del gusto dei loro talenti. «Ma poi con Carmelo ci inventammo tutta una serie di concertazioni», continua Bussotti, «considerando le nostre figure sceniche come quadri viventi»[viii].
Il Teatro alla Ribalta, che aveva già ospitato giovani nomi come Laura Betti e Paolo Poli, aperse le porte a spettacoli nuovi, idee innovatrici, ed era, quindi, un punto di riferimento importante per la ricerca avanguardistica, ma non godeva di una propria attrezzatura teatrale. «Poi oltre al pianoforte», ci dice Bussotti, «sul palcoscenico c’era un set di strumenti a percussione che portava lui, credo di sua proprietà, ma in questo set di percussioni vi era un gong che aveva un suono inquietante, perché in una rappresentazione precedente – una performance che si tenne in una galleria d’arte – questo gong capitò nelle mani di un giovane artista, che preso dall’euforia si mise a picchiare così forte sullo strumento da sfondarlo. Quindi una volta sfondato, il gong non dava più armonici, ma emanava un suono fesso ed estremamente inquietante, e Carmelo non si fece scappare l’occasione di utilizzarlo nelle sue messe in scena, avvistando delle rarità sonore in questo strumento malridotto»[ix].
I canonici fischi di rito partirono senza dubbio, magari imbellettati da qualche insulto ben formulato; ma in molti affermano che lo Spettacolo-concerto Majakovskij fu memorabile: due grandi artisti che, offrendo i propri ruoli sul palcoscenico, mistificavano le azioni sceniche evocandole in un raro lirismo poetico.
Anche Giuliana Rossi, attrice teatrale, prima moglie di Carmelo Bene (madre del loro unico figlio, Alessandro, morto in tenera età) e amica di Bussotti dagli anni dell’adolescenza, – «Ero vicina di casa di Cesarino, un cugino di Sylvano, e all’epoca i vicini di casa erano come parenti, quindi Sylvano per me era come un cugino»[x] – ricorda lo Spettacolo-concerto Majakovskij come un evento di grande impatto, e afferma sul sodalizio tra Bene e Bussotti l’esistenza di un grande equilibrio. «Si rispettavano molto, Carmelo voleva molto bene a Sylvano, parlavano spesso, di arte, di tutto»[xi].
«Sylvano aveva sei anni più di me», si legge nella Vita di Carmelo Bene: «Era già allora un compositore molto dotato. In comune avevamo certa smania di misurarci con i limiti del linguaggio e delle partiture»[xii].
«In quello spettacolo», continua Bussotti, «vi era un omaggio di devozione da parte sua nei miei confronti, e di insegnamento da parte mia nei suoi confronti. Carmelo mi ha sempre considerato “il Maestro”; ed è capitato più volte che mi telefonasse nel cuore della notte per dirmi che io ero l’unico grande genio musicale degli ultimi due secoli! Che non me lo dimenticassi, e qualora me lo scordassi, o non avessi il tempo di pensarci, c’era sempre lui a testimoniarlo»[xiii].
Lo spettacolo generò un 45 giri per l’etichetta La Voce del Padrone, dove il settore prosa era diretto dall’attrice Sarah Ferrati.
«Tornato a Firenze spedii alla Voce del Padrone un nastro majakovskijano che avevo registrato con Bussotti e Taverna», continua Bene nella sua autobiografia. «Il settore prosa era diretto da Sarah Ferrati. Arrivò la telegrafica risposta: “Interessaci sua incisione”. Ecco, il mio debutto nella discografia. Dalla porta principale. Mi presentai a Milano. […] A Milano dovevo incidere per la Voce del Padrone due 45 giri di Majakovskij. Braibanti venne ad assistere in questa grande sala di registrazione. Sylvano suonava, io recitavo. Oltre a quei due 45 giri, che poi sciaguratamente uscirono con la mia voce sinistrata dall’inefficienza tecnica dell’epoca, avrei dovuto anche incidere un ellepì da Ulysses di Joyce. La spiaggia era il brano che avevo scelto. Non uscì mai. Non lo ritenevo all’altezza, quel mio Joyce. Lo feci a pezzi. Pur essendo alla fame, mi permisi questo lusso. I due Majakovskij uscirono, Joyce no»[xiv].
«La Ferrati non solo era una straordinaria attrice», continua Bussotti, «ma era anche una grande animatrice, con un carattere fortissimo, ferreo, e per il settore prosa della Voce del Padrone aveva ideato una collana riguardante attori che recitavano alcuni testi di scrittori noti, accompagnati da musiche di compositori contemporanei. Ma tra gli attori di questa collana lei non c’era, perché in quel periodo era completamente senza denti, si stava rifacendo i denti, e quindi non poteva recitare»[xv].
«Di Carmelo Bene ho un altro ricordo stupendo», continua ancora Bussotti, «quando lo incrociai in un hotel di una città importante dove lui recitava, che ora non ricordo bene quale fosse. Naturalmente, si svegliava nelle prime ore del pomeriggio, come solitamente fanno tutti gli attori che recitano fino a tarda sera, scendeva nella sala dell’hotel e faceva colazione col caffè latte. Ma la tazza che utilizzava era un oggetto di attrezzeria del teatro, ed era la tazza colante sangue, quindi una grande tazza scolpita e disegnata con un rosso vivo, dove il Conte Ugolino sputava il sangue dopo aver divorato i suoi figli! E Carmelo, mentre beveva da questa tazza, con tutta la serietà scenica, diceva: “sono il Conte Ugolino!”. E lasciava tutti stupefatti!»[xvi].
Dopo il Recital Majakovskij e la registrazione per il 45 giri vi fu solo un’altra collaborazione nel 1966 per le musiche di scena de Il Rosa e il Nero[xvii], uno spettacolo di Carmelo Bene su testo di Matthew Gregory Lewis. Poi non hanno collaborato più assieme. Forse non vi è stata occasione, o forse ognuno aveva da conquistare il proprio spazio, il proprio mondo, il proprio pubblico. E ognuno si è impegnato al costante servizio della propria arte, multiforme e unica, a difenderla dalle incompatibilità col proprio tempo. E ognuno sarà un insondabile mistero per sé, un mistero che l’accompagnerà, che potrà governare solo con la solitaria azione del proprio artificio.
[i] Carmelo Bene, in Momento 4. Arte (lezione impartita magistralmente in forma quasi confidenziale e colloquiale) tratto dalla serie di quattro puntate televisive, Quattro momenti su tutto il nulla, interpretate e dirette da Carmelo Bene. (Rai, maggio 2001).
[ii] Ibidem.
[iii] Ibidem.
[iv] Ibidem.
[v] Carmelo Bene e Giancarlo Dotto. Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998.
[vi] Ibidem.
[vii] Sylvano Bussotti, da una conversazione del 27/03/2007.
[viii] Ibidem.
[ix] Ibidem.
[x] Giuliana Rossi, da una conversazione del 06/06/2004.
[xi] Ibidem.
[xii] Carmelo Bene e Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene (cit.).
[xiii] Sylvano Bussotti, da una conversazione del 27/03/2007.
[xiv] Carmelo Bene e Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene (cit.).
[xv] Sylvano Bussotti, da una conversazione del 27/03/2007.
[xvi] Ibidem.
[xvii] Il Rosa e il Nero, da Il Monaco di M. G. Lewis. Adattamento, regia, costumi e interprete principale Carmelo Bene; scene di S. Vendittelli; musiche di S. Bussotti e V. Gelmetti. Altri interpreti: M. Monti, L. Mancinelli, S. Spadaccino, O. Ferrari, M. Spaccialbelli; Roma, Teatro delle Muse, 12 ottobre 1966.
di Elisabetta Scantamburlo
Due rose rosso bordeaux, una più grande, l’altra più piccola. Una piuma nera e una retina a forma di foglia che scende a velare un occhio, due api legate a un fil di ferro che odorano i fiori. Il cappellino era perfetto. L’avevo creato nella mia mente, disegnato, modificato. Avevo cercato i materiali più adatti, girato per negozi, esplorato mercatini per ottenere le tinte giuste e i tessuti migliori, per rendere la sensazione desiderata. Con pazienza avevo messo insieme i pezzi e avevo dato forma all’idea. Ero pronta per l’attesa festa, avrei indossato sul mio capo quella preziosa architettura che attendeva nella sua scatola tonda.
Arrivai alla festa con la scatola appesa al braccio emozionato. La aprii ed era vuota. Girando gli occhi intorno a me in cerca di una spiegazione della sua scomparsa, all’improvviso, tra le teste che già erano arrivate, si aprì un varco e subito lo riconobbi.
di Daniele Ventre
[Era la forma del giorno e l’età antonina e il severo
tempo moderno che fu del medioevo che è già.]
Post-elegia
L’informazione non vale granché: non ne vale la pena:
la frenesia dello scambio anche ci informa di sé.
L’informazione si fa verità di futurizione,
quello che guadagnerà già te lo trafficano
informazioni infinite, molteplici, vere altrettanto,
informazioni di ciò che di sicuro sarà.
Tutti si fanno maestri così, per coloro che sanno:
quello che sanno, però, certo nessuno lo sa.
Con il continuo ripetersi e sottolinearsi l’asserto
che d’informarti hai bisogno, ecco il bisogno t’è qui,
più del diritto a informarti, il più truce e atroce bisogno,
dogma di sua nullità che ti santificano.
Che se vorrai mercatare nel traffico d’informazioni
s’ha da trattarle per sé, s’ha da appropriarsene chi
le rappresenta, le crea, le spolvera, te le ripone,
te le riscrive, ne fa compra e mercato e le fa
interagire nel luogo e nel tempo in cui ti ritrovi
dentro la selva dei tuoi mostri, o spartisce con te
quel che rimane del nulla. E però nessuno ti spiega
quello che informa di sé, che informazioni e perché
poi te ne informi e che cosa ci sia e che cosa non sia
e di che cosa ti informi e se ti informi di te,
o se si informi di sé o di sé ti informi per forme
di serendipicità o se la semplicità
nel suo mistero non sia che imprimere forma su forma
con artifizio di nulla -e ti manipolano
ti manodoperano, ti manovrano senza mani.
E non è chiaro perciò quante ne circolino
informazioni inviate intorno al medesimo obbietto,
già d’ogni obbietto a sé iniquo, orbo di obbiettività,
e se la forma che avrai ricevuta s’orbiti a un punto-
e te lo chiedono già e se ne interrogano
se sarà tale o talaltra o altro o magari lo stesso:
dove diretto però, certo nessuno lo sa.
Post-in-scena
Nel mondo postmoderno la maggior parte
dei ruoli si rovescia senza passato
-futuro forse (quel che è poco tradotto,
lo si tralasci -se ne imprimano targhe
di lapide e di ferro -tombe di veri).
Ma il tuo futuro è ovunque tu ti rivolga,
fuorché domani. Gli orologi starati
misurano la storia zoppa nel tempo.
E l’oratore postmoderno non parla
d’oggetto -solo di parole -le sue-
non riferisce -riferisce a sé stesso:
di solo a solo -per sé stesso. Si plasma
di sé negli altri che nel broncio ripete
bambino. E sono postmoderno un po’ anch’io
Così ti inizio al gioco del postmoderno
Così mi inizi postmoderno per scherzo.
Non puoi non farci caso. Giochi talvolta
ad acchiappare cieco mosche su mosche
che si nascondono e non lasciano pegno.
E vince chi la dice tana per primo:
ma non ci sono tane -dunque le tane
le scavi tu da solo, ma per te stesso
ti fissi regole al tuo gioco -confini-,
l’immagine del mondo che immaginavi
per quello che ti cerchia quello che intorno
ti ha circondato da nemico -e ci perdi
ci perdo e tutti siamo e abbiamo la matta.
In questa forma nel post-mondo si avanza
nel gioco e verso il gioco -guardalo il mondo
per gioco e per post-gioco: certo è cambiato
non è lo stesso è uguale sempre immutato.
Si può parlare di ignoranza, d’inganno,
di presa di fondelli -di rassegnarsi
al segno senza senso significato
dell’insignificante. Guardi il post-mondo
tracciato sulla rete (senza) sistema.
Di questa rete i nodi -ricevitori
mittenti dell’informe -vengono spesso
al pettine non certo come capelli
di corpi ma per nodi dell’arbitrario
dell’arbitrato -l’arbitro t’ha fischiato
un fallo inesistente -sesso-non-senso
e senza sesso – ciò che informa l’informe
di informazione. Ti prenota il programma
per il teatro -ti post-nota epigramma
o elenchi di segreti sempre svelati
da Pulcinella sulla scena del tempo.
ti mette dentro le segrete non-cose.
Il dramma che a soggetto reciti sempre
si chiude per sé stesso come il suo dramma
nei nodi senza pettine e scapigliati
e si ripara e si rinorma nel caso
per come è necessario. Pone domanda
il nodo cerca un pettine e si fa storia
nel pettine creato ma per sé stesso
Si contravviene contraddice e disdice
e si pospone fatto postdemoderno.
Think imaginary
Quello che poi si traduce e si porta in linea di note,
quello che circola qui quello che può, che si sa
far circolare, è sapere -di che non si sa -ma è sapere,
l’intraducibilità che non si sa si lasciò.
Non ci si appella per esso in esso e per quel che tradotto
sempre che si tradurrà -sempre che t’occorrerà,
ecco che allora è realtà. Siamo in gabbia in copie di copie
e tu lo vedi, anche io t’ho ricopiato fin qui.
Ti garantisco perciò che il più del sapere che sai
sia traducibile sia banca di dati per sé
riproducibili. Tutti i riproduttori di scienze
abbiano poi le scansioni e le specifiche e i bit
per ritradurre le schede in linee sempre lineari,
codici di identità che si riallineano.
E non si offenda per questo il carattere del sapere-
brutto carattere ci ha, questo sapere di sé,
questo sapere perché -tuttavia così maltrattato
e maltagliato, così immaginato a metà.
E non accade così che trascritto il mondo divenga
immaginario per sua nera singolarità?
Proprio così l’alimento di fresco ora andrà surgelato
e tramutato di tono ordine e di qualità.
E se nessuno ha mangiato del fresco, ecco muore il confronto
e non c’è più verità, né leggerezza, né più
forma, se non il consumo di cibi oramai congelati.
Ordini un senso corretto e te lo servono al bar
con il caffè più ristretto del tuo preconcetto mutato
in consumata realtà e lo rimasticano
per ulteriore materia le bottinatrici operaie:
tutto ha perduto il suo senso orfano d’utilità.
Tutto si muta in oggetto di scontro -in soggetto di sconto
tutto si vende al discount. Quel che si sa, chi lo sa?
Chi sa di che? Chi saprà di sapere o di non sapere.
E della sua disgrafia l’analfabeta non è
certo -così ti nasceva il post-mondo, ovunque nascesse
per accidente da sé -non dopo il mondo, però.
Post-domus argentea
E grazie a dio si può fissare l’attimo
preciso in cui le architetture muoiono
moderne e in breve si post-architettano-
lo scrive il saggio nel linguaggio alchemico
dell’accademia. Architetture muoiono
in Marktwainland nell’anno del protempore
nel tempo senza tempi. Come muoiono
le architetture, come si trasformano
le morti in un linguaggio, che si slinguano
le morti, queste morti un poco tribadi,
un po’ sensuali, un poco pornosofiche,
linguaggio d’architetto scritto in linea,
da prima forse ancora con immagini
E tutto ciò che non si può trascrivere,
rimane tralasciato -s’ha ricorrere
a ciò che si è trascritto). Nuovo genere
davvero! Accadde prima con i rotoli
al tempo in cui li si è mutati in codice.
E se la fine si architetta restano
ragioni che a ragione si autoescludono,
consistono al trasmettersi, nell’essere
sostituite dal recording, restano
i calembours che in giochi le sistemano.
Monsieur Jourdan restò senz’altro attonito
scoprendo che per lustri fu prosastico
e non sapeva prosa. Un colpo simile
l’ha avuto l’architetto -forse il massimo
dell’universo no -senz’altro il minimo
del condominio che ci crolla facile
E certo architettare si considera
un buon tessuto in prosa (un po’ di simboli,
parole, frasi, un ordine sintattico
di segni, semi e sèmi, che ti segnano
metà linguaggi e per metà ti slinguano
puttane d’alto bordo filosofiche)
d’architettare si perdé la tecnica
l’archetipo l’archetto e l’archeozoico
e le archi-tette. Che non hai materia
o madre o dura madre -e si discorrono
discorsi universali. E ti strutturano
così valutazione d’una formula
universale che ti costruiscono.
Che mescono gli stili con le origini
Che della costruzione non è tipico
carattere non segna. In altri termini:
si tratta in vero di un processo simile
a quello in cui per verità si surroga
il farsi film. E questo ti valutano
secondo prestazioni di pornocrati
secondo il livellarsi della tecnica
orale e post-orale attori e cogito
e coito per sé stessi, utilizzabili
secondo volto e fama in più pellicole,
ti mescono e propinano la tecnica
secondo il performare delle macchine
da trucco e strucco. Nuovi film non filmano
né fermano realtà. Bisogna scegliere
i volti noti gli oligarchi eleggere
la qualità dei tecnici. Spettacolo
perfetto… e che magliette se ne vendono!
Tra le diverse realtà le singole
esprimono linguaggi d’ogni genere
però la forma resta la medesima:
è sempre si può dare che coesistano.
La società totalità (linguistica)
unita in ogni nodo t’immosaicano
per il linguaggio che d’insieme è tessera.
Post-logo
Si definisce d’etichette il post-mondo
con istruzioni che si cambiano sempre.
E l’etichetta che si incolla alla fine
segnò l’inizio. Verità sotto chiave
ed in sua vece l’ulteriore commento.
Se per errore si sospetta che bari,
in ogni caso non si gioca più gioco.
Le storie e le esperienze dimenticate
si mutano etichette. Per etichetta
si inscatola il sapere – quel che sapevo
non lo sapevo. Non esiste la cosa:
esiste solo il marchio per etichetta.
E l’etichetta non richiama sé stessa.
Rinvio si somma su rinvio. Ti derida
il sogno della tua realtà differisca
rimandi differanze. Circa l’essenza
non si domanda l’obbiettivo, davvero
postdemoderno. Verità quel che spesso
già all’alba imprime propagande e cartelli,
che poi nessuno vede. Gioco che giochi?
Ti giochi il tempo. Non c’è vincita. Il gioco
è di per sé sconfitta -tempo allo scacco.
Post-istoria/pre-isteria
Narra, la storia, dei nostri dintorni e di ciò che possiamo
scorgere, quel che possiamo vedere. E però nel post-mondo
post-demoderno e lyotardo non si è mai perduta una storia
non puoi far sì che la storia non debba anche tu con lo sguardo
scorrerla a volo di riga. E riguarda ciò che è accaduto,
come è potuto accadere -perché (di cui puoi tu pensare
che ci potesse accadere), è lo spazio per il sapere.
E se è possibile tutto (o niente), anche perde la storia
sfondo e realtà. D’ogni dove affluisce fine del mondo
e paspaspas de papa. Se qualunque azione ci importi
ecco che nulla ci importa, così come azione non fosse.
Ecco che allora il post-mondo è per sé la fine del mondo.
Forse la fine di un mondo era passo in quel meccanismo,
lo schematismo latente per quel che si regola a solo
e non spaventa nessuno. Al più per un po’ ti s’inceppa.
Ciò che procede, non può venire. Alla fine del mondo,
altri non può ricordare, non può stabilire il momento.
Dopo la fine del mondo è rimasto il nulla. Il Messia
giunto fra noi, ma nessuno poté riconoscerlo, ognuno,
può, se lo vuole, aspettarlo -un eterno ebreo musulmano
cristico -sua buddhità che ingrassò budino alla crema
Altro che gioco non fu. Quale gioco? Forse di lingua?
Forse di pornosofia? Non è gioco no, se davvero
anche la fine del mondo non sai se sia stata o non sia;
ma non ha senso neppure il parlarne. Dove e a chi mai
l’inosservata salvezza appartenne? E quale quel mondo
che ci pervenne alla fine? E che cosa infine è rimasto?
Chi lo staccò dalla spina? Una fine ancora s’aspetta.
Lungo un tratto costiero di selvaggia e intatta bellezza, la Costa di Teulada, si trova la spiaggia di Tuerredda, assai frequentata e nota, presente sulle principali guide turistiche. A poche centinaia di metri dalla spiaggia si incontrano i primi furriadroxus (dal verbo furriài, ritirarsi, abitare), le tipiche case locali, appartenenti all’agglomerato di Malfatano. Le persone che ancora oggi vivono nei furriadroxus sono tutti uomini, scapoli e con un’età media di più di sessant’anni. Vivono una quotidianità scandita dall’attività legata all’allevamento e all’agricoltura di sussistenza, fatta di collaborazione reciproca, ma anche di solitudine e marginalità. Il film racconta il microcosmo di questi abitanti, mettendo a fuoco alcuni momenti della loro cultura e del loro stile di vita, proprio durante il mese di agosto, quando la prossimità e il contrasto con la massa dei turisti che affollano la spiaggia di Tueredda sono particolarmente accentuati.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
Caserta laboratorio d’Italia
di Franco Carmelo Greco
Mi accingevo a intervenire, richiesto da questo giornale, su un tema di attualità per Caserta: la “scomparsa” annunciata dell’ultima sala cinematografica cittadina, il Cinema San Marco, al Corso Trieste. E nell’esaminare la “letteratura” già cospicua sull’argomento, fatta di articoli di varie testate, di dichiarazioni programmatiche o proclami politico-culturali pubblici e privati, mi son imbattuto in pagine di cronaca casertana che spesso scorro senza memorizzare, con un infastidito senso di sazietà. E son caduto anch’io da cavallo, come Paolo. Ho avuto anch’io, come lui, l’illuminazione.
Nell’arco di pochi giorni, quelli che hanno preceduto e seguito il grande “Twister”, la programmazione-tornado del film messa in scena nel buio di un Corso Trieste divenuto platea cittadina, in quei pochi giorni si sono concentrati nella nostra città e nella nostra provincia tutti gli episodi di una cronaca che tenta di opporsi, rimandando più volte la propria immagine o innalzando il tono della voce o facendo cubitali i suoi caratteri, all’assuefazione che pare produrre in noi la ripetizione ossessiva e dilagante dei suoi fatti. Si sono concentrati eventi “eccezionali” ed episodi forse “consueti” di cronaca nera e di costume, politica o culturale: è esplosa, ancor più violenta ed indiscriminata, l’aggressività della camorra, la faida tra i clan, la prevaricazione e la sopraffazione nei confronti dei deboli, degli esposti, dei taglieggiati, degli indifesi; si è ancor più reso visibile il degrado ambientale, per la “percorrenza” estiva di strade e paesi e spiagge e monumenti e piazze, di discariche o di cimiteri d’auto, di depuratori ed inceneritori inefficienti o di attività industriali e umane inquinanti, di cave enormi e biancheggianti come cancri, visibilità accentuata dal controcanto che le faceva lo svolgimento dell’ennesimo convegno su San Leucio e le sue possibili destinazioni d’uso; si è in varie forme manifestato il baratro che c’è tra benessere e povertà, fra partecipazione ed emarginazione, fra sanità e malattia, fra urla sgangherate d’una gioia ostentata e doloroso silenzio; si sono sommati e quasi “toccati”, nella quotidiana esperienza, gli immobilismi d’una coscienza e di una pratica politica diffusa tra gli amministratori pubblici, che si esercita soltanto nella celebrazione del “particulare” partitico e talvolta personale; si è denunciata malasanità, malascuola, malafamiglia, mala…; si è ripetuto il rito “spettacolare” dell’organizzazione dello svago estivo che ogni anno surroga la desertificazione culturale di paesi e città…
E procederei anche oltre nell’elencazione se, durante questa “ricognizione” della cronaca, non m’avesse preso l’improvvisa sensazione d’aver trovato una formula perché, finalmente, la nostra “provincia addormentata” potesse apparirci diversa: non più in cronico ritardo nell’esercizio della vita amministrativa rispetto alle esigenze del cittadino; non più isolata nella interna comunicazione culturale e nella sua proiezione verso l’esterno, perché incapace di riconoscere i suoi stessi soggetti e, con essi, gli interlocutori esterni; non più priva di strumenti di dialogo, non solamente culturale, ma anche sociale e politico e, aggiungerei, pensando agli extra-comunitari presenti sul territorio e alle loro provenienze europee, orientali ed africane, persino religioso; non più soltanto disponibile a ricevere e accettare supinamente qualunque sollecitazione di moda, di morale, di consumo, di mercato provenga dai media; non più incapace di salvaguardare la sua identità nella propria e altrui memoria, e così via.
Mi pareva d’aver trovato la chiave risolutiva dei nostri problemi in un facile, rapido cambio di prospettiva, in un semplice spostamento del punto di osservazione, come inventare l’acqua calda: perché attenuare le nostre contraddizioni, nascondere i nostri compromessi, ritenere inconfessabili i nostri delitti, se solamente un cambio di lenti avrebbe potuto modificare la realtà? La “concentrazione” degli eventi di cronaca mi “rivelava” la loro capacità di farsi segni rappresentativi di identità, disfunzioni, contraddizioni, malesseri della nostra Italia contemporanea. Invece di ripropormi la città di Caserta e la sua provincia ben ultime nella scala dei parametri significativi della qualità della vita, me l’hanno scoperta, insospettata, in prima fila, tra i territori più “aggiornati” della nostra “modernità” negativa: malaffare, corruzione, razzismo, consumismo, violenza, asocialità, incultura, inciviltà, opportunismo e così via. O forse un rigurgito di antico?
Non importa, per ora. Basta che quanto è accaduto di recente faccia, di Caserta, un vero e proprio territorio di frontiera dove antico e moderno dialettizzano nel peggio. E mi è nata un’idea, e ha preso corpo una proposta: perché non usare la nostra città, il suo territorio, l’intera provincia, come un “laboratorio” di ricerca e di riflessione per il nostro paese? Caserta come il territorio nazionale campione dei malesseri, delle carenze, delle patologie d’Italia, il grande malato da curare? Perché non dichiarare esplicitamente la sua disponibilità a farsi territorio eccezionale di una analisi non meno eccezionale? Un voto comunale, un auspicio regionale, una legge straordinaria nazionale potrebbero istituzionalizzare questo “status” e farne un volano di progresso. Una adeguata campagna promozionale metterebbe Caserta sotto lo sguardo di tutti. Attireremmo sulla città un interesse nazionale e internazionale di studiosi e sociologi, politologi ed economisti, uomini d’industria e di mercato, artisti e scrittori. Le ricadute economiche, politiche, culturali ed artistiche sarebbero enormi.
Certo, un titolo del genere potrebbe essere ambìto anche da altri, conteso, invidiato, ma non ci mancano risorse e fantasia per conservare il primato. E soprattutto, ne vale il fine. Sotto i riflettori dell’attenzione mondiale, la provincia cambierebbe: assisteremmo a una sua trasformazione genetica. Quale camorra potrebbe più sopravvivere, pedinata dall’occhio del regista cinematografico; quale scarto sociale potrebbe ancora esistere sotto l’intervento delle multinazionali pianificatrici, con lo slogan: tutti eguali nel consumo!; quale gioventù si perderebbe, pressata da assidue manifestazioni canore pro-disperati o anti-disperazione; quale degrado ambientale sfuggirebbe al controllo del “lifting” turistico-alberghiero rinnovato e remunerativo d’un’“isola” così rappresentativa dell’intero paese?
Caserta laboratorio d’Italia, dunque. Uno slogan per tutti i cinema, per tutti i teatri, per tutti i malavitosi, per tutti i politici, per tutti gli intellettuali: i presenti, gli assenti, i passati e i futuri. Caserta laboratorio d’Italia: un progetto politico e culturale che ci trasformerebbe, tutti, non più in spettatori dei film altrui, ma in protagonisti d’uno spettacolo offerto al mondo.
Peccato che ci sia ancora la Reggia a sopravvivere, piazzata lì, alta ed ingombrante, monumento allo splendore d’un tempo. Se pensiamo a Casertavecchia, ch’è divenuta già deposito di noccioline e lupini, birre e taralli al pepe, possiamo sperare che il Palazzo vanvitelliano non rimanga l’unica residua offesa a questa straordinaria “identità negativa” da affermare. Come potremmo altrimenti vendere il nostro “corpo morto”, il nostro cadavere, con quel residuo artistico sullo stomaco? Ma si possono sempre accelerare i tempi, prendendo spunto dalla recente vicenda del cinema San Marco. Immaginate quale bell’evento, grandioso e collettivo, potrebbe essere quello, da trasmettere in mondovisione, di raccoglierci sul pubblico viale Carlo III, semmai con l’aiuto coordinato di tutti i costruttori casertani che hanno messo a disposizione centinaia di poltroncine, a deprecare la scomparsa del monumento, che una multinazionale consociata, forse giapponese, ha messo all’incanto, pezzo per pezzo, come “souvenir” borbonico. Qualcuno, poi, raccogliendo i mattoni a prezzi d’amatore, lo potrebbe ricostruire altrove; Bill Gates ne potrebbe realizzare uno splendido CD-ROM come per il leonardesco Codice Hammer e a noi rimarrebbe, finalmente, tra gli “spassatempi” di Casertavecchia o i film della Flora, la memoria di un evento per cui era valso la pena di vivere.
(pubblicato in versione ridotta dal quotidiano «Il Mattino», edizione di Caserta, giovedì 17 luglio 1997, p. 22, con il titolo di Greco: fare Caserta laboratorio d’Italia. L’opinione)
Nota
Ho saputo da suo figlio Fausto che finalmente esiste un sito dedicato a Franco Carmelo Greco. Allievo di Salvatore Battaglia, storico del teatro, intellettuale oltre che studioso di riferimento nella disciplina per l’Università Federico II di Napoli, Franco Carmelo Greco è stato un vero maestro e un esempio da seguire. Questo suo testo, di grandissima attualità, è del 1997 e fa parte dell’archivio di contributi messi in rete. (effeffe)