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Wasted

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di Gianluca Veltri

“Qualcosa era andato storto […], ma per quanto ci pensassi

e ci ripensassi, non riuscivo a trovare l’errore, l’abisso che

se mi guardavo alle spalle si apriva dietro di me, […]

privo di mostri sebbene non di oscurità, di silenzio e di vuoto”.

Roberto Bolaño, “I detective selvaggi”

Correva il lungo decennio dell’oblio. Dieci anni che David Crosby confesserà di aver sprecato. Wasted. L’ex guru della generazione hippie si trascinava come uno spettro. Gonfio di eroina, in cerca di un pusher nel Tenderloin, o di un poliziotto con cui attaccare briga sulla Market. Entrava e usciva di carcere. La musica meravigliosa che aveva regalato al Flower Power tornava a ronzargli ogni tanto confusamente nella testa, come un tarlo o un rimpianto, o un sogno andato a male. Come un’ipotesi ch’era stata vera un tempo e ormai non riusciva più a farsi realtà. Le armonie si trasformavano in polvere prima di uscire dalla sua mente. Qualche amico cercava di tirarlo fuori dal suo cono d’abisso: Neil Young gli dedicava una canzone, Jackson Browne andava a casa sua a Mill Valley, al di là del Golden Gate, per tentare di scuoterlo e convincerlo a disintossicarsi. Senza fortuna.

Nel 1988 esce un disco a firma CSN&Y: non è memorabile, a partire dal titolo, fuori tempo massimo: “American Dream”. Passerebbe inosservato, se verso la fine non fosse attraversato da una lama di luce accecante: un pezzo finalmente, di nuovo, a firma David Crosby. Si intitola Compass. È lui. La chitarra riprende a tintinnare armonie colme di sospensione, la voce è vissuta e dolente. È lì che Crosby parla dei suoi anni gettati via. Sembra un fantasma che sia tornato da un luogo inaccessibile agli altri.

Com’era finito in quel buco nero il principe del raga-rock?

Nel 1965, 24enne, Crosby era nel quintetto-base storico dei Byrds, in quel dream team che avrebbe sfornato lucentezze in serie, dalle rivisitazioni elettriche dylaniane alle visioni spaziali a occhi spalancati. In questo manipolo di pionieri, Crosby era quello più all’avanguardia: le sue composizioni sono quelle più scorbutiche e pensose; oniriche, introverse, acide. “Why”, “Mind Garden”, “Triad” (non pubblicata se non qualche anno dopo) , “Everybody’s Been Burned”. Sebbene il suo spazio aumenti dopo la fuoruscita dell’altro sublime songwriter della band Gene Clark, Crosby sente sacrificata la propria visibilità a causa dell’ego di Roger McGuinn. Lascia i Byrds. Comincia qui la sua personale geografia dell’irrequietezza. Comincia un triennio che lo consacrerà, neanche trentenne, come il leader non di una semplice band, bensì di un intero movimento generazionale. L’incontro con Stephen Stills e Graham Nash, velato di leggenda, consacra il trio come portabandiera di un’epoca nuova. We Can Change The World. Issati nulle navi di legno, le wooden ships, i nostri, paladini a Woodstock con l’aggiunta di Neil Young, agitano la bandiera del sol dell’avvenire.

Dov’era svanita, un decennio più tardi, tutta questa luce? Che dispersione pazzesca doveva essersi verificata per permettere tanto sciupìo? Che fine aveva fatto l’energia di quell’enorme comunità che doveva cambiare il mondo? Woodstock e i bassifondi di San Francisco erano distanti anni luce. Eppure li separavano soltanto una manciata di anni. Anni in cui Crosby, coi suoi baffoni e le giacche sfrangiate, aveva composto capolavori come “Guennevere”, “Deja Vu”, “Almost Cut My Hair”, “Long Time Gone”. Anni in cui aveva sperimentato la vetta e poi il dolore più attonito, perdendo in un incidente stradale la sua compagna Christine: l’onda lunga di questa perdita avrebbe proiettato la sua ombra negli anni successivi. Crosby aveva poi pubblicato uno dei dischi-chiave della generazione dei figli dei fiori, il paradiso dei freak: “If I Could Only Remember My Name”. Una koiné californiana – Jerry Garcia, Grace Slick, Jorma Kaukonen, Phil Lesh, Joni Mitchell, Stills, Nash, Young – a suggellare l’epitaffio. Si appone la ceralacca sul ’68, o forse una pietra tombale, sebbene dorata. Con canzoni celestiali come “Laughing”, “Music Is Love”, “Song With No Words”. È l’atto conclusivo, il punto più alto celebrato su disco di qualcosa che è finito per sempre (proprio mentre sta finendo). Dopo quel disco, è come se si sganciasse dal cielo un pezzo di montagna, precipitando in migliaia di schegge.

Crosby continua con Nash. Ma ascoltare il loro (ottimo) album che ha i loro nomi per titolo, uscito appena un anno dopo “If I Could…”, provoca uno shock straniante. La diga è crollata: loro, sentinelle del futuro, sono come usciti da una sbornia. Lui, David, è il Tiresia che capta gli anni che verranno. Quelli di Crosby & Nash sono dischi belli e desolanti, di reduci, ripiegati si se stessi, canzoni tristi cantate da ex-qualcosa. L’ultimo lampo, una specie di sequel ben simulato, è il disco della barca, nel 1977. In quei solchi ci sono tre meraviglie di Crosby destinate a rimanere le ultime per un bel po’: “In My Dreams”, “Shadow Captain”, “Anything It All”. Qui si chiude uno spesso sipario. Il capitano dell’oscurità prende il timone. David Crosby è un tossico, vive esclusivamente di droga. Non c’è più spazio per i sogni, quelli degli anni ’60 si sono deformati in vaghe ombre spettrali.

A metà degli anni ’80 il mondo si è ormai scordato di Crosby. Qualche giornalista più sensibile (si) chiede dove si sia cacciato. È la figura di un passato prossimo divenuto già remoto, un eroe guastato. Il frutto sbagliato di un’epoca giusta; il frutto giusto di un’epoca sbagliata. Quel che si sa di lui è solo che si è perso, che si è perduto. Il carcere è la sua seconda casa. Non canta più. La sua chitarra non suona più, è coperta da uno strato appiccicoso e opaco di brutte giornate e notti angosciose. Le corde diventano ruggine. Quelle meravigliose accordature aperte traboccanti di suoni e mondi non risuonano più.

Poi arriva “Compass”. I have wasted ten years in a blind-fold. Il processo è stato lentissimo, pieno di tentativi falliti, lusinghe e trabocchetti, rinunce e ricadute. Ma David infine si è aggrappato a una barchetta di legno, non è una nave, ma insomma. Lo aiuta a vivere l’amore per la sua famiglia, la moglie, la figlia. Recupera con vigoroso candore il tempo perduto. Torna a fare dischi: a diciotto anni dall’esordio-epitaffio “If I Could Only Remember My Name”, una vita fa, licenzia un disco il cui titolo è la risposta a quell’altro titolo: “O Yes I Can” (prima di Obama). Dopo solo quattro anni esce un altro disco ancora, “Thousand Roads”. David ha fame di vita come può succede solo a un sopravvissuto. Gli accadono varie cose, come a compensare lo spreco perpetrato. È richiesto come artefice maschile in alcuni casi di inseminazione artificiale, tanto da essere ribattezzato “inseminator”; scopre di essere padre di un giovane musicista di nome James Raymond, avuto da una relazione negli anni ’60; recita nel film “Hook” di Spielberg; entra per due volte nella Rock and Roll Hall of Fame, una volta con i Byrds, l’altra qualche anno dopo con Stills e Nash; si sottopone a un trapianto di fegato rischioso e complesso, poi infine risolutivo. Suona e incide nuovi album con il figlio ritrovato, nel nuovo trio CPR (il terzo, la P, è Jeff Pevar, giovane chitarrista crosbiano). È in tour coi vecchi sodali del pleistocene hippy. Ed eccolo a New York accanto ai contestatori globali del nuovo millennio, a Occupy.

Nel 2014 esce, a venti anni dal precedente, il quarto album a suo nome, “Croz”. Insomma David Crosby è più che mai intenzionato a riprendersi indietro un poco del tempo che ha sprecato. Come un naufrago che ha ritrovato la costa. Può succedere che te lo trovi su un palco, da solo, nella versione più sincera e priva di mediazioni possibile: voce & chitarra. Te lo puoi permettere, se hai qualcosa di importante da raccontare.

Stanze di confine

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di Emilio Rentocchini

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A gh’è del gran sgumèdi in gir per l’èra
mèsa sfaltèda e mèsa a prê, la lus
ch’la tàca a tavanèr tra tèra e gèra
la s’ingróggna ogni tant e la s’ardùs
davanti a n’èla scura ch’la la sèra
e a fa sintìr al cèr d’èsers intrùs
in óna guèra a ósta. N’èter dè,
straniér da l’univèrs, as dèsda acsè.

 

Ci sono delle gran sgommate in giro per l’aia
metà asfaltata e metà a prato, la luce
che inizia a vagolare tra terra e ghiaia
s’irrigidisce ogni tanto e si riduce
davanti a un’ala scura che la serra
e fa sentire al chiarore d’essersi intruso
in una guerra alla cieca. Un nuovo dì,
estraneo all’universo, sorge così.

Sul Vulcano: intervista al regista Gianfranco Pannone.

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Vesuvio, immagine del documentario Sul Vulcano
Vesuvio, immagine del documentario Sul Vulcano
Vesuvio, immagine del documentario Sul Vulcano

Igiaba Scego

Sul vulcano, l’ultimo film documentario di Gianfranco Pannone, [presentato nella selezione ufficiale, Fuori concorso, alla 67ma edizione del Festival del Film di Locarno] oltre a continuare il tour nelle sale cinematografiche di tutta Italia, arriva anche in Home Video distribuito da Cinecittà Luce.

Un film documentario che è un po’ un’eruzione di immagini, colori, parole, visi, citazioni. Il Vesuvio ci appare qui in tutto il suo fulgore di morte e possibilità.

Un viaggio attraverso lava e ricordi che il regista ha compiuto anche partendo dalla sua esperienza personale del vulcano.

Descrivendo le vite di Maria, Matteo e Yole, Gianfranco Pannone descrive uno dei territori più magici e più martoriati d’Italia.

Nazione Indiana: Come ti è venuta l’idea del film?

Gianfranco Pannone: Sono nato a Napoli, ma non ci ho mai vissuto realmente. E questo invece di allontanarmi mi ha avvicinato a lei, al punto che anche con i miei film torno periodicamente nella “mia” città. Per me Napoli è il mondo, anche perché da quelle parti non si mette la polvere sotto il tappeto e la vita viene esaltata in tutte le sue forme. E’ una metropoli, insomma, dove le miserie e le nobiltà sono sotto gli occhi di tutti, così come accade in altre città del Mediterraneo, a Istanbul o a Il Cairo… I miei ricordi dell’infanzia sono ancora vivi: il dialetto, gli odori, quel senso di vita e di morte che si intersecano a ogni istante, in ogni angolo della città, tutte cose che provavo da bambino come da adolescente, quando ero a trovare i miei parenti o le mie ragazze, guarda caso sempre tutte partenopee. Napoli mi incantava e al tempo stesso mi metteva paura e certamente sui miei timori pesava anche la presenza del Vesuvio, che vedevo dal centro della città, a Largo Donna Regina, affacciato alla terrazza dei compari che abitavano sopra casa dei miei nonni paterni. Fantasticavo sul vulcano anche perché erano ancora vivi i ricordi magici e terribili di chi visse in prima persona l’eruzione del Vesuvio nel 1944. Mi raccontava l’altra nonna, quella materna, sfollata con la famiglia non lontano dal cratere, che per via della “pioggia” di cenere seguita all’eruzione (e dopo i cento e più bombardamenti degli angloamericani su Napoli), lei fosse convinta che si era arrivati ormai alla fine del mondo.

N.I.: Ti ha sempre affascinato il vulcano?

G.P.: Sì, i vulcani in genere mi affascinano molto. Ho ancora ben chiaro il ricordo di una notte passata in cima al cratere di Stromboli, che ribolliva a bassa intensità. Fantastico! Senti l’energia che ti entra dentro, però ti percepisci anche molto piccolo, sai che da solo non ce la puoi fare… Ecco perché a Napoli e nell’area vesuviana in particolare c’è una grande fede religiosa, specie negli strati più bassi della popolazione. La fede in Dio e nei santi è una necessità dovuta anche ai capricci periodici del Vesuvio e di fatto finisce col rendere più profonda la gente di quei luoghi, che noi siamo abituati a considerare, invece, superficiale per via dei suoi eccessi teatrali, in realtà, a mio giudizio, solo la facciata di un “male di vivere” ben più profondo. Ecco, il vulcano, restituisce una grande vitalità, non solo perché con le sue “invasioni” periodiche rende la terra più fertile, ma perché ci costringe a fare i conti con ciò che è oltre noi. Un tempo ai piedi del Vesuvio si onorava Dioniso/Bacco, ieri come oggi si pregano le numerose Madonne del posto, San Gennaro e tanti altri santi… Sapevi che Napoli, dopo San Gennaro, conta ben 99 vicepatroni?

Gianfranco Pannone durante la lavorazione del documentario.
Gianfranco Pannone durante la lavorazione del documentario.

N.I.: Come hai proceduto nel lavoro?

G.P.: Mi sono prima documentato sui miti, le leggende e le evocazioni letterarie intorno al Vesuvio, arrivando alla conclusione che sul “formidabil monte”, come lo canta Leopardi ne La ginestra, si potrebbe fare anche una serie di 20 puntate. Allora ho deciso che dovevo diventare un piccolo viaggiatore e ho cominciato a fare il flaneur sopra e sotto il vulcano, ficcando il naso un po’ dovunque, da solo o in compagnia del mio direttore della fotografia e soprattutto amico e complice, Tarek Ben Abdallah, alla ricerca di punti di vista diversi, meno scontati sul Vesuvio. E ho scoperto che i vesuviani conservano una verità delle cose, una genuinità più forte che la gente di Napoli. Se oggi, per esempio, dovessi fare un casting per un film, le persone me le andrei a cercare tra Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Somma Vesuviana, Ottaviano… dove ancora sopravvivono facce vere scavate dal tempo e dalla storia. Napoli, invece, si è imborghesita e anche molto involgarita nell’hinterland. Ha in buona parte perso quella poesia che aveva tanto incantato Pasolini e che, infine, mi ha spinto a fare questo film. Perché Napoli è il mondo, va solo vissuta e “letta” con amore e un pizzico di distanza, per non farsi fagocitare dalle sue affascinanti e pericolose sirene.

N.I.: Come hai trovato i tre testimoni della storia?

G.P.: I miei testimoni un po’ me li hanno presentati gli amici che mi hanno dato una mano durante la preparazione, ma soprattutto li ho incontrati per caso. Matteo, il pittore che dipinge con la pietra lavica, è diventato presto un compagno di strada e abbiamo così trovato il modo di confrontarci diversi mesi prima che cominciassero le riprese. Yole, la cantante “neomelodica” e Maria, che vive nell’azienda florovivaistica di famiglia, sono invece arrivate dopo, le ho incontrate, appunto, facendo il flaneur. In Maria, per esempio, mi sono imbattuto, per così dire, da rabdomante, cercando una villa vesuviana del ‘700 abbandonata, che è proprio di fronte alla casa di lei. Attraversavo le terre intorno alle Vesuvio come si cammina in una sorta di paradiso perduto, ma mai e poi mai sarei potuto arrivare a trovare una strada per il mio film, oserei dire, esistenziale, senza incontrare Maria e le tante altre figure “minori” che contornano il film, sempre in bilico tra razionalità e fatalismo. Un fatalismo generato non solo dalla storia, ma appunto, da un vulcano che da sempre prende e dà.

N.I.: Come mai hai unito documentario e letteratura?

G.P.: Sono rimasto molto affascinato se non addirittura soggiogato dalle tante suggestioni letterarie che “cantano” il Vesuvio, dagli scritti di Plinio il giovane alle parole infuocate di Malaparte… Amo molto mettere insieme cultura “alta” e cultura “bassa”, ecco perché lungo il film i testi di scrittori come De Sade, Marai, Matilde Serao…, affidati alle voci degli attori, si incrociano con le vite vissute di chi con il Vesuvio ci convive ogni giorno. E tra questi ho scelto anche il nume tutelare di Sul vulcano, Giordano Bruno, il monaco filosofo bruciato a Campo de fiori per eresia dall’Inquisizione. E’ lui, nato a Nola, proprio sotto il vulcano, a rappresentare un certo spirito del luogo, uno spirito vesuviano duro a morire, dove vita e morte si intrecciano costantemente e dove il vulcano attivo può essere anche un amico se visto da una certa prospettiva. “Guarda laggiù il Vesuvio, può esserti fratello”, dice in sogno il dirimpettaio Monte Cicala al giovane Giordano che guarda con timore verso il cratere spoglio di vegetazione; una testimonianza letteraria che nel film ho affidato alla voce calda di Toni Servillo. Insomma, il Vesuvio non è necessariamente un nemico, ma al contrario può essere dispensatore di energia positiva. Il problema è che oggi i partenopei hanno dimenticato questa grande sapienza, finendo persino con il costruire le proprie case sulle antiche strisce laviche!

Matteo Fraterno uno dei protagonisti del documentario Sul Vulcano.
Matteo Fraterno uno dei protagonisti del documentario Sul Vulcano.

N.I.: Il materiale d’archivio? Come ci ha lavorato?

G.P.: Volevo fonti d’archivio diverse da come lo conosciamo abitualmente. E le ho trovate scegliendo materiali di repertorio spesso non montati, in particolare alcuni girati dagli operatori dell’Istituto Luce tra il 1929 e il 1932, un periodo curiosamente lungo di bassa attività del Vesuvio poco conosciuto ai più, e quelli americani dei Combat film risalenti al 1944, quando il vulcano si risvegliò nel bel mezzo della guerra. Così, mettendoli in relazione con le riprese di oggi, concepite con il direttore della fotografia fuori da ogni forma di reportage e, dunque, molto attente alla composizione, con la mia montatrice, Erika Manoni, ho optato volutamente per il repertorio sporco, laddove era possibile, lasciando ben visibili gli statici e le ripetizioni di ripresa, dando così maggior risalto ai fiumi lavici di settanta-ottant’anni fa. Di solito si fa il contrario, ma questa volta ho pensato bene di insistere da un lato, con il girato di oggi, su una calma apparente, quasi una suspence, che accompagna la vita ai piedi del Vesuvio “inerte”; e dall’altra parte, sul fronte archivistico, di dare al contrario un sensazione di forte instabilità, quella che “dona” un vulcano visibilmente attivo, restituendo, insomma, al pubblico quella sensazione di non completo, di incerto che si avverte convivendo con una montagna viva.

N.I.: Cosa ti ha regalato questo film?

G.P.: Mi ha regalato la consapevolezza di essere nato in una grande città, in quel “paradiso abitato da diavoli” di cui scrisse qualcuno un bel po’ di tempo fa, inevitabilimente legato alla presenza del Vesuvio. Pensaci bene, nel cuore del Mediterraneo c’è una metropoli, per secoli importante capitale del Sud, che da più di duemila anni vive ai piedi di un vulcano, il quale periodicamente si riaccende anche in modo violento! Ecco perché a Napoli e nell’area vesuviana tutto è in bilico, tutto e relativo… Sai qual è la formula magica dei napoletani? “Se po’ fa!”. Si, si può fare tutto a Napoli, persino accettare il male della camorra. Ed è in ciò la tragedia. Ma – come dire? – il bene lo scopri solo attraverso il male… Un pensiero di matrice cattolica che fa storcere il naso a molti, ma nel quale io, pur da laico, comunque mi riconosco, forse perché, nato a Napoli, sono infine un pezzetto di lava che si è sovrapposta ad altra lava.

N.I: Il vulcano è quello che erutta o il cemento?

G.P.: Ho intitolato il mio film Sul vulcano perché a Napoli e dintorni si vive sopra un cratere geologico e, non dimentichiamolo, anche sociale. Dalle mie parti, negli ultimi decenni in particolare, ognuno ha fatto un po’ come gli pareva, non c’è stata una cultura in grado di preservare i “beni comuni”, la collettività. Intorno al Vesuvio imperversano le case abusive come le discariche e il degrado è un po’ ovunque. Perché tanta criminale trascuratezza? Io credo perché dentro di sé chi appartiene all’area vesuviana porta un male di vivere: prima o poi il Vesuvio si porterà via tutto e allora perché costruire una società migliore? Non bisogna dimenticare però che, per contrasto, esistono a Napoli una cultura giuridica e filosofica che non hanno eguali in Italia; questo proprio in contrapposizione a chi non crede in nulla e in nome di quel nulla crea solo distruzione intorno. E’ vero comunque che, grazie a una connivenza che ha visto agire insieme politica, malavita organizzata e comuni cittadini, ai piedi del Vesuvio ha fatto più danni l’uomo in meno di cent’anni che il vulcano stesso in venti secoli!

N.I.: C’è qualcosa del Vesuvio che ti ha affascinato?

G.P.: Mi affascina comunque la vitalità della sua gente. E’ come se quella ferita aperta sul mondo esterno, che di fatto finisce con l’essere un vulcano, sprigionasse costantemente energia vitale; un’energia inevitabilmente positiva e negativa, che porta con sé bene e male, insomma. Certo a Napoli e dintorni il libero arbitrio non può essere percepito come valore assoluto, si avvertono delle energie che non dipendono solo da noi e che si esplicitano nel credo religioso, al punto che una giovane cantante dichiaratamente lesbica come Yole, una delle mie testimoni, tutta immersa nel mondo di oggi, è una autentica devota della Madonna dell’Arco! Qualcosa che non accade nelle altre città… Lo aveva ben capito anche Rossellini nel suo magnifico Viaggio in Italia. La coppia di borghesi benestanti inglesi, protagonista del film, si ricongiunge finalmente sullo sfondo di una processione giunta al suo apice religioso, come se dalla devozione della gente del posto si propagasse un energia che investe finanche le persone estranee a quella cultura. Siamo non troppo lontani da una religione magica, sincretica… dove l’ambiguità accompagna le cose piccole e grandi della vita, qualcosa che ho cominciato a capire anni fa seguendo Roberto De Simone come assistente volontario al San Carlo e immergendomi nei suoi studi sulla cultura popolare campana. Il Vesuvio è maschio per la letteratura ed è femmina per i contadini, che infatti lo/la chiamano ‘a muntagna. Per me è l’uno e l’altra e non a caso la sua voce l’ho affidata a quel grande attore “androgino” che è Enzo Moscato. Ecco, sono completamente soggiogato dalla natura ambigua del Vesuvio, dove Dioniso come lo yn e lo yang rappresentano uno stesso approdo.

N.I.: E c’è qualcosa che ti ha spaventato?

G.P.:Mi spaventa la facilità con cui i vesuviani dimenticano il buon vivere comune. Mi spaventa certo loro individualismo malato, che a volte può condurli persino all’indifferenza, in un misto di terrore e cinismo che li tiene lontani dal senso di responsabilità che è una componente fondamentale del cittadino moderno. Non dimenticherò facilmente le immagini, riprese da una telecamera a circuito chiuso, di un’esecuzione camorrista avvenuta nel pieno centro storico di uno dei tanti paesoni dell’hinterland napoletano: l’uccisione a freddo di un uomo davanti ad adulti e bambini… Nessuno subito dopo l’agguato si è avvicinato al corpo della vittima, che poteva essere ancora viva, ognuno se ne stava per i fatti propri e questo è difficile da digerire!

Lo racconta, d’altro canto, molto bene Curzio Malaparte ne La pelle, che non a caso ho citato nel mio film: la gente a Napoli si sveglia solo quando accade una tragedia provocata dalla guerra o dal Vesuvio stesso. Allora ecco che scende come lava la collera della plebe; una collera terribile, belluina, che si riversa non solo sui più deboli, ma anche contro il potere, di solito lasciato libero di fare ciò che vuole in cambio di un pezzo di pane. Si racconta che l’ultimo episodio di cannibalismo in Europa fu alla fine dell’esperienza della Rivoluzione francese a Napoli, quando i popolani, per sfregio, si mangiarono alcuni giacobini fatti prigionieri, dopo averli uccisi e cotti sul fuoco. Qualcosa di terribile, che evoca immagini dantesche, come del resto è dantesca la grande “caldara” degli stessi Campi Flegrei, l’altra area vulcanica a rischio eruzione. Perché, non dimentichiamolo, sono gli esperti stessi che da tempo parlano di un possibile risveglio dei due vulcani di qui a un tempo relativamente breve.

N.I.: Hai pensato ad un pubblico per questo film?

G.P.: Ho pensato a un pubblico curioso, non necessariamente colto, magari composto da giovani che sanno ben poco delle magnifiche commistioni naturali e culturali che “vorticano” sotto il Vesuvio. Sono certo che questo pubblico esista, contrariamente alla vulgata che vuole tutti cinicamente indifferenti, oltre che ignari, di ciò che accade intorno a noi. E i riscontri positivi che ho verificato portando il mio film in giro per l’Italia, mi fanno pensare che un po’ di ragione ce l’abbia a essere ottimista, malgrado tutto.

Le foglie di Suez

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???????????????????????????????di Nicola Fanizza

 

 

«A pisciare contro vento prima o poi ci si bagna!». Lo sanno bene i marinai che stanno sulle barche e tutti quelli che vivono sulla costa. Gli abitanti di Mola sono da sempre attenti ai mutamenti del vento e, per estensione, anche al vento in politica. Qui hanno davvero fiuto, arrivano sempre prima degli altri. Appena si accorgono che il vento sta cambiando direzione, diventano, sul piano politico, amplificatori del vento! Tuttavia, per Domenico Sportelli, andare sulla Rotonda a fare la pipì contro vento – sfidando le onde –, era comunque un piacere! Da qui – forse – la sua tendenza a collocarsi sempre contro lo spirito del tempo. Domenico era un uomo franco, un uomo che diceva il vero, usava, infatti, la parresia: ossia il dire la verità, correndo un rischio. Certo, tutto ciò ha comportato per lui parecchi «raffreddori». Si trattava, comunque, degli effetti collaterali, che derivavano da una precisa scelta di vita. Quegli accidenti furono molto importanti nell’economia della sua vita; sono stati, infatti, il viatico che gli ha consentito il transito verso la bella vita, verso una vita sovrana.

Sono ormai pochi quelli che a Mola si ricordano di lui. Eppure questo fiero mazziniano – nato a Conversano il 28 marzo 1888 – per mio padre, che me ne ha raccontato la storia, è stato un autentico eroe: fu l’unico molese a sfidare il fascismo quando il fascismo stava al potere e ne pagò per questo le conseguenze, poiché fu inviato per un anno al Confino di polizia.

Domenico era un bambino dai piedi nervosi. Quando frequentava le elementari, durante le ore pomeridiane, si recava spesso sul porto o sul lungomare. La sua spiccata curiosità lo spingeva ad inserirsi nei capannelli dei vecchi marinai per ascoltare le loro storie. Fu colpito in modo particolare dai seguenti racconti: un pescatore asseriva di aver deviato con una parola magica la direzione di una tromba d’aria che stava per investire la sua barca; un marittimo evocava, a sua volta, la crudeltà di un sottufficiale della Regia Marina che, in occasione di un naufragio – ritenendo che la scialuppa di salvataggio fosse oltremodo carica e che potesse rovesciarsi –, aveva impedito agli altri naufraghi di salire a bordo, tagliando loro le mani con un’accetta; il marinaio più vecchio, infine, raccontava delle sue avventure nel Mar Rosso, diceva che era stato a tal punto colpito dalla bellezza delle foglie  di Suez, – Aglaonema modestum –, da spingerlo a portarle, insieme ai fioroni allo zucchero, dall’Egitto a Mola. Qui quelle foglie – almeno fino agli anni Sessanta – hanno abbellito le case dei molesi. Sono state per molto tempo oggetto di dono reciproco. Ricordo che quando le mie sorelle andavano in visita dai parenti o dalle amiche, bussavano con i piedi, poiché portavano, per l’appunto, le foglie di Suez! Nondimeno, oggi, quelle foglie a Mola non ci sono più. Ciò che rimane è solo il loro fantasma.

Domenico andava spesso anche sul lungomare per osservare le onde. Tentava di isolare nel frastuono delle onde che si infrangevano sulla scogliera le piccole percezioni di una singola onda  che gli stava a cuore. La vedeva avvicinarsi alla scogliera per poi tornare indietro, delusa, tutta bianca d’emozione. E, tuttavia, avvertiva che quell’onda non si arrendeva, poiché riprendeva coraggio e ritornava … Domenico era convinto che  le onde  avessero un’anima, che portassero un carico di mistero, e che avessero voglia di farsi ascoltare. Il guaio è che, benché prestasse la sua massima attenzione alla loro piccole percezioni – non riusciva mai coglierne il senso.

Il mistero delle onde e quei racconti fantastici o cruenti diventavano il fuoco da cui si originavano le sue fantasie. Domenico sognava di fare il marinaio, il pirata – e giammai l’ufficiale – e vedeva, comunque, la sua vita sul mare e nel mare nella speranza di scoprire il linguaggio delle onde.

Nondimeno, dopo aver conseguito la licenza elementare, il padre di Domenico, che svolgeva l’attività di intagliatore del legno, determinò in modo diverso il suo destino, poiché lo inserì nella sua bottega che era ubicata in via  Niccolò van Westerhout.

Quella strada aveva un’anima. Vi era ubicato il Teatro comunale ed era costellata da numerosi palazzi, che erano abitati dal patriziato cittadino. A partire dagli anni Trenta, ha abitato in quella via anche la mia famiglia e mia madre ricordava con nostalgia la sua vitalità. Quella strada era molo importante per lei che veniva da Rutigliano: «lì – diceva – si sentiva meno sola, poiché era un luogo di passaggio e, ancor, di più di incontri».

Quella strada si rivelò importante anche per Domenico. Qui, al n. 26, abitava Piero Delfino Pesce, che a partire dal 1911 aveva fondato il settimanale – e, insieme, la casa editrice – «Humanitas». La vicinanza favorì la loro amicizia. Domenico nei mesi estivi si levava molto presto e verso le cinque del mattino vedeva, a volte, rincasare Pesce, il quale aveva preso l’abitudine di regalare al suo amico intagliatore una copia del suo giornale che era stato appena stampato.

In quanto «Uomo di vasta cultura  e di facile eloquio – così scrive il prefetto di Bari in rapporto del 1929 – che ha avuto largo seguito in specie fra gli elementi giovanili e intellettuali»1, Pesce contribuisce in modo sensibile alla formazione culturale e politica di Domenico.

Quest’ultimo ogni settimana leggeva la gazzetta «Humanitas» e ne discuteva col suo amico direttore. Dopo un lento noviziato, Domenico pervenne a una solida formazione culturale. Rivolgeva la sua attenzione agli autori che cercavano la verità e guardava con diffidenza quelli che erano certi di averla trovata. Ma lo scrittore che maggiormente lo affascinava era Walt Whitman, il quale aveva cantato: «Io sono per coloro che non sono mai stati dominati, / per uomini e donne le cui tempre non sono mai state dominate, / per coloro che leggi, teorie, convenzioni non potranno mai dominare …».

L’avvento del fascismo al potere gli apparve, pertanto, come frutto di un furto, di una spoliazione. E tuttavia tale spoliazione era, anche, frutto della rinuncia dei cittadini italiani a usare la loro sovranità. «Avere una persona che pensa per noi, che ci governa, che si prende cura di noi – diceva spesso Domenico – fa sempre comodo. Poi, è sempre possibile dire che ci hanno ingannati!».

Dopo il 1925/26, con l’instaurazione della dittatura, Domenico, che intanto aveva preso moglie, continua a manifestare la sua ostilità al fascismo. Viene più volte ammonito, ma non si arrende. L’occasione gli viene data dal «Crack Alberotanza»2. La bancarotta fraudolenta, perpetuata nel 1930 dal banchiere Nicola Alberotanza ai danni di un cospicuo numero di risparmiatori molesi, spinge Domenico a ingaggiare la sua ultima battaglia contro il fascismo. Grazie alla complicità dei gerarchi del fascismo pugliese e al vile assenso dei dirigenti locali del Fascio, Edgardo Monetti – commissario prefettizio al Comune di Mola – era riuscito a utilizzare al meglio la sua carica politica e il tessuto dei suoi legami familiari a vantaggio del bancarottiere, arrecando così un grande nocumento agli interessi di numerose famiglie molesi. Preso atto di tale disegno, Domenico si mise in gioco in difesa dei risparmiatori truffati, stigmatizzando, pubblicamente, e in più occasioni la «mostruosa frode»: ovvero l’intreccio criminogeno fra il bancarottiere e i gerarchi del fascismo pugliese.

Lo scandalo Alberotanza si configura come uno spaccato emblematico dell’Italietta del Regime e dei suoi discutibilissimi costumi. Edgardo Monetti, con il suo familismo amorale, appare come il tipico funzionario dello Stato fascista, che riassumeva in sé i tanti difetti e le poche virtù della classe dirigente in camicia nera. D’altra parte, non va dimenticato che il cattolico Arnaldo Mussolini, fratello del duce – come emerge dalle fonti3 fiduciarie dell’Ovra – regalò, sulla scorta del suo modesto stipendio di direttore del «Il Popolo d’Italia», alla sua amante, la scrittrice salentina Maddalena Santoro, un appartamento di ventidue stanze a Firenze, un appartamento a Roma per le sue sorelle; un milione di lire in consolidato, seicentomila lire in contanti e persino una radio dal costo di novemilacinquento lire. Da dove arrivavano tutti quei soldi, ancora oggi, è un mistero!

Per di più Domenico nel giugno del 1930 si trovò, casualmente, a partecipare,  presso il salone del barbiere Lonuzzi, a una discussione sulla crisi che aveva investito l’Italia dopo il crollo della borsa del 1929. Alcuni galantuomini affermarono che l’economia italiana si sarebbe ripresa solo grazie a una guerra. Domemico aggiunse che in caso di guerra, che egli riteneva comunque imminente, lo «Stato avrebbe bloccato i depositi postali per vent’anni»4.

Di fatto ciò che Domenico aveva detto nel salone dei galantuomini diventò subito di dominio pubblico. I risparmiatori, già provati dalla crisi del ‘29 e ancor di più dal dissesto Alberotanza, si recarono in massa il giorno dopo presso l’ufficio postale per ritirare i loro risparmi.

Grazie ai delatori, Domenico fu denunciato alla Commissione Provinciale in quanto «elemento pericoloso all’Ordine Nazionale ed alla sicurezza dello Stato»5. Fu lo stesso Mussolini a determinare la pena. Con ordinanza della Commissione Provinciale in data 14 luglio, lo Sportelli venne assegnato al Confino di Polizia per la durata di un anno e destinato alla colonia di Lipari.

Giunto a Lipari, Domenico visse per un anno in un’atmosfera di meravigliosa inanità. Ebbe, infatti, l’occasione di vivere una seconda infanzia. Viveva un una specie di tempo senza tempo.  L’isola gli piaceva, poiché era investita continuamente dal vento. Ogni giorno con gli altri confinati si recava su un luogo d’elezione della scogliera, dove era possibile sfidare le onde pisciando contro vento. Inoltre, continuò  – con scarsi risultati – nel suo tentativo di individuare il linguaggio delle onde.

Verso la metà del luglio 1931, Domenico, scontata la sua pena, poté tornare a Mola, dove fu sottoposto a «opportuna vigilanza» fino al luglio 1943. Dal suo fascicolo personale – aggiornato ogni tre mesi – risulta che «è da escludersi che si sia politicamente ravveduto»6. E non è un caso che il 9 maggio del 1936, in occasione dei festeggiamenti per la conquista dell’Impero etiopico, i  militanti del GUF di Mola – Gruppi Universitari Fascisti – mettessero alla gogna il nostro Domenico. Gli studenti universitari misero sulle sue spalle una bandiera tricolore e lo costrinsero a sfilare con loro per le vie del Paese.

Il 26 luglio del 1943 Domenico come al solito si levò presto. Si recò in piazza XX Settembre per prendere il caffè al bar Vittoria e scorse sul volto di signor Nino – il proprietario del bar –  un insolito sorriso. Uscito dal bar, incontrò un medico, che lo salutò in modo caloroso. Gli occhi di quest’ultimo erano contornati da un sorriso disarmante. Si trattava, infatti, di un sorriso che di solito viene rivolto alle autorità in segno di rispetto e, insieme, al fine di ingraziarsele. Quei sorrisi gli apparvero incomprensibili fino a quando, entrato nella sua bottega, accese la radio e venne a sapere che il fascismo era caduto.

Di fatto, in quella occasione, i molesi erano stati presi alla sprovvista, non erano riusciti a fiutare il vento. Nondimeno, consapevoli del fatto che il vento aveva concluso il suo giro, amplificarono il nuovo vento: ossia diventarono tutti antifascisti!

Il giorno successivo alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946, Domenico declinò l’invito a impegnarsi nell’attività politica. Il dolore degli anni precedenti non si era ancora lenito e, comunque, voleva mantenere una debita distanza da quelli che lo avevano perseguitato. Quel giorno stesso si recò a passeggiare sulla rotonda. C’erano i ragazzi che come al solito giocavano, ma ciò che lo rese felice fu la vista di un bambino che sfidava le onde, pisciando contro vento!

 

 

 

NOTE

 

1) Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’InternoCasellario politico centrale, Piero Delfino Pesce, b.  3890.

 

2) Per un approccio esaustivo e puntuale al «Crack Alberotanza», vedi: la limpida sintesi dello storico Guido Lorusso, Aspetti e lotte politiche, amministrative e sociali a Mola di Bari tra Ottocento e Novecento, in AA.VV., Omaggio a Piero Delfino Pesce, (a cura del C.R.S.E.C. BA/15), Edizioni dal Sud, Bari 1989, pp. 88-89; la preziosa e toccante testimonianza del poeta e commediografo Tonino Abatangelo, C’era una volta, Wip edizioni, Bari 2011; e, infine, l’appassionata ricostruzione dallo storico e commediografo Michele Calabrese, Il dissesto Alberotanza, in Mola di Bari. Colori Suoni Memorie di Puglia, Laterza, Bari 1987.

 

3) Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’InternoDirezione generale Pubblica SicurezzaDivisione polizia politica, Fascicoli personali,  Maddalena Santoro, b. 1208.

4) Roma, Arch. Centrale dello StatoMinistero dell’InternoCasellario politico centrale, Giuseppe Domenico Sportelli , b. 4922, fasc. 067700.

5) ibidem.

6) ibidem.

 

Nove poesie

2

di Giorgio Ghiotti

La borghesia a perso
ho letto sul muro
di una sperduta stazione
cremasca. Futuro
che con occhio diverso
ci osservi, da lontano
viene l’amore, dalla mano
del ragazzo che ha mancato
un verbo, caduto in errore,
è la prova che abbiamo
tutti perso.

Azulejos e altre poesie #2. Ana Martins Marques

1

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Tre giovedì in portoghese per tre poetesse contemporanee: Adília Lopes (Lisbona, 1960), Ana Martins Marques (Belo Horizonte, 1977) e Golgona Anghel (Alexandria, Romania, 1979). Una selezione di poesie – ancora inedite in italiano o già introvabili – presentate e tradotte da Serena Cacchioli e Nunzia De Palma.
Smartphoto di Nunzia De Palma.
[ot]

a cura di Nunzia De Palma

Ana Martins Marques nasce nel 1977 a Belo Horizonte. Laureata in lettere, ha pubblicato due raccolte di poesie, A vida submarina nel 2009 (Scriptum) e Da arte das armadilhas (Companhia das letras) nel 2011.
In un’intervista Ana Martins Marques si è descritta con un verso di Marina Cvetaeva: una bambina con indosso un vestito già vecchio, disillusa e allegra. Il verso può essere usato anche per descrivere le poesie dell’autrice brasiliana, che, riflettendo il suo atteggiamento doppio, materializzano la solarità infantile e il disincanto del vestito ora nelle parole ora negli oggetti, duplici anch’essi.
Sia nella prima che nella seconda raccolta il linguaggio assume caratteri dolorosi e salvifici al tempo stesso. Le parole sono ingannevoli, mistificatrici; l’autrice sostiene che, quando scriviamo, partiamo alla loro ricerca, ma siamo sempre noi a cadere nella loro trappola, da cacciatori diventiamo prede. Eppure, come il tavolo della poesia Mesa, le parole sono un suolo che sostiene chi non è ancora caduto, sono l’unica maniera per esprimere la nostra perplessità riguardo al mondo.
A fare da contrappunto ed eco alle parole ci sono gli oggetti che, nella loro muta irradiazione di felicità, appaiono in un primo momento leggeri, una fonte di calore quotidiano. Nella raccolta Da arte das armadilhas l’autrice fa parlare forchette, tavoli, coltelli, orologi, cartoline con una voce inedita, che rivela uno sguardo stupefatto eppure sempre lucido. Anche gli oggetti più innocui, infatti, se guardati attraverso le parole, assumono caratteri inquietanti e dolorosi.
Ana Martins Marques usa versi brevi e poesie concise come un sussurro, che, con la stessa duplicità dell’autrice, risuonano a volte come schiaffi improvvisi.

***

Ho solo parole.
La parola casa.
La parola finestra.
Felice colui che ha
lino, calce, legno.
Felice colui che ha
olio, acqua, catrame, lana.
Io ho solo nomi
verbi, preposizioni, pronomi.
Felice colui che ha
sale, seta, cemento, sangue.
Felice colui che ha una sedia;
io ho la parola sedia.
Felice colui che ha un tavolo;
io ho la parola tavolo.

 

Tenho só palavras.
A palavra casa.
A palavra janela.
Feliz daquele que tem
linho, cal, madeira.
Feliz daquele que tem
óleo, água, piche, lã.
Tenho apenas nomes
verbos, proposições, pronomes.
Feliz daquele que tem
sal, seda, cimento, sangue.
Feliz daquele que tem uma cadeira;
eu tenho a palavra cadeira.
Feliz daquele que tem uma mesa;
eu tenho a palavra mesa.

***

Dei vantaggi di scrivere poesie

Le poesie si possono scrivere in piedi
ma nessuno ha mai scritto
un romanzo in piedi
e questo stare sempre seduti
di certo finisce
per interferire nei romanzi
e non ci sarebbe da meravigliarsi
se ne avesse rovinato
un buon numero

 

Das vantagens de escrever poemas

Poemas podem ser escritos de pé
mas ninguém nunca escreveu
um romance de pé
e isso de estar sempre sentado
certamente acaba
por interferir nos romances
e não será de se estrenhar
se river arruinado
um bom número deles

***

Tavolo

Più importante di avere una memoria è avere un tavolo
più importante di aver già amato in passato è avere un tavolo robusto
un tavolo che è come un letto diurno
con cuore di albero, di foresta
è importante in amore non prendere fischi per fiaschi
ma più importante è avere un tavolo
perché un tavolo è come un suolo che sostiene
chi non è ancora caduto per sempre.

 

Mesa

Mais importante que ter uma memória é ter uma mesa
mais importante que já ter amado um dia é ter uma mesa sólida
uma mesa que é como uma cama diurna
com seu coração de árvore, de floresta
é importante em matéria de amor não meter os pés pelas mãos
mas mais importante é ter uma mesa
porque uma mesa é uma espécie de chão que apoia
os que ainda não caíram de vez.

***

Margine

Alla fine della pagina
come alla fine del mondo antico
c’è un precipizio.

Nonostante chi legga prosa in generale
rischi di più
perché arriva quasi al bordo dell’abisso
attenzione quando si arriva all’orlo di una poesia.

 

Margem

No final da página
como no final do mundo antigo
há um despenhadeiro.

Embora os que leem prosa em geral
se arrisquem mais
porque chegam quase à beira do abismo
cuidado ao chegar à borda do poema.

 

Lo scuru

1

di Orazio Labbate

 scuru_cover_HR (1)Piazza Dante.
Poggio le mani sui lastricati in ardesia, i miei sedili artigianali, voglio fottermi la frescura ficcatasi nelle fessure buie della pietra. Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due, azzanno anche le ossa del pollo e manco mi scanto, non mi caco nei calzoni. Questo caldo fuori stagione. Le scarpe, rovinate, me le sento avvampare, sembrano zone carsiche erose dal fuoco, nei buchi entrano lucertole minuscole, alzo il piede solo per calpestarle. In Piazza Dante, a Butera, d’inverno, le putìe sono serrate, mentre i bastardi assettati si nascondono nelle loro cucine e i termosifoni tossiscono mosche. Le ali rimaste s’attaccano tra le viuzze, il fieto del troppo friddu si mischia agli scarti del macellaio Sciandrù e le bestemmie, che rimbombano dai soggiorni aperti lungo i vicoli, si sciolgono negli orecchi quando mi calo con la testa dentro l’acqua fredda della fontana.
Solo. Io sono da solo, dentro la piazza.
Palpare la morte di un cristiano non m’aggrada, preferisco gustarmela, succhiare fino al midollo il folclore della dipartita siciliana. Quando s’aprono le case, per mostrare il cadavere con la sua pelle screpolata, livida, come di pollo crudo, mi introduco nella camera ardente casalinga, ad odorare quel profumo di gesso friscu. Gli insetti si inerpicano sul ventaglio delle comari, sfilettano impudichi la trama di raso nero e poi si posano sulla bara: legno bello lucidu, di modo che scintilli la cassa dò muortu. Mi brillano gli occhi a ogni ricorrenza, mi brilla l’anima perché io non sono crepato. Le palpebre delle vecchie che si prefigurano la stessa sorte, l’ambiente, che mi porta a benedire il respiro lesto dei miei anni, le conversazioni sottovoce dei presenti:
“Come minchia è morto?!”
“Come se l’è preso u Signuri?”
“Stava in grazia di Dio?”
“Era un disonesto, sa pigghià ìntra u culu”.
“Era a merda, a merda della sua famigghia”.
Mi interesso agli appellativi, mi inorgoglisce discutere del poveretto, in silenzio, mentre la puzza dei fiori e il rancido sole scolorito sui mobili puntella la comicità dello scenario.
Aspetto il buio.

Miti Moderni/ 4: mondi possibili

8
Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977
Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977
Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977

di: Francesca Fiorletta

Nei mondi possibili non esiste il passato, ciascuno si sveglia ogni mattina con gli occhi lividi e caldi, vuoti di sogni, le ciglia lucenti come una tabula rasa, e le giornate trascorrono tutte uguali, tutte diverse, all’insegna di un infaticabile e soporifero istinto di conservazione, lungo la linea gotica del presente progressivo.

Nei mondi possibili l’amore di giacenza si fa in mezzo alle stelle, col profumo di tiglio e le foglie d’arancio nelle orecchie.

Nei mondi possibili è essenziale l’alveare, il nido preparato coi cuscini per la fuga, la tisana della buonanotte servita fredda, col vino bianco, il bacio d’addio rubato tra i muschi e i licheni della seta.

Così non va, Veronica

8

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di

Francesco Forlani

Mai non potrebbe il pianto

Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno

Giacomo Leopardi

Quando ho visto al telegiornale le immagini di lei, l’infanticida sospetta, caricata su un’auto della Polizia tra le urla dei nuovi turisti del “fait divers” che gridavano “vergogna vergogna”, la prima cosa che mi è venuta su dalla pancia è stata di pensare: cazzo dicono questi! smammare via, tutti, sciò sciò.
Quando ho letto delle dichiarazioni della madre grande della piccola madre, della fierezza di una distanza decennale dalla figlia, ho pensato: vergogna! Nell’uno e nell’altro caso si tratta di “scuorne”, ovvero “vergogna di cui ci si deve vergognare” come ho trovato scritto in rete alla definizione della parola napoletana. La Treccani ci dice: scòrno s. m. [der. di scornare]. – Senso di umiliazione e di vergogna, spesso accompagnato da beffa o dal ridicolo, provocato dal fatto di non essere riusciti in un intento, o dall’essere stati facilmente superati o sconfitti da altri: subire uno s.; con suo grave s. ha perso la causa che mi aveva intentato; è stato un grosso s. per lui vedersi anteposto il suo odiato avversario; addorno D’intagli sì, che non pur Policleto, Ma la natura lì avrebbe s. (Dante).

Negli stessi giorni in cui si protraeva la nuova serie della saga famiglia, ho potuto vedere uno dei film più belli, intensi, profondi, su un caso simile a quello che la stampa italiana inforcava tra le menti distratte dell’italica gente: Sorrow and Joy, film del danese Nils Malmros. La vicenda, autobiografica, racconta l’uccisione della piccola figlia di nove mesi da parte della madre affetta da psicosi, ma soprattutto la ricostruzione della storia d’amore tra i due con il difficile percorso di un ritorno alla normalità.

“Una persona con una psicosi non può essere colpevole, e non si tratta quindi di colpa. Volevo mostrare che l’amore conquista ogni cosa”, ha dichiarato il regista danese Nils Malmros.
Vaglielo a spiegare tu, lettore e commentatore di giornali, blog, facebook, al giudice che ha dichiarato a proposito della nostra piccola madre: “non è ragionevole ritenere che di fronte alla tragica situazione di un figlio di 8 anni ucciso in un modo così brutale si rifiuti ostinatamente di raccontare la verità“.

sorrow-and-joy-jakob-cedergren-in-una-scena-con-helle-fagralid-290371-620x350E alla stampa?
In un’intervista allo stesso regista a un certo punto leggiamo: “Quando avvenne la disgrazia, la stampa fu molto discreta: i nostri nomi non vennero mai menzionati nelle notizie. Sapevo che quando la storia del film sarebbe venuta fuori avremmo avuto una reazione forte, ma i media hanno avuto pieno rispetto e così abbiamo deciso di raccontare la verità. No, non mi sono pentito di averlo girato.” (qui l’intervista completa)
Vaglielo a dire tu, lettore e commentatore di giornali, blog, facebook alla Stampa italica.

Nel film, a poche settimane dal tragico evento, assistiamo a una scena che definire marziana sarebbe davvero poco esaustivo.
I genitori degli alunni dell’infanticida vanno a trovare il padre per comunicargli la volontà di tutti i genitori e della scuola di riavere in classe la sfortunata e amata maestra. E sarà proprio questo episodio a dare il via a un percorso lento, di cura in clinica e ripresa della vita activa della donna che la riconquista dell’amore dei due renderà possibile.
Danimarca, eros e civiltà, il marcio non è da voi ma da noi.
Intanto leggo sulla stampa di qualche giorno fa:
“Veronica Panarello, lasciata sola dalla famiglia, riceve la solidarietà della altre detenute: “I vestiti e la biancheria per cambiarsi le vengono dati dalle altre detenute”
La prima cosa che mi è venuta su dalla pancia è stata di pensare: enfin! Almeno loro, ci sono.

La bestiaccia (da “Rogo”)

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di Giacomo Sartori

Anna non riesce a connettere, non sa più nemmeno dov’è, non sa più niente. Sa solo che un fuoco le brucia la carne. Un rogo la scardina, come succede ai tetti che ardono, quando le travi di legno crepitano e si sgretolano, franano su loro stesse. Le sue ossa si stanno staccando le une dalle altre, si dislocano. E lei non può fare niente per fermare quella catastrofe, non può difendersi. Può solo aspettare che la sua coscienza si spenga. Che finalmente la sofferenza cessi.

“Cari bambini dove siete e cosa vorreste da me”

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di Francesca Matteoni

 

Pubblico un breve estratto dal mio saggio Il famiglio della strega sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna, che tratta della relazione fra il famiglio, spirito demoniaco spesso in forma animale, e la strega inglese. Fra tutti i casi, ben noti grazie alla grande produzione letteraria dell’Inghilterra moderna intorno ai processi, questo è forse quello che più mi ha toccato, con la disperazione disarmante di una donna, socialmente accettabile solo come madre, cui una volta persi i figli, non resta che la colpa (f.m.).

 

La strega espiatoria

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di Helena Janeczek

“Senza pietà” anzi di “indole malvagia” è la donna sospettata di aver strangolato il figlio che, davanti al giudice, “tace perché è colpevole”. Questi stralci riportati da tutti i telegiornali e giornali con grande risonanza, sono tratti dall’Ordinanza di Custodia Cautelare che, secondo regole mai rispettate in Italia, non dovrebbe diventare di dominio pubblico. L’amplificazione mediatica ha invece sancito la trasformazione di un’indagine aperta in un processo inquisitorio.

«Se sono stato chiaro, vuol dire che mi sono spiegato male»: il gatto di Philippe Forest

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Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio Editore, 2014
Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio Editore, 2014
Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio Editore, 2014

di: Francesca Fiorletta

Il paradosso del gatto di Schrödinger è definito un “esperimento concettuale”, cioè un esperimento sostanzialmente impraticabile, in natura, ideato e messo a punto nel 1935 per suffragare alcune tesi specifiche della meccanica quantistica.
Brevemente, l’esperimento consisterebbe nel posizionare un gatto in una scatola, dotata di un sofisticato quanto triviale marchingegno, che sprigionerebbe via via delle sostanze più o meno letali per il gatto stesso. Ecco, Schrödinger è arrivato a “dimostrare”, col suo paradosso, che c’è un momento esatto durante la prova, c’è un punto esatto lungo la scatola, in cui il gatto sarebbe contemporaneamente sia morto che vivo, secondo i crismi più dettagliati della meccanica quantistica, ovviamente.
Questo esperimento paradossale, evidentemente, ha molto affascinato Philippe Forest, che da sempre fonda la sua scrittura pragmatica sulla rincorsa di spazio e tempo, sulla rimeditazione continua e imperitura di un unico spazio, di un unico tempo, sulla ricorsività immediata e immateriale di quella che, a ben guardare, può essere considerata l’antinomia ultima, che sta alla base di tutte le ossessioni del genere umano: la vita e la morte.

I fantasmi di Luca Ricci

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di Ornella Tajani

Domestici, familiari, quasi innocui. È il ritratto dei Fantasmi dell’aldiquà che popolano i racconti di Luca Ricci (Napoli, La scuola di Pitagora, 2014), fantasmi d’intérieur che si aggirano in paesaggi privi di una connotazione geografica precisa. L’io narrante e polimorfo mangia sandwich e dipinge staccionate, prende il sole sul prato e sogna piscine in stile David Hockney, prepara biscotti di Halloween e descrive pomeriggi dal sapore di provincia americana. Non ci sarebbe da stupirsi se, accanto al gatto dell’ultimo racconto Il piede nel letto, sbucasse d’improvviso anche l’enigmatico pavone che compare in Penne di Carver, o se la chiazza liquida che si forma nel letto dei due coniugi in Livelli d’acqua non fosse in realtà provocata da un guasto al frigorifero, come in Conservazione, ancora di Carver; nessuna sorpresa se, in una delle cucine di Ricci, si accendesse di colpo una radio «straordinaria» col design curato da Cheever.
Eppure, come si diceva, la latitudine di queste narrazioni è indefinita: sia perché l’attenzione è focalizzata sugli interni piuttosto che sugli esterni («Preferibilmente non si esce mai di casa nei miei racconti», concludeva Ricci in un intervento per la rubrica Usus Scribendi qui su Nazione Indiana), sia perché i fantasmi in generale non hanno indirizzo preciso e riescono a viaggiare nel tempo e nello spazio, in tre moderni minuti necessari a scongelare una pizza al microonde, così come in un battito di ciglia di colore più romantico. Dagli States del XX secolo alla Francia dell’Ottocento: il racconto d’apertura, La lunga attesa, che gioca su un elemento denso di riferimenti letterari come la somiglianza fisica, e crea un tempo coniugale cristallizzato dalla segregazione domestica dopo un funerale, ricorda il Villiers de l’Isle-Adam dei Contes cruels, in particolare quello di Véra, rivisitato però in chiave hitchcockiana; Uscita in giardino, col suo trompe-l’œil troppo attraente per essere completamente finto, solleva una nebbia di mistero in stile Vénus d’Ille di Mérimée. Il fantastico va per la sua strada, viaggiando su un binario parallelo, quasi ucronico, un po’ come gli amici immaginari dell’omonimo racconto, o come il gatto del già citato Il piede nel letto, che appartengono a dimensioni altre, a mondi che la realtà incrocia a tratti e spesso poi abbandona. Come scriveva Calvino su Repubblica, in una vecchia recensione che del fantastico era una piccola enciclopedia, a volte «il soprannaturale è solo in una connessione o sconnessione misteriosa che si delinea tra i fatti di tutti i giorni». Lo sa bene Ricci, per il quale il mistero può risolversi in una sorta di sospensione narrativa, oppure è utilizzato come un ironico grimaldello, che apre a interpretazioni dei fatti molto più concrete: è il caso di La prima bugia, oppure di Ikebana, che si chiude su un finale dal silenzio pinteriano.
Il testo che più di tutti resta impresso, però, è forse L’eclissi. Se il Nuotatore di Cheever compiva un viaggio a nuoto verso il disincanto (di recente Forlani ha proposto per il cinédimanche l’adattamento cinematografico con Burt Lancaster), il protagonista di Ricci esce dal racconto dalla stessa finestra attraverso cui era entrato: ne esce correndo, pensando che “aveva voluto provarci”, e smette di correre soltanto quando è ormai troppo lontano per tornare indietro, così come il nuotatore smette di prendere a pugni la porta della casa quando capisce che l’abitazione è vuota.
Solitudine, bugie, routine, incomunicabilità, tradimenti, senso di inadeguatezza: sono loro, fra gli altri, i fantasmi dell’aldiquà che l’autore convoca in questi racconti brevi, misurati, linguisticamente cristallini e sempre dotati di quella particolare carica elettrica che solo il fantastico, quotidiano e non, sa fornire.
Postfazione di Umberto Silva.

cinéDIMANCHE #09 JONAS MEKAS As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty

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 di Mariasole Ariot

Faccio film di famiglia, quindi vivo. Vivo, quindi faccio film di famiglia
Jonas Mekas

Un diario è segnare (o sognare) tracce per poterci poi tornare, ricalpestare le impronte sulla neve, ri-scrivere una vita sulla vita, costruirne una seconda, darle forma per il dimenticabile che si prepara a lasciarci un istante successivo all’accadimento.

Fragments of paradise – dice : un accesso alle zone intoccabili, indicibili, che raccontano una storia senza storia, la restituiscono con un gatto che si scosta, un letto rifatto, due more che verrano mangiate, un caffé, una parata. I frammenti di vita si slegano dalla cronistoria per mescolarsi, restituendoci particelle di voci e di suoni e visioni e immersioni interstiziali.

The first idea was to keep them chronological, but then I gave up […] because I real don’t know where any peace of my life really belongs

Siamo nei margini, nell’esilio di chi ha lasciato la propria terra – la Lituania, nel villaggio di Semeniškiuose dove Mekas è nato, cresciuto e da cui è fuggito durante l’occupazione stalinista – per fare i conti con il sopravvissuto.
Non nostalgia del perduto ma nuova narrazione di un trascorso impossibile a perdersi, e che deve essere rievocato. I filmini familiari s’intrecciano al ciò che sta fuori – due bimbi che catturano gli animali dai fiori, la sabbia soffiata dalle mani, una fisarmonica a Soho :

About a man whose lip is always trembling from pain and sorrow experienced in the past which only he knows

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Jonas abbandona la sua terra con il fratello Adolfas nel 1944 : classificati come sovversivi per la partecipazione ad un giornale anti-regime, nel treno che li portava a Vienna, vengono intercettati : sono gli anni dell’Elmeshorn, a Displaced Person Camp.

Sono gli anni delle poesie, sono diari, sono lettere. I Had Nowhere to Go verrà pubblicato nel 1991.

[…]Nessuno ci sta guardando mentre leggiamo o scriviamo, nessuno urla o grida. I mostri di Bosch se ne sono andati., scrive al fratello da WiesBaden.

Il 1949 è l’America. Dal diario ai film-diary, dai film-diary ai diary-film.

Diari che contengono la metamorfosi, permettono la trasformazione dell’esserci senza che la metamorfosi crolli nella deformità : e Mekas, passato alla forma filmica del cinediario, diventa occhio che guarda ma che guardando non si sottrae dall’essere guardato : Mekas entra nella pellicola : con la voce, con gli intertitoli tra una scena e l’altra, entra con una mano, un movimento del braccio, un passaggio di strumento che lo riprende, rimescola le parti, le date si sovrappongono, accadono inversioni, spostamenti temporali : è riscrivere una vita. La propria di displaced person ritrovando in una memoria che da intima si fa collettiva, un posto che gli era stato sottratto. As I was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000) è forse la composizione del lavoro di tutta una vita.

Non un attaccarsi al passato senza elaborazione del lutto, ma un’elaborazione del passato che lotta in direzione del vissuto.

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I centri del triangolo: migrazione e neocolonialismo in Sicilia

7

di Stefano Portelli

Quando i migranti sbarcano dall’enorme nave della marina militare che li ha salvati in alto mare, li accoglie un dispositivo di emergenza che è ormai diventato abituale. I medici individuano chi ha bisogno di cure speciali; la polizia registra i nomi e assegna un numero a ognuno; poi entrano sotto il gran tendone della Protezione civile e si siedono o si sdraiano sulle brandine. Intorno al porto di Augusta c’è una delle zone industriali più grandi della Sicilia orientale: il petrolchimico di Siracusa, che dagli anni Quaranta ha insieme salvato l’economia e devastato la salute degli abitanti di questa zona. La fascia costiera compresa tra Augusta, Melilli e Priolo Gargallo è conosciuta qui come il “triangolo della morte”, anche se non ha mai ottenuto la stessa attenzione pubblica che hanno avuto l’Ilva di Taranto o altri scandali nazionali. Da quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti, negli anni Ottanta, alla disoccupazione si è aggiunto un inquinamento che sembra irreversibile: un bambino su venti nasce con una malformazione, e un adulto su tre muore di tumore. L’aria brucia al respirarla e all’orizzonte brillano scure le fiamme sulla punta delle ciminiere. L’Etna è a cinquanta chilometri, ma raramente si vede, avvolto nella spessa bruma bianca; a volte, al porto, gli operatori sono invitati a mettersi al riparo perché una nube gialla di zolfo colora l’aria e avvelena i polmoni. Sono proprio questi tre i paesi scelti dalle autorità provinciali di Siracusa per i centri di accoglienza per minori stranieri.

Per tre mesi ho lavorato per una ONG nei centri del “triangolo”. Una delle mie prime domande è stata: ma perché li chiamiamo così, se del centro questi luoghi non hanno nulla? L’unica cosa che si può affermare con certezza di essi, è che sono periferici, come è periferica la storia dell’inquinamento di queste terre. La vicinanza all’Africa, che oggi significa immigrazione, in altri tempi significava idrocarburi; e nella stessa fascia di mare che ora attraversano i migranti, vengono installate nuove piattaforme petrolifere – proprio di fronte all’altro gran porto della zona, quello di Pozzallo. Ma lo sa solo chi vive qui; nella punta della Sicilia si viene in vacanza, non per svelare oscuri piani di sviluppo industriale.

Stessa cosa avviene per i centri. Quello che vi succede dentro, in genere, non filtra all’esterno, e se filtra, lo fa in una forma che ha poco a che vedere con quello che vive chi ci abita. Innanzitutto, bisogna abituarsi alla lingua franca che si è sviluppata all’interno. I ragazzi “ospitati” qui – tutti maschi, e di diversi paesi – parlano una lingua come quelle dei porti, fatta di pezzi di inglese, arabo e italiano, mischiati con qualcosa dei vari dialetti siciliani. Una parola mi ha colpito sin dall’inizio: il cibo viene chiamato mangerìa. Sulle prime pensavo che fosse siciliano, e che l’avessero sentito da qualche operatore del posto. Ma la parola ha una storia più strana, come ho scoperto in seguito: i subsahariani l’avevano imparata in Libia, nascosti o rinchiusi nei vari carceri e campi di prigionia, e l’avevano portata qui, diffondendola nel campo, molti pensando addirittura che fosse arabo di Libia. Non era arabo: era una parola italiana antica, che da noi ha assunto tutt’altro significato, ma che è rimasta in Libia anche dopo l’espulsione degli italiani nel 1970. Sin dai primi giorni, quindi, questi luoghi evocano frammenti sommersi del colonialismo.

Questa sensazione è diventata ancora più forte quando mi sono accorto che nessun migrante chiama il luogo in cui è ospitato con la parola centro. Il termine che usano è camp. Ma campo, ovviamente, in Europa è una parola vietata: smuove troppe memorie e associazioni che vorremmo mantenere lontane (tranne che per i campi rom…). Con il tempo ho notato poi che i ragazzi chiamano campi anche molti dei luoghi in cui sono rimasti intrappolati in Libia, posti di violenza estrema, di cui molti ancora portano le tracce sulla pelle. Il parallelo in loro sorge spontaneo, tra i campi o le prigioni per rifugiati istituiti da Gheddafi per trattenere i migranti (in cambio dei finanziamenti italiani) e i nostri centri di primo soccorso, che amiamo rappresentarci come luoghi di salvezza dopo le violenze che hanno sofferto in Africa. È chiaro invece che la frontiera è molto meno definita di quanto vorremmo, e che in Europa questi ragazzi si ritrovano di nuovo in dei campi, governati da una variante più sottile, ma ugualmente strutturale, della stessa violenza che hanno sofferto nel resto del viaggio. E dal colonialismo passiamo al fascismo – visto che i primi campi di concentramento del XX secolo sono proprio quelli che i fascisti italiani istituirono in Libia per rinchiudervi gli sfollati della Cirenaica durante la rivolta di Omar Mukhtar.

Si potrebbe continuare. Perché tutte le parole con cui si parla di questo fenomeno – emergenza, trafficanti, minori – nascondono una menzogna, mistificando una struttura perversa e discriminante che ha radici antiche e profonde: un occulto dispositivo di segregazione, che continuamente si sposta, si frammenta, si ridefinisce, per poter rimanere incomprensibile e inafferrabile. Prima era a Lampedusa; ora in Sicilia; presto da qualche altra parte, in qualche altra periferia ancora più difficile da osservare. Ogni aspetto di questo sistema cambia continuamente; capirne a fondo uno qualunque richiederebbe una vita intera. Perché, per esempio, se i ragazzi dovrebbero stare in questi centri di emergenza massimo tre giorni, quasi tutti ci passano moltissimo tempo, anche nove o dieci mesi? C’è chi dice che mancano i posti nelle comunità di accoglienza; altri dicono che è perché la legge non chiarisce chi deve pagare le rette o i trasporti verso i nuovi centri; altri ancora che sono le cooperative che preferiscono mantenerli più a lungo, per guadagnare di più sui fondi pubblici per l’accoglienza. Ogni tanto qualche centro chiude per infiltrazioni mafiose, o circola qualche voce (quando non vere e proprie operazioni di polizia) sui legami tra qualche cooperativa e qualche politico. In ogni caso, il comune di Augusta da un anno è commissariato per mafia, e questo naturalmente rende ogni passo molto più faticoso. C’è anche chi dice che tutti questi sono solo stereotipi, e che quarantacinquemila migranti in un anno sarebbero un problema anche per una grande città, figuriamoci per un paese di quarantamila abitanti; o anche che, vista la situazione, è ammirevole che non ci siano state violenze come a Tor Sapienza. La settimana scorsa, intanto, qualcuno ad Avola ha tirato una molotov contro un centro.

Un altro aspetto è che – a differenza di quanto succede in altri centri di primo soccorso, come a Pozzallo, dove a volte i migranti non possono uscire neanche nel cortile – i centri della provincia di Siracusa sono tutti più o meno aperti. I ragazzi sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, anche di “scappare”, se questa parola ha un senso. Di fatto i siriani, gli etiopi e gli eritrei (cioè, la metà dei migranti che arrivano in Sicilia) non passano mai per i centri: appena sbarcano contattano un taxi o cominciano a camminare sull’autostrada, e velocemente proseguono il viaggio verso il nord. Anche questo cambierà presto, con i nuovi regolamenti dell’Ue; per ora però arrivano nei centri solo persone del Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, le due Guinee, Bangladesh (tutti attraverso la Libia), e poi gli egiziani. Circa uno su tre di loro finisce comunque per scappare, magari per raggiungere qualche familiare al nord; gli altri rimangono, anche se i cancelli sono aperti, e per mesi aspettano che arrivi il famoso transfer verso una comunità di accoglienza per minori non accompagnati, che si faccia carico della regolarizzazione dei loro documenti, e che permetta loro di iniziare ad andare a scuola. Ma passano lì dentro così tanto tempo, che molti perdono la speranza, o anche la voglia, di andar via un giorno da questi centri.

È chiaro che queste sono istituzioni totali: quello che non mi è ancora chiara è la loro funzione. Si tratta solo di separare, di segregare, di allontanare? Non vogliono forse anche educarli all’attesa, all’esclusione, abituare i migranti all’idea che non saranno mai veri cittadini, anche se un giorno otterranno un documento? A questo si aggiunge anche un altro elemento, legato alla minore età, che spesso è solo dichiarata strategicamente per ottenere più facilmente il permesso di soggiorno. Spesso chi lavora o frequenta i centri, anche se sa che sta parlando con degli adulti, finisce per infantilizzarli; anche perché così rispondono meglio allo stereotipo di vittime di cui l’Europa ha tanto bisogno. In breve: se molti avevano pensato di essere arrivati in qualche posto, quando sono stati sbarcati ad Augusta, questi centri gli insegnano che c’è ancora molto viaggio da fare.

Sicuramente il tempo in questi luoghi è uno strumento di esclusione: i tempi si dilatano all’infinito, la quotidianità è dominata dall’attesa, e la ripetizione e la mancanza di fiducia nel futuro generano malessere, anche vere e proprie malattie (una variante dell’institutional neurosis descritta da Russell Barton, mezzo secolo fa). Ma lo spazio è un fattore di cui si parla meno, e che va oltre il fatto che i centri siano ubicati in luoghi malsani. Per cominciare, nessuna di queste strutture è nata per essere quello che è: una era un vecchio albergo, un’altra clinica per anziani, una deposito di taxi, un’altra ancora una scuola abbandonata. L’amministrazione comunale e le cooperative sociali hanno adattato i luoghi per alloggiarvi i minori. I ragazzi stendono i panni sulle reti di recinzione; le camerate hanno ancora i disegni dei bambini attaccati alle pareti; la reception della clinica è occupata dalla polizia; una tettoia per i taxi diventa una moschea, e i ragazzi usano il lavandino del bar dell’albergo per lavarsi i piedi. Tutto trasmette un messaggio di provvisorietà, che però governa le loro vite per mesi e mesi.

Allo stesso tempo questa riconfigurazione dello spazio è anche una crepa attraverso cui penetra un processo inverso: quello dell’appropriazione. Anche se le varie ONG che lavorano qui, e a ragione, spingono perché i ragazzi non mettano radici, e che siano sempre pronti al trasferimento, quello che rende la loro vita meno miserabile sono proprio questi processi di continua presa di possesso e ridefinizione – individuale e collettiva – dei luoghi. Vivendo ventiquattro ore al giorno, per mesi, in questi luoghi mal definiti, i migranti costruiscono degli usi dello spazio che i lavoratori del centro finiscono per accettare, anche se spesso malvolentieri. Gli spazi devono essere negoziati per forza; e se non sempre queste forme di agency sono apertamente sovversive, come i piedi nel lavandino, rappresentano comunque delle strategie di contestazione e affermazione della loro presenza qui. È una variante di quello che scrive Michel Agier sui campi profughi. Questi usi dello spazio indeboliscono delle potenziali istituzioni totali, ponendo freni alla loro pretesa di controllo e infondendo invece in esse una vita, una parte delle loro vite. Nuda vita, forse, ma senza dubbio vita sociale.

Questo è stato evidente nel caso della scuola di Augusta. Nella logica dell’emergenza, quest’estate il comune ha deciso di alloggiare oltre centocinquanta minori in una scuola abbandonata in mezzo al paese, senza neanche affidare la sua gestione a una cooperativa sociale. Le pessime condizioni igieniche della struttura e le continue lamentele degli abitanti del paese hanno portato il caso all’attenzione dei giornali e delle televisioni; le foto dei ragazzi di quindici anni “abbandonati” in cortile tra la spazzatura e i vetri rotti, così come la “promiscuità” delle vecchie aule in cui dormivano diciasette persone, erano ideali per accompagnare gli articoli di denuncia usciti addirittura sul National Geographic e sul Wall Street Journal. Quest’ultimo ha intitolato il suo articolo su Augusta In Italy Migrant Children Languish in Squalor , usando lo stesso verbo che qualche settimana dopo ha usato Al-Jazeera per le prigioni libiche (Libya Migrants Languish in Camps). La pressione pubblica è arrivata al punto che, con l’occasione di una visita di delegati dell’Ue, il comune ha chiuso la scuola da un giorno all’altro, spostando tutti i ragazzi in un altro centro – sempre dentro il “triangolo della morte”. Abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo, visto che la nuova struttura aveva condizioni igieniche molto migliori, e una cooperativa che si sarebbe incaricata dei ragazzi. Ad Augusta i ragazzi rimanevano soli tutta la notte; c’erano episodi di violenze tra loro decisamente inaccettabili, al punto che molti non riuscivano a dormire. Inoltre, c’era gente del paese che entrava nella scuola senza nessun tipo di controllo, implicando i ragazzi in traffici illeciti, o in chissà cosa.

Ma quando ho visitato il nuovo centro per la prima volta, ho capito che l’igiene era l’altra faccia del proposito evidente di ristabilire l’ordine. Oltre venti tra poliziotti e finanzieri, armati, stazionavano giorno e notte all’interno della struttura, con le macchine e i furgoni parcheggiati davanti all’ingresso, passeggiando liberamente per i corridoi; a volte entravano addirittura nelle stanze, manganello alla mano, quando c’erano risse tra i ragazzi. La pulizia del centro riposava la vista; ma il trattamento era molto rigido, e i ragazzi erano chiamati per numero anziché per nome. Molti hanno cominciato a idealizzare Augusta nei loro ricordi. Per quanto degradata e priva di controllo, la scuola era al centro del paese, e da lì era facile incontrare ragazzi italiani della loro età, giocare a calcio nel parchetto, addirittura conoscere qualche ragazza. Queste relazioni, per quanto poco adatte a una situazione di emergenza (e confuse con altre molto meno positive), avevano permesso a molti ragazzi di sentire che erano arrivati in Italia, non solo stipati all’interno di un campo: di prendere confidenza con il nuovo paese, di passeggiare per le strade – certo, anche di mendicare gli spicci per comprarsi una scheda del telefono, che il centro non forniva più; ma anche di mettersi alla prova con la nuova lingua. Nel nuovo centro sono invece quasi completamente isolati, in mezzo a un’urbanizzazione semideserta, lontano da tutto, accanto a un ospizio; i cancelli chiudono la sera e i ragazzi hanno dovuto imparare a controllare gli orari, quando non hanno scelto direttamente di non uscire più perché non hanno soldi per prendere l’autobus. E di nuovo, contrariamente alle loro aspettative, non hanno schede per telefonare a casa. Quindici giorni dopo il trasferimento, un gran numero di ragazzi del Gambia ha scatenato una piccola rivolta, distruggendo i condizionatori d’aria e scrivendo sulle pareti. Ma non c’erano più giornalisti del Wall Street Journal ad ascoltare le loro richieste, né ad osservare le reazioni dei lavoratori del centro o delle forze dell’ordine. Almeno finché qualcuno non ha scoperto che anche la cooperativa che gestisce questo centro è implicata in traffici mafiosi.

Possiamo fare supposizioni, ma ci è assolutamente impossibile capire cosa significhino questi luoghi per queste persone. Nei centri entra solo chi è legato alle associazioni o alle cooperative, e nessuna finora ha espresso una volontà reale di comprendere meglio cosa percepiscono i migranti. Chi è dal lato dei subordinati deve sempre fare grandi sforzi per capire i dominatori; ma i dominatori considerano futile e quasi offensivo doversi sforzare per comprendere cosa pensino i subordinati (lo spiega bene David Graeber nella Malinowski Lecture del 2006). Un giorno, senza dubbio, qualcuno di questi ragazzi scriverà, o racconterà in qualche modo, com’erano questi campi dal loro punto di vista. Quelli che sono ora solo una categoria burocratica, “minori migranti non accompagnati”, riveleranno la loro vera natura storica: nuovi esuli, che attraverso il deserto, il mare, la morte e l’inganno, fonderanno nuove città in nuove terre. Chissà che ruolo avrà Augusta, con il suo triangolo della morte, in questa nuova Odissea. Sarà l’isola di Ogigia, dove il tempo passava tranquillo, anche se vuoto? O forse quella della maga Circe, dove bisogna fare molta attenzione per non essere trasformati in animali?

[questo articolo è uscito in spagnolo su Observatori d’Antropologia del Conflicte Urbà e in italiano su Napolimonitor.it]

Cioran, agonia di un reazionario

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di Mario Sammarone

Per i tipi della casa editrice Bietti è recentemente uscito il libro di Emil Cioran, L’agonia dell’occidente – lettere a Wolfgang Kraus (1971-1990), un carteggio intercorso tra lo scrittore rumeno e il critico ed editore austriaco Wolfgang Kraus, con l’aggiunta, in appendice, di altre due lettere scritte dalla compagna di Cioran, Simone Boué, ed estratti del diario di Kraus che vertono sulla figura stessa di Cioran – la scoperta e la conseguente trascrizione di questo carteggio si deve a George Gutu, avvenuta in maniera casuale durante lavori di ricerca presso l’Archivio Letterario della Biblioteca Nazionale di Vienna.

Celebrare Sade

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di Alberto Brodesco

Convegno SadeIn queste settimane, trascorso da pochi giorni il bicentenario della morte (3 dicembre 1814), sono in corso in diversi punti d’Europa degli eventi in celebrazione di Sade. Una prima importante iniziativa è la mostra “Sade. Attaquer le soleil” al Musée d’Orsay di Parigi, curata dalla grande studiosa sadiana Annie Le Brun. Una seconda mostra, “Sade, un athée en amour”, è organizzata alla Fondation Martin Bodmer di Ginevra per la cura di Jacques Berchtold e Michel Delon, la massima autorità in materia. La prima esposizione va in cerca di Sade trovandolo dappertutto (nei dipinti di Goya, Géricault, Ingres, Rodin, Picasso…); la seconda, più filologica, esibisce manoscritti originali, illustrazioni d’epoca e altri reperti storici quali il calco in gesso del cranio di Sade. Alla dimensione espositiva si sommano poi le iniziative accademiche: un convegno a Parigi (“Sade en jeu”, 25-27 settembre) e uno a Aix-en-Provence (“Les lieux de la fiction sadienne”, 23 ottobre). I risultati scientifici della recente ondata di studi sadiani sono talvolta sorprendenti, come quando, nel corso di una sessione dal titolo “Sade auteur comique?” del convegno parigino, la sala si è trovata a ridere alla lettura di alcuni passaggi particolarmente barocchi delle 120 giornate di Sodoma. Un terzo convegno ad Amsterdam (“Sade Today”, 2 dicembre) ha individuato in Sade un “teorico queer” ante litteram. Gli approcci francesi e quello olandese mostrano delle sostanziali differenze di impostazione: i primi, pur lasciando spazio a ipotesi non convenzionali, partono dall’analisi dei testi; l’altro apre le porte all’attualizzazione e alla libertà interpretativa.

Indicando due direzioni diverse, questi orientamenti scientifici sollecitano considerazioni più generali sulla questione del rapporto della contemporaneità con Sade. Dietro alla possibilità stessa di mostre e convegni, dietro all’odierna divulgazione sadiana o al Sade divulgato stanno infatti due fattori distinti e complementari. Il primo è il secolo e più di lavoro critico su Sade – diciamo da Maurice Heine in poi. Il secondo è una società profondamente cambiata rispetto ai tempi in cui stampare Sade portava a processo gli editori (va ricordato il coraggioso Jean-Jacques Pauvert, morto quest’anno). La convergenza di queste due spinte permette agli organizzatori del convegno di Amsterdam di tenere la loro sessione pomeridiana sul palco del teatro erotico “Casa Rosso” dell’omocromatico quartiere. La disinvoltura con cui si può oggi parlare di Sade si inserisce nel complessivo sdoganamento non solo della pornografia ma anche dell’immaginario BDSM come legittimo oggetto culturale, persino alla moda. Se Sade è stato per molto tempo un corpo estraneo, inammissibile, ora lo si può considerare finalmente uno scrittore, di cui gli specialisti sono autorizzati (e finanziati) a parlare.

Ma quale Sade esce da queste celebrazioni? Se nemmeno Sade, che segna un non plus ultra nella storia della cultura occidentale, si sottrae all’integrazione nella società dello spettacolo, che cosa ha la possibilità di rimanerne fuori? Era la stessa Annie Le Brun curatrice della mostra al Musée d’Orsay a parlare in passato di una “straordinaria resistenza di Sade allo spettacolare”. E invece oggi intorno a Sade si organizzano esposizioni, rassegne di film, un quiz online su The Guardian… Sade diventa addirittura il personaggio di un popolare videogame, Assassin’s Creed Unity. È banale dirlo, ma i quarant’anni che son trascorsi da Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove Pier Paolo Pasolini utilizzava l’inassimilabile Sade proprio a fini anti-spettacolari, hanno prodotto delle conseguenze che caricano di ulteriore forza le argomentazioni pasoliniane. In una società in cui la provocazione è il nuovo conformismo, la sparizione dell’osceno, trasformatosi nell’on-scene di cui parla Linda Williams, porta con sé la scomparsa di uno spazio etico, quello che induce a lasciare dei contenuti al di fuori della scena.
Nel periodo eroico del surrealismo Sade è stato essenzialmente un ispiratore di cattivi pensieri. Schierarsi dalla parte di Sade voleva dire non solo épater le bourgeois ma anche difendere l’indifendibile, sedersi dalla parte del torto. In un testo del 1929-30 dalla strana, paradossale attualità – una lettera mai arrivata ai destinatari intitolata “Il valore d’uso di D.-A.-F. de Sade” –, Georges Bataille tenta in modo complesso e disordinato di liberare Sade dalla trappola dei suoi ammiratori letterari per restituirlo al campo dell’azione rivoluzionaria. Sade è ancora oggi un “prossimo nostro” non per il piacere dello scandalo che sa provocare ma per quanto in esso rimane repellente, per ciò che costringe ad abbandonare la lettura o la visione. Il recupero della forza politica dell’osceno passa per l’apparizione dell’insopportabile e dell’inguardabile.

Se me li sono persi: “Ritornati dalla polvere”

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Bradbury, copertina, fronte

di Eugenio Lucrezi

RAY BRADBURY, Ritornati dalla polvere, traduzione di Giuseppe Lippi, strade blu Mondadori, Milano 2002

È di questi giorni la notizia del ritrovamento di un nutrito corpus di epigrammi di Posidippo, poeta alessandrino che nel terzo secolo gareggiava per fama con Callimaco. Fino ad oggi di lui rimaneva, insieme ad una ventina di frammenti inclusi nell’Antologia Palatina, poco più che il nome, sbiadito dalla povere del tempo. Se di colpo Posidippo è diventato il poeta meglio conosciuto del suo tempo lo si deve alle cure, devote quanto quelle profuse dagli antichi imbalsamatori nel compiere l’operazione inversa, con cui oggi si scartocciano le mummie egizie; ed al fortunato ritrovamento, tra le fasce di una di queste, di un metro e mezzo di papiro recante i segni, fissati in eterno dalle resine, di centocinquanta epigrammi.

Ben altro destino toccava, nell’epoca dell’immenso impero britannico, alla gran copia di sacchi d’ossa e catrame pescati nelle tombe, che venivano usati senz’altro, per la loro eccellente infiammabilità, come combustibile per le caldaie dei treni. Così il Nefertiti-Tut-Express attraversava veloce la valle dei Re, mentre «i fumi neri che riempivano l’aria erano infestati dai cugini di Cleopatra che bruciavano». Ce lo dice Bradbury all’inizio di questo romanzo macabro e gentile, che portando le mummia nelle atmosfere country dell’Illinois ci sorprende almeno quanto a suo tempo ci spiazzarono i Clash di Rock in the Casbah, seppure all’incontrario.

Come le Cronache marziane, che nel 1950 segnarono il folgorante esordio di questo autore, From the dust returned risulta dall’accorpamento di più racconti; come «la grande armada di polvere sepolcrale» che ne affolla le pagine, proviene da un lontano passato, addirittura dal 1945, quando le prime pagine di questa che oggi è una sola, magnifica, narrazione videro la luce su una rivista pulp alla quale il venticinquenne Ray vendeva le sue visioni per mezzo centesimo a parola. Cinquantacinque anni sono tanti, come pochissimi sono i nove giorni impiegati per la prima, pressoché definitiva, stesura di Fahrenheit 451, il suo libro più famoso (non il più bello): ma ogni racconto ha la sua storia, e poi l’idea dei pompieri mandati in giro a bruciare i libri piuttosto che a spegnere gli incendi gli venne ai tempi di McCarthy, in piena caccia alle streghe, e non c’era un minuto da perdere.

Questo romanzo di undici lustri ci dà conto del raduno di una multiforme famiglia di fantasmi in una grande casa «che aveva preso forma come un sogno di Ramsete completato da Napoleone» su una solitaria collina del nuovo mondo; dell’orgiastica festa e delle bizzarre avventure cui danno vita i non morti, lì convenuti dai più remoti angoli del globo per testimoniare gli oscuri ricordi «su cui l’umanità ha costruito nuovi edifici di carne»; infine della precipitosa fuga cui gli spettri sono costretti dalla marea crescente dell’incredulità umana, dall’onda della noncuranza che tutto cancella.

In una di queste pagine memorabili, Bradbury elenca i suoi maestri, che sono Shakespeare e Poe, Dickens e Kipling. Non è un caso che questo scrittore sia stato uno degli autori preferiti di Sergio Solmi, amico della science-fiction e del Leopardi del Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch.

da Diario, 14 giugno 2002

Azulejos e altre poesie #1. Adília Lopes

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pessoa
Tre giovedì in portoghese per tre poetesse contemporanee: Adília Lopes (Lisbona, 1960), Ana Martins Marques (Belo Horizonte, 1977) e Golgona Anghel (Alexandria, Romania, 1979). Una selezione di poesie – ancora inedite in italiano o già introvabili – presentate e tradotte da Serena Cacchioli e Nunzia De Palma.

Smartphoto di Nunzia De Palma.
[ot]

a cura di Serena Cacchioli

Ancora prima dell’opera di Adília Lopes, bisognerebbe studiare il lettore di Adília Lopes. Ne esistono varie tipologie. Lopes ha lettori appassionati di poesia, lettori che in genere non amano la poesia ma adorano la sua, lettori legati in maniera ombelicale alla propria infanzia e a quella degli altri, lettori poeti e lettori bambini. Ha anche lettori che sono famosi critici letterari: c’è chi la ama con alcune riserve e chi incondizionatamente. Certi critici la ignorano di proposito, altri la osannano. Lei continua sulla sua strada, apparentemente incurante, va in televisione, si affaccia sul pubblico con quel suo sguardo acceso, senza mai lasciare intendere quanto di lei sia personaggio e quanto invece è reale.
Il mondo immaginario di Lopes è spesso grottesco e primitivo, fatto di proverbi, detti popolari, di lessico legato all’infanzia e agli oggetti domestici. A volte, però, d’improvviso l’autrice lascia cadere tra le sue parole riferimenti letterari inaspettati e pieni di grazia. La sua forza espressiva sta esattamente in questo, nel saper mescolare con sapienza il colto con il popolare, il triviale con l’elegante, lasciando il lettore spiazzato e privo di riferimenti o punti cardinali su cui poter contare per costruire un’opinione sensata. Con Lopes il giudizio critico si sospende, i rimandi a una tradizione poetica portoghese o internazionale si fanno confusi e ingarbugliati, non resta che abbandonarsi al suono, alle immagini e al riso amaro della sua ironia.
Le poesie che propongo in italiano sono tratte dalla raccolta Obra (Opere) pubblicata dalle edizioni Mariposa Azual (Lisbona) nel 2000; per ogni poesia indicherò la data di composizione. In Italia finora è stato pubblicato un solo suo libro, Il poeta di Pondichéry, uscito nel 1988 per Empiria, a cura di Carlo Vittorio Cattaneo.

 

***

Elisabeth se ne è andata
(con alcune cose di Anne Sexton)

Io che sono già andata dalla colazione alla follia
io che mi sono già stufata di studiare il codice morse
e di bere il caffelatte
non posso stare senza Elisabeth
dottoressa, perché l’ha licenziata?
che male mi faceva Elisabeth?
a me piace che sia solo Elisabeth
a lavarmi i capelli
non sopporto che lei dottoressa mi tocchi la testa
io vengo qui dottoressa solo
per farmi lavare i capelli da Elisabeth
solo lei sa i colori gli odori la viscosità
che amo nello shampoo
solo lei sa come mi piace l’acqua quasi fredda
che mi scorre su tutto il capo
e non posso stare senza Elisabeth
non mi venga a dire che il tempo cura tutto
contavo su di lei per il resto della vita
Elisabeth era la principessa delle volpi
avrei bisogno delle sue mani nella mia testa
ah e se solo avessi un coltello per tagliarle la
gola dottoressa io non torno
al suo tunnel antisettico
sono già stata bella una volta ora sono io
non voglio essere chiassosa e sola
di nuovo nel tunnel che ha fatto a Elisabeth?
Elisabeth se ne è andata
ed è tutto quel che ha da dirmi dottoressa
con una frase così in testa
non voglio tornare alla mia vita

 

A Elisabeth foi-se embora
(com algumas coisas de Anne Sexton)

Eu que já fui do pequeno-almoço à loucura
eu que já adoeci a estudar morse
e a beber café com leite
não posso passar sem a Elisabeth
porque é que a despediu senhora doutora?
que mal me fazia a Elisabeth?
eu só gosto que seja a Elisabeth
a lavar-me a cabeça
não suporto que a senhora doutora me toque na cabeça
eu só venho cá senhora doutora
para a Elisabeth me lavar a cabeça
só ela sabe as cores os cheiros a viscosidade
de que eu gosto nos shampoos
só ela sabe como eu gosto da água quase fria
a escorrer-me pela cabeça abaixo
eu não posso passar sem a Elisabeth
não me venha dizer que o tempo cura tudo
contava com ela para o resto da vida
a Elisabeth era a princesa das raposas
precisava das mãos dela na minha cabeça
ah não haver facas que lhe cortem o
pescoço senhora doutora eu não volto
ao seu anti-séptico túnel
já fui bela uma vez agora sou eu
não quero ser barulhenta e sozinha
outra vez no túnel o que fez à Elisabeth?
a Elisabeth foi-se embora
é só o que tem para me dizer senhora doutora
com uma frase dessas na cabeça
eu não quero voltar à minha vida

[1988]

***

A proposito di stelle

Non so se mi sono interessata al ragazzo
perché lui si interessava di stelle
se mi sono interessata alle stelle perché mi interessava
il ragazzo oggi quando penso al ragazzo
penso alle stelle e quando penso alle stelle
penso al ragazzo siccome mi sembra
che mi occuperò di stelle
fino alla fine dei miei giorni mi sembra che
non smetterò d’interessarmi al ragazzo
fino alla fine dei miei giorni
non saprò mai se mi interessano le stelle
se mi interessa il ragazzo che si interessa
di stelle non mi ricordo più
se ho visto prima le stelle
se ho visto prima il ragazzo
se quando ho visto il ragazzo ho visto le stelle

 

A propósito de estrelas

Não sei se me interessei pelo rapaz
por ele se interessar por estrelas
se me interessei por estrelas por me interessar
pelo rapaz hoje quando penso no rapaz
penso em estrelas e quando penso em estrelas
penso no rapaz como me parece
que me vou ocupar com as estrelas
até ao fim dos meus dias parece-me que
não vou deixar de me interessar pelo rapaz
até ao fim dos meus dias
nunca saberei se me interesso por estrelas
se me interesso por um rapaz que se interessa
por estrelas já não me lembro
se vi primeiro as estrelas
se vi primeiro o rapaz
se quando vi o rapaz vi as estrelas

[1985]

***

L’insalata con la salsa rosa

1.
Conobbi Magda in spiaggia
in spiaggia è una metafora oscena
che come le altre metafore oscene
può essere usata sia come eufemismo
sia come insulto
conosco per esperienza personale
entrambi gli usi dell’espressione
in spiaggia

2.
A me piace farmi passare
per una ragazza ordinaria
Magda era proprio ordinaria
all’inizio era questo ciò che più
mi attraeva in lei poi fu questo
ciò che più di tutto mi disgustò in lei

3.
I miei rapporti con Magda
da deliziosi diventarono promiscui
mi successe
ciò che mi era successo
quando mangiai l’insalata con la salsa rosa
all’inizio
l’insalata era deliziosa per via della salsa
poi iniziai a capire
che era mille volte meglio
mangiare la verdura
senza la salsa piuttosto che con la salsa
la salsa m’impediva di mangiare la verdura
con gusto
mi faceva schifare la vita

4.
Vivevo con Magda
in una stanza con due letti
quando arrivavo nella stanza
Magda stava sdraiata nel mio letto
in una posizione da Maya desnuda
ma vestita
che era anche peggio
altre volte la trovavo
seduta sulla mia sedia
a sfogliare i miei libri
e a leccarsi le dita

5.
Magda era un’intrusa
dopo essere stata un essere envoûtant
sia come intrusa
sia come essere envoûtant
lei era per me
una fonte di turbamento

6.
Io non ero casta
non perché mi dessi
con Magda
(che anzi era una praticante professionista del saffismo)
a un piacere che alcuni dicono vizioso
(la toccai una volta soltanto
senza volere
e le chiesi automaticamente scusa)
ma perché con Magda
non provavo nessun piacere

7.
(Penso che il piacere sia casto
ciò che non è casto
è il simulacro del piacere
o la rinuncia al piacere
tanto il simulacro
come la rinuncia)

8.
Un giorno tornai nella stanza
e Magda era sparita
senza lasciare tracce
mi fece male non trovare
il porcilaio tipico della Magda
le mie sigarette fumate
il mio posacenere pieno di mozziconi
sporchi di rossetto
(che mi ricordavano dei
denti sputati dopo un litigio)
il Las Moradas
prima di Calculus I
sulla mia mensola
quando mi abituai
a mettere quei libri nell’ordine inverso

9.
Quel che mi fece male
fu che tutto era finito
com’era cominciato
come se nulla fosse successo
nel frattempo
ora quello che successe nel frattempo
ancora oggi mi disturba
e quindi dev’essere successo

 

A salada com molho cor-de-rosa

1.
Conheci a Magda na praia
na praia é uma metáfora obscena
que como as outras metáforas obscenas
pode ser usada quer como eufemismo
quer como insulto
conheço por experiência própria
os dois usos da expressão
na praia

2.
Eu gosto de me fazer passar
por uma rapariga ordinária
a Magda era mesmo ordinária
a princípio era isto o que mais
me atraía nela depois foi isto
o que sobretudo me desgostou nela

3.
As minhas relações com a Magda
de deliciosas passaram a promíscuas
aconteceu-me
o que me tinha acontecido
quando comi salada com molho cor-de-rosa
ao princípio
a salada era deliciosa por causa do molho
depois comecei a perceber
que era mil vezes melhor
estar a comer os vegetais
sem molho do que com molho
o molho impedia-me de comer os vegetais
com gosto
desgostava-me da vida

4.
Vivia com a Magda
num quarto de duas camas
quando eu chegava ao quarto
a Magda estava deitada na minha cama
numa posição de Maja desnuda
mas vestida
o que ainda era pior
outras vezes encontrava-a
sentada na minha cadeira
a folhear os meus livros
e a chupar os dedos

5.
A Magda era uma intrusa
depois de ter sido um ser envoûtant
quer como intrusa
quer como ser envoûtant
ela era para mim
uma fonte de perturbação

6.
Eu não era casta
não porque me entregasse
com a Magda
(que era aliás uma praticante profissional do safismo)
a um prazer que alguns dizem vicioso
(só lhe toquei uma vez
sem querer
e pedi-lhe automaticamente desculpa)
mas porque com a Magda
não tinha prazer nenhum

7.
(Acho que o prazer é casto
o que não é casto
é o simulacro do prazer
ou a renúncia ao prazer
tanto o simulacro
como a renúncia)

8.
Um dia voltei ao quarto
e a Magda tinha desaparecido
sem deixar marcas
custou-me não encontrar
o chiqueiro próprio da Magda
os meus cigarros fumados
o meu cinzeiro cheio de beatas
sujas de bâton
(que me faziam lembrar
dentes cuspidos após uma briga)
o Las Moradas
antes do Calculus I
na minha estante
quando eu me habituei
a pôr esses livros por ordem inversa

9.
O que me custou
foi tudo ter acabado
como tinha começado
como se nada se tivesse passado
durante
ora o que se passou durante
ainda hoje me incomoda
e portanto deve ter acontecido

[1985]

Considerazioni circa una poetica della relazione

4

Biagio Cepollaro, DueSerpenti-1-2008

di Vincenzo Frungillo

[L’intervento di Vincenzo Frungillo sviluppa la discussione nata intorno alla critica nell’ ambito della rassegna Tu se sia dire dillo 2014. B.C.]

La critica è fatta di singole sensibilità letterarie che riescono ad ampliare la visione dei lettori. La capacità percettiva, la sensibilità, non è faccenda secondaria. A questa, va da sé, deve essere affiancata una conoscenza approfondita della produzione poetica o letteraria tout court, bisogna essere in possesso degli “strumenti umani”, per dirla con il titolo di un libro di Sereni. Preferisco parlare di critici, quindi, piuttosto che di critica, termine fin troppo astratto. Bisogna puntare in ogni caso sulla centralità del testo, e sulla domande che da esso nascono. Discutiamo quindi di una critica che cerchi di essere un luogo dell’interrogazione radicale. Per questo motivo la relazionalità tra testo e autore è di per sé problematica. Mettersi in relazione significa mettersi in ascolto. Interpretare un testo significa tradurre la cadenza temporale dell’autore in spazio condiviso. Ogni segno contiene la matrice di un intenzione più ampia. L’interprete deve a sua volta operare uno spostamento delle proprie strategie mentali, deve esporsi. Accettare il rischio. Questa prospettiva è stata ben sintetizzata da Glissant nel suo Poetica della relazione: «”L’Essere è relazione”: ma la relazione è al riparo dall’idea dell’essere. La Relazione è conoscenza in movimento dell’esistente, che rischia l’essere del mondo». Se si accetta questo presupposto, l’io non può più dirsi costituito di per sé. Non esiste un mondo, un sistema di codici, già dato. Impossibile quindi un lirismo ingenuo, privo della domanda sullo stesso mondo che lo accoglie. Non parliamo di realismo, che a sua volta prescinde da un’interrogazione della relazione tra soggetto e mondo, interpreta la mimesis come auto giustificazione del dato e del vissuto. Si allude piuttosto ad una messa in discussione del rapporto tra poeta e mondo. Tale relazione è nei poeti più avveduti il centro stesso del fare poetico. Questa relazione risulta essere estremamente incerta. Come si relazionano l’io e il mondo? In questa interrogazione c’è il senso stesso del fare poesia, il senso stesso dell’ermeneutica del testo.

Una risposta programmatica al problema viene dalla poesia oggettiva, in quanto quest’ultima metaforizza una fase dell’evoluzione degli individui occidentale, di individui che vivono una periferia oramai priva di centro. Anche trovandoci nel campo privilegiato di autori pienamente consapevoli dei propri mezzi espressivi, tuttavia, il paradigma sembra esso stesso consolatorio. La scrittura poetica o prosa poetica, non risolve il problema dell’io, lo sposta semplicemente sul polo opposto della rappresentazione del mondo. L’io è messo tra parentesi, sospeso, e le cose vengono mostrate senza che su queste venga espresso un giudizio apparente. L’azzeramento del dato simbolico lega il lettore ai significanti ponendolo di fronte ad una strettoia. Su carta sono riportati codici privi di senso, ossia privi di connotazioni emotive proprie. Il risultato è la sintomatologia di una depressione: l’incapacità del Sé di distinguersi dal mondo. Qui il rischio è manifestato nella sua massima evidenza: la sfera naturale fagocita quella simbolica e parla per sua bocca. Il risultato, nella sostanza, non cambia. Questa produzione letteraria ripropone i toni di una questione affrontata da Italo Calvino e Perlini ai tempi delle neoavanguardie. Calvino parlava del “mare dell’oggettività” per indicare quella scrittura che annullava, azzerava, il discrimine del soggetto. Il problema della relazionalità resta. Il merito della depressione letteraria, del grado zero della percezione, sta nel mettere in evidenza il rischio. Aldilà della strettoia di senso, ciò che conta però è una poesia che metta su carta la dinamica, la meccanica che alimenta il senso. Solo così evidenziare la possibilità dell’annichilimento di senso. La relazione interpretativa aiuta la messa in potenza di un mondo, offre spazio. Più che assecondare l’alienazione del soggetto nella presa di parola degli oggetti, ossia del mondo privo di senso, del mondo ridotto a feticcio, estrema conseguenza della profezia marxista sulla merce e debordiana sullo spettacolo, bisogna invece recuperare la faglia. Bisogna puntare lo sguardo sulla forbice natura-cultura. (La problematica della relazione io-mondo, può essere tradotta in relazione profonda tra stadio naturale e stadio simbolico/culturale). In questo modo la poesia, la scrittura in versi, la scrittura metrica, è una modalità di comprensione delle dinamiche complesse, un’ermeneutica della forma. La letteratura ha perso di certo la sua centralità nella casistica delle esperienze, ma proprio per questo motivo può essere uno dei paradigmi tra i più radicali. La poesia deve porsi come strumento di interrogazione radicale.

Recuperare la faglia significa quindi riconoscere la relazione tra cultura e natura. Tale relazione è il problema. Dopo l’ipertrofia dei significanti bisogna recuperare lo spazio della domanda. La scrittura ha il compito di liberare il senso in relazioni impreviste. Nessun esistenzialismo, che poi è una forma debole di coscienza dei fatti, piuttosto un utilizzo consapevole degli strumenti poetici oltre la resa meramente letteraria del proprio lavoro. Scrive Glissant: «Abbiamo detto che la Relazione non istituisce soltanto il ritrasmesso, ma anche il relativo, e ancora il relato. La sua verità, progressivamente accostata, si dà in una narrazione. Poiché, se il mondo non è un libro, è pur vero che il silenzio del mondo ci condurrebbe a nostra volta alla sordità. La Relazione, che agita l’umanità, ha bisogno della parola per editarsi, per perpetuarsi. Ma, giacché il suo racconto non procede da un assoluto, essa si rivela come la totalità dei relativi messi in rapporto e detti. […] In queste condizioni, il pensiero poetico è all’erta: sotto il fantasma della denominazione ha cercato il mondo realmente vivibile. Si è proiettato verso. Quasi ricominciasse il tragitto del vecchio nomadismo a freccia. Anche i movimenti di questa poetica sono reperibili nello spazio come altrettante traiettorie, in cui l’oggetto stesso della portata poetica sarà quello di condurli a compimento per poi abolirli. […] Giunge allora il tempo in cui la Relazione non si profetizza più attraverso una serie di traiettorie, di itinerari che si succedono o si contrastano, ma, da se stessa e in se stessa, esplode come una trama inscritta nella totalità sufficiente del mondo.» Da questo punto di vista la scrittura ha una funzione liberatoria. Libera in una relazione imprevista, ma allo stesso tempo concede lo spazio del riconoscimento, offre dei margini. Il movimento è opposto a quello di una cultura che asseconda la propria espansione, credendo in una illimitata potenzialità dei mezzi. Qui la natura è il limite necessario. La natura è aldilà di qualsiasi codificazione prestabilita. Liberare la potenzialità stessa della traiettoria di senso. Nella produzione metrica c’è il relato, il debito che abbiamo con la nostra sfera naturale. Ricordiamo quanto scriveva Wittgenstein: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell’uso esso vive. Ha in sé l’alito vitale? O l’uso è il suo respiro? […] ”C’è già tutto in …” Com’è che la freccia “indica? Non sembra che, oltre se stessa, porti in sé qualcosa? –“No, non il morto segno; solo lo psichico, il significato, può farlo”. –Questo è vero e falso. La freccia indica solo nell’applicazione che l’essere vivente ne fa. […] Vogliamo dire “quando comprendiamo non c’è nessuna immagine morta di nessun tipo, ma è come se ci dirigessimo verso qualcuno”. Ci dirigiamo verso la cosa intesa. […] Sì, intendere è come dirigersi verso qualcuno». Ora questa possibilità di comprensione è impossibile in una chiusura egotica, è altresì compromessa dalla matrice computazionale del desiderio collettivo. Più ci si crede unici, isolati solipsisticamente, più si assecondano i desideri indotti dalla naturalizzazione del simbolico, ossia dalla rimozione effettiva della natura: è possibile eseguire delle mappature linguistiche dei desideri collettivi proprio su queste basi. (Si pensi alla La carta e il territorio di Michel Houellebecq).

Liberare la scrittura significa, provare la Relazione. E’ un discorso etico, anche se derivato, privo di costrizioni morali. La poesia e la critica hanno il compito di rielaborare dei codici, di ritrasmetterli e vivificarli nella traduzione. Un testo che sappia essere una pagina mondo, è un testo che non si esaurisce nel suo portato di senso. Il senso è messo continuamente in potenza. Se il nostro è un salto di paradigma, oltre l’umano e ancora oltre il post umano, bisogna pensare una scrittura ecologica e non più egotica. Il discorso di Glissant non fa che riportare su piano planetario una dinamica interna del Sé. Il mondo, ridotto a territorio rizomatico, è un testo. Qui comprendiamo le nostre possibilità e i nostri limiti, giochiamo la partita della presenza a noi stessi e agli altri. Questo che un tempo sarebbe potuto suonare eccessivo, oggi è vero in quanto lo spazio ha mostrato i suoi limiti. Il critico ha il compito di riconoscere i segnali e soffermarsi sulla parte viva e vivificante del testo-mondo. Operare in opposizione al processo di sottrazione; più che decostruire, allargare la faglia.

(Le citazioni qui comprese sono tratte da Édouard Glissant, Poetica della relazione. Poetica III, Quodlibet, 2007; e da Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995)