I miei testi nascono da scintille che non si spengono, che si ostinano a crescere e diventano fuochi. Una decina di anni fa volevo scrivere un romanzo sulle ultime settimane della malattia di mio padre, sulla sua agonia.
L’effetto finale
L’EFFETTO FINALE
a R.K. e a S.M.
Dispositivi di destino delimiteranno il campo. Sarà il risultato di una sommatoria di evidenze, nuovi standard razionali declineranno il senso del paesaggio. L’esasperazione dei significati primari suggerirà una ricca orchestrazione del caos. Un’identità fondata sull’astrazione metrica apparirà come la tipologia definitiva.
…
I passaggi di consegna tra concetti saranno estranei a qualsiasi asse genealogico. Grandi cambi scenografici ne modificheranno la percezione. Una splendida arroganza verrà letta come palinsesto, la sua impronta non conoscerà contrazioni. La procedura del reale sovrascriverà il proprio tracciato.
…
La revisione dei tempi non darà margini. La sua efficacia tematica esulerà dai codici razionali; strumenti irreversibili selezioneranno la scena. Un avvenire imminente non sopravvivrà alla propria utilità. Una condizione altra non sarà semantizzata.
…
L’imposizione di una media teorica indurrà un’allucinazione della normalità; le azioni comuni non avranno posto. Progetti ininterrotti agiranno per sottrazione. I loro effetti combinati avranno come dato fondamentale una pervasiva perdita di urgenza. Compensazioni istantanee organizzeranno la transizione nell’irreale.
…
Una ridondanza calcolata spegnerà la coazione a decidere. I suoi riflessi narrativi la assoggetteranno a un repertorio di omissioni, le pratiche del quotidiano non faranno più parte di alcun tessuto. L’esposizione ai venti si offrirà come spettacolo della comunicazione. Gli impulsi individuali persisteranno come meri esercizi di stile.
…
Il susseguirsi di perimetri parteciperà a un disegno di stratificazione totale, le linee di faglia saranno indistinguibili. L’emersione di anomalie non farà alcuna differenza; tutte le superfici saranno archeologiche. Le opere di controllo diverranno un faro. Il filtro si farà zenitale.
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[Foto: Gianluca Codeghini, L’effetto finale, performance per doppio coro recintante (basata su una precedente versione di questo testo), Coro Quidam, Chiostro Gorini, Lodi, 16 maggio 2014.]
“Chi ha compagni non morirà”: per Franco Fortini a Torino (programma)
UNIONE CULTURALE ANTONICELLI
Franco Fortini «Chi ha compagni non morirà»
Dal 5 al 13 dicembre 2014
Via Cesare Battisti, 4 B – Torino
ingresso libero e gratuito
Ma voi che altro di più non volete se non sparire e disfarvi, fermatevi. Di bene un attimo ci fu. Una volta per sempre ci mosse. Non per l’onore degli antichi dei, né per il nostro ma difendeteci.
A vent’anni dalla morte e a pochi giorni dalla pubblicazione della raccolta di Tutte le poesie di Franco Fortini (Mondadori), l’Unione Culturale organizza un ciclo di iniziative per far conoscere e ricordare uno degli intellettuali più coerenti e radicali del Novecento. Quattro appuntamenti con alcuni tra i massimi conoscitori e interpreti di questa figura. Letture, commenti, proiezioni, dialoghi e dibattiti. E la prima nazionale di Kommunisten (2014), l’ultimo film di Jean-Marie Straub, amico e ammiratore di Fortini. Per condividere idee, ricordi, speranze e domande di chi lo ha conosciuto o avrebbe voluto incontrarlo. Un viaggio attraverso le ombre e le luci del presente, guidato dalle parole di uno dei più grandi poeti del Novecento.
“Nulla è sicuro ma scrivi”. Franco Fortini tra poesia e politica.
Venerdì 5 dicembre dalle 18.30
ore 18,30: Cristina Alziati e Andrea Inglese leggono e commentano poesie di e ispirate da Fortini
Introduce Davide Dalmas
ore 20: rinfresco
ore 21: proiezione di Scioperi a Torino (1962) e Dell’Arte della Guerra (2012)
Presentano Paola Olivetti e un rappresentante di Operai Contro di Milano
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“Proteggete le nostre verità”. Quel che resta di Franco Fortini
Sabato 6 dicembre alle 10.30
Ricordi, dubbi, speranze e domande di chi ha conosciuto o avrebbe voluto incontrare Franco Fortini.
Introduce Enrico Donaggio
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Fortini e Jean-Marie Straub. “I cani del Sinai” e “Kommunisten”.
Venerdì 12 dicembre dalle 18.30
ore 18,30: proiezione di Fortini/Cani (1976)
ore 20,30: rinfresco
ore 21: proiezione di Kommunisten (2014) – PRIMA NAZIONALE
Presentano Peter Kammerer e Alberto Toscano
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Non solo oggi. Sull’attualità di Franco Fortini.
Sabato 13 dicembre alle 10.30
Intervengono Luca Lenzini, Alberto Rollo, Alberto Toscano
Introduce Enrico Donaggio
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Critico letterario, traduttore, saggista e poeta. Franco Fortini fu tutto questo. Ma, prima ancora, un intellettuale e un comunista intransigente. Anzitutto verso se stesso. Era la sua onestà intellettuale a non lasciagli alternativa, con lo stesso rigore con cui ai suoi occhi si imponeva la poesia, anche quella più apparentemente privata, purché chiamasse “in vita una parte della coscienza collettiva”.
Per ricordarlo e presentarlo, non esistono parole migliori di quelle distillate con cura implacabile dallo stesso Fortini nel descrivere il senso del suo lavoro: «Scrivi mi dico, odia chi con dolcezza guida al niente gli uomini e le donne che con te si accompagnano e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici scrivi anche il tuo nome».
cinéDIMANCHE #07 XAVIER DOLAN “Les Amours imaginaires” [2010]
di Ornella Tajani
Tra pochi giorni uscirà al cinema Mommy, il primo film di Xavier Dolan a essere distribuito nelle sale italiane. L’etichetta di enfant prodige per Dolan è scontata: classe 1989, il regista -e attore- canadese ha al suo attivo già cinque lungometraggi. Mommy ha vinto il Prix du Jury al Festival di Cannes di quest’anno, ex aequo con Adieu au langage di Jean-Luc Godard.
Les amours imaginaires (2010) è il suo secondo lavoro. Protagonisti Francis (Dolan stesso) e Maria (Monia Chokri), due amici di lunga data che si innamorano di Nicolas (Niels Schneider), un ragazzo bello, colto e incredibilmente somigliante a un disegno di Cocteau. Il riferimento, esplicito nel film, è calzante: Nicolas è il perno intorno al quale ruota un meccanismo infernale fatto di tentativi di seduzione, piccole perfidie, stoccate sibilate tra i denti, gare a chi gli fa il regalo di compleanno più apprezzato; è l’oggetto di due desideri e il motore di una giostra di attese, speranze, indagini semiologiche da manuale barthesiano, per decifrare se un suo ambiguo slancio d’affetto contiene o meno il seme dell’attrazione; ed è il frutto della discordia che Francis e Maria si contendono in un duello camp sulle note di Bang bang cantata da Dalida.
Ma Nicolas è anche l’angelo incarnato, inseguito da Cocteau per tutta la vita e rappresentato in varie sue opere, nelle sembianze di Orfeo, di Paul in Les enfants terribles, dell’anarchico ribelle in L’aigle à deux têtes o dell’angelo della morte Azraël: tutti meravigliosi «esseri senza legge» che sembrano trovare nella figura di Arthur Rimbaud il loro capostipite – e Nicolas inviterà Francis e Maria a uscire insieme per la prima volta inviandogli un biglietto in cui cita proprio un verso del poeta voyant. Quelle di cui si parla, però, non sono altro che sembianze: Nicolas è solo l’involucro di un’idea d’amore, il contenitore di due – probabilmente diverse – proiezioni.
Pop, coloratissimo, vintage fino al parossismo, con richiami al cinema di Wong Kar Wai nei ralentis monocromatici su suite di Bach in sottofondo, o a quello di Almodóvar nei primi piani e nelle fisionomie di alcuni volti; intervallato da mini-interviste/confessioni che tutte conducono al gran tema della non-reciprocità dell’amore (altro leitmotiv cocteauiano); ancora lontano, infine, dalla complessità tematica e attoriale di Laurence Anyways o di Tom à la ferme, ma già emblematico della sua cura registica, Les amours imaginaires racchiude il gusto personale di Dolan in un collage di mitologie che si fa cifra stilistica del film. Un suggerimento per iniziare a scoprire il suo cinema, un racconto che fa pensare a un verso di una poesia di Paul Géraldy messa in musica da Giorgio Conte:
On aime d’abord par hasard
par jeu, par curiosité
pour avoir, dans un regard,
lu des possibilités
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
La carta da parati
di Giuseppe Zucco
Non è cosa da poco possedere un fagiano,
o anche solo riceverne la visita.
Sylvia Plath
Alle prime luci dell’alba, il bambino si svegliò. Aprì gli occhi. Li chiuse, li riaprì. Strofinò le palpebre con i pugni, si abituò alla luce.
Come piccole dita, la luce sbucava dalle feritoie della serranda di alluminio anodizzato e illuminava la carta da parati proprio sopra il letto. Il bambino tirò di lato lo strato del piumone, poi quello delle lenzuola. Si grattò la testa. Si alzò.
Compleanno della mela
di Fernanda Woodman

COMPLEANNO DELLA MELA
eccola di nuovo
che insegue la sua musa
e litiga con lei
per un etto di mentine
ma al compleanno della mela
arriveranno insieme
e campanelli dappertutto
suoneranno una marcia
che vuole dire Verde e Fuoco
(aria che smuove luce sui muri delle case
e un gatto le insegue)
per ogni lembo della notte
ci sarà un regalo
e una pioggia di brillantini cadrà sul marciapiede:
lì rimase incastrato il ricordo della luna
Dei resti: Matteo Maria Orlando e Beniamino Servino
Quando ho ricevuto i testi di Matteo, giovane poeta, ho pensato di chiedere ad un architetto come Beniamino Servino di agire in controcanto con una sua creazione e con mia grande gioia ha accettato. effeffe
Crolli
di
Matteo Maria Orlando
Questo è tutto quello che rimane
un tacere dopo il clamore
poi dolore, timore, fame.
Macerie.
La malta che non tiene
pietra che cede, cade
rovina nella sera
che annera la collina.
Un crollo di ginocchi
è lo schianto dei tetti.
*
Dentro i vasi appesi alle finestre
un tempo c’erano ortensie, e calle.
Ora il legno è regno dei tarli
l’ascesso marcio morde
le tinte, i cristalli.
*
Non si vedono le porte ormai
coperte dai
rovi. Resta un rivolo di spine
ad assediare le rovine
di un fienile e di un casale.
Il campo è seminato a lutto.
Tutto resta fermo dopo il crollo.
*
Se gratti via gli intonaci dai tetti
si scopre uno scheletro di travi.
Ti accorgi allora che rimane
solo un tumore – di ferri marci
un gonfiore di tufi e calcinacci
a disfarci gli occhi. È un bagliore:
dietro la calce, ogni cosa muore.
*
Aperte come stomaci alla fame
le pieghe nelle fughe
fanno filtrare liquame
acque piovane.
*
Alcune volte l’acqua filtra,
punta dritta alle fondamenta.La falda
sfibra la terra, la sfalcia – allora
la struttura si incrina, si affloscia.
In un coito di morte si accascia.
*
Era un conclave di arcate, chiese
case. Ora ci portano le capre
a pascolare,
e sono sassi dove prima
urla corse giochi di bimbi.
Craco, germogli dalla terra
dalla terra spunti
come il polso dei morti.
Didascalie
di
Beniamino Servino
Mi sembra un canto disperato.
Forse solo l’ultima terzina sembra aprirsi a un “dopo”.
Mi è venuta in mente subito questa sequenza.
La prima [01] è una foto che mi inviò l’amico-collega Alessandro Scandurra. Il contestatissimo autore dell’expo gate a piazza castello a milano. Sulla foto 01 attraverso la 02 fino alla 03 ho costruito una sequenza che considera l’esistente la piattaforma da cui partire per lasciare tracce che si disporranno a ospitarne altre.
L’onere della prova e gli eroi bambini
di Lorenzo Declich
Ci sono volte in cui la semplice esposizione di cose presenti lancia messaggi molto chiari. In principio, dunque, vi racconterò cosa ho nel mio computer, nella cartella “hero boy”, dove ho messo diversi video scaricati da YouTube. Aggiungerò a questa descrizione alcuni dettagli, facilmente reperibili in rete.
Nel primo video un bambino si trova sotto il fuoco dei cecchini. Fa finta di cadere, colpito, poi si rialza e va a salvare una bambina. Si intitola “Eroe siriano: un ragazzo salva una ragazza”. Il titolo è in inglese e in arabo.
Nel secondo video, taggato “BBC trending”, si scopre che il video precedente è un falso, che la scena è stata girata su un set. La didascalia spiega che: “il video dell’eroe bambino siriano è un falso costruito da filmakers norvegesi”. Apprenderemo poi che la scena è stata girata lo scorso agosto a Malta. I titoli, qui, sono in inglese.
Il terzo video contiene una sorta di rassegna stampa intitolata, in inglese: “la NATO usa un falso video virale su un eroe bambino siriano per invadere la Siria”.
Il quarto video, in inglese, è un’intervista al regista del video, Lars Klevberg, che: “non si pente riguardo al video falso”. In un dispaccio che ha diffuso via twitter, spiega che col suo lavoro voleva porre l’attenzione sui bambini nella guerra siriana.
L’”opera” di Klevberg ha raggiunto milioni di persone ma, nonostante questo “non pentimento” pubblico, animato dal desiderio di “accendere i riflettori” sui bambini siriani, il video originale è stato cancellato da Youtube: ne abbiamo oggi solo copie. Una di esse, postata dal network Sham, ha oggi 4.600.000 visualizzazioni.
Abbiamo solo copie anche del secondo video, anch’esso è stato cancellato, anch’esso era molto popolare. L’originale complottardo, invece, rimane online, è stato visto da più di centomila persone.
Ho un quinto, un sesto e un settimo video nel mio computer. Nel quinto (12 marzo 2012) andiamo a Homs. Un ragazzo salva un altro ragazzo, ferito, mettendo a rischio la propria vita. 1.100 visualizzazioni. Nel sesto (28 aprile 2012) un bambino di Dera’a corre in mezzo alla strada con una borsa in spalla. Si sente un forte brusio e poi un’esplosione. Il bambino continua a correre, irrompe correndo un ragazzo, che lo prende in braccio e lo porta via. 350.000 visualizzazioni. Nel settimo (3 novembre 2012) ci sono quattro ragazzini che corrono in direzione della telecamera su una strada che, secondo le indicazioni, si trova nelle campagne di Aleppo, Khan al-Asal. Sullo sfondo c’è un carro armato. Si sentono rumori di spari. Le voci fuori campo si fanno sempre più concitate. I ragazzini fanno una cinquantina di metri, in ordine sparso, si mettono tutti in salvo. L’ultimo a trovare riparo porta in braccio un quinto bambino, piccolissimo. 4.700 visualizzazioni.
Ho trovato i video su un blog. Facendo ricerche incrociate su Youtube li ho ritrovati con difficoltà. E’ vero, sono relativamente vecchi e portano titoli in arabo, ma l’ostacolo più grande è stato un altro. Per scovarli ho dovuto scorrere decine e decine di pagine di ricerca, tutte dominate dall’onnipresente vera-falsa storia del “bambino eroe” siriano. Sempre gli stessi quattro fotogrammi, presentati in tutte le salse, un elenco che non è tale perché ripropone continuamente la stessa cosa. Pochi sono i click su queste copie secondarie, ma il loro numero provoca un effetto di saturazione, l’attenzione inesorabilmente cade. Il falso eroe è ovunque.
Bellingcat, un sito che si occupa di fact checking partecipato, ha diffuso nei giorni scorsi questo comunicato:
Noi sottoscritti esprimiamo la nostra condanna sul carattere ingannevole del film diretto da Lars Klevberg e finanziato dal Norwegian Film Institute e l’Arts Council Norway sulla Siria. È incosciente e irresponsabile distribuire una fiction come se fosse una ripresa reale perché ciò sminuisce la reale sofferenza dei bambini della Siria e il duro lavoro svolto dai giornalisti professionisti e dai cittadini all’interno della Siria.
I bambini siriani sono stati il bersaglio di cecchini, barili-bomba e di atrocità di massa per oltre tre anni. Gran parte di queste cose sono state documentate, faticosamente, da giornalisti-cittadini e giornalisti professionisti in circostanze pericolose e terribili. Questo film mina il lavoro delle persone che continuano a documentare questi crimini contro l’umanità. Piuttosto che impegnarsi in un dibattito, utilizzando elementi esistenti, di cui vi è abbondanza, il film invita a mettere in discussione, sia eticamente che professionalmente, il lavoro svolto per documentare questi crimini all’interno della Siria.
Il modo in cui questo film è stato presentato al pubblico è volutamente fuorviante. In un tale conflitto, decifrare il vero dal falso è un compito difficile e molti attivisti, giornalisti e analisti trascorrono ore e ore spulciando tra i video al fine di fornire informazioni accurate al pubblico. Il metodo volutamente ingannevole col quale il video è stato diffuso ha provocato maggiore disinformazione sulla Siria.
Questo video non farà che alimentare i tentativi di diffondere dubbi su storie reali provenienti dalla Siria, prodotte da giornalisti-cittadini e giornalisti professionisti. La vicenda dimostra che i filmakers, e coloro che li hanno finanziati, hanno poca comprensione della complessità del conflitto e non hanno riguardo per il rischio che la gente prende su di sé per documentare la violenza e il conflitto.
In un conflitto così crudele e incerto come quello in Siria, ci sono storie vere di eroismo quotidiano che testimoniano la sofferenza di un popolo. Molti hanno pagato con la vita.
Invece di far luce su una generazione perduta, il film ha messo in pericolo vite, ha posto l’onere della prova a chi soffre piuttosto che su quelli che causano la sofferenza, ha sminuito il coraggio delle persone che lavorano in zone di conflitto.
Ci ho pensato a lungo, poi ho deciso di postare almeno uno dei video che ho descritto. Eccolo, non è fiction.
Lo scholapost: Erri De Luca
Ho chiesto a Erri De Luca di poter pubblicare questo racconto, in questa mia rubrica dedicata al tema della scuola. Di recente l’ho letto insieme ai miei ragazzi al Liceo francese di Torino, dove insegno filosofia, e mi ha colpito il mondo (modo) in cui hanno reagito ai temi affrontati. Qui la sua risposta. effeffe
Ciao, nessun problema anzi grazie per far camminare quella storia fuori dallo scaffale offrendolo a chi è giovane ora, buona giornata,erri
Il pannello
di
Erri De Luca
Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007
Si era accorta della manomissione solo dopo essersi seduta accavallando le gambe: aveva guardato la classe, la mira di molti occhi, era arrossita e poi fuggita via sbattendo la porta. Successe il putiferio. In quel severo istituto nessuno si era mai preso una simile licenza. Salì il preside, figura funesta che si mostrava solo in casi gravissimi. Nell’apnea totale dei presenti dichiarò che esigeva i colpevoli altrimenti avrebbe sospeso l’intera classe a scadenza indeterminata, compresi gli assenti di quel giorno. Significava in quei tempi perdere l’anno, le lezioni e i soldi di quanti si mantenevano agli studi superiori con sacrificio delle famiglie. Non esisteva il TAR, quel tribunale amministrativo cui oggi si sottopongono ricorsi per ristabilire diritti. Non c’erano diritti, le scuole superiori erano un privilegio. C’era la disciplina caporalesca degli insegnanti, legittima perché impersonale e a fin di bene. Il preside uscì, si ruppe quel gelido “attenti” che avevamo osservato. Non riuscimmo a sputare una parola.
Sotto il duro ricatto di denunciare dei compagni o incorrere in provvedimenti disciplinari spuntò d’improvviso uno spirito di corpo. Ragazzi che avevano in comune la frequentazione di un’aula per alcune ore al giorno diventarono un organismo disposto a cadere tutto intero pur di non consegnare due suoi membri. Passò nelle fibre di uno scucito gruppo di coetanei una di quelle scariche elettriche che su scala più grande trasformano varie genti in un popolo, molte prudenze in un coraggio. C’è una soglia segreta di pazienza passata la quale ci si oppone di colpo alla disciplina quotidiana. Occasione è spesso un motivo all’apparenza insignificante. Anni dopo, partecipando a lotte operaie, avrei appreso con stupore che la lunga catena di scioperi spontanei e di aperte rivolte di fabbrica cominciarono alla FIAT, nel 1969, con richieste semplici come nuove tute da lavoro o la distribuzione di latte nelle lavorazioni tossiche. Piccole occasioni di rottura della pazienza quotidiana contengono grandi scosse: di colpo le strade si riempiono di scontento che sembra nato di pioggia come un fungo.
Fuori di scuola quel giorno si discusse. In mezzo all’assembramento notammo la strana presenza dei bidelli. Qualcuno di noi chiedeva almeno di sapere a chi doveva il rischio di rinunciare all’anno scolastico. Lì fuori venne zittito. Alla fine questa curiosità per vie traverse venne esaudita al nostro interno, ma in quel primo scambio di battute prevalse una spontanea disciplina. Il più ligio di noi trasferì il suo impulso all’ordine a servizio di quel silenzio. Qualcosa tra lui e la gerarchia scolastica si era guastato per sempre.
Nei giorni successivi si ripeté in classe la richiesta di denunciare i colpevoli, fino al limite dell’ultimatum. Arrivarono al preside anche diverse lettere anonime coi nomi dei presunti responsabili, ma discordanti tra loro. La faccenda però non era più ferma ai colpevoli, si voleva rompere quell’inaudita ostinazione. Ma non ci fu verso di farci denunciare quei compagni. Penso che ci sentissimo tutti colpevoli, quelle gambe avevano emozionato ognuno. Fu perciò un po’ di immedesimazione verso quel gesto, anche se ce ne vergognavamo. La giusta linea di condotta proveniva da alcuni di noi che avevano già qualche relazione amorosa e trasmettevano agli altri un senso di superiorità da adulti nei confronti di quel gesto da guardoni nel buco della serratura. Ci piaceva credere di essere superiori agli scopi di quel sabotaggio, anche se non era così. Ma questo non contava più, stavamo andando dritti verso le conseguenze inevitabili. Ci eravamo irrigiditi dentro, pur mostrando all’esterno la costernazione dei malcapitati. Sotto quell’assedio eravamo diventati soldatini, imparando a difenderci tutti allo stesso modo.
Pensate forse di stare subendo un sopruso: il ricatto di denunciare i vostri compagni oppure essere sospesi a tempo indeterminato. Ma non è stato un sopruso far arrossire di vergogna una donna che è entrata in quest’aula per insegnare e che, per poter accedere al privilegio di mostrare a voi le sue gambe, ha studiato per anni ed è appena giunta all’occasione che ha tanto aspettato? Un sopruso, una prepotenza di molti contro una donna, questo è accaduto qui dentro. Non siete. innocenti, nessuno qui è innocente. Il torto è spesso meglio distribuito di quanto ci piace credere.
Esperimento di fuoriuscita

di: Alessandra Sarchi
Una mano mi ha aperto la testa. Ero appoggiata con l’orecchio sinistro sul piano di acciaio del tavolo e la mano ha sezionato il mio cranio in due calotte. Rumori viscidi di materiali organici molli, uva matura schiacciata tra i polpastrelli, ma non cola sangue.
Andata e Ritorno 2.0 ° Festival autunnale di poesia orale e musica digitale °
a cura di Blare Out
in collaborazione con M.a.c.lab
Opening: venerdì 28 novembre ore 18:30
28-29 novembre 2014
Incubatore Herion – Venezia, Isola della Giudecca, 624/625
Amodio
di Angela Bubba
Maurizio Fiorino, Amodio, Gallucci, 2014, 176 pagine.
Forse non poteva essere più spigliato l’esordio letterario di Maurizio Fiorino, giovane talento della fotografia italiana ma che per anni ha vissuto a New York. Amodio (Gallucci, pp. 176, 16,50 euro) narra infatti la storia d’amore tra Armando e il figlio di uno dei boss più temuti della ‘ndrangheta, l’immaginario Carlo Costa, il quale scoperta la relazione è costretto ad appellarsi alle leggi mafiose, spietate quanto necessarie, e la cui violazione può sancire una condanna a morte.
Andata/ritorno
di Marco Giovenale
Vimeo è molto pulito.
Vimeo è molto più pulito.
Anche se i crampi e l’intermittenza.
Ma queste sono cose del corpo, che c’entra.
Bisogna scommettere il giusto e sulla tecnica giusta.
Un trucco è guardare i contorni.
Se non sfarfallano è meglio.
Heidegger andava in Grecia, si sedeva composto.
Mangiava un panino, gli dava sicurezza.
Un brusio di fondo – Giorgio da Genova e lo sterminio dei rom a Radio 24
di Mariasole Ariot
La vita oscilla/tra il sublime e l’immondo/
con qualche propensione/per il secondo.
E. Montale
Della parola come mangime
E’ sera. La rotellina della radio cerca una stazione, la montagna riduce i segnali, non la trova, ricerca. Poi d’improvviso le parole fuoriescono dalle casse come un rigurgito. Schizzano ovunque, non si piegano, restano nella direzione della lama. E’ una lama che ride, che dice il peggio con un ghigno. Mi fermo, raggelo.
– Qualcuno c’ha detto, qualcuno ha scritto, l’avete cassato, l’avete tolto, l’avete buttato via dalla trasmissione. Noi non lo facciamo questo, e ce lo abbiamo qui in carne e ossa, caro Parenzo: Giorgio da Genova. Io voglio capire da Giorgio da Genova se veramente vuol fare dei rom mangime per gli animali?
– Un campo di concentramento, un autocompattatore, da una parte entrano zingari, dall’altra esce mangime per maiali .
Il Mein Kampf se non sbaglio, dice: un animale se lo addestri cambia, uno zingaro non cambia.
Ho un conato, lo trattengo. La voce che domanda è di Giuseppe Cruciani. E’ radio24, La Zanzara: “l’attualità senza tabù, senza censura”.
I minuti passano. Cruciani e il compagno della radio cotinuano la scenetta con una gag che non ha nulla di ridicolo – piuttosto di pietoso e osceno, che appunto esonda, esce dalla scena inondandola: Parenzo l’indignato-che-resta indignato-ma-resta, Cruciani l’uomo delle spallucce, il “suvvia, tutti possono dire quello che vogliono”. E quella scena inondata diventa presto una sostanza vischiosa, umor acqueo in cui tutto si confonde.
Passano altri secondi. I conati non si arrestano, spengo la radio.
Uno può dire quello che vuole – ribadisce Cruciani.
La parola è libera, i filtri scemano, i no non sono ammessi : è la nuova formula del godere ad ogni costo. L’ascoltatore deve eccitarsi, deve accendersi in un focolaio, deve ascoltare per poi dire, deve dire per poter ascoltare, deve urlare. E ad urlo corrisponde urlo. Perché non è la direzione a contare, non la posizione, non il detto ma la forma di quel detto. I toni devono essere pieni, la violenza deve essere stereotipica, a tratti caricaturale, purché d’effetto e richiami altri effetti:
chivawa • 7 giorni fa (da Il Fatto Quotidiano)
la zanzara è uno specie di cloaca dove anche chi non è provvisto di cervello può parlare . da genova suggerirei un bel crematorio e mi raccomando infilatecelo da vivo. per gli altri soggetti della zanzara iniezione letale o sperimentazione di farmaci.
Un autocompattatore : da una parte entrano parole, dall’altra esce un rigolo di sangue, una bava, il resto di uno sputo. Le voci effettate di una presunta libertà di parola. Del resto c’è già stata un’altra Casa che della libertà faceva motto e bandiera, un uomo/casa che ci aveva rubato significanti buoni per restituirceli pervertiti e snaturati. Ci siamo abituati allo scempio, al tutto è concesso.
E’ possibile prendere ad esempio il Mein Kampf, è possibile dire il mangime dei maiali, è possibile dire quanto due culi vendano molto più che la parola di una donna, è possibile incitare la violenza degli stati di alterazione di Borghezio, è possibile parlare di
“sterminio completo di zingari, donne uomini e bambini”. (di nuovo, Giorgio da Genova)
La parola perde peso, si scarnifica, diventa pretesto di pretesto, un semplice passaggio di saliva che di bocca in bocca finisce col suggerire che sì : è possibile. Che il dire non ha a che fare con l’etica, che la libertà si confonde con il vuoto troppo pieno dell’urlo. Si chiedono megafoni, amplificatori del pensiero : perché non è mai abbastanza, non è ancora abbastanza.
***
Dire la parola/dare la parola
Nei giorni seguenti ho cercato in rete.
Scopro che questo dialoghetto è in realtà un secondo round : Giorgio da Genova era già intervenuto qualche giorno prima con le sue tesi sul genocidio.
Quelli de La Zanzara hanno (ovviamente) deciso di ricontattarlo.
Diventa così l’oltre della spettacolarizzazione : una manovra che coglie un fiammifero per appiccare l’incendio. Ma l’incendio non si muove, resta un dire che passa, un discorso da cinque minuti, due chiacchiere da bar, un tweet veloce. Parenzo l’indignato chiede il numero dell’ascoltatore per denunciarlo, Cruciani lo blocca, Giorgio chiede non tradirmi, un po’ si ride, un po’ no, un po’ si stride. L’importante è che tutto punti all’estremo, che l’estremo non resti una vetta ma un punto di partenza, un luogo dal quale muoversi per il gusto di muoversi. Nessuna concessione al limite, il limite non esiste, un velo non esiste. Anzi : va strappato. Non per moto di rabbia e indignazione, non per mettere a nudo l’invisibile ma per rendere visibile l’osceno che attrae. Lo sguardo e l’udito concentrati nel verso del piacere.
Dunque c’è un dire la parola e un dare la parola.
E in quel dare Cruciani è salvo, tutti sono assolti. Non è lui ad aver detto, anzi, ha solo concesso il dispiegarsi di “un’opinione”. Si può passare ad altro. Ai culi che vendono di più, alla Boldrini, uno stacchetto musicale, una nuova alzata di toni.
Se il discorso razzista talvolta smette di essere discorso per diventare azione, anche dare la parola è un’azione. E’ passare il testimone, agire la scelta. Di quanto spazio dare, se darlo, quanto tempo, se c’è un tempo, se è necessario, se etico è darlo, se e quando – per sottrazione – mettere l’altro, su cui il discorso razzista agisce, nella posizione del silenzio : è il silencing.
Ma l’etica – che venga après coup o che stia a monte – ora vacilla. Se quando denuncia riceve l’accusa di moralismo, là dove tace, incassa il colpo e tace.
Quello che continua a parlare è un brusio di fondo, una zanzara, il fumo passivo di un discorso (mal)mediato che produce mostri e riproducendoli si ripara nella frase, ancor più debole e perversa della prima [uno può dire quello che vuole] e che sottovoce afferma : “suvvia, in fondo il mostro sta dentro ognuno di noi”.
* immagine : Ein Wort ohne Sinn di Davide Racca
Qualche link utile:
Trascrizione completa della seconda conversazione da Il Fatto Quotidiano
Il video completo, l’audio completo [ dal minuto 1:23 in poi ]
Sulle dichiarazioni di Cristiano Zuliani
Giorgio Pino – Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero
In realtà, la poesia: critica da un blog
di Lorenzo Mari
.[L’intervento di Lorenzo Mari segue quello di Luigi Bosco a proposito della critica letteraria e consiste in uno sviluppo di quanto detto nella serata dedicata a questo tema nell’ambito della rassegna milanese Tu se sai dire dillo 2014. Luigi Bosco, Davide Castiglione, Lorenzo Mari e Michele Ortore danno vita al blog di critica letteraria In realtà,la poesia. B.C.]
Parlando di In realtà, la poesia, mi interessa sottolineare, innanzitutto, l’esistenza di una particolare disponibilità materiale (lo spazio di un sito web), che trova la propria ragion d’essere in una particolare disposizione (o pre-disposizione) strategica.
Per quanto riguarda la disponibilità, è forse opportuno sgombrare il campo da un equivoco, che, di fatto, avevamo già tentato di arginare stilando l’elenco delle linee guida per l’invio di materiale al sito… Ebbene, In realtà, la poesia non è affiliato ad alcun esperimento di nuovo realismo o New Realism che dir si voglia (così come, ad esempio, Le parole e le cose non è un sito d’ispirazione foucaultiana…). Inoltre, In realtà, la poesia non risponde neppure all’esigenza di tornare alla realtà così com’è stata espressa in molta poesia, per così dire, “neolirica” di recente pubblicazione ed emersione critica…
Tutti questi approcci possono trovare spazio nel sito, accanto a posizioni diverse, anche di segno diametralmente opposto. La disponibilità materiale del sito, infatti, resta aperta verso ogni tipo di interpretazione e di posizione, purché sorretta da analisi testuali chiare e verificabili e dalla propensione al dibattito, in luogo della polemichetta in odore di troll o, come più spesso e tristemente accade, di narcisismo individuale.
Quanto al rapporto con la realtà, esso consente a chi vuole contribuire, cito dal sito, di “parlare della realtà rappresentata da un testo (p. es. l’arrivo delle truppe naziste in Primavera Hitleriana di Montale) o di quella che precede il testo (p. es. il contesto storico, sociale e biografico in cui il testo o l’opera sono stati composti) o ancora quella d’arrivo (p. es. nel contesto della ricezione: la rilevanza di un testo straniero nella situazione attuale italiana). Tutte queste scelte possono essere esclusive (ci si può concentrare su uno o sull’altro aspetto) o può esserci il tentativo di connetterle (p. es. ragionare sulla distanza tra il contesto di produzione, quello di ricezione e il mondo creato dal testo stesso), ancora una volta a discrezione del critico”.
Come si può facilmente osservare, la parola “realtà” allude a molti altri significati, tra i quali quello di “opera”, un dato che si impone sempre di più, a nostro avviso, a partire dall’esigenza di considerare i testi poetici non soltanto come ‘post’, all’interno di esperienze moltitudinarie ed effimere, ma anche e soprattutto come ‘opere’, qualora ne possiedano i crismi. Il primato del textus – incredibile a dirsi: vero, Zuckerberg? – sembra passare ancora da quelle parti…
Questo tipo specifico di disponibilità materiale trova origine in una specifica disposizione, o pre-disposizione, strategica, che è necessariamente multipla: nasce dai quattro approcci, spesso convergenti, ma non sempre collimanti, dei quattro fondatori del sito.
Aldilà dei posizionamenti individuali, la strategia comune parte da un interrogativo sulla lettura della poesia. Questa domanda precede e finisce allo stesso tempo per innervare l’esercizio della critica, dando così una nostra prima, parziale risposta alla domanda che Biagio Cepollaro, in linea con le sue Note per una critica futura di qualche anno fa, ha posto nelle tre giornate milanesi di “Tu se sai dire dillo” di quest’anno: “cosa vuol dire leggere un testo poetico?”.
Parlare di ‘critica futura’ significa, nell’ambito di In realtà, la poesia, impegnarsi in un lavoro che si potrebbe definire forse di ‘retroguardia’: tornare indietro, ai significati mossi dalla lettura di un testo poetico, per poi tentare il balzo in avanti, tornando a proporre forme di intervento critico.
Si tratta di una posizione che, per altri versi, si può definire “militante”, ma che, allo stesso tempo, muove i primi passi da alcune aporie individuate nella critica militante di oggi. Vi è certamente la consapevolezza che ogni esercizio critico propriamente detto costituisce “critica militante”, com’è stato ricordato anche nelle giornate milanesi. Tuttavia, le basi per un simile intervento – in un dibattito letterario che è più che altro uno scontro di posizioni mantenute in chiave di ‘politica’ pseudo-partitica e non di ‘politica’ conflittuale – devono, a nostro avviso, essere rielaborate a partire da un esercizio, anche nascosto, di lettura e non – non soltanto – di post contenenti recensioni, testi magari neanche vagliati da una redazione web, eppure messi “in coda di pubblicazione”, oppure articoli sui supplementi culturali del sabato o della domenica…
Non è così facile, allo stato attuale delle cose, parlare di critica militante. A nostro avviso, è possibile declinare questa ed altre pratiche soltanto all’interno di quel movimento dialettico che è proprio della lettura di un testo, nel confronto tra testualità, inter-testualità ed extra-testualità, tra dimensione soggettiva e inter-soggettiva.
Una dialettica che può sussistere anche nel confronto tra reale e irreale suggerito da Luciano Mazziotta, ricordando questa splendida intervista di Loredana Magazzeni a Giuliano Mesa. Quell’intervista costituisce un punto di riferimento solido per il lavoro di In realtà, la poesia, anche quando entra apparentemente in conflitto con alcuni dei presupposti qui confusamente elencati:
“Intanto, direi che la poesia ha sempre bisogno di interrogarsi sul proprio rapporto col reale. La poesia dovrebbe sempre interrogarci sul nostro rapporto col reale, e può farlo soltanto interrogando sempre anche se stessa, il suo linguaggio, le sue forme. Dunque, non può che essere sempre nuova, poiché il reale muta costantemente. Che poi non muti “verso il meglio”, ebbene, ciò non attiene al concetto di nuovo inteso come proprio di un certo tempo storico in un certo luogo, bensì, e mettendolo in crisi, al nuovo inteso come “tappa di un progresso”. Invece, e per molti anni e ancora oggi, è stata accolta come “ovvia” l’equazione “fine del progresso” – “fine del nuovo”. Quel progresso, il procedere teleologico della storia umana verso la sua perfettibilità, se non perfezione, non è mai esistito: è stato, è ancora nella sua versione dominante – neoliberista, per intenderci -, ideologia. Ma il nuovo inteso come mutamento dei linguaggi, delle forme dell’arte in rapporto col mutare delle condizioni non è finito, non può finire. Sarebbe inutile dirlo, dirne, non fosse che, invece, si va dicendo, con insistita ottusità, che, ad esempio, la poesia italiana è finita trenta e più anni fa, che poi non c’è stato altro che epigonismo postmoderno. Anche ammesso che sia così – e non è così – quell’epigonismo rappresenta comunque, nelle sue forme, il nuovo di fine secolo… Cerco di riannodare i fili: finché ci si interroga sull’ipotetica fine della storia, sull’ipotetica morte della poesia intendendo il nuovo come mera ed “eclatante” innovazione tecnico-formale, su intenzioni più o meno avanguardistiche, non del “rapporto col reale” ci si sta occupando bensì di ciò che esso potrebbe essere se… esercitazioni masturbatorie – irrelate – della teoresi sistematica, sistematizzante, che ha spesso perso la testa perché la realtà gliel’ha, impietosamente, tagliata… “?Adesso occorrerebbe mettere in corsivo la parola reale, che io di solito non uso perché presuppone un irreale. Mi limito a dire che se la poesia è un modo del pensare, del conoscere, dunque del “mettere in relazione”, è anche, nella concretezza delle poesie, realtà, oggetto che, nel suo esistere, o sussistere, è immediatamente e inevitabilmente in rapporto con altri oggetti: a partire da questa condizione, da questo prerequisito, se ne può forse considerare la capacità di interrogare… “
Sulla statua “Violata”. La lettera di Francesca Baleani al sindaco di Ancona
Il 23 marzo 2013 viene inaugurata ad Ancona la statua Violata, monumento in ricordo “di tutte le donne vittime di violenza”, voluto e finanziato – senza alcun bando di concorso, ma accettando la proposta di una statua già realizzata in gesso dallo scultore Floriano Ippoliti – dalla Commissione Pari Opportunità della Regione Marche in accordo con alcuni altri enti e associazioni femminili locali. La statua, che rappresenta una donna con borsetta di ideale bellezza dalle vesti succinte e stracciate in modo da scoprirne, mettendoli in tutta evidenza, il seno e il sedere, suscita immediatamente incredulità e sdegno. Una rappresentazione che viene giudicata da troppi semplicistica e inopportuna, se non offensiva della dignità delle donne vittime di violenza. Ne derivano diverse lettere di protesta (consultabili qui: https://www.facebook.com/notes/c%C3%A8-da-spostare-una-statua/violata-le-lettere/418153478300536 ) inviate alle autorità locali in cui si spiegano puntualmente le ragioni culturali e simboliche profonde della mobilitazione e una petizione per richiedere la ricollocazione dell’opera e la sua sostituzione con un’altra scelta attraverso un concorso di idee trasparente e aperto al coinvolgimento della cittadinanza. La petizione raccoglie oltre 2600 firme, e viene sottoscritta inoltre da 64 centri e associazioni antiviolenza in tutta Italia, numerosi rappresentanti di organismi di parità e pari opportunità (tra cui intere commissioni PO regionali), centri studi di genere universitari, moltissimi intellettuali ed esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo e dell’arte (qui l’elenco completo: https://www.facebook.com/notes/c%C3%A8-da-spostare-una-statua/istituzioni-associazioni-centri-antiviolenza-che-aderiscono-alla-petizione/418166531632564 ). E, soprattutto, da molte donne vittime di violenza e familiari di donne uccise per mano violenta.
A oltre un anno e mezzo dall’inizio della protesta, nessuna risposta concreta di merito è stata data dalle istituzioni locali alle obiezioni sollevate, se non l’immediato, fermo rifiuto a ricollocare l’opera da parte della Commissione PO delle Marche e una dichiarazione di due rappresentanti dell’attuale giunta di Ancona in cui si esprime una posizione per molti versi in linea con le istanze della mobilitazione, ma a cui non segue nessuna azione né si inizia, come sarebbe auspicabile e necessario, alcun percorso di dialogo e confronto sulla questione. Segue invece – mentre la protesta continua – un lungo, incomprensibile silenzio, soprattutto verso le donne vittime di violenza unite nella mobilitazione, alle quali non viene indirizzata, in oltre un anno e mezzo, una sola parola di vicinanza da parte delle istituzioni coinvolte.
Francesca Baleani è una di loro. Sopravvissuta a una terribile violenza nel 2006, da allora si batte con coraggio e dignità contro gli abusi sulle donne. Stanca del silenzio e dell’indifferenza, il 18 novembre ha inviato un’accorata lettera alla Sindaca di Ancona che Nazione Indiana accoglie, sostiene e pubblica di seguito integralmente. Grazie Francesca!
cinéDIMANCHE #06 JERZY SKOLIMOWSKI “The Shout / L’australiano” [1978]
di Andrea Raos
Una delle accuse più ricorrenti di mia madre a mio padre era che per via del lavoro non passava tempo a sufficienza con i figli. Il compromesso raggiunto fu che quasi tutti i fine settimana lui ci portava al cinema. Quello che mia madre non sapeva o fingeva di ignorare è che non ci portava all’oratorio a vedere i film per bambini, che sarebbe stato per lui una tortura, ma nei cinema normali a vedere quelli che piacevano a lui.
Fu così che nel 1978, a dieci anni esatti, vidi in un cinema di Milano questo film di cui non capii molto.
So adesso che è tratto da un racconto di Robert Graves del 1929 che è ancora più spiazzante del film e che oggi vedo come uno dei momenti migliori nello sforzo europeo per fare i conti con l’esperienza coloniale e, soprattutto, con i presupposti filosofici di questa. Colonie e riti esotici usati per parlare del nemico interno.
Adesso so anche che le musiche del film sono di Tony Banks e Mike Rutherford (Genesis) e, me lo dice un commento su youtube, che il sintetizzatore usato dal protagonista del film è un raro EMS Synthi Sequencer 256 del 1971 – lo guardo con tenerezza perchè allora mi era sembrato di una bellezza infinita, una piccola cattedrale.
Ma la più importante è la prima impressione. Dunque, le poche cose che ricordo solo da allora sono: la musica sperimentale suonata da John Hurt, che a me sembrò magica e meravigliosa; quella che credo sia la scena più famosa, l’urlo che scuote le dune e le nuvole fondendo cielo e terra in un unico attimo di terrore comune, universale e assoluto; soprattutto, non ricordo in quale punto del film – ho deciso di non riguardarlo prima di scrivere queste righe – la danza dei folli sotto la pioggia, le risa disperate, i pianti, i gesti senza senso, i movimenti sconnessi e gli animali in fuga o indifferenti, tutti gli uomini e le donne vestiti di bianco, bianchi contro il verde dei prati, tutto questo incomprensibile che è tutto e non lascia fuori nient’altro, mai.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
GraffITI

Abbellire il Moderno?
di Alberto Giorgio Cassani
«La gente si arreda la casa in stile antico, si circonda di mobili che appartengono a un’epoca ormai sepolta da secoli che non le è per nulla congeniale, e questo basta a farla vivere nella menzogna, pensavo. In realtà la gente è talmente debole rispetto alla propria epoca che si sente costretta a circondarsi di mobili di un’epoca da tempo passata, da tempo scomparsa, da tempo morta e sepolta, e si può dire che lo fa per tenersi a galla, pensavo, ed è quindi segno di uno stato di orrenda debolezza quando la gente si arreda la casa con mobili di epoche passate e non con mobili della propria epoca, della quale non riesce a sopportare la durezza e la brutalità, pensavo. La gente si circonda di mollezza, la mollezza del passato da cui è scomparsa ogni contraddizione». Questa formidabile pagina di Thomas Bernhard, tratta da A colpi d’ascia , con la sua lucida, feroce e tagliente scrittura, basterebbe da sola a far da commento alla recente querelle sui graffiti alla palestra dell’Istituto Tecnico Industriale Statale “Nullo Baldini” di Ravenna. Certamente i graffiti sono una manifestazione dell’arte contemporanea e non hanno in apparenza nulla a che vedere con l’antico, ma sono stati motivati come un “abbellimento” di due scarne, dure e brutali pareti di cemento.


Il termine “brutalità”, utilizzato da Bernhard, ben di addice, fra l’altro, a definire un tipo di architettura come quella dell’I.T.I.S., edificio progettato, tra il 1959 e il 1961, dagli architetti Gino Gamberini, Antonino Manzone e Danilo Naglia in quello stile definito, appunto, brutalista, iniziato da Le Corbusier con i suoi edifici indiani (Ahmedabad e Chandigarh), ma compiutamente realizzato soltanto con l’opera degli architetti inglesi Alison e Peter Smithson nei progetti della Smithdon High School di Hunstanton (Norfolk, Gran Bretagna, 1949-1954) e nel non realizzato, ma ancor più “brutalista”, progetto per la Sheffield University (concorso del 1955), come ha ben scritto un grande storico dell’architettura contemporanea come Reyner Banham (The New Brutalism, in «Architectural Review», dicembre 1955). In Italia, un precedente dell’I.T.I.S. fu l’Istituto Marchiondi Spagliardi a Baggio (1954-1957), ideato da Vittoriano Viganò (con Franz Graf e Letizia Tedeschi), oggi senza utilizzo.

Ecco quanto scriveva, a proposito del progetto dell’I.T.I.S., lo stesso Manzone: «Perché inventare ogni volta l’ombrello? Perché non utilizzare i prodotti verificati? Ha senso il “segno personalizzato” quando nessuno ha più tempo di guardare? Ormai contano i fatti macroscopici, le grandi masse, i grandi motivi, le grandi stesure cromatiche. Non ha più senso un’architettura da contemplare. Solo pochi intellettuali nostalgici di un mondo ormai superato s’interessano al particolare raffinato, all’oggetto individualizzato. Siamo sottoposti a troppe sollecitazioni visive. Ogni forma è sottoposta a un consumo così rapido da risultare, alla fine, esteticamente neutra. Diciamolo francamente: giocare con ideuzze formali è, ormai, delittuoso» .
Dunque ancora oggi, l’architettura moderna – permettetemi di utilizzare quest’aggettivo in senso comprensivo, escludendo soltanto, da un lato, gli inizi del Novecento, caratterizzati dallo Jugendstil, altrimenti detto Art Nouveau, Liberty, Floreale, Modernismo catalano, secondo le diverse declinazioni proprie alle varie regioni europee, e, dall’altro, il cosiddetto Postmoderno (che pure a quel Moderno, almeno nel nome, fa riferimento, seppur e contrario) – non viene accettata in sé e per sé; come accade in tanti altri casi: per l’Avanguardia artistica (ancora qualcuno ritiene che Picasso non sapesse dipingere) o per l’avanguardia musicale (il Pierrot lunaire di Schönberg è ancora ostico alle orecchie di molti) e potremmo continuare a lungo. Di tutte queste espressioni artistiche non si riesce ancora a sopportarne, a reggerne, la «durezza e la brutalità». Forse è colpa del Moderno e dell’Avanguardia? Forse sono mancati e mancano tuttora gli strumenti per educare a questi linguaggi “anti-classici”? Come che sia, è ritenuto lecito addolcire la pillola attraverso decorazioni e abbellimenti, in questo caso ricorrendo al graffitismo. Ma la Street Art non era nata come un pugno allo stomaco per lo sguardo “borghese e perbenista” del cittadino? E non era un’arte clandestina? Non è perlomeno curioso che ora si concedano legalmente superfici della città per quest’espressione artistica? Dov’è andata la critica, dov’è finita la protesta? E perché proprio il Moderno ha bisogno di essere abbellito? Perché una parete nuda, bianca o grigia, provoca ancora un senso di horror vacui?

Venendo al caso dei “graffITI”, forse era opportuno, com’è stato già evidenziato da qualcuno, essendo vivo e vegeto (e in gran forma di spirito) uno dei progettisti dell’edificio scolastico più bello di Ravenna (assieme al Polo per l’infanzia “Lama Sud” di Giancarlo De Carlo e Associati), sentire il suo parere. So che l’architetto non ha diritti sulla sua opera, una volta che questa è terminata (solo Santiago Calatrava ha provato a intentare una causa di questo genere a Bilbao per il suo ponte pedonale, perdendola), e che Le Corbusier, a fronte dei cambiamenti apportati dagli abitanti alla sua cité Frugès a Pessac (1924-1926, Gironda), aveva esclamato: «la vie […] a raison, et l’architecte […] a tort»; ma sarebbe stato un gesto veramente unico e degno di una città capitale europea della Cultura, farlo per la prima volta.
Queste riflessioni non vogliono essere contro qualcuno e soprattutto contro la Street Art. Tra l’altro, uno dei due artisti, Millo, ha svolto studi di architettura e si vede, perché il suo graffito si lega molto di più con il volume della palestra di quanto fa, invece, il lavoro di SeaCreative (alias Fabrizio Sarti), per il quale la parete è una pura superficie.

Se “tatuare” gli edifici non deve più essere considerato da “degenerati”, come sosteneva, all’inizio del secolo scorso, l’architetto Adolf Loos (Ornamento e delitto, 1908) , forse occorre lasciare “liberi” i writers di scegliere su quali muri e su quali architetture compiere tale azione. Ricordando però loro che l’architettura non è solo superficie, ma soprattutto volume, materia, texture, luce ed ombra, «le jeu, savant, correct et magnifique des volumes sous la lumière» (Le Corbusier, Vers une architecture, 1923). Una cosa viva, non morta, che forse non ha così tanto bisogno di essere “abbellita”.


















