Neottolemo è al mio fianco. Lo sento ansimare, col suo caratteristico puzzo di cipolla e sudore. Lo spingo per farlo scostare, mi sta pestando il piede. L’oscurità è fitta, il silenzio è rispettato a fatica, qualcuno penserà che il cigolio delle ruote potrebbe consentire anche un temerario bisbiglio. Allora provo a fare un appello col passaparola, cerco di ricordare come sono disposti in fila fino al portellone d’uscita – quelli dietro di me capiranno da soli quando muoversi. Sussurro all’orecchio (anche quello puzza) di Neottolemo: “avverti Acamante e lui Toante e lui Tessandro e lui Stenelo e lui Menelao e lui Macaone e lui Epeo che manca poco; quando le ruote si fermeranno, Epeo aprirà il portellone e ci caleremo uno alla volta. Sarà facilissimo, gli dèi sono con noi”.
Pochi minuti e il cavallo si ferma, un cigolio inerziale e poi il silenzio assoluto. D’improvviso un gran fracasso – sarà il portellone – una luce accecante, tonfi regolari, calpestio di piedi, brusio indistinto, ancora quella luce, sempre più accecante: ora è il mio turno. Afferro la corda, mi calo agilmente, atterraggio perfetto, sguaino la spada… dove sono i compagni? Dove siamo tutti noi? Sposto la mano a proteggere gli occhi dalla luce e lascio cadere la spada, lo so che è azzardato, ma mi sembra di avere dinanzi una parete immensa, un ostacolo imprevisto. Venere che gioca l’ultima carta? Ma no, la parete è umana, un muro alto quanto il cavallo, con al centro un gran cerchio tutto rosso… una scritta si allunga sulla destra del cerchio: VOI SIETE QUI! Ma qui dove? ATTENZIONE, urlo… il muro si sta spostando, si apre in due metà, lasciando da una parte VOI SIE e dall’altra TE QUI! Dannati Troiani! e mi slancio nella breccia. Ecco le mura dell’alta Troia, ecco i nemici, ecco le donne piangenti, i bambini pronti al sacrificio: questo mi aspetto, questo vedo con gli occhi della mente. Ma quando mai! Una spiaggia, lunga e ampia quanto basta per contenere uomini disarmati affaccendati a smontare pannelli, simulacri di torri e bastioni, gigantografie oscillanti col vento, un andirivieni di strani carri e mostruosi alberi semoventi con braccia enormi. Avessi già incontrato Polifemo, mi rassicurerei: siamo nella terra dei Ciclopi, i mostri con l’occhio accecante, faro penetrante a guisa di fuoco. Ma no, altro che Polifemo e Sirene, certo vedo mare e isole ma assolutamente innocue, vedo solo uomini laboriosi e per nulla simili ai Troiani – se è per questo, neanche a noi Danai e Achei. Uomini con strane bacchettine in bocca che emettono fumo, mani ricoperte di mani supplementari con vello di pecora, bastoni con forme strane e asce che demoliscono i pannelli di legno. Dove sono i compagni? mi chiedo in preda a un terrore crescente. Né avanti né dietro di me. Provo a fermare un uomo laborioso, un carpentiere, appoggiandogli la spada sulla gola. Sembra non fare caso a me, mi rivolge una parola ingarbugliata e barbara “ph-n-k-l-“. Si allontana ripetendo strane formule. Lì, in fondo alla spiaggia, un uomo seduto su un triclinio un po’ strano, rigido, legnoso. Di spalle sembra uno dei nostri, ma forse potrebbe essere uno di loro. Mi avvicino cauto con la spada ancora sguainata. Ma è Priamo, certo, lo riconosco dalle spalle cadenti di vecchio re. Anche lui ha una bacchettina che emette fumo. Si alza e si volta. Mi riconosce, sembra. Certo Elena gli avrà parlato di me, chissà quante volte. Mi ferma con un gesto imperioso, ma allo stesso tempo amichevole. Riesco a capirlo, miracolo! “Amico mio, finalmente! ce ne avete messo di tempo. Quasi quasi dovevamo ricorrere a un’altra troupe. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta, la discesa è riuscita benissimo, ripresa perfetta, con tre camere. Tu ti sei un po’ impappinato, ma poi ti sei ripreso, comunque l’aggiusteremo col montaggio. Grande, Ulisse, come sempre!”. E mi lascia lì, con la mia spada sguainata, lo sguardo perso, senza compagni, e soprattutto senza Troia. Mi volto indietro, per recuperare almeno il cavallo. Magari! Smontato, da quei dannati alberi semoventi, pezzo per pezzo. Rimane solo la sedia di Priamo, dannato regista di tutta l’operazione, magari inventore di Sinone, Laocoonte, i serpenti, forse dello stesso cavallo? Allora anche i compagni, IO STESSO? VOI SIETE QUI, leggo in un angolo della piazza, nel pezzo di parete sopravvissuta allo smontaggio minuzioso. QUI, va bene, ma VOI CHI?
La melodia di Damone e di Alfesibeo, quei pastori
che la giovenca, delle erbe immemore, aveva ammirato
scendere in lizza, e al cui canto si sono stupite le linci
e nel mutare di corso si sono arrestati i ruscelli,
la melodia di Damone e di Alfesibeo ridiremo.
Tu, o che superi già le rupi del grande Timavo,
o sfiori il lido del mare illirico, ma verrà mai
tempo per me che mi sia concesso esaltare i tuoi atti?
Mai avverrà che per tutto il mondo io possa lodare
i versi tuoi, del coturno di Sofocle gli unici degni?
Da te il principio e con te finirò: ricevi i miei versi
per un tuo cenno iniziati e lascia che in mezzo ai tuoi lauri
di vincitore ti venga quest’edera intorno alle tempie.
Era da poco svanita la gelida ombra notturna,
quando rugiada è più dolce alla greggia nella molle erba;
dunque Damone esordì, poggiato a un olivo nodoso:
“Nasci, Lucifero, annuncia al tuo avvento il giorno vitale,
mentre, ingannato dal falso amore di Nisa, mia sposa,
io così piango e agli dèi (benché non giovasse l’averli
a testimoni) morendo in quest’ora estrema mi volgo.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Ha la sua serva stormente, il Menalo, pini loquaci,
sempre, e da sempre di noi pastori ha ascoltato gli amori,
e ascoltò Pan, che per primo non volle silenti le canne.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Nisa a quel Mopso si dà: che dovrà temere, chi ama?
Già si congiungano grifi e cavalle e (l’evo è propizio)
vadano all’abbeverata coi timidi daini le cagne.
Mopso, le fiaccole nuove prepara, a te viene la sposa,
spargi le noci, marito, per te lasciò Espero l’Eta.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Tu, sposa a un uomo ben degno di te, mentre tutti disprezzi,
mentre t’è odiosa la mia siringa e così le caprette,
il sopracciglio mio irto, nonché la mia barba prolissa;
credi che no, nessun dio delle umane cose si curi.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Roridi pomi ti vidi raccogliere qui fra le siepi
nostre (eri piccola) insieme a tua madre: io c’ero a guidarvi.
Il dodicesimo anno allora m’aveva già accolto
e già da terra riuscivo a toccare i fragili rami.
Come ti vidi, davvero perii, mala furia mi prese!
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Ora lo so cos’è Amore: a quel dio bambino d’un seme
altro e d’un sangue diverso dal nostro hanno dato i natali
Tmaro, magari, o anche Rodope o quei Garamanti remoti.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Empio l’Amore costrinse la madre a macchiarsi le mani
anche del sangue dei figli. Tu pure crudele sèi, madre!
È più crudele la madre o più truce Amore bambino?
Truce è sì Amore bambino, tu pure crudele sèi, madre.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Ora anche il lupo rifugga le pecore, dure le querce
rechino mele dorate, dall’ontano gemmi il narciso,
le tamerici dal tronco trasudino resine opime,
scendano in lizza ululoni e cigni e che un Orfeo diventi
Titiro, un Orfeo fra i boschi, un Arione in mezzo ai delfini.
Flauto, con me le canzoni del Menalo prendi a intonare.
Tutto oramai si tramuti in pelago fondo. Addio, selve!
Giù capofitto da un picco di rupe scoscesa io fra i gorghi
mi getterò, morirò, da me avrà quest’ultimo dono.
Smetti oramai le canzoni del Menalo, smettile, flauto.”
Questo cantava Damone: quel che Alfesibeo gli rispose,
Pieridi, ditelo voi: non tutti possiamo ogni cosa.
“Portami l’acqua e circonda di morbide bende l’altare,
quindi le opime verbene e gli incensi maschi da’ al fuoco,
sì che io provi a confondere il sano intelletto allo sposo
con i miei magici riti; qui mancano solo gli incanti.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Sanno far scendere giù dal cielo la Luna, gli incanti,
Circe mutò con incanti perfino i compagni di Ulisse,
con un incanto nei prati si lacera il gelido serpe.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Triplici fila screziate di ben tre colori da prima
alla tua immagine lego intorno e poi intorno all’altare
corro tre volte portandoti: un’impari cifra al dio piace.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
I tre colori tu lega con triplice nodo, Amarilli,
lega, Amarilli, e ripeti: “I lacci di Venere io lego”.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Come la creta è indurata e come la cera è colata
per un medesimo fuoco, così farà Dafni al mio amore.
Spargi il cruschello e al bitume fa’ ardere fragili lauri:
Dafni fa ardere me, maligno, e per Dafni io quel lauro.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Tale un amore su Dafni, quale ha la giovenca, se affranta
dal ricercare il suo toro fra selve e nel folto dei boschi,
presso un rio d’acqua s’abbatte in mezzo a verde erba palustre,
tanto s’è persa, e a sfuggire alla tarda notte non pensa,
tale un amore a lui piombi, né io penserò di sanarlo.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Queste sue spoglie una volta ha lasciato a me, l’infedele,
pegno diletto di sé, che adesso su questa mia soglia
Terra, io a te raccomando; quel pegno mi deve il mio Dafni.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Ecco qui l’erbe e gli scelti veleni venuti dal Ponto,
quelli che Meri mi diede: ne nascono tanti dal Ponto.
Spesso con questi io in persona l’ho visto mutarsi in un lupo,
Meri, e chiamare gli spettri dal fondo dei loro sepolcri
e trasferire nel campo d’un altro una messe piantata.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Porta le ceneri fuori, Amarilli, e al rivo che scorre
gettale dietro le spalle, non volgerti! Dafni con queste
io colpirò: non si cura di dèi, non si cura d’incanti.
Dalla città Dafni a casa guidate, ah, guidatelo, incanti.
Guarda, di tremule fiamme la cenere sopra l’altare
arde spontanea, adesso che sto per sottrarla. Un buon segno!
Certo qualcosa è accaduto, e Ílace abbaia alla soglia.
Ci crederò? O chi ama si crea per sé stesso il suo sogno?
Dalla città Dafni torna, smettete, ah, smettetela, incanti.”
Il portico sembra lunghissimo per il passo incerto del soldato ferito; il susseguirsi degli archi che, ancora adolescente, si divertiva a contare nelle passeggiate e nei giochi di ragazzo si confonde ora nella memoria con la fila dei commilitoni.
L’uniforme grigioverde lo fa più uomo, ma il sottotenente Alberto Serra, studente dell’Istituto di fisica e matematica, nato a Bologna il 22 settembre del 1897, terzo di tre fratelli sparsi sul fronte tra il Veneto e il Friuli, non ha ancora compiuto i ventuno anni. L’ospedale da campo, quel frammento di pietra che si era staccato da un masso colpito da una granata e che era schizzato a ferirgli il ginocchio come un proiettile, la sua corsa ostinata sotto il fuoco nemico, l’odore dolciastro e ripugnante dei cadaveri in putrefazione, il gioco della dama, gli scacchi, le sigarette fumate nelle trincee per passare il tempo, le scaramanzie e le superstizioni suggerite dal pericolo; l’acqua bevuta nell’elmetto, con i moscerini e i fili di paglia da scostare con le dita. E poi i pidocchi, presi il primo giorno, appena arrivato, nel Genio Zappatori: «Serra, ce li hai i pidocchi?», gli chiese il suo comandante. «Oh, no, signore», rispose il ragazzo inorridito. Allora il maggiore ne trovò un pizzico sotto la sua camicia e glieli diede: «Prendili, qui li abbiamo tutti».
Ricordi affastellati, sovrapposti ai pensieri di ragazzo, ai giochi accantonati, il tiro a segno, il fioretto; i libri di scuola abbandonati sui banchi per andare a fare la guerra. Alberto cammina, ancora, fino al portone di casa, a Verona. La luce del pomeriggio si riflette rossa sulla pietra dei palazzi: batte al portone. Nessuno gli apre. Batte ancora: capisce che nessuno lo aspetta.
«Cara mamà, vi scrivo per comunicarvi che verrò a casa per qualche giorno di licenza. Mi dà grande gioia il pensiero di riabbracciarvi.
Il vostro devoto figliolo,
Alberto».
Venti giorni: sono passati venti giorni, e la sua lettera non è arrivata.
Alberto è esausto. Per tutto il viaggio non ha fatto che sognare il momento in cui avrebbe varcato la soglia di casa sua, in cui avrebbe sentito il crepitio della fiamma nel camino, l’odore della roba da mangiare preparata dalle mani di sua madre, da quando non avevano più la cuoca. Non ha fatto che sognare di addormentarsi nel suo letto, profumato, soffice, pulito, dopo tante notti passate all’aperto, a dormire seduto, poggiato contro un muro. E poi il viso di sua madre, il suo abbraccio affettuoso, lo sguardo fiero di suo padre e il chiacchierare disteso dopo cena, a ricordare, a raccontare, a leggere libri.
Alberto si astrae con la mente per pochi secondi appena, densi di immagini e di desideri, di ambizioni semplici, ma attese con bramosia e con pazienza insieme, per molti mesi, al fronte.
Una finestra si apre al primo piano: si affaccia la cameriera: «Signorino Alberto!».
È sorpresa, quasi non crede ai suoi occhi. Si precipita di sotto per andargli incontro e aprirgli il portone: «La signora è fuori per la funzione, la messa della domenica». Perché, certo, è domenica, e sono le sei del pomeriggio.
Alberto entra nel cortile, sale le scale, raggiunge il salone con il camino acceso. Il suo passo è quello adulto di un soldato stanco, sul pavimento di legno della biblioteca, stanze in cui pare ancora di udire le voci allegre dei ragazzini che tiravano di scherma nei corridoi, divertendosi a trafiggere le pupille della nonna paterna nel quadro che la ritraeva già vecchia: Alberto contro Giovanni, il secondo dei tre fratelli, e poi Giovanni contro Ercole, il più grande, che tutti chiamavano Lino, che era campione di lotta greco-romana, e ad Alberto, più piccolo di lui di dieci anni, sembrava un gigante invincibile. E invece la Grande Guerra lo avrebbe vinto di lì a poco, tenente del Lucca Cavalleria, irrimediabilmente ammalato a causa delle sevizie subite nelle carceri austriache.
Alberto si siede sul divano foderato di velluto blu. La sua mente corre all’alba di venti giorni prima, quando aveva scritto a sua madre per farle sapere del suo arrivo, nella penombra, in uno stanzone pieno di feriti, usando come scrittoio il davanzale di una finestra.
Un giovane soldato ferito gli si avvicinò in silenzio e dopo, sottovoce: «Mi aiutate a scrivere una lettera a casa?». Allungò timidamente una mano per porgergli un foglietto ricavato dividendo in otto parti la pagina di un quaderno e pochi centimetri di lapis.
«Come ti chiami?»
«Paolino, signore».
Alberto non gli chiese più nulla e rimase ad aspettare le parole del ragazzo: «Cara Maria, sono in ospedale, ma sto bene…».
Gli occhi di Alberto quasi si chiudono nel ricordo e nel sonno, la testa adagiata all’indietro, i capelli biondi tagliati cortissimi che risplendono sul cobalto della tappezzeria, la gamba allungata ad allentare le bende che gli fasciano il ginocchio sotto l’uniforme. I tratti del suo viso si distendono e le labbra sembrano accennare un sorriso, nel dormiveglia.
A distoglierlo la voce fresca della mamma, un colpo di tosse di suo padre nella stanza d’ingresso.
Alberto si alza dal divano, si accomoda i pantaloni sul ginocchio fasciato, curando che nessuno lo noti; come un soldato sull’attenti si sistema l’uniforme, quasi si stesse preparando alla solennità di un incontro con un generale, o a sfilare in una grande parata, ma non per mostrarsi orgoglioso e fiero, solo da semplice soldato, figlio devoto della sua giovanissima, adorata Italia.
Raggiunge la soglia del salone quando lo sguardo di sua madre si apre in un sorriso pieno e felice, di meraviglia e di gioia.
«Non ti aspettavamo, caro. Vieni qui, lasciati abbracciare».
«Credo di avere ancora i pidocchi, mamà», risponde Alberto con ironia leggera. Ma sua madre gli si avvicina e lo abbraccia ugualmente.
Suo padre, con il sigaro stretto fra le dita, lo guarda, un po’ distante, quasi riconoscesse in quei piccoli gesti tra suo figlio e la madre l’Alberto bambino.
Sedersi in poltrona davanti al camino, dopo cena, a chiacchierare, è un rituale che sa di casa, che restituisce intatta l’atmosfera familiare, come se di mezzo non ci fosse la guerra, come se anche Lino e Giovanni fossero con loro e non al fronte, liberi e non prigionieri, a leggere, a scrivere, non a combattere, non a tenere la posizione, non a ubbidire agli ordini dei guardiani in una prigione austriaca.
E in questo stralcio di vita ritagliato all’ombra della guerra, Alberto si apparta con sua madre in biblioteca: «Vi devo parlare, mamà».
«Che cosa vuoi dirmi, figliolo?».
«Voglio chiedervi il permesso di sposarmi».
Questa frase suona insolita alle orecchie della mamma, che fatica a frenare un sorriso: «Chi vorresti sposare?».
«Una ragazza bellissima. È vedova di guerra e ha due bambini stupendi!».
Nella voce di Alberto c’è ancora l’entusiasmo dell’adolescenza, l’incanto trasognato di un ragazzo che nemmeno la trincea ha saputo tradurre in buio cinismo.
La mamma non gli risponde; abbassa lo sguardo, ma in lei si uniscono sentimenti di tenerezza e di preoccupazione: «Non sono cose da decidere così in fretta, mio caro». Prende tempo, cerca un modo per dire a suo figlio che non avrà mai il permesso di sposarsi adesso, non ora, con la guerra ancora aperta, gli studi da completare. E poi in lei il dubbio che questa donna, già grande, possa voler approfittare dell’ingenuità del suo ragazzo. Non gli dice nulla, ma Alberto sa che dovrà lui stesso capire, dai gesti, da piccole cose, se quel matrimonio rispecchia la volontà di sua madre, che ora, alzatasi dalla sedia, gli dà un bacio sulla fronte, come faceva quand’era bambino, gli accarezza il viso, e se ne va nella sua stanza.
«Buonanotte, mamà».
Di notte, sotto le coperte, Alberto è agitato; non riesce a dormire. Non è il pensiero della giovane vedova a tenerlo sveglio, e neppure l’ansia di sapere se sua madre gli darà il permesso di sposarla. La ferita al ginocchio, così faticosamente dissimulata per risparmiarsi di dover raccontare troppe cose alla madre apprensiva e al padre, che avrebbe voluto conoscere ogni dettaglio di quella impresa, gli fa ancora male, e la mente di Alberto è tutta riempita proprio dalle immagini di quella volta, quando, con la pistola in pugno, costringeva i suoi soldati a remare, mentre il fuoco nemico sfiorava le loro teste, i loro corpi spaventati. Era sottotenente nel Genio Telegrafisti, allora, Alberto, e stabilire la comunicazione tra una sponda e l’altra del Piave era necessario, indispensabile perché si potessero ricevere e trasmettere gli ordini. Sa che non avrebbe mai sparato a nessuno di loro, eppure non riesce a dimenticare il terrore negli occhi dei suoi ragazzi, tenuti sotto tiro in quel barchino, che risaliva il fiume contro corrente. E poi quel nuotare disperato portando in spalla il telefono da campo, e il ritorno, per stabilire il contatto tra le due rive, mentre sentiva vicinissimo il fischio dei proiettili austriaci, esplosi dalle mitragliatrici, e, ancora, la sensazione acuta della ferita, di quella scheggia partita da un masso colpito da una granata sul greto del fiume.
Solo immagini di guerra riempiono la mente di Alberto nella notte, una notte che gli pare fredda come quella in cui urlando e singhiozzando per l’orrore era riuscito a tirarsi fuori da una fossa piena di cadaveri, soldati austriaci uccisi dai gas asfissianti destinati al nemico italiano, e che il vento invece gli aveva rigirato contro. Irruppe allora in lui, che pure era partito volontario, un senso profondo di ribellione per quelle morti inutili. E ancora orrore e disperazione per i suoi compagni uccisi in un combattimento, pieni di sangue e ammucchiati gli uni sugli altri, indistinguibili, come un cumulo di sacchi accatastati in un deposito.
Al mattino Alberto non si rende conto di essere a casa.
Resta seduto sul letto per alcuni minuti; respira profondamente, si rimette in piedi, quasi a volersi ricomporre, a recuperare la lucidità dell’adulto, del soldato responsabile e ubbidiente. I pensieri della notte sono ricacciati nelle retrovie delle battaglie concluse, delle trincee abbandonate.
Sulla poltroncina Luigi XVI ai piedi del letto, una vestaglia di cachemire bordò che la mamma gli aveva regalato per Natale alcuni anni prima. Immagina l’espressione dolce e affettuosa del suo viso, nell’incarnato di neve, mentre posa la vestaglia sulla sedia guardando Alberto dormire.
Scende in camera da pranzo, per la colazione. Cerca sua madre per casa, cerca la sua risposta per capire se potrà sposare la sua bellissima vedova.
Poi, sul carrello accanto alla tavola apparecchiata, rivede, dopo tanti anni, il panierino che la mamma gli preparava quand’era bambino. Lo apre e dentro c’è la torta di mele che Alberto amava portare a scuola, un paio di frittelle con lo zucchero a velo e un biglietto:
Lo scorso Aprile il mondo della scuola è stato scosso da una triste vicenda relativa al romanzo Sei come sei, di Melania Mazzucco, adottato in due quinte ginnasio del Liceo Giulio Cesare di Roma. Dall’articolo pubblicato sulla Stampa raccogliamo in un passaggio la pietra dello scandalo: «Quel libro rivela un chiaro contenuto pornografico – accusa il presidente di Giuristi per la vita, Gianfranco Amato -. E tra l’altro è tutto fortemente ideologico, perché oltre alla relazione tra i due gay c’è anche la vicenda della fecondazione assistita grazie a un utero in affitto. Questa non è la normalità e la scuola non può assolutamente sostituirsi alle famiglie nell’educazione dei ragazzi».
Ho raccolto la pietra da terra e rigirandomela tra le mani ho tentato di dare delle risposte alle domande che man mano mi si paravano davanti. Innanzitutto perché questa vicenda mi aveva interessato al punto da scriverne oggi a mesi di distanza dall’accaduto ma soprattutto in quale ruolo, quello di professore in un liceo o di autore di libri? Ho pensato immediatamente, entrambi, e andando avanti con il ragionamento mi sono reso conto che le due problematiche, quella del potere insegnare senza censura ogni cosa possa servire alla crescita di uno studente, e l’altra, di poter scrivere di tutto a condizione che ogni cosa trovi un posto preciso nella narrazione, in realtà fossero le due facce sporche della stessa medaglia. La questione che poteva valere per l’uno quanto per l’altro rimaneva la seguente: la scuola e la letteratura devono confortare un’idea del migliore dei mondi possibili o piuttosto contribuire a formare la migliore visione del mondo possibile?
Politically correct
“Se ti cambiano il nome è per dimenticare che
qualcosa non funziona nella cosa stessa”
Umberto Eco, Pistola dell’ostrega
articolo pubblcato sull’Espresso dell’1 luglio 2004
La parola Politically correct, in questi dieci anni, si è via via trasformata in un’altra, buonista essi dicono, ma credo che il termine pensiero unico possa farci capire meglio e con più grande efficacia il sistema di pensiero che non vuole pensieri in cui un po’ alla volta si sono volute incasellare visioni del mondo ma soprattutto i mondi, le vite, in principio inclassificabili o quanto meno riconducibili ad un solo orizzonte di senso. Di corretto, in Italia, probabilmente esiste solo il caffé, non sempre facendo ricorso agli stessi correttivi, mentre la politica, totalmente assoggettata al tema della legalità, ai suoi correttivi, sembra avere dimissionato dal ruolo di sua più autentica interprete; se il politically correct appiattisce dunque ogni battaglia politica sulla questione della correttezza delle parole, quasi a prescindere da quella delle cose, il pensiero unico, da parte sua, neutralizza, o vorrebbe disinnescare, ogni possibile complessità delle idee snaturandone alcuni principi di base come ad esempio le dinamiche di dialogo e di conflitto. Ecco che in tale schizofrenia o divaricazione tra linguaggio e realtà, il pensiero autentico si determina come una ferita che sanguina, un pensiero che vuole pensieri ovvero quello che in economia il pensiero unico e, in società, il politically correct non vogliono assolutamente.
da Les beaux draps (1941) di di Louis-Ferdinand Céline trad. Giovanni Raboni e Daniele Gorret, in Mea Culpa. La bella rogna, Milano, Ugo Guanda, Milano 1982, 201 p. [coll. Biblioteca della Fenice, 44]
A proposito del pensiero unico vale allora la pena ripercorrere la sua genealogia. e più particolarmente il testo fondativo di Ignacio Ramonet pubblicato nel gennaio del 1995 in un editoriale di Le Monde Diplomatique, soprattutto attraverso due passaggi. Il primo, in apertura, spesso citato che dice:
“Che cos’è il pensiero unico? E’ la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale.”
e quello finale:
“La ripetizione incessante di questo catechismo attraverso tutti i media e da parte di quasi tutti gli uomini politici di destra e di sinistra gli conferisce una tale forza di intimidazione da soffocare qualsiasi tentativo di riflessione libera, e rende assai difficile la resistenza contro questo nuovo oscurantismo. Si è quasi portati a pensare che i 17,4 milioni di disoccupati europei, il disastro urbano, la precarizzazione generale, la corruzione, la tensione nelle periferie delle città, il saccheggio ecologico, il ritorno dei razzismi, degli integralismi e degli estremismi religiosi, la marea degli esclusi non siano altro che miraggi, colpevoli allucinazioni in grave discordanza con questo migliore dei mondi, edificato dal pensiero unico per le nostre coscienze anestetizzate.”
Sono passati vent’anni e la situazione economica sembra a conti fatti ancora più deteriorata rispetto a quanto annunciato dall’editorialista. Su quella sociale e culturale varrebbe allora la pena riflettere tornando al punto da cui siamo partiti.
La Repubblica di Salòt e i banchi di scuola
Del Radical Kitsch ho scritto a più riprese quest’anno contemplando e analizzando una serie di opere letterarie, artistiche e cinematografiche, manifestazioni allineate e coperte dal sistema “cultura” partorito durante un’orgia neoliberal dall’accoppiamento selvaggio e da larghe intese della peggiore sinistra che l’Italia abbia avuto dal dopoguerra ad oggi con la più moderna destra, animata nelle faccende culturali, per lo più, da gente dell’ex sinistra.
Una macchina quasi perfetta se non fosse che basandosi tale politica culturale su alleanze e cordate a brevissimo termine può capitare che la stessa si inceppi, che la propaganda culturale incespichi sul maledetto sassolino lasciato inavvertitamente in giro, su un “perturbante” difficilmente digeribile per quanto slow food, e nonostante la scritta chilometro zero ben segnata sulla confezione. Ecco allora che non Nabokov o Sade, Henry Miller o Boccaccio abbiano scosso il granitico edificio morale del Gran Consiglio dei Genitori Italiani, ma Melania Mazzucco, la quale, poveretta, ha dovuto addirittura invocare ” la libertà di opinione” o qualcosa di simile.
Non entro nel merito della qualità del libro perché non è il tema di questo articolo anche se una riflessione sull’utilità della letteratura italiana contemporanea nelle scuole andrebbe fatta; la questione è che il radical kitsch deve la sua forza alla natura profondamente consensuale del proprio discorso e questo può avvenire soltanto quando le grandi tribune, essenzialmente media e scuola, ritengono il messaggio, ogni tipo di messaggio, innocuo. Di tale readersdigestizzazione delle idee, Pierre Bourdieu ne aveva ben descritto la mattanza, in un magnifico articolo, La parole du cheminot, uscito subito dopo gli attentati del 1995 a Parigi. Un conduttore di Metro, interpellato da un giornalista sugli attentati islamisti e sui suoi autori, fatti in cui era rimasto direttamente coinvolto, aveva semplicemente risposto : « des gens comme nous ».
“Questa semplice parola racchiudeva, per esempio, un’esortazionea combattererisolutamentetutti coloro che,nel loro desideriodi scorciatoie e semplificazioni,mutilanouna realtàstoricaambigua, per ridurla alle dicotomierassicurantidel pensieromanicheoche la televisione,inclineaconfondereun dialogorazionaleconun incontro di catch, ha istituito come modello”
Berlinguer nelle scuole? Va benissimo, a patto che non sia comunista. Testi di canzoni di De André e Vasco Rossi invece di Pascoli e Carducci, ben vengano a condizione che dell’uno si prenda tutto tranne l’anarchico e dell’altro ogni parola ma senza un grammo di hashish. La repubblica di Salòt del resto ha fondato tutta la propria retorica di finta libertà su questo tipo di censura strategica: Louis-Ferdinand Célinesì ma non quello di Bagatelles pour un massacre, compartimentazione stagna questa che una recente e coraggiosa critica in Francia, su tutte quelle di Philippe Muray e Julia Kristeva, ha sconfessato dimostrando, testi alla mano, continuità e non separazione tra romanzi e pamphlet.
Quello che però la Mazzucco non ha voluto capire è che in Italia sfruttare un essere umano non è tabù, creare diseguaglianza non è tabù, fare soldi a palate figuriamoci, mangiare male, studiare male, vivere male, rubare, men che meno; l’unico tabù rimasto, soprattutto nella scuola italiana, è la sessualità e dunque, pur amata armata di buoni propositi, indenne non avrebbe mai potuto attraversare il fuoco di fila delle pubbliche virtù italiane. E già, perché come per tutti i tabù che si rispettino, l’importante non è farlo o non farlo ma soprattutto che il fatto ( ‘o fatto) non si sappia. Da questo punto di vista non esiste nessuna differenza tra etero e omo, a rose is a rose, un cazzo un cazzo, anche se lo chiami uccello, pisello, pesce, titìn, mazza, pene, minchia,sesso maschile, coso …
Per chiunque insegni in un liceo credo sia abbastanza frequente l’esperienza di imbarazzate reazioni in classe alla parola sessualità, di professori, studenti e poco importa se la si stia usando per spiegare loro una funzione biologica o le topiche, pardon, freudiane. Quando spiego ai miei ragazzi il ruolo dell’inconscio nella psicoanalisi e il suo funzionamento nei comuni fatti di vita quotidiana, al primo sorriso un po’ allusivo, da barzelletta sporca per intenderci, interrompo la lezione e chiedo loro di alzarsi, prendere le sedie su cui passano una gran parte della loro scolarizzazione e gli chiedo di dirmi a voce alta cosa c’è scritto sullo schienale – quando ancora la parola resiste alla miriade di segni e disegni poco allegorici, non sempre allegri, sicuramente vivaci.” Ecco,” aggiungo, “siete seduti sul vostro inconscio”. Come se dalle segrete dei bagni quell’invincibile esercito di cazzi, cazzilli, fiche, fichette, durante l’ora di ricreazione si fosse evaso a cercare riparo lontano dallo sguardo censorio dei professori. Il professore non vede, o fa finta di non vedere; gli studenti idem; i genitori degli studenti idem con patate, pardon. Così penso che la battaglia contro il politically correct, che assolve essenzialmente il ruolo di arbitro nelle questioni morali, possa servire a smascherare quella grande invenzione dell’economia globale, chiamata pensiero unico; visti i chiari di luna del momento, sicuri che nessuno pagherà perché sia data una botta di bianco alle sedie, tanto vale tenercele così come sono e sei, e sventolarle ai quattro venti, per una botta di vita.
da Les beaux draps (1941) di di Louis-Ferdinand Céline trad. Giovanni Raboni e Daniele Gorret, in Mea Culpa. La bella rogna, Milano, Ugo Guanda, Milano 1982, 201 p. [coll. Biblioteca della Fenice, 44]
L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – IV edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino tosco-emiliano
dal 5 al 9 agosto 2014
POETI E MUSICISTI SI INCONTRANO NELLE VALLI E NEI BORGHI DELL’APPENNINO TOSCO EMILIANO
con
FABIO PUSTERLA, MARIO BENEDETTI, RICCARDO SINIGALLIA, PEPPE VOLTARELLI, DAVIDE TOFFOLO e molti altri
Sono una persona piuttosto frivola. Me ne accorgo, per esempio, quando valuto la possibilità che l’Unità, il giornale dove scrivo dal 2008, il primo col quale ho intrapreso una – questa – lunga e allegra collaborazione, possa chiudere. Sono una persona frivola perché non penso, prima di tutto, all’eredità storica, politica e umana che andrebbe perduta, se non dispersa, alla chiusura de l’Unità, non penso, prima di tutto, ai giornalisti e ai collaboratori che dovranno essere ricollocati – loro e le loro famiglie, – non penso neppure alla sede di via Ostiense, dove pare che uno assembli un giornale guardando una Roma che è immagine di un futuro passato. No, quando visualizzo la possibile chiusura de l’Unità, mi ritrovo – in jeans e camicia, una mise ormai renziana – davanti a un’edicola, una qualsiasi, e mentre guardo i giornali, mi rendo conto che la testata dell’Unità non c’è più. Che quel marchio, quell’icona pop, non appartiene più all’orizzonte degli scaffali. Se la questione fosse smettere o non smettere di produrre la Coca-cola, rinunciare definitivamente non a certi modelli ma a tutta la linea di jeans Levis, se la V di Valentino diventasse W per un passaggio di proprietà, io sono certa che le prime trattative, economiche, industriali, estetiche sarebbero per il marchio. Per quella virgola rossa, tra una “l” minuscola e una “U” maiuscola, per il font, per il nero dei caratteri e il rosso del fondo.
A chi appartiene il marchio de l’Unità? Ai giornalisti, al direttore, ai collaboratori, all’editore, ad Antonio Gramsci, di chi è, chi può venderlo? Sono così frivola, sono tanto cresciuta negli anni ottanta, che penso che la sola vendita, o l’affitto, del marchio l’Unità possa regalare al giornale una nuova vita.
Mi rendo conto, oltre che della frivolezza, pure dell’egoismo della proposta, visto che scrivo su questo giornale, ma tant’è…
Il punto è che quando ho cominciato a scrivere su l’Unità, immediatamente, ho avuto spazi e fiducia e possibilità di proporre e inventare. Il punto è che scrivere su l’Unità è stato, e continua a essere, un esercizio per ricordarsi, un giorno alla volta, una riga dopo l’altra, che fare cultura significa discutere, significa trasformare tutte le polemiche in dialettica, significa uscire fuori da un sistema nel quale i “no” non sono accettati e i “sì” si pagano (come bene ha osservato Giorgio Vasta in una discussione sul futuro prossimo del mercato editoriale). Se è vero che la parola Unità non è nata per essere riprodotta sulle magliette, o sulle bottiglie di bibite gasate, o sul retro di un pantalone, è vero altrettanto che il mercato – come per la Coca-cola, o i Levi’s, o la V di Valentino – sarebbe in grado di attribuire un valore al simbolo, un valore economico certo, e di trasformare questo valore economico in una possibilità di futuro e di dialettica per la testata.
Se per tornare a parlare di significato o valore simbolico, di immaginario addirittura, se per restituire alle parole la loro natura di formula magica, non c’è rimasto che appellarci al mercato, alla pubblicità e al brand, allora assumiamoci almeno dichiariamolo a viso aperto.
Sorridenti diciamo a noi e ai lettori che il PD è meno fantasioso del mercato, che un passato intatto (magari) è preferibile a un futuro, forse molto diverso, ma possibile.
La scorsa settimana un uomo, un signore molto distinto, che si chiama Silvio e che lavora come giardiniere mi ha detto che ci sono due modi per ricordare le persone e le cose passate. Il primo è ordinare messe in suffragio, il secondo è far lavorare i vivi, lui preferiva far lavorare i vivi. Ecco, io penso che mettere all’asta il marchio – il disegno, il logo, la testata – de l’Unità, come se fosse un manoscritto di Leopardi o di Manganelli, sia una maniera per ringraziare un pezzo di storia politica e culturale italiana. Io, per come stanno andando le discussioni, sono per il merchandising.
Due punte bianche su sfondo nero. Oggi le sue scarpe sono riconoscibili. E piove: inadatte, estive. Dalle scarpe che una persona indossa se ne capisce l’umore. Lei oggi voleva il sole e non ha creduto al luccichio sulla strada, all’acqua residua nelle fessure dell’asfalto. Nemmeno agli ombrelli aperti. La banchina del resto oscura il cielo e una volta lì sotto si può anche far finta di.
Siamo stretti su questo lungo marciapiede, sembra che arriviamo sempre tutti insieme da est, da ovest, e prendiamo posto come gli uccelli sul filo, pronti per la migrazione. Immobili, fissi, sguardo avanti. Ogni tanto un’occhiata fugace a destra per vedere il compagno di viaggio. Capire se potremo fidarci oppure dovremo stargli alla larga.
Così tutti i giorni si forma questo stormo migratore, ordinato e in attesa su una linea immaginaria che scorre parallela ai binari.
Ehi, ciao come stai? Oggi ti senti ribelle, vuoi sfidare le intemperie e credere a tutti i costi che l’estate sia arrivata. Ti ammiro, coraggiosa, io non potrei pensare di restare con i piedi zuppi per un giorno intero. Lo so che anche se piove fa caldo, ma il senso di umido alle estremità mi tormenterebbe da sotto la scrivania e finirei per non combinare nulla in ufficio. E poi chissà. Forse volgerà al bello, forse le nuvole si apriranno e il sole di giugno ci riporterà alla giusta stagione e allora tu avrai avuto ragione. E camminerai per strada fiera della tua scelta iniziale. E io sarò felice, per te, per me..
Avrei voluto dirle tutte queste parole, in quest’ordine o anche in uno inverso. E avrei voluto usarne molte, per una questione matematica, per il tempo necessario a pronunciarle, con le rispettive pause. Non immaginavo anche una risposta, ma sarebbe stata a sentire, in silenzio, immobile. Guardandomi negli occhi e finalmente ne avrei scoperto il colore, la sfumatura vera, che immagino nera piuma di corvo.
Ma lei è arrivata al solito un po’ in ritardo, un po’ in sordina, e non ha fatto passi verso il bordo, come se non aspettasse davvero il treno, ma fosse lì a osservare noi pronti a partire. Come se fosse venuta solo per salutare qualcuno e poi tornarsene a casa.
È così il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì no. Il venerdì sì. Tranne quando è malata o quando lo sono io, la vedo quattro mattine a settimana e non le parlo mai.
Sai noi ci conosciamo da parecchio, siamo compagni di viaggio. Che detta così sembra tanta roba e forse in un certo senso lo è. Volevo invitarti a prendere un caffè, anche se non so dove scendi, anche se non so dove il tuo viaggio finisce, se prima o dopo il mio. Ma potremmo fermarci insieme, in una stazione intermedia e ordinare un caffè in un bar che ha il dehor perché sento che ti piace stare fuori, anche se fa freddo. E così mentre vado al lavoro occupo con gli occhi i tavoli adatti, di tutti i caffè che incontro e ci sediamo su sedie di vimini e sul rigido ferro battuto ingentilito da cuscini a righe. Non so se ne vuoi uno macchiato o lungo, se lo riempirai di zucchero o ciondolerai con il cucchiaino senza mescolare alcunché, così a ogni caffè immagino qualcosa che potrebbe stare bene tra le tue mani.
Ancora una volta passo del tempo a mettere in fila parole per lei. E lo faccio in questo viaggio che percorriamo insieme anche se non la vedo nè salire nè scendere, ma penso che fuori il paesaggio scorre per entrambi alla stessa velocità e con gli stessi colori. Mi piace condividere il tempo e lo spazio, sento che parlare con lei anche solo nella mia mente sia un moto a luogo e mi porta comunque lontano.
Stamattina ero in ritardo, così dal parcheggio alla banchina ti ho preso per mano e abbiamo corso. In mezzo alla folla, come sciatori provetti o come fantasmi, scansavamo le sagome di gente regolare che teneva un ritmo monotono e prevedibile. La tua mano era liscia e fresca e avevo paura di perderla per strada, così l’ho stretta più forte e guidavo sicuro come a vedere i buchi che potevamo occupare tra una persona e l’altra senza andare a sbattere e passare entrambi, come fossimo uno solo. Stamattina mi hai parlato: sembriamo due adolescenti, hai detto e poi hai riso, leggera come una sedicenne che scappa al mare mentre tutti riposano in un pomeriggio agostano. Stamattina ti ho presa per mano e ti ho portata fino al binario, fino alla carrozza, e ho aspettato che mi guardassi salire e che mi salutassi con parole mute dietro un vetro sporco di pioggia seccata. Le tue labbra si muovevano lente, a scandire le sillabe. Ne ho capito ogni lettera, perché il tempo ha rallentato e il treno è andato indietro e io mi sono perso. Una manciata di secondi sospesi, come se le parole per staccarsi dalla tua bocca e raggiungere i miei occhi, attraversassero uno spazio atemporale. E mentre io solo partivo, ho capito che tu eri la ragazza del treno, quella che arriva al binario e si assicura che non resti più nessuno a terra. Lei sola aspetta immobile che il treno si allontani. Lei sola che saluta. Ho pensato che venissi tutti i giorni per me, per augurarmi buon viaggio e farmi capire che la stazione di partenza è quella giusta, che il treno è quello giusto, che il tragitto, anche se sempre uguale, può essere diverso. Così mi sono andato a sedere, con la tua mano ancora nella mia, e ci ho appoggiato il viso dentro per annusarti e conservare. Quando mi sono svegliato ia distanza era trascorsa per metà e ho pensato che tu sei la ragazza del treno e che aspetti di vedermi partire, ma che non ci sei mai all’arrivo, come se l’importante non fosse la destinazione ma il viaggio.
Super alta vectus Attis celeri rate maria,
Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit
adiitque opaca silvis redimita loca deae,
stimulatus ibi furenti rabie, vagus animis,
5devolsit ilei acuto sibi pondera silice,
itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro,
etiam recente terrae sola sanguine maculans,
niveis citata cepit manibus leve typanum,
typanum tuum, Cybebe, tua, mater, initia,
10quatiensque terga tauri teneris cava digitis
canere haec suis adorta est tremebunda comitibus.
«Agite ite ad alta, Gallae, Cybeles nemora simul,
simul ite, Dindymenae dominae vaga pecora,
aliena quae petentes velut exules loca
15sectam meam exsecutae duce me mihi comites
rapidum salum tulistis truculentaque pelagi,
et corpus evirastis Veneris nimio odio;
hilarate erae citatis erroribus animum.
Mora tarda mente cedat: simul ite, sequimini
20Phrygiam ad domum Cybebes, Phrygia ad nemora deae,
ubi cymbalum sonat vox, ubi tympana reboant,
tibicen ubi canit Phryx curvo grave calamo,
ubi capita Maenades vi iaciunt hederigerae,
ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant,
25ubi suevit illa divae volitare vaga cohors,
quo nos decet citatis celerare tripudiis.»
Simul haec comitibus Attis cecinit notha mulier,
thiasus repente linguis trepidantibus ululat,
leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant,
30viridem citus adit Idam properante pede chorus.
Furibunda simul anhelans vaga vadit animam agens
comitata tympano Attis per opaca nemora dux,
veluti iuvenca vitans onus indomita iugi;
rapidae ducem sequuntur Gallae properipedem.
35Itaque, ut domum Cybebes tetigere lassulae,
nimio e labore somnum capiunt sine Cerere.
Piger his labante languore oculos sopor operit;
abit in quiete molli rabidus furor animi.
Sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis
40lustravit aethera album, sola dura, mare ferum,
pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus,
ibi Somnus excitam Attin fugiens citus abiit;
trepidante eum recepit dea Pasithea sinu.
Ita de quiete molli rapida sine rabie
45simul ipsa pectore Attis sua facta recoluit,
liquidaque mente vidit sine quis ubique foret,
animo aestuante rusum reditum ad vada tetulit.
Ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis,
patriam allocuta maestast ita voce miseriter.
50«Patria o mei creatrix, patria o mea genetrix,
ego quam miser relinquens, dominos ut erifugae
famuli solent, ad Idae tetuli nemora pedem,
ut aput nivem et ferarum gelida stabula forem,
et earum omnia adirem furibunda latibula,
55ubinam aut quibus locis te positam, patria, reor?
Cupit ipsa pupula ad te sibi derigere aciem,
rabie fera carens dum breve tempus animus est.
Egone a mea remota haec ferar in nemora domo?
Patria, bonis, amicis, genitoribus abero?
60Abero foro, palaestra, stadio et gymnasiis?
Miser a miser, querendum est etiam atque etiam, anime.
Quod enim genus figuraest, ego non quod obierim?
Ego mulier, ego adolescens, ego ephebus, ego puer,
ego gymnasii fui flos, ego eram decus olei:
65mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida,
mihi floridis corollis redimita domus erat,
linquendum ubi esset orto mihi Sole cubiculum.
Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferar?
Ego Maenas, ego mei pars, ego vir sterilis ero?
70Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam?
Ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus,
ubi cerva silvicultrix, ubi aper nemorivagus?
Iam iam dolet quod egi, iam iamque paenitet.»
Roseis ut huic labellis sonitus ‹citus› abiit,
75geminas deorum ad aures nova nuntia referens,
ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus
laevumque pecoris hostem stimulans ita loquitur.
«Agedum», inquit «age ferox ‹i›, fac ut hunc furor ‹agitet›,
fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat,
80mea libere nimis qui fugere imperia cupit.
Age caede terga cauda, tua verbera patere,
fac cuncta mugienti fremitu loca retonent,
rutilam ferox torosa cervice quate iubam.»
Ait haec minax Cybebe religatque iuga manu.
85Ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo,
vadit, fremit, refringit virgulta pede vago.
At ubi umida albicantis loca litoris adiit,
teneramque vidit Attin prope marmora pelagi,
facit impetum. Illa demens fugit in nemora fera;
90ibi semper omne vitae spatium famula fuit.
Dea, magna dea, Cybebe, dea domina Dindymi,
procul a mea tuos sit furor omnis, era, domo:
alios age incitatos, alios age rabidos.
Carme 63
Berecinzia e Atti
Su un vascello rapido Atti per l’alto mare passò;
come ardente al bosco Frigio con piede svelto approdò,
della dea gli opachi alberghi cinti d’alberi toccò,
là eccitato da furiosa rabbia e ormai fuori di sé,
con la selce aguzza i ciondoli dell’inguine si strappò,
e sentendo le sue membra senza più virilità,
(ben di sangue fresco il suolo di quei lidi maculò),
con le nivee mani svelta lieve timpano afferrò,
madre Cíbele, il tuo timpano, tua mistica verità;
con le tenere sue dita cavo cuoio di bue batté,
fra le sue compagne trepida intonò il canto così:
“Galle, ai boschi di Cibèbe fitti ora andatevene,
greggi erranti della madre dindimena, andate, su,
voi che a lidi estranei giunte, come esuli insieme a me
vostra guida da compagne nel mio stuolo siete già,
e soffriste il flutto rapido, le pelagee avversità,
straziaste (troppo odio in Venere!) la vostra corporeità:
allietate in danze erratiche l’animo alla sua maestà.
Non più indugio al cuore tardo: presto, affiancatevimi!
Al Frigio tetto di Cíbele, ai boschi della deità,
dove tuona eco di cembali, e i tamburi strepitano
dove i frigi auleti il curvo flauto gravi modulano,
dove Menadi ederifere forte il capo agitano,
dove il santo rito in striduli ululati eccitano,
dove il vago stuolo della dea a volare s’avvezzò,
dove con tripudio lesto accorrere si dovrà”.
Come Atti, mezza donna, fra compagne sue cantò,
con frementi lingue subito, ecco, il tiaso ululò,
urlarono i cavi cembali, lieve il timpano echeggiò.
Svelto il coro a passo celere sopra il verde Ida salì.
Furibonda, ansante, erratica guida, con affanno va
Atti per i boschi ombrosi (e a compagno il timpano ha),
vacca indomita che al peso del giogo si ribellò;
quella guida dal pie’ rapido svelte Galle seguitano.
Come al tetto di Cibèbe stanche s’approssimano
dal gran sforzo, senza pane nel sonno scivolano.
Un sopore pigro, a un languido affanno, gli occhi coprì;
nella dolce quiete l’orrida furia l’animo fuggì.
Quando il Sole agli occhi fulgidi del suo volto aureo però
bianco il cielo, duro il suolo, fiero il mare illuminò,
e dai validi corsieri le notturne ombre scacciò,
da Atti desta a un tratto il Sonno fugace se ne partì;
la Pasítea dea nel trepido suo grembo lo ricevé.
Dalla dolce quiete senza truce furia ecco perciò
che nel petto Atti da sola le sue azioni ricordò,
vide a mente sgombra quello che perse e dove finì,
e col cuore in fiamme al lido la sua via reindirizzò.
Con il pianto agli occhi il vasto mare allora sogguardò,
e con meste voci, misera, parlò alla patria così:
“Patria, tu che mi creasti, patria genitrice, ahimè,
ti lasciai, misero, come fa lo schiavo che scappò
dal padrone! Ai boschi d’Ida ho diretto il passo, qui,
dove fra la neve e i gelidi rifugi di belve andrò,
ed a tutti i loro covi furiosa m’accosterò!
Patria, in quali luoghi, dove, remota, ti trovo più?
L’occhio mio da solo vaga col suo sguardo verso te,
per quest’attimo che l’animo senza truce furia sta.
Io per questi occulti boschi la mia casa muterò?
Di patria, ricchezze, amici e parenti mancherò?
Da foro, palestra e stadio, dai ginnasi fuggirò?
Misero, ahi misero, quanti mali, o cuore, piangerò!
Quale genere d’aspetto, quale forma non avrò?
Io donna, io adolescente, io efebo, io fanciullo, io già
fiore del ginnasio, io grazia di palestre; già per me
s’affollarono le porte, calda la mia soglia fu,
per me floride corolle la mia casa già vestì,
al partirmi dal mio letto, che già il Sole si levò.
Io adesso serva di dèi, schiava a Cíbele sarò?
Io Mènade, io forma monca, uomo sterile io vivrò?
Gli innevati algidi anfratti d’Ida verde abiterò?
Sulle vette alte di Frigia la mia vita condurrò,
con la cerva delle selve, col verro dei boschi? Ah no,
no, il mio gesto m’addolora, dal rimpianto che mi dà!”
Come dalle rosee labbra questo gemito sfuggì,
e alle orecchie dei celesti tali nuove riferì,
ecco i chiusi gioghi Cíbele ai leoni disserrò,
e rivoltasi al sinistro predatore lo incitò:
“Va’, feroce, fa’ che un’altra furia lo travolga, va’:
così al colpo del furore la via ai boschi volgerà,
chi al mio regno vuol sottrarsi con fin troppa libertà.
Con la coda il dorso sferzati, con la frusta pungolati,
fa’ che al tuo ruggente fremito tutti i luoghi strepitino,
fiero sul possente collo il fulvo vello agitalo!”
Cìbele minacciò, e il giogo con la mano liberò.
Quel feroce, stimolandosi, il crudele animo aizzò,
s’avventò, ruggì, i germogli con piede agile spezzò.
Come all’umido frangente del bianco lido arrivò,
presso quel marmoreo mare vide e d’impeto assalì
Atti tenera, che ai cupi boschi, pazza, dileguò;
poi laggiù per tutto il resto della vita ella servì.
Dea, dea grande, dea Cibèbe, dindimea divinità,
dal mio tetto il tuo furore sempre allontanamelo:
altri sfrenali, altri incintali, al tuo fremito eccitali.
*(Galliambi, tetrametri ionici a minore, resi con doppi ottonari col secondo membro tronco o con versi costituiti da un ottonario e da un senario bisdrucciolo).
Il ciclo della primavera araba: nascita, morte e oblio mediatico
di Lorenzo Declich
Siamo nel 2010. Conosciamo le “masse arabe” per due motivi. Il primo: protestano quando appare qualche cosa che offende l’Islam. Il secondo: protestano quando Israele massacra i Palestinesi. I tiranni, nel primo caso, prendono i manifestanti a fucilate. Il loro ruolo, accettato e benvoluto, è tenere a bada l’anima nera dell’estremismo islamico: fanno bene a reprimere, anche se tutti sappiamo che in fondo si giovano di questa loro posizione di “garanti della sicurezza”. Se non ci fossero loro chissà cosa succederebbe, laggiù. Nel secondo caso i tiranni lasciano fare: per ragioni interne una superficialissima “solidarietà panaraba” è salutare. Le manifestazioni di odio verso Israele hanno l’utile doppia funzione di presentare i regimi come garanti di una certa libertà di espressione e, contemporaneamente, di incanalare la rabbia di chi manifesta verso un nemico esterno (e imbattibile). In Siria, dove l’apparato di sicurezza è sofisticatissimo, le manifestazioni pro-Palestina servono anche a individuare eventuali teste calde. I primi a essere prelevati dalle loro case e portati nelle infami carceri degli Asad, all’alba della rivolta siriana del 2011, sono proprio quegli universitari che negli anni precedenti avevano organizzato le manifestazioni di solidarietà con i Palestinesi e, a bassa voce, avevano preso di mira anche Bashar al-Asad, reo di non far nulla, ma proprio nulla contro Israele.
Santo Genet, ultima fatica della Compagnia della Fortezza di Volterra, tra i colori e i costumi psichedelici di Emanuela Dall’Aglio.
Foto di STEFANO VAJA
Fiori, ci sono fiori dappertutto.
Fiori tra i capelli, fiori che adornano giacche ipercolorate, fiori che come rampicanti montano su visi traslucidi. Armando Punzo, mente e cuore della compagnia della Fortezza di Volterra, è attorniato da fiori, quasi circondato. Nello spettacolo Santo Genet i fiori sono minacciosi, sono come pistole puntate che fanno sussultare di piacere i nostri petti sordi. Minacciano il nostro equilibrio, il nostro perbenismo, la nostra morale. Fiori maledetti, tragici che ci spingono a cercare in noi una qualche tenerezza che abbiamo dimenticato di possedere. In questo Armando Punzo segue fedelmente il verbo di Jean Genet che vede un filo rosso legare i fiori al carcere. D’altronde nel celebre incipit di Diario di un ladro l’autore multiforme francese dirà esplicitando la sua visione: “Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale, – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo”.
Ed ecco che l’intera fortezza medicea si trasforma sotto ai nostri occhi in una serra. Non solo i detenuti-attori guidati da Armando Punzo si trasformano in rose, tulipani, anemoni, ma l’intero impianto carcerario diventa una foresta colorata ed anarchica. Il bianco cangiante della scenografia esterna raffigurante un cimitero lisergico e gli specchi moltiplicatori dell’interno hanno la funzione di dare luce a qualcosa che spesso la società nasconde. Ed ecco che gli attori-fiori di Punzo danno vita ai mille personaggi di Genet – Santo Genet come lo aveva ribatezzato Sartre- nel segno del colore e della passione.
Passione d’amore, ma anche passione di dolore.
In Genet c’è parecchia sofferenza. Punzo e i suoi attori lo sanno e ci fanno i conti. Cercano con la loro carnalità, i loro vissuti, di colmare i vuoti d’amore di un autore francese nato senza padre e abbandonato presto dalla madre. Quei vuoti sono i loro vuoti, ma sono anche i nostri. Il vuoto di un mondo moderno che ha perso ogni grammatica sentimentale che possedeva. Il tentativo di Armando Punzo, e della sua compagnia, è di fatto quello di ricreare l’ossatura di quella grammatica antica. Ed è in questo che i personaggi di Genet sono ponti indispensabili per arrivare al nostro essere più profondo. Divine Culafroy di Notre Dame de Fleurs o George Querelle del celebre Querelle de Brest sono solo pretesti per parlare di noi. Ed ecco che il cuore quasi si ferma all’apparire delle quattro vedovelle transessuali, castigatissime nei loro abiti neri e le loro violette di plastica. Camminano a passettini, geishe improvvisate, che sembrano dirigersi verso il nostro funerale.
Il pubblico è parte di questa serra. Vorrebbe essere altrove a tratti, perché i sentimenti, gli sguardi penetranti, quel contatto di respiri e avambracci crea disagio. C’è folla, c’è claustrofobia. Ma quel colore ci avvinghia, ci costringe a vagare per celle, a cogliere brani quà e là, alla rinfusa. Giriamo come automi in quella fortezza estranea,in quel carcere così alieno alle nostre esperienze quotidiane. Sudiamo, cerchiamo di capire, non capiamo. Del resto lo straniamento era cominciato prima dello spettacolo stesso con i controlli della polizia per entrare nel carcere, con quella disconessione con la tecnologia a cui non siamo più abituati. Per questo siamo inondati da sensazioni strane, qualcuno per la prima volta fa la conoscenza con se stesso. I tablet, gli smartphone, i computer sono banditi e noi in un certo senso liberati o a seconda del sentimento totalmente persi. Il pubblico confuso è tutto sommato felice (o disperato a seconda del caso) di questa sua nuova condizione. Le persone si beano, si compiacciono di questo essere nuovo che si porteranno addosso per poche ore. Alcuni visi del pubblico rasentano l’estasi, altri invece non si lasciano andare, ancorati alle loro piccole inutili certezze, fanno fatica a vivere nello spazio esistenzialista di Santo Genet. I loro visi contratti ed austeri si piegano in smorfie abominevoli. Il sentimento regna, buono o cattivo che sia, regna. Ci passano accanto generali, prelati, San sebastiani, marinai, prostitute, guappi. Gesti rallentati, sorrisi accennati. Mi chiedo- così all’improvviso- chi guarda chi? Chi è veramente in scena? Il pubblico o gli attori? Armando Punzo ha creato di fatto una doppia rappresentazione, un teatro che ti cade letteralmente addosso.
Ed è in questo progetto di teatro totale che i costumi assumono un ruolo centrale.
Emanuela Dall’Aglio, parmigiana, più che la costumista di Santo Genet è quasi il Michelangelo dello spettacolo. Il suo è un processo creativo che mi affascina. Dopotutto i miei antenati, i miei genitori, sono somali e la Somalia (nonostante la guerra che sta andando al galoppo verso il venticinquesimo anno di conflitto) è ancora la patria del barocco, dell’esagerato, della carne viva che si fa colore. Non potevo io non essere colpita dal suo lavoro.
In lei si percepisce una conoscenza meticcia, che l’ha portata a mischiare lo studio attento e meticoloso (istituto dell’arte e accademia di pittura di Brera) con una formazione sul campo che prima di approdare al costume è passato per un lavoro come decoratrice e realizzatrice di fondali.
Il costume diventa non a caso scultura, impalcatura, dove si crea la relazione tra il corpo dell’attore e il suo lavoro. Emanuela è attirata dal costume che trasforma chi lo indossa anche se è scomodo da portare, D’altronde su questo con Armando Punzo c’è piena concordia. È lui a dire ai suoi attori “usa la scomodità per trovare un nuovo modo per stare in piedi”. L’impalcatura di Emanuela Dall’Aglio, quasi come una corazza, condiziona il movimento, condiziona l’essere, impedisce di abbandonarsi alle solite posture.
Ma è anche una corazza da interporre tra sé e il mondo. Permette la libertà, il celarsi, l’atto performativo. Il costume più è scomodo, più è fantascientifico, più rende il corpo libero di giocare con se stesso, le parole e il mondo.
Ed ecco che le giacche si riempiono di piume e i pantaloni di gomma lattice. È il trionfo del leopardato, dei tessuti damascati, degli ori e degli immancabili fiori.
I più timidi si sentono protetti da questi costumi e i loro sguardi si fanno più coraggiosi, a tratti sfacciati.
D’altronde lo stesso Genet diceva che l’eleganza era “Trovare un accordo fra cose di cattivo gusto”. Ed Emanuela Dall’Aglio segue queste parole come una Bibbia, le fa proprie. Nelle sue sculture di tessuto c’è tutta la storia dell’arte dei suoi primi studi. C’è di fatto qualcosa di Pontormo a tratti, almeno così mi par di percepire a pelle. In verità potrebbe anche esserci Leonardo, Rosso Fiorentino, Tiepolo, Parmigianino. Io non lo so. Ma percepisco che la storia dell’arte, quel Rinascimento e quel Barocco, fa parte della sua esperienza visiva come studiosa in primis e poi come costumista. Ma – è bene sottolinearlo questo- per sua stessa ammissione Emanuela Dall’Aglio sa che ad influenzarla di più è l’arte contemporanea e nemmeno disdegna le sfilate di moda. Per preparare Santo Genet infatti si è imbevuta di installazioni, performance, defilé. Stimoli multiformi che le hanno permesso di creare qualcosa che prima non c’era. Ed ecco che lo stile eclettico di uno stilista come Galliano si sposa con l’immaginario omoerotico di Moschino. E per andare verso l’arte contemporanea, Emanuela Dall’Aglio, sa di essersi abbeverata alla fonte caotica di David LaChapelle e all’iconografia mitica di Pierre et Gilles. In Emanuela Dall’Aglio, non a caso, il costume si fa buffo, fantastico, onirico, sprezzante.
Per fare gli abiti è stata aiutata da alcuni attori della fortezza che avevano una certa dimestichezza con il mestiere e le macchine da cucire. Il lavoro poi si è fatto tutto con materiali poveri, reinventati, rattoppati. Molte tende sfrangiate, molti tessuti damascati sono stati riciclati da vecchi film di Cinecittà. Inoltre anche l’attore ha partecipato con i suoi accessori a questa costruzione barocca di sé. Ed ecco che una collanina, un tatuaggio mostrato, un paio di occhiali da sole rendono il tutto più plausibile nella sua eccentricità. Il risultato è ricco, sontuoso. Ma è una ricchezza effimera. Lo si nota dal gioco tra magnificenza e povertà che emerge nella figura del Papa. Una mitra gigantesca sfiora il soffitto ed ori spuntano da ogni lato per soggiogare chi osserva. Ma la stoffa, l’abito è solo davanti. Dietro non c’è nulla, un vuoto che è spesso metafora di una vita fatta di apparenze.
Gli abiti scultura giocano sulla loro pretesa di essere importanti. Il generale nero ne è un esempio preciso. La divisa incute timore, come del resto il copricapo alla Bonaparte che indossa mette di fatto distanza. Ma, come fa notare Emanuela Dall’Aglio, il militare è un bluff. I suoi gradi sono di pietre comprate a due soldi in qualche emporio cinese se non addirittura bottoni a buon mercato di merceria. C’è un’attenzione al dettaglio nel senso del vestire di Emanuela Dall’Aglio . Gli ombrellini delle vedove, il laccio nero al braccio del marinaio, i veli fiabeschi delle donne, i guanti da cucina della serva sontuosamente vestita.
Il corpo dell’attore diventa una pagina bianca dove disegnare ossessioni, paure e far fiorire invece speranza. Emanuela Dall’Aglio tenta, sperimenta e la sua non è mai una imposizione, ma un dialogo che rende l’attore partecipe come non mai al suo presente.
Tutti quei colori stordiscono.
Sono stordita.
Finisce lo spettacolo in una epifania che non si coglie fino in fondo. Non è uno spettacolo frontale del resto. Capire non è importante. Santo Genet lo sentiamo, lo viviamo, ci cade addosso come detto in precedenza.
Mentre mi avvio lentamente verso l’uscita del carcere mi chiedo se quell’eleganza barocca, profondamente dissonante, sarebbe piaciuta a Jean Genet. Se su quella barca-serra ambigua e struggente, in cui è stata trasformata la fortezza di Volterra, ci si sarebbe imbarcato volentieri pure lui. Non ho naturalmente la risposta di Genet, dovremmo andarlo a trovare nella sua solitaria e poverissima tomba di Larrache (cittadina a sud di Tangeri) per saperlo. Ma una cosa la so, qualcosa che posso dire senza titubanze, ovvero che la compagnia della fortezza riempie i nostri occhi di spettatori di una magnificenza onirica che ci lascia senza fiato. E senza fiato ci lasciamo attravesare da una bellezza che ferisce.
[Dissolviamo i generi; riformuliamo il diritto di autore.]
di
Lisa Orlando
Una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicata negli ultimi anni è Reality Hunger, dello scrittore e saggista statunitense David Shields (in Italia pubblicato da Fazi con il titolo Fame di realtà).
E’ un’opera assolutamente straordinaria, poiché oltre a essere un quadro (perfetto) dello status quo narrativo, è una dichiarazione poetica nella quale si prospetta ciò che sarà (o racchiude l’essenza di ciò che si vorrebbe diventasse) la letteratura futura. Shields, infatti, audacemente ridisegna i confini per una nuova forma di letteratura capace di annullare i generi, e ristabilire il rapporto tra fiction e non fiction.
Oltre a ritenere atrofizzato (e miseramente soffocante) il romanzo quale costruzione di una storia fatta di mera immaginazione, e di una serie ordinata di fatti: la trama – ormai da seppellire definitivamente sotto una pietra tombale? –; Shields si interroga su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina. La realtà, come una creatura di fiamma, irrompe nella scena letteraria, travolgendo (fino a incenerire) la distinzione tra verità e immaginazione. “Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa”, sostiene Shields, “o forse non esiste nemmeno questa?”.
Una citazione rilevante, e che riassume efficacemente il pensiero di Shields, posta (intenzionalmente credo) al centro del saggio, è questa: “Amo la letteratura”, afferma l’autore, “ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rilevare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina, ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi”.
Uno dei motivi per i quali mi sono interessata realmente a questo saggio è ché vien messa in discussione l’idea di autorialità, tanto da rivoluzionare la struttura autoriale classica; lo stesso libro di David Shields è appunto costruito con frammenti di altri libri, ma senza riportare note, senza dichiarare l’appartenenza delle innumerevoli citazioni presenti nel saggio. “Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo”.
Un’eccellente innovazione, si direbbe, e che fornisce la chiave per una diversa forma di letteratura. Anche perché credo sia tempo di finirla col diritto d’autore; il concetto stesso, spiega Stefano Salis nella prefazione, tenderà inesorabilmente a dissolversi (insieme a quello di plagio – tra l’altro, cosa sarà mai il plagio nella nostra epoca?) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente, che le nuove tecnologie (internet in testa) ci garantiscono.
E poi, ancora, non è stantia l’idea di originalità a tutti i costi?
Bacon che riprese Velàzquez, cosa fu? plagio?, imitazione?, deformazione?, citazione? All’epoca, tutti ne riconobbero la provenienza, ma nessuno si scandalizzò; perché, a dirla tutta, l’originalità (in modo assoluto) non è mai esistita – è sempre stato il velleitario tentativo in cui tutti hanno fallito?
Dunque, Shileds, nel suo saggio, pare suggerirci, esortando tutti gli scrittori, ma non solo: desumo pur pittori, musicisti, cantanti, registi, attori, fotografi : copiate, imitate, interpolate, riformulate, riproducete, remixate, modificate, alterate, contestate, accettate, rifiutate, et cetera, et cetera – ad infinitum!
Gabriele Kögl, Anima di madre, Keller editore, 2013,157 pag., traduzione di Laura Bortot
Il cuore di una madre può essere un luogo molto buio. Niente indulgenze in questo romanzo della scrittrice austriaca Gabriele Kögl. Innanzitutto nei confronti del lettore: Kögl è laureata in sceneggiatura, saprebbe come scrivere una storia rendendola “cinematografica”, con quella scrittura che in questi anni va per la maggiore, fatta di immagini forti, di dialoghi fitti, di una lingua propedeutica alla messa in scena. Niente di tutto ciò in questo romanzo. Anima di madre è uno sterminato, sfibrante monologo. Un canto dolente per voce sola, che potrebbe essere letto aprendo a caso il volume, tali e tante sono le digressioni, i salti temporali e logici. Il romanzo non si apre e non si chiude, è un circolo vizioso e opprimente.
L’Io narrante è quello di una donna, una madre appunto, ormai avanti negli anni. L’età avanzata però non le ha dato alcuna maturità, alcuna profondità. Vivere nel chiuso di una società contadina del cuore della Stiria ha reso la sua psicologia altrettanto chiusa e meschina. La donna ci racconta la sua vita: il marito anafettivo e beone, la figlia fuggita a Vienna per una carriera d’attrice, i due figli, uno rimasto a fare il contadino, l’altro, illegittimo, suicida dopo aver subito un tradimento da parte della moglie tedesca. Ma piuttosto che comprendere per davvero le scelte, le logiche, i bisogni di chi dice di continuo d’amare, le vere preoccupazioni che scaturiscono dalle parole della donna sono quelle di non sfigurare di fronte alle malelingue del paese, così simili a lei stessa, altrettanto egoiste e ossessionate dallo sfoggio di un ruolo sociale fatto di pura apparenza.
Nella sua lunga confessione la protagonista finge pietà, o trasporto, per la tragica fine del figlio, ma quello che in realtà fa di continuo è porsi come vittima: di un marito che non l’amava, di una figlia che la contestava, di una esistenza fatta di stenti. Posizione comoda, auto indulgente, che maschera l’evidente fallimento di una vita. Rendendola, perciò, vittima per davvero.
(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 44 del 29 ottobre 2013)
Testo narrativo di Antonio DiStefano in arte Nashy tratto dalla raccolta Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti (autopubblicazione)
Antonio DiStefano in arte Nashy
Letteratura della migrazione, letteratura postcoloniale, letteratura transnazionale…così e in altri mille modi diversi è stata definita la letteratura scritta da migranti e figli di migranti in Italia. Per 23 anni persone come Pap Khouma, Kossi Komla Ebri, Christiana de Caldas Brito sono stati considerati l’eccezione e non la regola. Un corpo estraneo che stava “invadendo” le patrie lettere, un corpo estraneo che molti operatori davano per spacciato. “Non sfonderà mai in Italia questa letteratura” e non era raro sentire anche “si stancheranno presto di scrivere e torneranno a fare i nostri servi, come deve essere”. Invece per fortuna non si sono/siamo stancati, anzi hanno/abbiamo moltiplicato i loro/nostri sforzi. E da questa effervescenza sono nati tanti scrittori di pregio che hanno fatto del meticciato letterario la loro cifra narrativa. Gabriella Kuruvilla, Helena Janaczek, Cristina Ali Farah…ma anche la sottoscritta sono/siamo una dimostrazione reale di tutto questo. Per me (e meglio che ve lo dica subito) la differenza che di solito si fa tra chi è venuto e chi è nato in Italia non ha molto senso ormai, almeno non ce l’ha per me. C’è gente che scrive, che ci crede, che arricchisce di senso la letteratura italiana….per me solo questo conta alla fine. Inoltre siamo in una fase dove anche scrittori italiani da generazioni (faccio la differenza qui solo per farvi capire il concetto) come per esempio gli Wu Ming si sono “contaminati” ibridandosi con temi che sembrano solo apparentemente lontani da loro. Gli Wu Ming raccontando la potente storia di una donna italo-somala dal fascismo ai giorni nostri (Timira Einaudi) di fatto hanno dimostrato che in Italia qualche barriera, almeno in letteratura, sta finalmente cadendo, che insomma gli scrittori si ascoltano e ne possono uscire fuori delle belle. Purtroppo però ultimamente devo segnalare una cosa che proprio non mi piace, uno stop da parte delle case editrici di fare uno scouting serio su autori giovani che hanno un background migrante. Possibile che io o una Cristina Ali Farah siamo percepite ancora come novità? Possibile che la curiosità di un editore si fermi alla generazione dei trentenni-quarantenni? A me personalmente piacerebbe sapere che stanno combinando giovani autori figli di migranti come me, autori in erba di 20 anni. Cosa scrivono? Cosa pensano? Quali sono i loro problemi? Che stile stanno sviluppando? Hanno ancora i problemi legati al razzismo che avevo io a 20/25 anni? E come si vivono la loro identità divisa? E l’amore…come sta l’amore dalle loro parti? E in cosa possono migliorare? In cosa possono arricchire il loro vocabolario? E noi generazione trenta-quarantenni-cinquantenni che siamo venuti prima come possiamo metterci in dialogo con loro? È possibile in questa Italia frammentata lo spazio di un incontro?
Troppe domande lo so, a cui spero piano piano di trovare una risposta. Allora ho deciso di fare una specie di focus sugli autori giovani di origine migrante. Molti di loro saranno navigati, altri alle prime armi. Molti testi saranno belli, altri meno. Ma ecco vorrei dare loro, grazie a Nazione Indiana, uno spazio di visibilità e soprattutto di discussione. A me capita spesso di parlare con giovanissimi che mi chiedono come sia pubblicare con uno “grosso” e capisci dai loro occhi che insomma non sanno molto della crisi dell’editoria, del precariato di chi fa un lavoro culturale. Vorrei che i giovani autori prima di pensare di pubblicare con uno “grosso”, si facessero le ossa per migliorare il loro stile. E questo vale anche per me e per tutte/i i miei colleghi trenta-quarantenni-cinquantenni. Tutti dobbiamo migliorare, affinarci, sudare sette camicie…anzi settanta. La scrittura è fatica, la scrittura è sudore, la scrittura deve portarci a qualcosa di più di un contratto o di un premio. Dobbiamo UDITE UDITE tornare ad avere l’ambizione di cambiare il mondo. Se non tutto, almeno quella parte intorno a noi che ci è vicina. Vorrei aprire con loro, con i giovanissimi autori, un’agorà per capire dove si può andare tutti insieme. Quindi quando mi capiteranno vi presenterò dei testi. Non lo farò con continuità cronologica (dipende dai testi e dalle persone che incontrerò), ma spero di poter aprire su questo punto un dialogo che mi interessa fare con tutti voi lettori, curiosi, scrittori di Nazione Indiana.
Oggi per cominciare vi presento Antonio Di Stefano detto Nashy, classe 1992, nato a Busto Arsizio e ora residente a Ravenna. Lo conoscono tutti nella sua città di residenza perché spesso sta in giro per le scuole a parlare di razzismo. Il ragazzo, figlio di genitori angolani, sta spopolando in rete soprattutto tra i suoi coetanei. Antonio si è anche autopubblicato un libro Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti [disponibile gratuitamente online].
Di questa raccolta vi presento due scritti:
Primo Brano
[brano tratto da Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti]
«Chiara come stai?»
«Così così, oggi mi sono abbuffata. Ma purtroppo il mio stomaco ha voluto tenere tutto dentro senza voler espellere nulla, e ho una pancia che mi impedisce di stare seduta. Tu come stai?»
«Hai mangiato parecchio oggi? Mi puoi spiegare meglio che vuol dire “ho una pancia che non mi permette di stare seduta? Io sto bene.»
«Ah praticamente dopo parecchi mesi che non ti nutri normalmente arriva un giorno in cui sei costretto a divorare tutto quello che ti trovi davanti e ti riempi fino a respirare poco, e la pancia ti si gonfia.»
«Cavoli..»
«Molte ragazze anoressiche sono morte a causa della rottura dello stomaco, ed è fuoriuscito tutto il cibo nel corpo.»
«Non lo sapevo, questa è una cosa che proprio non sapevo.»
«Cosa non sapevi?»
«Che fai fatica a mangiare, che rimetti,
cioè dai hai capito.»
«Credevo l’avessi capito, comunque si lo sono. E poi ci sono ragazze che sognano di essere anoressiche, quando non sanno che non esiste solo la fase “non mangio e dimagrisco”..».
Chiara si pesava dieci volte al giorno, finiva di mangiare e correva subito in bagno, digeriva solo le sigarette e lo yogurt la mattina. Odiava con tutta se stessa guardarsi allo specchio, passava ore a confrontarsi con le altre ragazze, a dare sfogo alla sua competitività. Ripeteva
«Non è il pensiero ma gli occhi con cui mi guarda la gente a farmi male..».
La capivo. Quelle stesse persone guardavano storto anche me sull’autobus che portava a scuola. Io ero nero, lei magra, se avesse trovato la forza avrebbe potuto combattere il problema mangiando, ma io?
«..Anto quelle persone mi guarderebbero male lo stesso, hanno bisogno di un pretesto, per escluderti e se non fosse stato per il mio aspetto mi avrebbero esclusa per le mie scarpe. I veri problemi li hanno loro».
Chiara mi confessò che stava perdendo i capelli, che i denti le facevano male, che le sue ossa erano diventate fragili come le sue sicurezze, mi raccontò dei crampi, delle gambe che non camminavano più, delle natiche che non le permettevano di sedersi, di una solitudine che non le permetteva di dormire. Molte persone che hanno famiglia, amici, conoscenti restano inevitabilmente sole perché nessuno le capisce.
Non so perché mi disse tutte quelle cose, perché scelse me tra tutti. Quella sera con le sue parole riuscì a farmi sentire meno solo. Io però con lei non ci riuscivo, potevo raccontarle tutti i miei problemi, tutte le mie paure, che non sarebbe servito a nulla, ogni mio sforzo non l’avrebbe resa più forte.
«Chiara ma quante calorie ha la felicità ?»
Non replicò, si limitò a sorridere.
Quella sera m’insegnò “che quando salvi una vita, salvi il mondo intero“ e lei salvò la mia mostrandomi il suo mondo.
«Io mi sento invisibile in certe situazioni.»
«Per me i tuoi occhi hanno tante cose da raccontare, che però non racconti, un po’ come il libri di Baricco, segregati in dispensa, che non facciamo leggere a nessuno.»
«Ecco vedi, mi avevano detto che cogli il cuore delle persone con semplici parole. Quello che fai tu non credo abbia un nome sai? Io non credo nella necessità di dover dare a tutto un nome, che tu faccia poesia, canzoni, filosofia, che tu scriva d’amore, solitudine, razzismo infondo poco importa, hai un animo buono, lo si percepisce dalle tue parole, dall’umiltà e dall’amore che ci metti. Ecco perché la gente ti scrive, ecco perché quello che fai arriva alle persone, anche se ancora non è un libro o un disco.
Ti ho detto tutte queste cose perché tu meriti di saperle, ne farai tesoro. I tuoi occhi parlano per te.»
Secondo Brano
[brano tratto da Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti]
Vivevamo in un quartiere di emarginati, pieno di luoghi comuni, dove il sogno di una vita diversa passava per l’illegalità. Passavo le notti davanti alla tele ad immaginare una vita simile a quella dei miei compagni, volevo sopratutto i loro compleanni, le loro camere da letto fitte di regali, il loro equilibrio.
Niente di più.
Perché una famiglia c’è l’avevo. A differenza di molti come ripeteva con orgoglio mamma, avevo tutt’e due i genitori insieme e una casa mediocre, che con la fantasia poteva benissimo essere il nostro palazzo.
Imparai presto a non chiedere nulla, ad accontentarmi delle fotocopie perché i libri costavano troppo, a far miei senza far storie i vestiti di mio fratello che prima erano stati di mio padre, a mentire spudoratamente alla maestra che ci faceva fare il tema “Dove siete stati per le vacanze?” quando rientravamo dalla sosta natalizia.
Odiavo mentire.
Odiavo mia madre quando vendeva il sangue all’ambulatorio per comprarci la carne, la nostra Opel asmatica, le padelle annerite che riempivano la cucina, la costante paura di essere sfrattati, andare alla partita la domenica e non trovare nessuno in tribuna che fosse li ad incitarmi, aspettare quindici minuti in più degli altri all’uscita da scuola, rientrare a casa dopo allenamento e andare subito a letto perché l’Enel aveva staccato la luce, affrontare tutte quelle notti immense, da solo.
Alla domanda «Chi è il tuo Idolo?» rispondevo tutte le volte con un sorriso sincero
«Mio padre, perché tutte le mattine si sveglia per fare un lavoro che non gli piace solo per me».
Lo raffiguravo sempre come il più alto nei disegni all’asilo, con un espressione seria, ma con le braccia distese che rappresentavano la sua generosità.
Stefano in arte Papà, aveva avuto un infanzia difficile, cresciuto senza genitori nel nord dell’Angola, ultimo di tre fratelli, costretto all’età di tre anni a vivere nella foresta per scappare dalla guerra. Ogni volta che finiva di narrarmi la sua infanzia aggiungeva:
«C’è chi sta peggio di noi,ma nessuno e meglio di te, impara a sorridere».
Ero più scuro di lui, ma più italiano. Quando vedevo un africano per strada lo salutavo nella speranza che mi accettasse e che mi ritenesse uno di famiglia, infondo per loro ero uno straniero.
A scuola invece i curiosi mi chiedevano:
«Ma ti senti più italiano o del tuo paese?»
e io rispondevo «del mio paese..» che però non si trovava in Africa, era un posto lontano che si situava nei cuori di chi era figlio di un popolo senza bandiera, stufo come me, di essere considerato una frazione, una via di mezzo, una scheggia. Dove non c’era niente di sbagliato nell’essere nero, nell’essere nato con gli occhi a mandorla, dove le persone preferivano spegnere il cervello, il cellulare, la televisione, e dare spazio all’emozioni, dove ogni uomo era consapevole di esistere per volere di un altro uomo .
– Ludovico Einaudi “al di là del vetro”- PLAY
La fantasia l’ho ereditata da mamma e quando le raccontavo di questo posto, sorrideva, perché ne era consapevole. Lei che chiamò mia sorella Meraviglia perché Dio le diede la forza di lavorare fino al nono mese di gravidanza. Era una donna di chiesa, ammiravo la sua fede anche se spesso non l’assimilavo, una di quelle persone capaci di vedere in uno stagno infangato un oceano pieno di navi. Mi guardava spesso, diceva:
«Tu mi somigli»
ed io pensavo “che fortuna”.
Ricordo le sue incursioni in bagno mentre facevo la doccia perché c’era sempre qualcosa da sistemare, quando esagerava e mi chiamava “il mio bimbo” difronte ai miei amici ridendo a fior di labbra con tutta la faccia, con tutto il corpo, contagiando tutti i presenti.
Non l’ho mai vista piangere.
Non pianse nemmeno il giorno che ci diedero lo sfratto.
Non pagavamo l’affitto da cinque mesi, e il proprietario si stufò di aspettare, quando venne a riferircelo di persona, ricordo che si avvicinò alla porta minacciando che avrebbe cambiato la serratura se non avessimo liberato l’appartamento entro tre mesi.
Furono giorni difficili. Le agenzie non affittavano casa agli stranieri e le poche che lo facevano chiedevano un contratto di lavoro indeterminato. Papà ne aveva uno a chiamata, per questo fissava sempre il telefono.
Ci trasferimmo a casa degli zii come topi nelle tane.
Dormivamo in cinque in una stanza.
Mamma e Papà a mezzogiorno non riuscivano a venire ogni volta all’uscita della scuola perché quando lavoravano, operavano fuori città.
Quando riusciva mi portava a casa la maestra Marianna, che aveva capito nitidamente senza fare alcuna domanda la nostra situazione, altre volte di soppiatto tra la folla fuggivo, alla peggio ero costretto a passare interi pomeriggi in un aula a ripassare matematica insieme ad altri bambini che come me vivevano nell’attesa che qualcuno si ricordasse di loro.
Per fortuna quasi sempre venivo ricordato per primo.
Solo Dio sa quanto abbiamo sofferto. Tutti i giorni recitavo la stessa preghiera, che in realtà era più simile ad una lista.
Sognavo una casa di proprietà, una macchina ed una cucina nuova, una camera tutta mia, una maglia del Milan autografata da Weah, mamma e papà felici.
Stefano la conosceva a memoria perché tutte le notti prima di dormire la ripetevo nel letto accanto al suo, non lo dava a vedere però credo che la parte finale li strappasse pure un sorriso.
Scherzando a tavola diceva :
«Io non finirò mai in uno sfizio, piuttosto uccidetemi, è come se io vi lasciassi in un orfanotrofio».
In parole povere ci chiedeva di non lasciarlo solo, di non fare come certi figli che abbandonano i genitori quando hanno una certa età, perché li ritengono un peso. Come potevo dimenticare o rimuovere col tempo una persona che mi aveva dato così tanto da ricordare? Non avevo tantissime foto con lui, forse anche perché davo per scontato il fatto che sarebbe rimasto per sempre, la goccia di sangue che non si lava via.
«Mamma vorrei pagarla cara per tutte le volte che hai pianto a causa mia. Voglio farmi un tatuaggio con le iniziali di tutta la famiglia, posso?»
«Antonio non hai bisogno di nessun tatuaggio, perché le cose importanti della vita, vanno incise nel cuore. Lì troverai sempre la tua famiglia.»
il rumore degli autocicli in manovra, quando nella sequenza di un parcheggio a più fiate si soffermano, dedicano il peso a un’area circoscritta e sotto sfrigolano, oppressi, i coriandoli dell’asfalto, che squama. a suo modo, riferisce.
congratulazioni stampanti. ok anche telefoni SIP in guisa di saponetta, con la scocca lucida. ma certo la particolare grammatura, nonchédimeno porosità, delle plastiche in dote alla maggiorpiù delle stampanti, le favorisce e così si distinguono primissime, nel volgere dei tempi, in quantità di anni ragionevoli, consone all’umana durata, nell’assumere quel colore, quel tono ambrato caratteristico delle rovine. (altrimenti, toner).
nelle macchinine (e già dire OK è dire poco) più modeste, ad esempio quelle di stanza nel buio, incistate nelle uova di cioccolato, le cui quali ruote per loro neppure è stata prevista, in sede progettuale, una chance di rotazione, oppure sì ma la realizzazione è scadente al punto di bloccarle al loro perno, in queste macchinine i refusi, le eccezioni che la plastica muove allo stampo, le sbavature, gli sticker SPEED, RACE, 85 (o altri numeri che garantiscono velocità elevate), così pure i fanali da applicare o preapplicati spastici (cfr. gelati tartarughe ninja, che una volta separati dall’involucro rivelano una configurazione facciale tradita a tutte le altezze, la delusione di un raffaello trisomico): in queste, la serialità ben disposta all’errore. in queste, nessuna redenzione. kinda (&kinder) related.
l’invincibile certezza di pancarré nell’aula vuota, tirata a lucido dal personale ATA, con l’alcol fucsia e volatile che dai banchi sale, entra a forza nelle narici ancora disposte secondo i ritmi del sonno.
la natura modulare delle grandi catene, che tendono a ricreare la stessa esperienza in diversi luoghi, mantenendo simili le proporzioni, identiche le stazioni radio (spesso proprietarie), concedendo qualche leggera variazione all’offerta commerciale (edizioni speciali): offrendo un corner di familiarità certa e garantita, un ricovero, una zona sanata dalle novità, dove lo spazio tutt’intorno dirama le sue differenze. al puntuale proposito, impossibile tacere del plurititolato team AUTOGRILL, che ancora conserva il suo solidissimo primato: trattasi, gli autogrill, di elementi modulari (se non modulari, frattali, riproduzioni in scala) inseriti a distanze regolari nell’ambiente modulare per definizione, l’autostrada: perciò, essi risultano cari alle divinità.
l’orario 16 tra 24 del giorno, che si lascia attraversare senza attrito, tra tutti il più docile. recando, del vuoto, le sembianze.
la visione di supermarket inabitati, lo schieramento delle merci, i prodotti installati alle latitudini più frequentate dall’umano sguardo e dall’umana attenzione, nel convesso dell’orario feriale, a più mai nessuno rivolti, fuor di competizione, che vivono una tregua. bravi yogurt, alla grande merendine, beate conserve lucide nel buio appena smentito dalle luci di emergenza.
l’unico modo di intraprendere le cose, che nonostante tutti gli sforzi e i tentativi di rimozione resta: avvalendosi di un’epica povera, da spot BMW.
il rumore consueto del mondo, le stringhe casuali del traffico che avanza in impressioni continue di scooter, autobus, accelerazioni, velocità congrue alla legge o che la legge eccedono, secondo cadenze variabili ma dando l’impressione di un loop, dove la ripetizione trova varie sedi: 1) a livello microscopico: alcune sequenze sono ribadite, opel corsa, xmax, 156. tra una sequenza identica e la stessa, identica, ma ancora, possono intercorrere alcuni minuti, possono intercorrere gli anni. indifferentemente. 2) a livello macroscopico: ma ad un ordine di grandezza troppo grande per poter assistere, nel volgere di un’umana partecipazione al mondo et alle sue vicende, ad un’intera esecuzione dello spartito. 3) per certo. 4) seguenti.
nelle gallerie, il finestrino che smette di filtrare LA TOSCANA, capovolge il vettore della visione, facendo leva sul buio in attuale versamento, e ti restituisce la faccia spettrale e tua, installata tra altre nell’ambiente di uno scompartimento, nel distretto di un vagone, nell’andare a linee di un treno. altrimenti irrelate.
il di cui prima sottofondo del mondo sovrascritto dal phon che, avendo (dai pleonastici capelli) estromesso l’acqua come si conviene, ed essendo perciò giunto a piena cessazione del suo esercizio, di nuovo lascia campo agli effetti audio abituali, che però non si manifestano subito, ma solo dopo un certo lasso di tempo, come se il rumore che fino a poco prima li aveva rimpiazzati avesse scavato, al loro interno, una nicchia, un vuoto, avesse ricavato una distanza, che abbisogna di essere colmata per ripristinare il contatto. archiviata sotto: situazione di sicura connivenza.
stipulare una salda amicizia et a bruciapelo con le miniature dei legionari X fretensis, le ceramiche inappetibili dietro le vetrine, i loghi di alcune case automobilistiche asiatiche, i palloncini promozionali e non, le luci dei cancelli automatici, quelle accennate dei citofoni, i vecchi NPC che guardano il mare sul promontorio di VERDEAZZUPOLI (e se interrogati, questo e non altro riferiscono), non esistendo, forti della beatitudine che da una simile condizione deriva. avvertirne, adempiendo al proprio tempo, nelle alterne fasi dell’esserci, la vicinanza più prossima, e mite.
applausi i POLARETTI. meglio ancora in forma flebo, invece che solida, lockati nel loro astuccio, pari ai pennarelli (prima dell’uso), con i colori a crescere, ordinati. barre di uranio, iridescenti, in condizione di luce favorevoli. non è negoziabile.
in certa misura, i tatuaggi a tempo delle merendine, egregi trasferelli, ed emeriti. appena dapprima applicati tirano la pelle e brillano, ma in un tuttavia subito cominciano a gravarsi della polvere, anneriscono, somigliano a formazioni cancerose, sicché la finestra temporale in cui puoi vantare un pinguino sul braccio è risicatissima, mentre quella della malaria sèguita nei giorni. nello stesso subito o dintorni, peraltro, si dilatano, crepano, vanno alla deriva come la PANGEA, espongono i propri pixel come immagini low-res sottoposte ad un’implacabile azione di zoom. non scompaiono ma si scompongono a puzzle, assecondando le texture epitiliali, rivelandole. resta una frattura. qui, piena complicità.
nel preciso quando di mario kart che ti vede – per effetto degli ENVIRORMENTAL HAZARDS o di un corretto impiego, da parte degli avversari, degli ITEMS abilitati alla morte e alla sua distribuzione – consegnato al vuoto, sia detto vuoto più o meno consueto, più o meno imprevisto: non necessariamente un telefonatissimo baratro RAINBOW ROAD, con le curve che piegano a precipizio sui pianeti, senza barriere a contenere la corsa, a scongiurare la partecipazione di KOOPA al niente siderale che tutto intorno insiste, e preme; ma anche i vuoti hardcore, quelli ignoti perfino ai level designer, i vuoti che naturalmente scaturiscono in assenza di progetto, laddove la pianificazione langue, cui ottieni accesso per tramite di una serie di eventi sfortunati et esclusivi (che cioè mirano all’esclusione), la deflagrazione di una BOB-OMB che ti ribalta la vita e la riporta al suo normale incedere orizzontale proprio nel momento in cui un GREEN-SHELL muove ciecamente nel tuo slot e di nuovo ti costringere ad avvitare l’aria, fino a che non superi una recinzione apparentemente invalicabile (neppure può essere considerata, propriamente, una recinzione, dato che non si pone come elemento di separazione tra due luoghi distinti, ma come semplice limite all’azione) ed ecco che fai quell’esperienza di un vuoto inedito, un vuoto inatteso, che esiste in virtù di te e te soltanto, e delle circostanze che ti hanno condotto fino a quell’oltre cinetico il quale da bravo è l’esito di un sistema chiuso di regole, una rosa esauribile di possibilità, che tuttavia collide al suo interno, si inventa, esce da sé come KOOPA ora differisce il tracciato, deposto nell’abisso che presto vorrà restituirlo, estraneo ai radar del conflitto.
gli stormi che agiscono in torsione contro lo schermo del cielo, davanti ai dead pixel del pirellone. hoc modo comunicando un’attesa, mentre in background un’intera città esprime uno schema, esegue il suo script, si riduce alla consistenza di uno screensaver (di giorno: proliferazione di volumi poligonali, a saturare il campo visivo; di notte: una striscia braille, o una scheda perforata, con la luce che evidenzia i buchi).
le insegne dei bar, in prospettiva, che l’una all’altra si sommano, e dritto al cuore portano un comeché di trafittura.
vicende relative all’acqua, specie in atteggiamenti concentrici, nei wallpaper di default.
l’alluminio leggero, sonoro (assumendo, per ipotesi, un urto), dei cartelloni recanti impressi i gelati, opportunamente associati ai rispettivi prezzi, spesso arbitrariamente corretti tramite l’applicazione di appositi talloncini adesivi, oppure presenti solo a chiazze, o assenti del tutto. l’azione erosiva che il sole, con sorprendente facilità, opera sui pigmenti che accendono il colore originale, il quale nelle intenzioni e negli effetti rende l’intero roster desiderabile (al biscotto di più). questa azione, va notato, non incontra resistenza alcuna da parte dei soggetti presi in esame. facilmente, dei gelati indicati, nessuno è poi disponibile all’acquisto, specie nei casi più nostalgici, cfr. SANSON: trattasi di pure installazioni. essi cartelloni sono lo strumento più accurato e sensibile di cui disponiamo per la misurazione della qualità dei bar che li ospitano: vere et proprie cartine tornasole: tanto più il colore difetta, tanto meglio high rated sarà il bar. di lato: somigliano a quel compasso che è la morte, quando gira attorno al suo perno. (una partnership? certo che a dire, dice).
anomalie sui palinsesti sportivi, oscillazioni delle quote, strani segni tra le partite della coppa di danimarca e la seconda divisione norvegese, addirittura minuscoli geroglifici incisi tra l’AALBORG BK e il DROGHEDA UNITED, qualcosa come le coordinate criptate di un tragitto spaziale e fantastico.
al tavolino di un bar switchare, nell’immaginazione, la telecamera: come in FIFA14, visuale a volo d’uccello. il tavolo è allora quella puntina che fissa un tempo al sughero del giorno.
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(da una raccolta di prossima uscita per EDB. immagine: john pilson, interregna, 2007)
Riuscirà a salvarsi dal rischio chiusura una delle riviste teatrali più interessanti del panorama italiano?
Fasten your seat belts. It’s going to be a bumpy night [Allacciatevi le cinture di sicurezza, sarà una notte burrascosa].
Questa celebre battuta di Bette Davis, nel ruolo della Margo Channing di All about Eve, mi torna spesso in mente in questi affannosi tempi di precarietà culturale.
Io, come del resto tutti gli operatori del settore cultura, ce la siamo allacciata (e pure bene!) la cintura di sicurezza, siamo stati previdenti insomma, gente con la testa sulle spalle. Ma pare che tutti i nostri sforzi non servano poi a molto alla fine della fiera. La bumpy night, la sera burrascosa, purtroppo ci ha ormai attraversato da parte a parte e le nostre viscere non ne escono benissimo da questa singolar tenzone, da questo abbrutimento giornaliero. La bumpy night, ormai è chiaro a tutti, sta avendo la meglio su di noi.
Ogni giorno, soprattutto a Roma la città in cui vivo, la cultura è sotto attacco.
Bombardata, umiliata, stuprata, annichilita, derisa, scuoiata, in poche parole messa al bando.
Uno degli ultimi episodi di questa guerra alla cultura è la discussione intorno ad una rivista I Quaderni del teatro di Roma [http://www.teatrodiroma.net/quaderni] e ad una sua eventuale chiusura.
A Roma negli ambienti teatrali, e non solo, se ne parla da mesi di questa incresciosa situazione dei Quaderni. Gli operatori del settore non capiscono il senso di chiudere una rivista che di fatto è stata importante (se non addirittura fondamentale) per la scena teatrale della città. E a dire la verità nemmeno io capisco il senso di un’operazione così bislacca e così poco attenta ai bisogni del mondo culturale romano.
Facciamo un passo indietro però.
Forse non tutti sanno (soprattutto chi non si occupa di teatro) cosa sono I Quaderni e soprattutto cosa hanno fatto I Quaderni in questi anni. Allora due righe di spiegazione vanno messe, sono decisamente d’obbligo. E due righe di spiegazione permettono anche a chi conosce bene la questione di mettere in fila i meriti di questa rivista.
I Quaderni nascono nel Novembre del 2011 da un collettivo di sei critici (Attilio Scarpellini, Graziano Graziani, Sergio lo Gatto, Katia Ippaso, Mariateresa Surianello, Simone Nebbia) che proposero al Teatro di Roma una rivista diversa dal solito, non una house organ, che parlasse solo del teatro e dei suoi spettacoli, ma una rivista di critica e approfondimento teatrale vera e propria, indipendente dalla direzione.
Chiaramente il dialogo con il Teatro di Roma era alla base del progetto. La stagione del teatro era di fatto un punto di partenza, qualcosa a cui si doveva dare costante attenzione nel tempo. Ma l’idea del collettivo era quella di mettere in dialogo il teatro principale della città con tutto quello che succedeva intorno.
Roma, proprio per sua conformazione, è sempre stata una città creativa, ma con una produzione (anche a causa della crisi economica e politica attraversata dalla Capitale) abbastanza frammentata. Una città dove il teatro migliore lo scovavi quasi per caso in luoghi underground e grazie al passaparola. Gente dal calibro di Lucia Calamaro, Daniele Timpano, Manuela Cherubini ti capitavano insomma per i motivi più svariati. Perché, per esempio, te lo diceva un amico che c’era stato la sera prima o perché semplicemente ci inciampavi mentre sorseggiavi un cocktail equo solidale all’Angelo Mai o al Rialto Sant’Ambrogio. Raccontare questa effervescenza teatrale romana e non solo romana (basta pensare a luoghi come Santarcangelo di Romagna, Volterra, Castiglioncello, Castrovillari) era il principale obbiettivo del collettivo. Un’effervescenza che raramente riusciva ad arrivare negli stabili, anche quando la qualità era molto alta. La rivista se di default era indirizzata agli abbonati e generalmente al pubblico degli stabili, però strizzava benevolmente l’occhio anche al mondo esterno, che di quella effervescenza creativa partecipava o perché la faceva o perché la viveva. Il Teatro di Roma quindi attraverso I Quaderni diventata il punto da cui si irradiava un pensiero denso (e non liquido) sul teatro contemporaneo. Qualcosa di più di una rivista pubblicitaria per fortuna. Una rivista quindi destinata a creare un archivio dove appassionati, operatori del settore o semplici curiosi potevano abbeverarsi di sapere e passione. I Quaderni fin da subito si sono infatti posti l’obbiettivo della ricerca. D’altronde Attilio Scarpellini, direttore de I Quaderni del teatro di Roma, lo ha scritto nel primo editoriale della rivista, nel Novembre del 2011:
Questa non è una rivista promozionale del Teatro di Roma. È il luogo in cui il Teatro di Roma ha voluto che una riflessione sul potere della scena e dei suoi linguaggi riprendesse corpo in un’epoca che appare non solo monopolizzata, ma quasi deformata dalla narrazione visiva.
Riprendere corpo significa, per Attilio Scarpellini e in generale per tutta la redazione dei Quaderni, non dimenticare il proprio ruolo di Virgilio, di guida, nel marasma babelico in cui ci è toccato vivere. Non a caso la redazione prende in mano la materia “scabrosa” del conflitto generazionale cercando di costruire (e non senza difficoltà) un dialogo possibile tra diversi. Per questo in molti, numero dopo numero, hanno preso I Quaderni come punto di riferimento culturale. Il successo è stato incredibile soprattutto tra il pubblico delle giovani (e quasi giovani) generazioni che hanno sempre visto (non a torto nella maggior parte dei casi) gli stabili in modo “oppositivo” come luoghi di solo potere. I Quaderni hanno creato un avvicinamento reciproco. Lavoro fatto non solo sulla carta stampata, ma anche curando una serie di incontri sulla nuova drammaturgia (sconfinando spesso anche verso altri linguaggi come quello cinematografico o poetico) che hanno portato molte persone a varcare la soglia del teatro Argentina, dopo anni che non lo facevano più.
Anche il Teatro di Roma ha beneficiato del lavoro dei Quaderni. Alcuni progetti del teatro, come per esempio la factory al teatro India, è stato un risultato indiretto delle materie vive che hanno attraversato la rivista. Nel 2010 (e non parlo di moltissimi anni fa) le nuove compagnie erano quasi assenti dalla programmazione stagionale del Teatro di Roma, mentre ora sono quasi il piatto forte e alternativo della stagione. E anche qui l’ibridazione tra Quaderni, scena del contemporaneo e teatro stabile ha portato frutti interessanti.
Il dialogo intergenerazionale poi è anche alla base di un dialogo nella stessa redazione dei Quaderni. Il collettivo di critici (ma anche i collaboratori) incrocia ibridandoli generi, interessi, generazioni, scuole di pensiero. La differenza di approccio tra una generazione nata con la carta e un’altra che ha sviluppato il suo lavoro critico sul web, invece di portare al conflitto, ha portato allo scambio di saperi. Non c’è la solita guerra tra giovani e meno giovani, c’è invece un passaggio continuo che giova agli uni e agli altri.
Una rivista, quindi, che è sempre stata attenta alla trasmissione e non solo al senso estetico del teatro. E questo si evince da una delle sezioni più interessanti dei Quaderni, chiamata appunto ferri del mestiere, dove i maestri del presente sono stati sollecitati dalla redazione a parlare del loro fare teatro. Negli anni in questa sezione si sono avvicendati Giorgio Barberio Corsetti, Roberto Castello, Emma Dante, Ascanio Celestini e tanti altri che non ho il tempo di citare.
Insomma un patrimonio questi Quaderni! Un patrimonio grasso e grosso che ci ha ben nutrito in questi ultimi tre anni.
Il nome stesso della rivista, Quaderni (voluto fortissimamente dal direttore Attilio Scarpellini) da l’idea di una piattaforma dove chiunque di noi può prendere appunti, analizzare, partecipare, creare e in fondo essere ricreato.
Davvero vogliamo mandare al macero questo patrimonio?
In un’intervista al Corriere della sera (a firma di Paolo Fallai) del 13 Giugno del 2014 il neodirettore del Teatro di Roma Antonio Calbi ha più volte ribadito che c’è bisogno di ridare dignità a Roma e al suo teatro:
Il pensiero che mi sta guidando nella ricostruzione del teatro della città e della Nazione e quello di restituirlo alla comunità, ovvero di aprirlo dodici mesi l’anno a tutte le fasce dei cittadini, ma anche ai turisti. E soprattutto farne un’agorà civile e una casa di tutte le arti. Nei quattro anni del mio mandato vorrei che l’Argentina e l’India diventassero un vero punto di riferimento per la culture, le arti e non solo. Un luogo di accoglienza e insieme di irradiazione: la mia è una visione politica, nel senso alto del termine, e immagino il Teatro di Roma come un pianeta nel centro di un sistema di teatri pubblici e non e che punteggi l’intera area metropolitana.
Allora, proprio alla luce di queste splendide parole, perché sacrificare una delle più belle esperienze che il Teatro di Roma ha vissuto in questi ultimi anni?
Antonio Calbi parla di agorà civile e di fatto I Quaderni sono stati un’agorà a tutti gli effetti. Un luogo non solo del pensiero, ma anche dell’anima. Perdere I Quaderni sarebbe una vera apocalisse, sarebbe come perdere una delle poche piazze aperte di Roma Capitale.
Conosco Attilio Scarpellini e la sua serietà. Conosco i redattori. Difficile non incrociarli in giro per la città. La loro passione la portano tatuata sulla fronte e riescono a trasmetterla con una forza inaudita. Attraverso I Quaderni il teatro è entrato nel mondo e nei suoi dilemmi: il precariato, la guerra, l’esistente sempre in bilico. Niente di fatto è stato trascurato dai Quaderni.
E ora?
Tutto questo lo perderemo?
Come fare a fermare questo incubo?
Fare un appello al neodirettore Antonio Calbi? O come si usa sempre più spesso Petizioni su change.org?
Io personalmente ho scelto la chiave della scrittura per dichiarare la mia vicinanza ad un progetto che mi ha insegnato ad amare e conoscere il teatro. Io che ho una formazione letteraria e che sono sempre stata una cinematografara spinta, ho trovato nei Quaderni una mamma accogliente che mi ha saputo insegnare cosa rendeva viva una scena. Ho imparato, si…imparato tanto. Per questo, oltre a tutti i meriti già citati, non sottovaluterei la portata pedagogica di un progetto del genere.
Nella mia testa I Quaderni sono come Jefferson Smith, il personaggio interpretato da James Stewart in Mr Smith goes to Washington di Frank Capra, nella famosa scena madre in parlamento. Jefferson/James stremato dalla lotta per un mondo migliore dirà affranto e quasi sconfitto:
Lei mi crede finito, tutti mi credete finito, be’ vi sbagliate. Io continuerò a lottare per questa causa persa[…] io andrò avanti nella mia battaglia.
Jefferson/James sviene, ma è questo suo amore per le cause perse che lo farà trionfare nel finale. E così spero accada per I Quaderni. Come Jefferson meritano di svegliarsi da un incubo che di fatto non si sono meritati.
Graziano Graziani, il responsabile e caporedattore dei Quaderni, si chiede nell’ultimo numero (che speriamo proprio non sia l’ultimo) “Che cosa resta del teatro dopo che si è consumato lo spettacolo?”. Ecco, sembra banale dirlo, ma io spero che restino proprio I Quaderni. Non me la so immaginare una vita teatrale senza.
di Antonio Sparzani
Non mi stanco di cercare di imparare cose di e su Wolfgang Pauli (Vienna 1900 – Zurigo 1958), uno dei grandi protagonisti non solo della scienza ma della cultura del secolo scorso, di cui ho dato già qualche elemento ad esempio qui.
Del resto sto ancora sforzandomi di trovare qualche illuminato editore disponibile a fare una bella edizione italiana dello straordinario venticinquennale carteggio tra lui e Carl Gustav Jung, citato qui e oggetto, nella lunga serie di commenti a questo post, di una sterile polemica.
Quello che oggi voglio raccontare è un flash, costituito da uno scambio di lettere con Oppenheimer, avvenuto a metà del 1943, in piena seconda guerra mondiale.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé.
Una distesa di ombrelloni azzurri. Prima un riflesso. A perdita d’occhio le sdraio appaiate in file interminabilia ridosso della riva.E i lettini con i capezzali rovesciati. Due riflessi, poi, leggermente sincroni. Il brusìo delle prime ore del pomeriggio fa da rumore di fondo all’annuncio distratto dell’altoparlante. Ora son diventati cento, mille, i riflessi che sembrano moltiplicarsi e seguono a vista le onde fino a perdersi nella sabbia. La spiaggia è abitata per lo più da famiglie e in una fila poco distante dalla passerella, sopra a un lettino è disteso un uomo.
La tranquillità dello sguardo spento dagli occhiali da sole, la posizione neutra, le braccia lungo il corpo, le mani penzoloni con le dita quasi a toccare sabbia, le gambe leggermente divaricate e i piedi all’ombra di poco inclinati e puntati sui due lati: il piede sinistro sulle nove e quello di destra sulle quattordici. La particolarità delle spiagge a conduzione familiare sta nella presenza accanto ad ogni ombrellone di suppellettili giocattolo per lo più ingombranti, colorati e gonfiabili. Come statue a guardia delle facciate dei palazzi qui sembrano custodi degli effetti personali e governano l’andirivieni dei bagnanti dal bagnasciuga alla sabbia asciutta e cocente delle postazioni. Il lido, che diremo di Lerici per comodità, ha una disciplina del personale di terra e mare a immagine e somiglianza della coppia di proprietari; lui è uno scrittore di romanzi d’avventura e lei una ex modella che è rimasta tale; lui e lei sono semplicemente e oggettivamente belli; di una bellezza che porta in sé qualcosa di naturale e non la costruzione sofisticata di corpi estranei a sé e portati in modo maldestro in giro, per lo più.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile.
Una distesa di ombrelloni azzurri. I riflessi ora si perdono al largo dove non c’è più piede. A tratti risalgono lungo gli alberi maestri delle imbarcazioni ormeggiate al porticciolo. La spiaggia si popola adesso di giovani alle prese con la maturità: ripeness is all. La prima ad accorgersi della cosaè una signora dall’aria intelligente. Ha l’aria intelligente perché sul tavolinetto ci sono due libri, quello di Luciano Gallino e uno di Fabio Volo che sicuramente appartiene alla figlia adolescente scesa da poco e che è in acqua insieme alle amiche. “Gallino in Volo” ha sicuramente pensato spostandoli per prendere la crema solare; è stato proprio nel mentre di quel movimento di leggera torsione del busto che ha scorto dapprima il libro del vicino, un libro di Sinistra e a seguire l’erezione del lettore. Un leggero turbamento la coglie, un trasalimento la porta a guardarsi intorno per precauzionee prova un lieve imbarazzo in quell’atto di vedere e non vedere. Tanto più che pochi minuti dopo la scoperta si accorge di come, dal costume aderente a strisce bianche e rosse del vicino, quasi rispondendo alla sicuramente inconscia domanda della signora, la cosa si stia facendo strada superando il debole fuoco di sbarramento che un elastico un po’ rilassato stenta a fare, cedendo.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume, insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo aperto.
Quando le amiche della figliadella signora, ormai impegnate nel rito del dopobagno, seguendo le istruzioni della figlia, si passano prima gli asciugamani poi le creme con gesti meccanici e rodati da catena di montaggio, ridendo e scherzando, la signora gli fa cenno di fare silenzio; lo fa dapprima abbassando il palmo di manoin linea con il braccio teso come quando si regola il volume di una radio, e portandosi quasi contemporaneamente l’indice dell’altra mano tra le labbra e la punta del naso: shhhhhhh! Nelle spiagge a conduzione familiare è un gesto che ricorre spesso per quanto indirizzato ai componenti della stessa tribù, tra uno slalom e l’altro in mezzo ai passeggini parcheggiati in doppia fila, sotto lo sguardo vigile delle mamme affrancate dal dormiveglia dei pargoli, libere per poche ore dall’esercizio costante dell’attenzione verso le piccole macchine da guerra. Lo spirito del tempo si offre alla vista in modo inequivocabile, nella sua istanza demografica; le madri per lo più e i pochi padri presenti sono cinquantenni alle prese con figli alle prime armi della parola e del camminare. A quella prima vista si sarebbe potuto scambiarli per i nonni ma allora i veri padri e le vere madri dov’erano finiti? Era come se una guerra avesse spazzato via una generazione, quella di mezzo, uno Tsunami avesse scatenato un’onda in grado di rendere la situazione anomala e inconcepibile fino a pochi anni prima.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume, insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo aperto. Un dettaglio nello sterminato paesaggio marino, in grado di scatenare una reazione incontrollata e maldestra, una reazione anticipata dell’eletto.
Le amiche della figlia della signorafanno capolino e scoprono l’arcano;sul chi va là le ha messela figlia che ha raccolto il messaggio della madre all’inverso e mettendo il Volo davanti alla faccia, a non farsi vedere, in quello stesso grado di separazione se la ride sotto i baffi contaminando le amiche come quando si sbadiglia. L’azione asseconda la prima volontà della madre a questo punto preoccupata di due cose, uguali e contrarie. Intanto un coccodrillo gonfiabile gigante con la testa appoggiata tra i seni di una madre di seconda fila sbuca tra gli ombrelloni. Il sudore e l’acqua di mare in mezzo agli occhi fanno pensare alle lacrime dell’animale. Da poco sopraggiunti gli amici metropolitani della signora, invitati alla casa al mare, sono informati dell’accaduto, dei fatti. Il fatto è che nel frattempo l’ospite ingrato, leggermente arrossato, arrotondato in punta e sovrastato da un taglio come da scalpello aveva guadagnato terreno grazie a piccole spinte che lo fanno pulsare come un cuore. Il leggero movimento coordinato al respiro pesante dell’uomo, fumatore, lo rende di colpo più umano, quasi infantile; la stessa innocenza di un bruco, di un baco da seta, sospeso nell’incerto divenire, nell’ipotesi di una metamorfosi l’unica in grado di fargli spuntare le ali come il cielo agli uccelli; la stessa operosità dei pesci che tentano con tutte le forze di aprirsi un varco in mezzo alle reti, la stessa tenacia di uomini e donne a forgiarsi un destino in un pezzo di vita.
Nessun oltraggio pare configurarsi al di là del comune senso del pudore. La naturalezza del corpo scappato, evaso dal costume bandiera di altre intimità non suscita alcuna reazione stizzita negli uni, accorsi poco dopo per passaparola e negli altri, quando ormai c’è una piccola folla, nessun moto di scandalo o riflesso di respingimento. Una giovane turista tedesca si è perfino proposta di rimboccarlo, di rimetterlo sotto coperta, rassicurando i presenti con la promessa di un tatto leggero e accorto al punto di non svegliare il signore. La questione che si pone adesso è infatti ben illustrata dalla signora che con padronanza di linguaggio e gestualità controllata spiega agli astanti come nei due casi, qualora il signore si svegliasse spontaneamnete o per manipolazione della turista nulla avrebbe potuto sottrarre la folla all’imbarazzo generale, in primis del malcapitato. Nonostante l’estraneità di quest’ultimo all’inottemperanza del prepuzio che certamente in un battibaleno si precipiterebbe nella risacca, accucciandosi sul lato sinistro come per lo più accade agli uomini di buona volontà, alla vista del capannello sarebbe minimo minimo morto di vergogna, annegato nelle pupille quasi cento degli spettatori. Se poi la causa del risveglio fosse un’incauta manovra della volontaria nordica dalle trecce bionde il signore si sentirebbe oggetto e vittima di molestie pretendendo immediatamente un risarcimento a quell’offesa magari facendo ricorso alle vie legali. Ecco perché il bagnino corre ad avvisare il proprietario che sopraggiunge per rimediare al guasto che aveva intaccato la magnifica macchina di sabbia. La soluzione? Sgombrare il campo da ogni iniziativa in grado, come una turbativa d’asta, di mettere a repentaglio il principio di domanda e offerta, con relativi servizi e benefici di cui il Lido, va detto, meritatamente gode. E il prepuzio? Anche lui pare godersela un mondo per quell’inaspettata e provvida attenzione a lui rivolta al punto che respira da sé in una totale indipendenza dal battito del sognatore.
Dopo una breve consultazione con prefetto e questore, il proprietario avvisa la clientela di lasciare la spiaggia con un’ora di anticipo rispetto all’orario di chiusura. Lo fa a mezzo bagnino e non via altoparlante per fare in modo che al risveglio il prezioso cliente non ritrovi nessuno al capezzale del proprio lettino e ritrovare nell’intimità la parte ribelle di sé a prescindere dal fatto che fosse dentro o fuori, la partita, e nel secondo caso accomodandolo come meglio avrebbe creduto, lontano da occhi indiscreti. Una saggia decisione malgrado la protesta degli uni, coloro che avevano pagato l’intera giornata ai bagni e soprattutto gli altri privati del finale della storia. Ai primi il proprietario offre un ingrsso gratuito per l’indomani e ai secondi, sempre per il giorno dopo, il racconto dettagliato che il suo bagnino fidato, unico autorizzato a restare nella torretta di avvistamento, avrebbe con dovizia di particolari rivelato.
Così, tutti cominciano, seppure a malavoglia, le operazioni di evacuazione della spiaggia. Si rivestono e coprono ogni centimetro di carne nuda indossando da prima mutandine e costumi, poi le camiciole e i bermuda. Sono stati autorizzati a lasciare i giochi di mare sotto gli ombrelloni con l’assicurazione del proprietario a prendersene cura. Da nudi che erano, integralmente e naturalmente dal momento che il lido in questione lo permetteva, tollerando chi non se la sente di varcare la soglia della propria totale nudità lasciandosi indosso il costume, raggiungono mesti chi la propria stanza d’albergo chi le bianche camere con vista sul golfo dei poeti, quasi increduli di come un semplice prepuzio li abbia di colpo riportati ad un’epoca felice e illusoria, come i riflessi sulle onde del mare.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume, insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo aperto. Un dettaglio nello sterminato paesaggio marino, in grado di scatenare una reazione incontrollata e maldestra, una reazione anticipata dell’eletto. In una spiaggia di nudisti.
Nota al racconto
Il racconto fa parte di un progetto di scrittura chiamato taccuini. Lo scrivo a penna su un quadernetto e, dopo averlo trascritto, lo regalo a una persona che amo. In questo caso l’ho lasciato a mio fratello Geppi con la speranza che tra una cinquantina d’anni una sua nipote potrà venderlo e acquistare una casa a Lerici. effeffe
Si narra che quando Walter Benjamin vide bocciato il suo fondamentale lavoro sul dramma barocco tedesco per il concorso di libera docenza all’università di Francoforte, uno dei commissari commentò che non esisteva una libera docenza in intelligenza. Non so se questo aneddoto corrisponde al vero, ma indubbiamente ha una sua verosimiglianza nell’evidenziare una mentalità di valutazione strettamente formalizzata per non dire angusta.
Naturalmente non occorre tirare in ballo esempi così illustri per incontrare errori di valutazione anche marchiani nella pratica scolastica. Uno dei più frequenti è l’assegnazione di un quesito o di un compito sproporzionati rispetto al tempo a disposizione o alla lunghezza richiesta nella risposta. Si tratta di un errore che rivela di solito nel docente una mentalità orientata alla richiesta di studio mnemonico o di un’acritica e asettica riproduzione di determinate abilità e che dunque non tiene in considerazione nessun tempo per la rielaborazione, ma solo per la riproduzione meccanica di quanto appreso. Un altro errore di valutazione molto frequente è quello dell’implicazione oggettiva: data l’affermazione A, il docente si aspetta che lo studente enunci l’affermazione B perché ritiene che A implichi oggettivamente B, ma tale rapporto di implicazione è molto meno evidente logicamente di quanto l’insegnante creda o addirittura è evidente solo in una prospettiva soggettiva.
Vi sono poi errori dovuti a vere e proprie superstizioni corporative come la credenza che l’insegnante severo sia più bravo di quello ‘buono’ oppure che l’emotività nei ragazzi durante una prova sia dovuta alla cattiva coscienza di chi non ha studiato molto. Insomma nell’attività della valutazione gli errori possibili sono molti. Le risposte che nella scuola italiana si sono date a questo rischio sono legate alla moltiplicazione delle prove di valutazione e dei valutatori. Se il giudizio di uno studente è affidato a parecchie prove e parecchi valutatori, il rischio di errore diminuisce e si stempera notevolmente. Si tratta naturalmente di misure che hanno una loro efficacia empirica, ma che certo hanno poca utilità per trarne qualche pubblicazione scientifica su qualche rivista universitaria di pedagogia o di economia.
Quando queste pratiche sono state messe in atto si pensava che la valutazione fosse più un’indicazione di lavoro nel processo di apprendimento che un giudizio definitivo e i voti fossero degli indicatori numerici e non dei misuratori di oggettive quantità. In altri termini voti come otto e sei indicano un rispettivamente un raggiungimento buono e minimo degli obiettivi prefissati in maniera del tutto tendenziale e modificabile, ma senza esprimere un effettivo rapporto quantitativo come quello che intercorre tra otto e sei chili di patate.
Oggi si assiste a una tendenza opposta, promossa dalle organizzazioni economiche internazionali come l’OCSE e in Italia rappresentata dalle prove INVALSI, in base alla quale si cerca di ottenere una valutazione ritenuta oggettiva sulla base di dati numerici certi e assunti come effettivi equivalenti quantitativi del grado di preparazione di ogni alunno. Questa tendenza si fonda sull’uso di un solo tipo di prova, il test a risposte multiple, popolarmente noto come quiz con crocette, che ha il vantaggio di presentare una correzione inoppugnabile ( c’è solo una risposta giusta su quattro proposte) e facilmente convertibile in numeri certi.
Il difetto maggiore, da un punto di vista didattico, di tale tipologia di prove è che sollecitano solo alcuni generi di abilità e conoscenze: in particolare vengono trascurate quasi completamente quelli che si chiamano, nel linguaggio specialistico, abilità di sintesi e rielaborazione che sono considerate le più alte e le più significative nella pratica didattica e che potremmo chiamare nel linguaggio comune le capacità critiche. Altri difetti sono che anche in prove strutturate così è possibile incorrere nella formulazione dei quesiti in alcuni degli errori di valutazione che ho citato sopra, e che favoriscono una didattica volta all’apprendimento di una reazione meccanica allo stimolo anziché all’approccio alla complessità. Anche il fatto che nella valutazione di questo tipo di prove sia impossibile valutare la gravità dell’errore compiuto rende difficile quel lavoro di recupero e correzione che è centrale nell’attività didattica.
Nonostante questi evidenti limiti, i quesiti a risposta multipla hanno un loro valore nel testare alcune abilità a patto che siano inseriti in un contesto plurale di prove. Oggi invece essi vengono proposti, non tanto all’interno della scuola, ma alla società come l’unico indicatore oggettivo della qualità della scuola stessa. In una situazione del genere è ovvio che l’uso esclusivo di queste prove rappresenta una banalizzazione dei processi di valutazione, che costituisce un errore molto più grave di qualsiasi altro errore della valutazione.
Vorrei sottolineare che questa non è una questione tecnica interna per addetti ai lavori perché un simile modello di valutazione presuppone un’idea della scuola e della valutazione stessa che hanno un interesse generale. L’idea che una presunta oggettività della valutazione sia l’obiettivo principale da raggiungere anche a costo di una sua eccessiva semplificazione e a detrimento di una serie di pratiche didattiche tipica di una buona scuola presuppone alcune idee sulla funzione della scuola stessa. Innanzi tutto presuppone che la finalità della scuola sia quella di esprimere una valutazione assoluta sullo studente anziché offrire una serie di saperi e abilità; a sua volta ciò implica che la scuola debba contribuire a determinare una selezione nella società; inoltre si basa anche sull’errata convinzione che i processi di apprendimento siano entità misurabili quantitativamente; infine che il valore educativo principale, se non unico, da trasmettere sia quello della competitività ( come evidenziato dal fatto che si pone al centro dell’attività scolastica la valutazione e segnatamente un tipo di valutazione che è particolarmente affidabile per formulare punteggi come in una gara sportiva).
Si tratta di idee non certo nuove, ancorché presentate sotto la speciosa immagine della valutazione oggettiva e dunque equa, ma la ripresentazione di idee ottocentesche sotto un vestito ipermoderno non è certo un fatto inedito in questi nostri tempi. I rischi maggiori connessi con l’affermazione di questo tipo di valutazione paiono invece essere la riformulazione dell’intero processo educativo sotto il segno esclusivo della ricerca della prestazione e la marginalizzazione di quegli aspetti relativi non solo alla formazione complessiva della personalità dell’individuo, ma anche all’autonomia nell’uso delle conoscenze acquisite che restano gli obiettivi principali di una scuola non asservita.
Io, quando mia madre mi spiegò che “mostro”, per gli antichi, voleva dire prodigio, e perfino miracolo, mi sentii per un attimo placato, come vivessi in un mondo migliore.
MICHELE MARI, TU, SANGUINOSA INFANZIA
Mio padre era la creatura più buona della terra, si alzava di notte per infornare il pane a tre chilometri da qui, odorava sempre di farina e in casa sembrava polvere o il passaggio dei morti.
Io ho cantato a lungo per i morti, quando l’ho detto all’insegnante di canto mi ha sgridato dicendo: Tu devi cantare per Nostro Signore.
Ho abbandonato il coro e non ho cantato più per molto tempo, allora ho iniziato a scrivere dei racconti cercando di non parlare di loro; ogni tentativo falliva, e io mi odiavo per quell’invenzione borghese perché mia madre e mio padre erano poveri, ma le tragedie avvenivano pure in casa nostra. La normalità, per esempio. E’ stata la tragedia più urgente della mia infanzia.
Mia madre era di contro un’inguaribile pessimista e una discreta biologa, tentava strani esperimenti su ogni tipo di insetto, li teneva in una vetrina nell’angolo del salotto. A me facevano schifo, però cercavo di attirare la loro attenzione picchiando con le dita sul vetro.
Lei diceva di pregare molto perché il male è nascosto e sta sotto i tappeti e dentro gli armadi. Gli armadi della mia camera erano abitati da fantasmi, raccontavano storie bellissime. Li ascoltavo per ore, ma non dicevo nulla a loro perché nessuno mi avrebbe creduto, papà avrebbe sorriso e mamma a fare cambi di stagione anche nel mezzo dell’inverno.
Creavano una sproporzione perfetta, addirittura patetica. Il loro modo di condividere gli anni, intendo, e dopo gli anni i ricordi, e dopo ancora i silenzi, pur sempre una forma di condivisione. Capita a volte che non ci sia più niente da dire. La fedeltà è innocenza postuma. Dopo i silenzi più nulla, ma prima del nulla il fuoco e il bruciare dei fiori. Ci sono fiori che puzzano terribilmente quando bruciano, mio padre era come uno di quei fiori lì.
Tutti i miei vent’anni come verso quel giorno, il giorno della Sacra Famiglia in fiamme.
Era sabato. La scuola si trovava a pochi isolati da casa, prendevo ogni mattina la bicicletta e la legavo nel cortile. Il cortile era pieno di biciclette, un incastro di ferro e lucchetti. La mia aveva la canna curva e il cestino di paglia perché era quella che costava di meno. Me la fece trovare mio padre il giorno del mio sedicesimo compleanno, me ne vergognavo a ogni pedalata, diventavo rosso ma non per lo sforzo delle salite senza il cambio.
Quella mattina la professoressa di inglese non si era presentata a scuola, non ci avevano detto il motivo. Ci avevano solo avvisato: Potete uscire un’ora prima.
Tornando a casa mi fermai in libreria; a me piacevano i libri perché in casa non ce n’erano – capita spesso che si inizi ad amare ciò che non si ha per una sorta di avidità infantile –, la carta ruvida sotto le dita, le storie che nessuno mi avrebbe mai raccontato per fuggire il peccato. Il peccato lo scoprii da solo su quegli scaffali, aveva la forma morbida di un tascabile: Atlante fantastico scritto e diretto da Benedetto Cruz. L’introduzione spiegava come tale dottor Cruz avesse deciso di classificare secondo il metodo di Linneo le creature fantastiche di cui i romanzi delle letterature d’ogni tempo sono pieni. Dedicava molto spazio ai mostri, ne descriveva usi e costumi, abitudini, insediamenti – il volume era corredato di cartografie leggendarie – soffermandosi e rimandando a uno studio critico sul loro linguaggio finanziato dal dipartimento di glottologia e linguistica dell’Università di Cambridge.
Scelsi un altro libro: una villa, un’istitutrice, due fratelli, i fantasmi rossicci di due amanti. Mentre sfogliavo Il giro di vite entrò in libreria una giovane donna mano nella mano con un bambino; le loro dita erano piccole uguali e intrecciate e le unghie cortissime. I corpi però li vidi dopo, prima mi raggiunsero le voci:
– Mamma, devo dirti un segreto.
– Cosa c’è tesoro?
– Ho visto un bambino pazzo che scappava dalla madre.
Quando avevo quattro anni scappai da mia madre, al mare, lei stava persa in certe chiacchiere con delle amiche e io pochi passi più indietro con altri bambini a fare un gran baccano di secchielli palette e scarpette battute sull’asfalto, a piedi da casa nostra allo stabilimento ci volevano dieci minuti. Fu allora che la persi; non la vidi più, perché le madri nei parei sono tutte uguali e tornano bambine anche loro, e attraversare il mercato del lunedì con tutta quella gente sudata in bicicletta e cappelli di paglia e creme abbronzanti è una guerra che non possiamo affrontare di prima mattina con uno yogurt nello stomaco e il sonno ancora dentro le scarpette. Presi a chiamarla, sempre più forte: Mamma! Tornai a casa da solo, la retina del mare stretta al petto come fosse una parte di lei, un suo ultimo dono da proteggere contro i mostri che d’estate risorgono. Il calore dell’asfalto mi bruciava le gambe fino alla mutandina del costume, quando si è poco più di un metro è difficile difendersi dalle forze che ci ancorano alla terra. Un’ora dopo mi ritrovò sul gradino di casa, la retina sprofondata nel petto, mi diede cento baci sulle labbra. Io la baciai invece sulle palpebre, sugli occhi, per non vederli. Ero stato io a scappare da lei o era stata lei ad abbandonarmi? Forse si trattava di reciproco bisogno di fuga. Quella notte collezionai qualche altro centimetro, mi sentivo più vicino al cielo. A lei invece crebbe il seno, lo so perché lo disse a papà la mattina mentre preparava fette biscottate per colazione: “Guarda Pietro, è gonfio, mi fa male”. Dovevo essere stato io, dovevo avere ancora qualche potere su mia madre; me ne rallegrai.
Alzai gli occhi verso il bambino interrompendo la lettura; la potenza di quella frase mi aveva colpito come pietra scagliata alla tempia.
Iniziai a sanguinare dal naso.
Miss Giddens non arrivò mai nella villa dei fantasmi; riposi il libro sullo scaffale e pensai che il giro di vite non è altro che un giro di giostra. Da piccolo avevo il terrore delle giostre, soprattutto del moto verticale dei cavalli.
Cercai le chiavi nello zaino e entrai in cucina, sui fornelli la pentola con l’acqua e il sale era già pronta. Lei non venne a salutarmi; dal salotto giungevano strani rumori, pensai: i ladri. Poi: pericolo. Presi dal cassetto un coltello e, nascosto dietro la porta, cacciai gli occhi oltre la fessura. Allora la vidi.
Mia madre schiacciata sotto il corpo di Nicola, il lattaio, mia madre felice nel fare l’amore con lui. E Nicola non era più Nicola, era tutti gli uomini del mondo.
Il corpo di lui puzzava di latte e formaggi. Il corpo di lei era invece un corpo di insetto. L’unico insetto per il quale non avrei mai potuto provare schifo ma desiderio, un desiderio naturalmente infantile, l’erotismo ingenuo dei bambini. Perché abbiamo due gambe, una lingua, dieci dita, questa condanna anatomica? (Nicola aveva nove dita perché uno se l’era giocato sbagliando il taglio di una forma di cacio.)
Mia madre, stesa sul divano tra le braccia di tutti i Nicola del pianeta, fu il primo nudo della mia vita e la mia prima innamorata.
La scoperta della pornografia coincise con la scoperta del corpo della madre. La pornografia sarebbe stata per me sempre una cosa castissima, essere lo spettatore delle passioni altrui. Una forma di pudore.
Aveva gli occhi chiusi mentre l’uomo ansimava e le cercava le labbra; per un momento ho creduto che stesse dormendo. Nessun bacio l’avrebbe potuta svegliare, non un mio bacio di certo.
Persi velocemente un centimetro dopo l’altro, i capelli si schiarirono, le parole fuggivano dalla mia testa e pensai a quanto sarebbe stato difficile reimparare a parlare e a nominare le cose. Corsi in camera mia senza fare rumore, mi piegai sulle ginocchia, raggiunsi il letto a gattoni. Ero di nuovo il bambino chiuso nell’armadio ad ascoltare storie impossibili, ci trasformiamo continuamente. Allora i fantasmi della mia mente parlarono e si fecero unica voce, e la voce disse:
Tu sei mio Figlio, il prediletto, mandato nel mondo per redimere tutti i peccati.
In radio passavano una vecchia canzone, le parole si confondevano al suono metallico del ventilatore sul frigorifero:
Sweet child in time You’ll see the line The line that’s drawn between Good and bad
Decisi di aspettare mio padre.
Mamma puliva le carote, le grattugiava a scaglie.
Alle otto di sera, la serratura scattò e lui ci sorrise il suo sorriso migliore. Ricordo di aver pensato:
Ti odio perché non sei bello come Nicola.
Ti odio perché hai lasciato che mamma si innamorasse di un altro.
Ti odio perché non hai i suoi baci, il suo odore, il suo culo.
Ti odio per il tuo culo piatto e per la normalità cui ci hai condannati.
Ti odio per la farina sulle scarpe e gli aquiloni d’estate.
Mi fanno schifo gli aquiloni mi fa schifo il pane e mi fai schifo tu.
Cazzo ridi, non vedi come crolliamo a picco?
Mangiamo tutte le sere a questo tavolo senza sapere che ogni cena potrebbe essere l’ultima.
Non solo i baci tradiscono. La pasta è già fredda, è un tradimento perfetto.
Guardarono la televisione, mezz’ora, senza parlare, papà venne a darmi la buonanotte rimboccandomi le coperte.
– Ho vent’anni, pa’.
Mi guardò con gli occhi seri del bambino, sembrò invecchiare in pochi secondi di mesi. Quello era veramente mio padre, una creatura stanca e muta in piedi sotto la porta, la vita breve, il sonno pesante, un collezionista di illusioni e speranze fallite, un nulla. Ciao miracoloso mostro.
Quella purezza avrei potuto amarla, ma la bontà non coincide per forza con un cuore puro. Non sono servite a niente le preghiere di mamma né i cambi di stagione in pieno inverno, le domeniche in chiesa ad ascoltare il Vangelo e i miei sogni notturni a immaginare le ossessioni dei ricchi. Il presente è l’unica misura del desiderio.
Sappiamo diventare famiglia sempre troppo tardi e solo prima del crollo, senti gli scheletri che già escono dall’armadio, in fila indiana ci salutano con la mano. Una recita perfetta.
(La mia carriera scolastica può vantare una sola recita di Natale. Le parti le aveva scelte la maestra Paola, io ero uno dei Magi. Mi sentivo talmente importante, non perdevo un attimo di vista la scatola vuota delle scarpe rivestita di carta argentata. Il mio tesoro d’incenso. Spiavo da dietro il sipario insieme a Davide, il mio migliore amico – il figlio di Nicola – le file piene di genitori, una morsa di pipì tra le gambe, la sala era gremita di facce sorridenti e truccate e immaginavo per noi un destino simile. Mio padre vi dà il pane ogni giorno! avrei voluto gridare al microfono, Sono fiero di lui! A quel tempo ero davvero orgoglioso di lui, mi sembrava il lavoro più importante del mondo impastare farina e lievito perché sfamare un quartiere vuol dire avere il potere di deciderne la sopravvivenza. Nessuno sapeva fare il pane; i genitori dei miei compagni di scuola erano ottimi banchieri, agenti immobiliari, parrucchiere in centri benessere le donne. Di quell’uomo piccolo e troppo gentile chiuso in un forno di notte a tenersi compagnia con la radio nessuno avrebbe avuto memoria. Ci sarebbe stato un altro fornaio quando mio padre sarebbe morto, e dopo di quello un altro ancora, e la radio sarebbe stata sempre la stessa SONY col metallo della retina spezzato. A loro importava solo del pane. Quando la recita iniziò e le luci in sala si spensero, i genitori continuarono a parlare e a ridere nei loro abiti da sera, le collane di perle bianchissime e le cravatte scure a pois, e mia madre e mio padre con i vestiti della festa se ne stavano zitti ad aspettare che qualcosa accadesse su quel palco tenendosi forte il braccio dall’emozione. Non scattarono neanche una foto, e in assenza di testimoni nessuno mi ha potuto dare del bugiardo quando, negli anni, ho iniziato a raccontare di quella meravigliosa recita di Natale in cui ho fatto la parte di Gesù Bambino nato da una vergine e mia madre era la regina del teatro e gli applausi erano solo per me.)
Aspettai che si addormentassero e andai in cucina. Dal cassetto delle forchette presi la scatola dei fiammiferi, ne accesi uno e lo spensi alitandoci sopra, mi bruciai la punta del naso.
Entrai in camera loro, russavano piano. Ho odiato per anni il loro russare, sembrava che avessero in gola gli scarafaggi degli esperimenti di mamma, una fila di scarafaggi lunghissima, ma gli insetti col tempo impararono a digerirli e non soffocavano mai, la mattina erano ancora in piedi a bere latte e caffè. Il latte di Nicola.
I fiammiferi sono sottili, si spezzano in fretta se non si inclinano bene. Bisogna che il gesto sia rapido, sicuro, bisogna avere fede.
Bisogna porgere l’orecchio ai mostri che abbiamo dentro.
Rogo
Il letto prese fuoco. Prima il merletto delle lenzuola, poi il materasso.
Per ultimi s’incendiarono loro.
Le fiamme sono arrivate fino al quadro con la Madonna e il suo bambino. Bambino, gli ho detto, Non piangere, ti si squagliano le lacrime in volto.
Gli insetti di mamma nella vetrina hanno iniziato a muoversi pazzi. Mi hanno fatto pena, le zampe troppo piccole per quei corpi corazzati, spiegate in un’inutile fuga.
È toccato poi alle frange del tappeto.
Il calore ha ucciso tutti i batteri, ha purificato tutto. Allora è stato il turno dei fiori; sono uscito in giardino, i petali si sono accesi subito, sembravano le stelle dei capodanni passati quando uscivamo sulla terrazza e papà ci metteva tra le mani quei ferri sottili e lunghissimi e faceva scattare la rotella dell’accendino. Mamma era felice, papà un fanciullo eccitato, io disegnavo grandi cerchi di luce nel buio. Ogni capodanno brindavamo dicendo Grazie Signore per quanto ci hai dato, aiutaci nella tentazione e liberaci dal male. Io maledivo la bontà di mio padre, la sua allegria, il suo amore per mia madre e per me. Io pregavo affinché il male non ci liberasse mai perché dal male ci si può sempre salvare, mentre dal bene non si può che cadere più in basso.
I fiori hanno perso i liquidi e il colore; c’è un momento preciso in cui i fluidi abbandonano i corpi e iniziano a evaporare, l’ho studiato sul libro di chimica, si chiama punto di ebollizione. In quel momento la sostanza passa dallo stato di aggregazione liquido a quello gassoso.
Diventiamo vapore.
*
La normalità me la sto lasciando alle spalle, la vita sta accadendo.
Ogni mattina una ragazza in camice bianco apre la porta della mia stanza e fa entrare il sole da queste finestre, prepara la pomata e prende a massaggiarmi la pelle perché il dolore sia più sopportabile, poi prende le garze pulite e copre le ustioni. Restiamo a guardarci un po’, lei mi sorride e io le sorrido e lei taglia i gambi e cambia l’acqua nel vaso; allora inizio a spiegarle di come infradiciano certi fiori al morire e di come si classificano i mostri negli atlanti fantastici.
Mentre il Teatro Valle, così come altri spazi culturali occupati italiani, è sotto un attacco concentrico delle forze che si oppongono alla rivoluzione dei beni comuni, la rivista Argo (www.argonline.it) ha deciso di dedicare una nuova opera della sua omonima collana, dopo “Calpestare l’oblio” e “Coralina”, proprio alla realtà degli spazi culturali occupati, che come il Teatro Valle resistono alla deriva mercantilista del nostro pianeta, proponendo un altro modo di gestire i beni pubblici e privati abbandonati.