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Due testi per scopare il mare

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di Davide Orecchio

I'm a donkey
A.

La portiera m’ha detto che presto questa mattina uno stormo di neonati ha preso il volo e che «migravano al Nord». Capita solo nel mio quartiere, difatti è dal tetto di questo palazzo che han decollato, metà di loro con le piume corvine, l’altra metà dalle penne di latte. «Erano trenta, forse quaranta». Il capo era biondo col piumaggio nero e gli altri lo chiamavano (perché si parlavano) Orca, anche Horcynus Orca. Lui ha fatto colazione col Campari e l’Ovomaltina e mezza rosetta spalmata di burro con lo zucchero sopra. Stavano tra la pece, la malta, le erbacce e le muffe che crescono intorno a comignoli e antenne dov’era stato il loro bivacco, credo per diversi giorni. Ma io sulla testa non li avevo sentiti. Era un bivacco lieve di levitazione. Scarabocchiavano disegni sul muro, m’ha detto la donna, per lo più padri simili ad alci e madri tondissime, e nuvole gonfie. Mangiavano biscotti col cioccolato, scaglie di cioccolata, pollo nel sugo rosso di cioccolato. Un paio di volte hanno intonato un coro da branco per darsi coraggio e il canto spargeva una storia come acqua tirata dal pozzo, la fiaba lontana del dadoveveniamo e doveandiamo. Erano seri. Avrebbero potuto esser padri, più che figli neonati. Horcynus era il silenzioso di loro ma al mattino, dopo lo zucchero il burro e il Campari, ha detto: «Adesso si va per non finirecrepàti in questodeserto abbiamo un mese abbiamo cent’anni ne abbiamo duecento senz’aver creato nulla le storie cipèsano la storia ciopprìme» Ha fatto una puzza e poi s’è librato. Nell’attesa degli altri, cui dava il la, s’è divertito con le capriole, ha impaurito un gatto, schiaffeggiato un’antenna, svolazzato tra i tappeti stesi lassù, i cavi di rame e di plastica. «I gabbiani non lo spaventavano e per questo era il capo», suggerisce la portiera che qui vicino m’imbecca (forse è gabbiana?), «allora gli altri si sono rizzati e l’hanno raggiunto», e tutti insieme hanno infilzato le nuvole. Ora sono lontani. Giusto uno stormo di neonati può volare lontano così. Credo vadano talmente veloci da precedere la vita assegnata, ossia che superino le biografie e quanto faranno e in chi cresceranno; già lo sono e lo fanno, prima di esserlo; perché rapidissimi. Hanno attitudini da troposfera, forse da sprawl. Con la donna poi sono sceso in cantina, non so il motivo, a pernottare in eterno, e qui ho scoperto che lei dev’essere un geco: succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna – succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna – succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna (ad libitum)…

Entri in scena la compagnia che rappresenta i miei sogni. In un teatro di provincia della psiche, ed è notte. Palco e sedili sono di sughero. Il sipario è di carta di riso. Il primattore è il suggeritore. Il regista vende i biglietti. I personaggi appariranno stonati, sfocati. Non loro. Loro. Non il mio gatto. Il mio gatto. Non l’amica, la madre, il padre. L’amica, la madre, il padre. La piccola compagnia non s’immedesima né strania, piuttosto usa il metodo dell’impaludarsi. Gli attori anche sono di sughero. Gli abiti di scena son sugherati. Gli attori in realtà sono di soia. È noto che la soia è doppiogiochista. La soia è capace di sembrare un hamburger (non è un hamburger). Nella periferia dei teatri dei sogni, dov’è in scena il mio sogno, la soia è il gatto, l’amica, il padre, la madre. Ma la soia non è il gatto né il padre. Materna non sarà mai, la soia. Sospetto che il primattore, il suggeritore, sia di sushi; il più falso dei cibi. Non puoi impersonare il padre col riso, le alghe, il mirin, il salmone. Il padre era crudo, ma non così crudo. La compagnia si condanna indigeribile alla periferia dei teatri dei sogni. In città non ci arriva. Reciterà per sempre tra i sugheri. Questa notte, domani notte e poi ancora. Col sapore di soia da filodrammatica. Nel più parrocchiale dei sogni, io non crederò al mio ennesimo sogno. Vedo la toga del prete. Vedo la gonna al ginocchio della parrocchiana. Sughero, soia, sushi? Compagnia, la vita passa per la cartilagine, le ossa, la carne. Non sei verosimile. Compagnia dei miei sogni: vuoi debuttare in città?, vuoi i sedili di stoffa?, il velluto al sipario? Prova a convincermi. La verità può convincere, e indossa la carne. Qui c’è il tuo impresario, il tuo pubblico, io. Mostrami il gatto. Il gatto davvero.

Stelle, isole, borghi (seconda parte)

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di Francesca Matteoni

(QUI la prima parte)

dentro la torre

 

“(…) how crude and jaunty my own theories were beside his; indeed I got a tremendous sense of the intricacy of his art; also of its meaning, its seriousness, its importance, which wholly engrosses this large active minded immensely vitalised man”. VIRGINIA WOOLF su WILLIAM BUTLER YEATS

Lessi W.B.Yeats per la prima volta a causa di mia madre, durante una vacanza estiva di pochi giorni in montagna – un soggiorno premio vinto per un concorso scolastico di poesia. Ero sedicenne e infelice. Ricordo che mi detestai per aver scritto quei versi ed essere finita in un posto dove non volevo assolutamente stare, che non erano i miei monti d’origine e dove mi crescevano rabbia e imbarazzo ogni volta che qualcuno dello staff della residenza sottolineava quanto dovessi essere sensibile, per scrivere poesie. Però ci incontrai Yeats. Mia madre aveva preso a leggere molta poesia, abitudine che di lì a pochi anni abbandonò per tornare ai romanzi ed ai saggi di fisica e matematica. Mi disse che questo poeta che affrontava ora era molto strano, ma gli piacevano i gatti e quindi doveva essere uno in gamba. Il suo libro era tutto chiosato a lapis di note e punti interrogativi. La poesia a cui lei si riferiva era Il gatto e la luna – Vuoi ballare, vuoi ballare Minnaloushe?

Il selfie, o del passaggio al discorso diretto nella narrazione dell’io attraverso le immagini

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di Ornella Tajani

It’s a new world, so make sure
Should you go on tour to Greece or New York or the Fens
To be in the swing:
Never look at a thing
Except through a camera lens

– The Entertainment of the Senses, W.H. Auden, 1973

Premessa e discrimini

Col boom della Apple anch’io ho comprato un Mac e ho scoperto quella subdola lusinga alla vanità che è Photobooth: il programma collegato alla webcam del computer con cui scattarsi foto all’infinito usando una varietà di effetti e filtri grazie ai quali raggiungere l’immagine ideale, provando e riprovando finché la faccia in questione non somigli a quella desiderata.

Stelle, isole, borghi (prima parte)

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di Francesca Matteoni

Robert Ingpen, Neverland

isole

“Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino” è la celebre indicazione che Peter Pan, il bambino che non crescerà mai, grida ai tre fratelli Darling in volo per l’Isola Chenoncè. La frase naturalmente non ha alcun significato (come ci tiene a precisare l’autore del libro, ma con il tono beffardo di chi la sa lunga), è solo la prima cosa saltata in mente allo straordinario ragazzo che ha tutto il tempo e nemmeno un attimo da regalare a ciò che non sia puro entusiasmo e avventura. Eppure nessuna direzione è più adatta per un luogo che non esiste, dove si arriva solo da bambini, cadendo piano talvolta nei sogni e nel loro garbuglio di cose note d’improvviso fatte improbabili, di terrori e storie capovolte, interrotte bruscamente dalla visione successiva o dal rumore della sveglia. A destra di cosa? Seconda in quale fila a partire da quale punto di riferimento? E soprattutto quale stella, quella non più grande di un mappamondo, fredda e luminosa, dietro cui Peter si nasconde, o quella distante migliaia di anni luce, già morta e ancora brillante, essa stessa un paese inventato, immaginario?

La Punta della Lingua – Poesia Festival (IX ed.)

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Ancona e Parco del Conero, 24-29 agosto 2014

domenica 24 agosto

Portonovo, Chiesa di S. Maria

ore 18.45: Reading di Durs Grünbein

 

Portonovo, La Capannina

ore 20.00: Cena a buffet

 

Portonovo, Chiesa di S. Maria

ore 21.30: Poeti da antologia

Reading di Milo De Angelis
Interventi musicali Cesare Malfatti (La Crus)
Introduce Massimo Raffaeli
In collaborazione con FAI Marche

 

lunedì 25 agosto

Portonovo, Parco Hotel La Fonte

ore 18.45: Donne di parola | Le Marche della poesia
Presentazione dell’antologia “Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche” (ed. Vydia. 2014), a cura di Cristina Babino.

 

Portonovo, Parco Hotel La Fonte

ore 20.00: Cena a buffet
In collaborazione con Slow Food Ancona e Conero

 

Portonovo, Auditorium Hotel La Fonte

ore 22.00: Facebook Poetry
Laboratorio telematico di poesia in diretta mondiale, su Facebook.

 

martedì 26 agosto

Ancona, Auditorium Mole Vanvitelliana

ore 18.30: Cambiare canale? Dal Gruppo 63 a Blob
Angelo Guglielmi, Enrico Ghezzi e Antonio Rezza festeggiano il 51° anniversario del Gruppo che sconvolse le Patrie lettere e il 25° compleanno della trasmissione più poetica della TV. Introduce Andrea Cortellessa.

 

Ancona, Corte Mole Vanvitelliana

ore 21.30: 7-14-21-28
Spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
di Flavia Mastrella Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
(mai ) scritto da Antonio Rezza
habitat di Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
consulente tecnico Mattia Vigo
organizzazione Stefania Saltarelli
produzione RezzaMastrella – Fondazione Teatro Piemonte Europa – TSI La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello
In collaborazione con Marche Teatro

 

mercoledì 27 agosto

Ancona, Arco di Traiano

ore 18.30: Poesia e lavoro
Presentazione di «Semicerchio. Rivista di poesia comparata» (ed. Pacini, 2013)
e dell’antologia «How beautiful it is… (?)». Epifanie del lavoro nella poesia italiana di oggi
a cura di Fabio Zinelli
con Francesco Stella (direttore della rivista)
Letture di Vito M. Bonito, Franca Grisoni, Franca Mancinelli, Luigi Socci e altri poeti dell’antologia,
interviene Pierpaolo Pullini, operaio della Fincantieri.
In collaborazione con FIOM Cgil Ancona | Marche Teatro

 

Ancona, Trattoria Da Irma

ore 20.00: Cena a buffet

 

Ancona, Arco di Traiano

ore 21.30: La poesia che si vede (omaggio a Luigi Di Ruscio)
Andrea Cortellessa e Angelo Ferracuti presentano il volume “Romanzi” di Luigi Di Ruscio (ed. Feltrinelli, 2014) da loro curato. A seguire la proiezione del film documentario “La neve nera. Luigi Di Ruscio a Oslo, un italiano all’inferno”. Intervengono il regista Paolo Marzoni e il co-sceneggiatore Angelo Ferracuti.
In collaborazione con FIOM Cgil Ancona | Fondazione Marche Cinema Multimedia | Marche Teatro

 

giovedì 28 agosto

Ancona, Auditorium “Polveriera” – Parco del Cardeto “Franco Scataglini”

ore 18.30: La poesia che si vede (omaggio a Franco Scataglini)
Proiezione di “Stella vermiglia”, un video-ritratto di Franco Scataglini, realizzato da Stefano Meldolesi.
Introduce: Massimo Raffaeli
Testimonianze e letture

 

Ancona, Corte Mole Vanvitelliana

ore 21.30: Poetry Slam / Sfida all’ultimo verso
Con: Davide Barca (Ancona), Alessandra Carloni Carnaroli (Fano), Gianni Formizzi Opitz (Montertoberto/Konstanz), Andrea Mazzanti (Senigallia), Alfonso Maria Petrosino (Salerno/Parigi), Clara Vajthò (Torino), Fabrizio Venerandi (Genova)
Maestro di Cerimonia: Sergio Garau
Ospite d’onore: Laura Wihlborg (campionessa nazionale svedese)
In collaborazione con LIPS (Lega Italiana Poetry Slam)

 

venerdì 29 agosto

Portonovo, Le Terrazze

ore 18.45: Le lingue degli Italiani / Le Marche della Poesia
Letture di Nino De Vita (Trapani) e Emilio Rentocchini (Modena)
e con Gianluca D’Annibali, Francesco Gemini, Germana Duca Ruggeri, Andrea Mazzanti, Francesco M. Serpilli.
Presentazione de L’italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila (ed. Gwynplaine, 2014), a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Giuseppe Nava, Rossella Renzi, Christian Sinicco.

 

Portonovo, Hotel Fortino Napoleonico

ore 21.30: Federico. Vita e mistero di Garcìa Lorca
Spettacolo di e con Maria Pilar Pérez Aspa
In collaborazione con AMAT

 

QUI IL PROGRAMMA COMPLETO

 

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Tutti gli eventi sono a ingresso libero tranne:
7-14-21-28 € 15 (numerati) / € 10 (non numerati)
Federico € 5 / € 18 con cena

prevendite 7-14-21-28: Marche Teatro, tel. 071 52525
da lunedì a venerdì, 17-20, un’ora prima dello spettacolo sul luogo dell’evento

prevendite Federico: AMAT, tel. 071 2072439
da lunedì a venerdì, 16-20, un’ora prima dello spettacolo sul luogo dell’evento

Per tutti gli eventi è disponibile un servizio a pagamento di babysitting in loco
su prenotazione (24 ore prima): www.latanasultetto.it, tel. 340 5046737 / 366 4615910

In caso di maltempo, gli eventi all’aperto si svolgeranno al chiuso.
Consultare il sito www.lapuntadellalingua.it

Cene a buffet € 15

prenotazioni La Capannina 071 801562
prenotazioni Hotel Excelsior La Fonte 071 801470
prenotazioni Da Irma 346 9635336
prenotazioni Hotel Fortino Napoleonico 071 801470

Soggiorni convenzionati, sponsorizzati da Trivago:
Hotel Excelsior La Fonte www.excelsiorlafonte.it 071 801470
Hotel Fortino Napoleonico www.hotelfortino.it 071 801450
Grand Hotel Palace www.hotelancona.it 071 201813

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LA PUNTA DELLA LINGUA – POESIA FESTIVAL (IX EDIZIONE)
Ancona e Parco del Conero, 24-29 agosto 2014

organizzazione: Nie Wiem
co-organizzazione: Comune di Ancona
direzione artistica: Luigi Socci & Valerio Cuccaroni
con il contributo di: Comune di Ancona | Ancona Estate 2014 | Regione Marche
in collaborazione con: AMAT | Marche Teatro
con il patrocinio di: Ministero dei Beni e delle Attività culturali – Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici delle Marche – Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici delle Marche | Parco del Conero | Provincia di Ancona | Slow Food Ancona e Conero
grazie a: Arci Ancona | Autorità Portuale Ancona | La Capannina | Consorzio La Baia di Portonovo | FAI Marche | FIOM Cgil Ancona | Fondazione Marche Cinema Multimedia | Grand Hotel Palace | Hotel Fortino Napoleonico | Hotel Excelsior La Fonte | Libreria Feltrinelli Ancona | LIPS | Osteria Strabacco | La tana sul tetto | Trivago
media partner: Argo | Corriere Proposte | Urlo | Why Marche

Info: www.lapuntadellalingua.it | lapuntadellalingua@niewiem.org | 377 2175617
La Punta della Lingua è anche su Facebook: www.facebook.com/groups/lapuntadellalingua
Su Twitter (@argoproject) e YouTube (canale Argonline)

 

les nouveaux réalistes: Giorgio Mascitelli

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bac-lave-tete-angels-bay-roseForse le rose non si usano più

di

Giorgio Mascitelli

 

Si dà il caso che io e il mio barbiere di fiducia siamo molto interisti in una via di milanisti perdipiù e quando mi taglia i capelli ci piace di parlare con compassata competenza dei casi presenti e passati della nostra squadra del cuore e dei modelli delle automobili, sebbene io non ho la patente, né il cuore di dirglielo, e meno di frequente della follia delle femmine e dell’infingardaggine dei politici, senza essere disturbati da nessuno. Quella settimana però la sua bottega restava chiusa per motivi di forza maggiore e io avevo urgentemente bisogno d’essere quaffato perché si era d’ottobre e desideravo recarmi all’Oktoberfest con la testa a posto che quando scopersi sul posto che essa si teneva a settembre veramente mi dissi che il mondo m’aveva eletto a suo zimbello ingannandomi con questi trucchetti non degni di lui.

Non c’era altra soluzione che recarmi nel non lontano salon pour dames e chiedere un’eccezione alla loro regola per via della contingenza sfavorevole pregandole come avrebbe rivolto la preghiera il pellegrino canuto e stanco colto per strada dalla tempesta a una clausura. L’intelligenza del mio cuore mi diceva che lo spazio che mi separava dal salone non era certo quello topografico delle due strade che intercorrevano, ma l’ottusità della mia fretta la tacitava volgarmente.

Quale empio soldato con il brando sguainato penetrante nel tempio delle Vestali, così mi guardarono le attempate clienti e le alacri lavoranti, allorchè varcavo la soglia, ma la signora Lucia, la patronne del salone, non era donna da smarrirsi per così poco e mi squadrò senza alcuna agitazione e senza nemmeno dire il ‘ desidera?’ di prammatica.

⁃        Chiedo scusa per l’intrusione, ma il mio barbiere qui vicino è chiuso e avrei urgentemente necessità di tagliarmi i capelli, non è che potreste voi? E so per certo che ad Amsterdam ci sono delle barbiere.

Fui invece io a parlare spontaneamente, ma aggiunsi quel riferimento ad Amsterdam per far capire che non mi si poteva menare per il naso, che ero un uomo di mondo ( in effetti ero gà stato tre volte ad Amsterdam sfruttando le tariffe scontate nel terzo fine settimane dei mesi invernali della compagnia aerea di bandiera dopo una folgorazione giovanile in occasione di una gita scolastica). Senza scomporsi la signora Lucia mi rispose:

⁃        Per tagliarla non c’è problema: ho giusto un buco tra mezz’ora, ma non posso farle la barba perchè non ho il rasoio a meno che non voglia farsi fare la ceretta-. Disse sorridendo

⁃        Grazie solo i capelli, non mi serve la barba perchè quest’anno la si porta un po’ sfatta, lievemente trascurata..

⁃        Ma non nel suo caso perchè si vedono troppo i peli bianchi.

Mi fece accomodare senza aggiungere altro e mandò una ragazza nel retro, dal quale tornò consegnandomi una copia intonsa di quel giorno della Gazzetta dello sport, sorprendendomi, gratificandomi e nel contempo deludendomi un po’ perchè già mi aspettavo di sfogliare qualche rotocalco femminile sul quale poter scaricare qualche facezia silenziosa a proposito di qualche eccentricità letta lì solitamente salutistica di qualche celebrità.

Fui informato che in via del tutto eccezionale, ma io ero a mio modo un cliente eccezionale, avrebbe provveduto sia al lavaggio sia all’haircutting vero e proprio la medesima Lory in deroga alle abituali regole del salone che prevedevano una rigida distinzione tra cutter e washer. Avevo cominciato a chiedermi cosa significasse questo provvedimento nei miei confronti se fosse un trattamento di favore o piuttosto un oggettivo ostacolo all’effettiva realizzazione del principio della piena parità tra sessi nell’accesso all’erogazione dei servizi a pagamento o gratuiti. Ma quando condotto nell’apposito spazio lavatorio sentii i polpastrelli della Lory comprimere delicatamente la mia cute sotto il cuoio capelluto, desiderai istantaneamente che scoprisse delle incrostazioni di calce o meglio di vernice, come avrebbero un pittore o un imbianchino della Rive Gauche, sui i miei capelli così da ripetere tre, quattro anche cinque volte l’operazione dell’insaponamento. Il piacere del massaggio agiva in profondità, riattivava le mie sinapsi, ridestava pensieri sopiti e mi sembrava di cogliere con più lucidità non solo i piaceri fisici ma anche le altezze spirituali. Intesi con la coda dell’orecchio, per così dire, la signora Lucia che diceva a una vecchia cliente che gli uomini infondo sono creature semplici e aveva ragione, solo che il mondo dentro e fuori di me è così complesso da intorbidirmi la genuina semplicità ( il mondo è come l’agnello che intorbida l’acqua alla quale si abbevera il lupo nell’omonima favola).

Purtroppo i miei capelli erano solo moderatamente grassi e il tempo del lavaggio era ineluttabilmente terminato, con ciò era terminato il tempo del piacere assoluto omologo a quello dell’infanzia, come dimostrava la circostanza che in entrambi non si era capaci di parlare. La Lory mi fece accomodare su una poltroncina in altro punto del salone. Era una bella ragazza, forse un po’ troppo magra per chi come me, o come la maggior parte, ama aver qualcosa sotto da toccare. Ma il tempo delle parole era giunto. Così lei mi disse che avevo i capelli stanchi e questa cosa che lei affermasse qualcosa che serviva ad affermare la mia inerzia mi piacque immensamente. Così a mia volta le dissi che era molto gentile e lei rispose che la cortesia nei confronti del cliente era lo stile della ditta. Poi mi descrisse a lungo le vie tortuose per le quali il capello si stanca e   io quelle per le quali il mio cuoricino s’affaticava. Ma il tempo, questo tetro sovrano, aveva deciso di por termine anche ai piaceri del linguaggio e dovevo congedarmi dalla Lory perché il taglio si era ormai concluso.

Questo distacco mi pesava una cifra, così che non feci attenzione nemmeno a quella che dovetti sborsare quale mercede legittima per la sua opera, ma mi aveva tagliato bene. Eppure prendere la via dell’uscita, salutarla e ringraziarla mi pesavano indicibilmente. Ma al momento non c’erano altre vie.

Tutta la sera successiva mi chiesi come tornare a parlarle. Passai una notte insonne, salvo le sette otto ore centrali e al mattino mi risolsi a mandarle un mazzo di rose rosse accompagnato da un biglietto nel quale le esternavo la mia convinzione che tra di noi fosse accaduto qualcosa di intenso, che era difficile spiegare con parole, sebbene le parole ci fossero state e non prive di una loro profondità, ma era nel tocco delle sue mani che si trovava il nostro piccolo segreto, allora mi chiedevo se sarebbe stato possibile trasformare quel piccolo segreto in un grande evento, anzi in un evento assoluto. Fu a mezzogiorno che a stretto giro di posto ricevetti un controbiglietto nel quale la suddetta esprimeva tutta la sua sorpresa perchè mi ero permesso di attribuire alla sua cortesia professionale un valore intimo scambiando dei convenevoli per l’espressione di un mondo interiore, il suo, che non conoscevo, come potevo essere stato così banale?

Non mi restava che partire per l’Oktoberfest. Forse avevo venduto la pelle dell’orso prima di averla in mano o forse mi ero fatto un viaggio mentale, ma intanto mi attendeva quello fisico, reale, eccitante, o forse le rose non s’usano più.

diario triestino

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di Antonio Sparzani

targhe Saba Joyce

Seduto al caffè, in mezzo a tanti, un affollato pomeriggio di agosto, non caldo, ventilato appena, guardo la gente: sia quelli che stanno seduti nelle mie vicinanze – una famigliola con un ragazzetto down che combina qualche disastro, ma sempre assecondato da sorrisi compassionevoli da genitori e loro amici bene addestrati – sia quelli che passano tra i tavolini e il marciapiede dell’altro lato. La strada è quella che da piazza della Borsa conduce a piazza Unità d’Italia, quella straordinaria piazza che da tre lati ha sontuosi absburgici palazzi e da un lato il Golfo. Il golfo di Trieste, in tutto il suo splendore, a perdita di vista.
In verità aspetto, o mi fingo di aspettare, che passi una persona che ben conosco, che provenga da piazza della Borsa, lui ha casa più in alto; io non l’ho mai vista la sua casa, lui è geloso e discreto, scrittore piuttosto famoso difende la sua privatezza. È del tutto irragionevole aspettarsi che passi, sarà in vacanza lontano, o forse solo a Cherso, dove spesso va. È così irragionevole che scruto le facce dei passanti, mi dico guarda che forse è lui, guarda che tu non sei fisionomista, non hai la vista acuta, fai fatica a riconoscere, magari è quello lì e non te ne accorgi, guarda meglio, e allora guardo meglio, mi ripasso in mente il viso del mio amico e lo confronto, no, decisamente non è lui; è la triestinità che mi inganna. Ma la triestinità si scorge nei visi delle persone? Non so più, qualche volta mi pare di sì, signore altere e scontrose, sorrisi appena accennati, tristezze che guardano lontano. E poi bisogna persuadersi che anche l’impronta di una città che abbiamo calda nel cuore cambia inesorabilmente nel tempo.
La libreria antiquaria che fu di Umberto Saba (l’immagine che vedete all’inizio proviene da lì) è chiusa, mi dicono per “lavori in corso” – nessuno sa niente di preciso; rimane, in via Dante Alighieri, il bronzo di Saba che sembra muovere un passo in avanti, un passo accennato e non portato a termine: era lui che diceva della scontrosa grazia.
Ma il famoso personaggio che insensatamente aspetto, malgrado tutte le mie divagazioni, non passa, starà immaginando qualche nuovo libro dopo i tanti già scritti. È stato infatti dopo la lettura di uno dei suoi primi che non ho resistito alla tentazione di scrivergli e di chiedergli un incontro. E lui subito, generoso, aperitivo al Tommaseo, uno dei luoghi sacri delle triestine lettere. Quella volta mi parlò del dolore per la perdita della moglie, che ancora lo dilaniava e, così semplicemente aggiungeva, sempre più al passare dei giorni di mancanza.
Oggi l’ho invece cercato al caffè San Marco, poco sotto al Giardino Pubblico, popolato dei busti dei triestini e delle triestine, più o meno famosi. Anni fa al San Marco sedetti al tavolino in compagnia di Giorgio Voghera, scomparso nel 1999, notevole scrittore, molto probabilmente l’autore (anonimo triestino) de il Segreto, Einaudi 1961: mi parlò sobriamente della sua vita, confessando tra l’altro qualche delusione per il comportamento di Susanna Tamaro nei suoi confronti, ma con grande, e ammiccante, bonomia. È in questi luoghi che si colgono talvolta dei flash che aggiungono qualche colore inedito alle storie delle patrie lettere.
Ovviamente oggi al San Marco non c’è il famoso scrittore che cerco, in compenso ci sono molti suoi libri, perché il caffè adesso è Caffè-libreria, con un’ampia esposizione, di molti generi, naturalmente con un ampio spazio alla triestinità. Davvero un’anima di frontiera si percepisce qua intorno, ma di frontiera smussata, senza salti bruschi, ti parlano in triestino o in sloveno, ma il tono è lo stesso, un po’ complice e un po’ condito da uno sfrontato sorriso.

les nouveaux réalistes: Keith Botsford

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Caro,
Je ne suis pas un nouveau réaliste mais un réaliste depuis mon enfance. Collaboration est le plus court, le plus lu, et le plus populaire et direct de mes romans. Je serais très content de voir paraître un extrait dans ta série. La traduction est de Bianca Harvey K

EdONJlhvWrcvrsNw83jUDWWrl2ZtXKKXqfXfKlqnboQjCoLIa1vGIfKzhppJnChD-V-qYmOdJxqWL02LF6VvVfVKbkmWFU8gK81gPrXEL1XObiWUufrOTgQqgNpU1An3Wgry=s0-d-e1-ft-1da Collaborazionismo
di
Keith Botsford
traduzione italiana di Bianca Harvey
dal primo capitolo – Ansia
La natura non ha plasmato l’uomo o l’animale per essere perdente. E infatti vigila sul predatore non certo sulla preda.
Per quanto, poi, gli esempi di sconfitta non si contino: venire respinti con durezza dalla persona amata, o colpiti e tramortiti da un qualche malvivente, veder dare in pasto alla stampa  i segreti più intimi della propria anima, scoprire che i propri figli tramano per affrettare la tua dipartita,  divorziare e – naturalmente – la morte stessa. Tutto questo vale anche per i popoli e le nazioni. Ed è verità universalmente nota che nessuno ricorda il nome di chi ha perso.
La Francia – sotto l’occupazione tedesca, tra il 1940 e il 1945 – si trova proprio nella frustrante posizione del perdente. Perchè la conseguenza principale della sconfitta – al di là dell’indignazione e della vergogna – è lo sfinimento. Sfinimento fisico, morale e spirituale. Il perdente, infatti, esce dal conflitto stremato, in primo luogo dall’enorme sforzo sostenuto per cercare di non farsi sopraffare poi, una volta sopraffatto, dal logorante tentativo di sopravvivere e di tornare ad essere quello che era un tempo.
Il risultato più frequente di una disfatta è, come sappiamo, la rivoluzione. Nauseata dal comportamento di chi la governava,  attratta da proclami e ideali o manipolata da furbi artigiani  di un nuovo potere, la massa amorfa del popolo tende a voler prendere in  mano il proprio destino.
Gli eventi che mi accingo a raccontare trattano poprio di questa realtà/verità in un luogo e in un tempo specifico: la Francia in quegli stranianti 30 mesi tra l’estate del ’44 e l’inverno del ’46, (“anni da cani”, i più duri della guerra)
Ero giovane allora e prestavo scarsa attenzione a quanto avveniva intorno a me. La mia professione era la legge e la legge, si sa, è lenta a mettere a fuoco o a incoraggiare i cambiamenti. Avevo 20 anni quando fui richiamato, nel giugno del 1940 ed ebbi un ruolo del tutto passivo nella disfatta. I quattro anni che seguirono furono per me come un brutto film noioso. Se guardo indietro oggi, quello che vedo è una sorta di apatia diffusa, come osservare una scena attraverso un vetro appannato o una cortina di pioggia, come ascoltare insulse discussioni tra adulti. Per quanto concerne la Vita in sé, c’era poco che potessimo fare. I bambini a scuola cantavano canzoncine al Maresciallo ogni mattina. Non penso che sapessero molto di lui, ma ai bambini piace cantare. E il canto allarga i polmoni.
Il Maresciallo – stando a Bernard Ménétrel – suo medico personale, figlioccio e confidente – era un uomo vecchio. La sua faccia di contadino, dura e poco espressiva, dall’ossatura sporgente e dalle strane sfaccettature, ricordava una di quelle muracche a secco che dividono i pascoli nelle campagne, e si vedeva dovunque.
Piuttosto che abitarla, sembrava  darla in prestito perchè fosse usata sui francobolli o affissa sui manifasti di propaganda, dove appariva sempre sereno ma determinato. I baffi erano il segno distintivo delle persone pubbliche a quei tempi. Le ragazze si chiedevano che effetto avrebbe fatto  sfiorarli con le labbra e intere popolazioni li adottarono come marchi di fabbrica: baffi alla Hitler, alla Stalin, alla Pétain. Erano il tocco facciale emblematico delle idee sostenute. Quelli di Pétain erano tra i più semplici. Non morbidi, però, anzi militareschi.
collabosIl dottor Ménétrel non portava  baffi. Il suo era un viso borghese, ben nutrito e liscio, ma anonimo, come un vestito preso dalla gruccia di un negozio di moda pronta. Era una faccia carnosa, specialmente intorno alla bocca. Gli occhi scuri, un po’ velati avevano un leggero strabismo.
La normalità, la routine con cui inizia la storia che mi accingo a raccontare non descrive la realtà:  governare, come si sa, comporta una continua ripetizione di atti.  I  membri di un governo non fanno che incontrarsi a   scadenze regolari e parlare. In  tal senso  questa mattina è una mattina tipica e potrebbe svolgersi in qualsiasi altro momento o altro luogo. Per esempio che il capo dello Stato, il Maresciallo Pétain, incontri i suoi collaboratori alle 10 del mattino, è cosa del tutto normale. Ma questa volta tutto ciò non avviene aVichy, bensì in uno del lungo elenco di castelli requisiti, nei quali lui e il suo entourage vengono via via spostati dai padroni tedeschi.
E gli spostamenti, quelli no, non sono affatto normali.
Due soldati tedeschi sono ritti sulla porta della stanza appena riaperta. Nonostante il caldo l’ambiente emana odora di muffa. Insieme ad altri odori, il più pungente dei quali è certamente quello della sconfitta. La sconfitta ha un odore specifico. Come quando da bambino, nel cortile di scuola, stai per essere malmenato da compagni violenti. Un odore di urina non trattenuta, di paura mista a vergogna. Il Maresciallo non ha alcun odore. Egli non riconosce la sconfitta, sebbene se ne senta circondato. Il dottor Ménétrel, un giovane sui trentacinque, cammina su e giù per il corridoio fuori della stanza. Di solito egli è dentro la stanza, sempre accanto al Maresciallo. Anche questo è un segno del mutamento delle circostanze di cui, anche se teso e seccato, egli si rende acutamente conto.
 Ménétrel è sempre stato  accanto al Maresciallo dovunque egli fosse, perchè a lui è affidata la cura della salute fisica del capo dello Stato. E mantenere il Maresciallo vivo è importante per tedeschi perchè è attraverso di lui e attraverso Pierre Laval, nell’altra metà della Francia occupata, che essi riescono a tenere la popolazione tranquilla, sottomessa e in totale apatia. Ora Pétain viene trascinato da una castello all’altro: Vichy non è più così sicura. I castelli sorgono al centro di parchi circondati da alte mura. Qui è più facile proteggerlo.
Ma nel percorso da un castello all’altro, secondo quanto ricostruisco dai diari e dai quaderni del dottore, Ménétrel e gli altri attraversavano piccole cittadine e talvolta grandi città. E quanto apparivano solide al dottore quelle antiche città. Quei quartieri eleganti che nel secolo precedente erano stati costruiti da gente prosperosa, sicura e in possesso di una  chiara visione del proprio futuro. All’interno entrate spaziose si aprivano  su grandi sale dagli alti soffitti, dove  famiglie si erano riunite per i  pasti generazione dopo generazione e le innumerevoli stanze da letto  testimoniavano la fiduciosa attesa di bambini a venire. Gli edifici erano gli stessi, ma quanto  diversi gli abitanti: scontrosi, impauriti, apatici e annoiati.
collabo
Soltanto nella campagna l’antica Francia era ancora evidente. Lì piccoli rivi si riversavano in fiumi più grandi, vecchi pescavano con lunghi pali, le colline si confondevano dolcemente l’una nell’altra, il bestiame pascolava pacifico. Anche il villaggio più umile possedeva fattorie e chiese costruite in pietra tagliata a mano secoli prima. Luoghi dove era ancora possible incontrare preti in tonaca nera che portavano il viatico, seguiti  da chierichetti vestiti di bianco, che stringevano in mano una campanella, proprio come un tempo aveva fatto Bernard.
Quello che avevano perso, si rendeva ora conto il dottore, era un luogo enormemente ricco e ben curato. Un luogo che aveva raggiunta la perfezione di un mattone levigato o di una pagnotta ben fatta. E poche erano le probabilità che  almeno parte di quella solidità sopravvivesse.
Il dottore vide il Maresciallo uscire dalla riunione mattutina. Aveva l’aria pessimista. “Si andrà avanti così per sempre” disse al suo figlioccio.”Non sono in grado di predire il futuro, ma sento che non ci porterà nulla di buono”.
In serata furono spostati in un altro castello. Una cosa sembrava certa: nella disfatta anche il temporaneo diventava routine.

 

 

 

“ABOUT GAZA” di Simone Camilli e Pietro Bellorini

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[ sub ITA ]
Le immagini girate da Simone Camilli restano in tutta la loro forza e delicatezza, nell’attenzione per i volti, i suoni, nel time-lapse del tempo che scorre via in anni lunghi di ingiustizie e sofferenze, nelle voci e nelle loro storie piccole.

Dieci dicembre

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saundersdi Gianni Biondillo

George Saunders, Dieci dicembre, minimum fax, 2013, 222 pag., traduzione di Cristiana Mennella

 

Perché la letteratura più cool angloamericana fa a gara per lodare l’opera di un autore di short stories come George Saunders? Che siano Jonathan Franzen o Zadie Smith, Thomas Pynchon o Dave Egger, il giudizio non cambia: l’autore texano è unanimemente considerato un talento immaginifico potente e originale. La risposta alla mia domanda credo stia – prima ancora che nelle storie – nella lingua dell’autore, come si può chiaramente notare in questa raccolta di racconti intitolata Dieci dicembre.

Lingua plastica, complessa, attenta al parlato gergale e allo stesso tempo alle tonalità alte, culte. Con un passo lento e vorticoso, anzi, labirintico. Accettare questa scrittura permette di farsi catturare dai lacci della scrittura, accettare le storie che vengono raccontate. Che siano avvenimenti in fondo di cronaca spicciola – un tentato rapimento andato malamente – o di pura immaginazione paranoica – laboratori scientifici che inoculano farmaci che mutano la personalità dei pazienti –  ogni storia si regge non su quello che viene raccontato ma sulla modalità letteraria imposta dal narratore. Lingua all’apparenza ammiccante ma in realtà prepotente e, in ogni racconto, spiazzante.

Capita al lettore, praticamente in ogni storia, di non capire cosa stia succedendo per buona parte dello svolgimento narrativo. Lo scrittore si sofferma su particolari insignificanti, oppure elide volontariamente un verbo ausiliare, o si insinua su arrovelli del pensiero, tormenti della psicologia, nascondendoci la chiave d’accesso. Si entra ed esce di continuo nei flussi di coscienza dei vari personaggi, saltando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. Laddove non si trovi il varco per capire gli avvenimenti bruti aleggia comunque uno stato di inquietudine che si ripete identico in ogni storia. Persino l’umorismo, e ce n’è molto in questa raccolta, non basta a stemperare l’irrequietezza che procurano questi racconti. Affascinanti, anche per l’attenzione che richiedono al lettore.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 48 del 26 novembre del 2013)

les nouveaux réalistes: Silvia Tessitore

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Tre ragazze – per me – posson bastare

di

Silvia Tessitore

Il vento riscattava assai blandamente la calura. Giorno da cani e gatti all’ombra, sieste messicane e state in casa, bevete molto, mangiate frutta e verdura, evitate sforzi inutili. Avrebbero potuto fermarsi ancora un poco e invece ripartirono, le guaglione, con pane e salame e una bottiglia d’acqua fresca per sciropparsi altri quattrocento chilometri sotto un sole assassino, dopo quelli dell’andata.

Tre giorni e due notti, un distillato di salvezza.

Tre giorni e due notti, un’autentica bellezza.

Erano i giorni dell’uccello di fuoco (avevano spesso sfidato per me piene, alluvioni, neve e altri disastri meteorologici), ma anche quella volta i miei tentativi di convincerle a trattenersi, a concedere parca revoca ai rispettivi impegni familiari, furono perfettamente inutili. Neanche il paradiso dove vivevo pro tempore le convinse, come potevano riuscirci le mie povere forze? per giunta fiaccate – seppure in modo non grave – da una fresca crisi di rigetto verso un ospite che s’era rivelato assai meno squisito di quanto ambisse credere e mostrarsi, e che subito fu ribattezzato – per allegra brevità – ‘o malommo.

Tre giorni e due notti, cólte e sul più bello.

Tre giorni e due notti, e chest’ va per chéll’.

 

Il loro arrivo era già programmato ma cadde, di grazia, a ridosso della partenza di costui. Morale della favola, la mia piccola pena fu sanata la prima sera, nel corso di un seminario – promosso da Mela e illuminato da Kant, varie candele e molte stelle – dal titolo “Il nostro tempo migliore deve ancora venire”. La discussione fu corroborata dalle più recenti scoperte neuroscientifiche sul cervello nell’età di mezzo, dai nostri duecentosedici anni di saggezza complessiva, da un’apprezzata insalatina di pollo e da un generoso gewurtztraminer alsaziano, tredici gradi e mezzo di puro vigore. Tutti e quattro i colon subirono il colpo, ma reagirono come sempre con coraggio.

Tre giorni e due notti sfidammo gli anticicloni.

Tre giorni e due notti, insidiate – per giunta – da grossi calabroni.

culture-lego-prolonge-trois-jours-30Le nostre infinite colazioni – più che altro, veri e propri brunch – erano il momento della giornata che preferivo, quando eravamo insieme. Chi si alzava per prima stava attenta a non svegliare le altre – Tetta era l’unica a non dare pensiero, coi tappi nelle orecchie non la svegliavi manco coi Pink Floyd a palla. Ciascuna col proprio rituale e le proprie preferenze, ci sedevamo in ordine di levata attorno a un tavolo ed eravamo capaci a restarci per ore. Così facemmo la mattina dopo e quella dopo ancora, in terrazza. Teneva banco il muesli bio che avevo comprato per il mio ospite – dopo averne sondato preventivamente gusti e abitudini (mendaci) – e che il mio ospite, signorilmente, non aveva degnato di alcun interesse: a Nadia piacque tanto, sbolognai due pacchi interi a quella cara donna, regular e alla frutta secca. Io odio il muesli.

Tre giorni e due notti segnarono un passaggio.

Tre giorni e due notti mutarono il paesaggio.

Conoscendo e bene, invece, i gusti delle guaglione, li assecondavo. Avevo comprato dei bei borlotti freschi per farne una zuppa, che sicuramente avrebbero gradito. Mentre ancora fuori girava del caffè e qualcuna già addentava una fresella, i fagioli furono cucinati – per la sera, con pomodoro fresco, aglio vestito e abbondante fiore di finocchio selvatico, che rilasciò un aroma soave, più d’un incenso. Nadia, vestale premurosa, sparecchiava, puliva, lavava, rigovernava la nostra pigrizia. Il prezioso Olio degli Angeli, dalla spiccata fragranza d’agrumi, fu mescolato all’olio di mandorle dolci e – dopo un giro di docce – ci avvolse tutt’e quattro come un balsamo. Concludemmo la mattinata a mozzarella e pomodori, col pane casertano – nostra madeleine, e ci appropinquammo alle brande per la pennica.

Tre giorni e due notti di letizia.

Tre giorni e due notti per rinsaldare, ancora, l’amicizia.

Mela e Nadia, compagne di viaggi intorno al mondo, divisero la camera padronale. Tetta e io il lettone che avevo allestito nel mio studio. Mafalda, la mia gatta, s’infilò tra di noi e accompagnò le nostre chiacchiere col solito repertorio di effusioni. Si resisteva a stento al clima impietoso, malgrado fossimo a 700 metri d’altitudine, quell’estate i meteorologi identificavano le “holas de calor”, come le chiamano in Galizia, con nomi minacciosi e temibili – da Caronte a Nerone, per la sola gioia dei turnisti delle redazioni giornalistiche. In quei giorni imperversava Lucifero, il più insidioso tra i drammi di stagione. Mela, insofferente alla temperatura della controra, piazzò uno dei miei lettini da spiaggia all’incrocio di due finestre, nella stanza di mezzo, e ogni tanto minacciava di chiamare la madre superiora per ristabilire l’ordine in camerata. Ci mettemmo a bisbigliare per non disturbarla, pian piano Tetta si addormentò, io no – avevo perso il sonno.

Tre giorni e due notti ci cullammo, affettuose, nell’ozio.

Tre giorni e due notti, al tramonto una luce topazio.

Tetta – la più vispa di noi, non c’è che dire – avrebbe sfidato il caldo fin dal mattino, pur di uscire. Solo l’opposizione compatta di noialtre l’aveva convinta a desistere, a condizione però che la sera saremmo andate a Talla per un aperitivo. Ma il vicino di casa si fece scappare di una certa qual fiera in un posto a valle e quindi decidemmo di andare a vedere: ma senza fretta. Il posto a valle era Capolona, e non entrava nella testa di Mela: lo chiamava Casalnuovo, Casagiove, Caivano, qualsiasi nome con la C di Campania ma Capolona no. Uscimmo di casa alle otto di sera, arrivammo che la fiera era già bell’e finita e giù dabbasso c’era un calore da impazzire. C’infilammo in un bar per bere qualcosa ma non si resisteva né dentro né fuori. Decidemmo di mettere fine a quella straziante escursione termica e tornare a casa a mangiare i nostri fagioli: in terrazza si stava decisamente meglio. Convenimmo sul fatto che un giro in macchina con l’aria condizionata fosse il migliore aperitivo che potessimo concederci, e rincasammo.

Tre giorni e due notti, donne mie.

Tre giorni e due notti di amene litanie.

M’intestardii nel preparare anche del baccalà: avevo degli ottimi filetti carnosi, puliti e già bagnati, e fritti erano la morte sua. Nadia commentò, laconicamente: “Pare ‘a vigilia ‘e Natale”. Il menù era di quelli da cantina della nostra gioventù, ma fu innaffiato da un Rubio di Montalcino da quattordici gradi che avrebbe resuscitato un morto e che nelle nostre cantine, all’epoca, non avresti mai trovato. Mangiammo come sempre con gusto e appetito, tra discorsi e risate, spazzolammo la zuppa e pure il baccalà. Verso le undici e mezza, quando l’aria fu abbastanza fresca, Mela e io demmo forfait e guadagnammo la posizione orizzontale. Nadia e Tetta se ne stettero sotto la Via Lattea fino all’una passata. I colon, amabilmente allenati alle eccedenze conviviali, accusarono quanto basta la potenza del fagiolo rosso e la forza del vino, all’insegna del motto “o schiatta ‘o verme o more ‘a creatura”, o anche – fosse stato davvero Natale – “si fotte il freddo ma la musica è bella”.

 Tre giorni e due notti durano davvero poco.

Tre giorni e due notti, e un altro battesimo del fuoco.

La mattina dopo la colazione aveva il solito sapore di partenza, e quello non mi piace. Mela, driver della situazione, teneva come sempre in pugno orari e disciplina della truppa, e alle undici chiamò il giro. A mezzogiorno erano pronte a partire, dopo aver preparato le merende e rinfrescato quanto basta la bottiglia d’acqua che le avrebbe accompagnate al primo autogrill. Scattammo un po’ di foto sotto al noce, alla Thelma e Louise, ma in quattro non era proprio facilissimo beccarci tutte e con la faccia giusta. Ovviamente, dal display del telefonino vedevamo poco o niente – con tutto quel sole e la nostra incipiente cecità – toccava controllare dopo, al computer, com’erano venute. Erano bellissime.

Così, le ragazze presero la strada. Con una lacrima che mi ballava negli occhi me ne tornai in casa. Era ancora viva delle loro voci.

[Talla (Ar), 23/25 agosto 2012 / ascoltando Una bellissima ragazza di Ornella Vanoni]

I giovani figli di Marcinelle

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di Angelo Mastrandrea
(da rassegna.it)

foto di Luc Viatour
Foto di Luc Viatour

Caciocavallo stagionato e bruschetta all’olio di oliva, arrosticini a ventisei gradi all’ombra, patatine fritte, insalata con cetrioli e pomodori. Per finire, dolcetto al carbone vegetale con cuore di cioccolato al tartufo. Caffè e limoncello. Solo venendoci di persona si capisce il perché, qualche anno fa, il giro d’Italia ha fatto tappa da queste parti. Marcinelle è ancora oggi una little Italy d’oltralpe, tranquilla come una cittadina del New Jersey ma solo più operaia. Ci vivono i figli e i nipoti dei “musi neri” del Bois du Cazier, e qualche anziano ancora in vita. Sono le seconde e terze generazioni di emigranti, gente con il doppio e a volte triplo passaporto, discendenti delle migrazioni dal sud e dall’est d’Europa che si sono accoppiate fra loro durante il lungo secolo novecentesco.

Il giovane che aveva promesso un pasto frugale è uno di questi. Suo padre lavorava alla miniera e, come tutti gli italiani che arrivavano a Marcinelle, viveva in una baracca a un passo dal lavoro. Ha sposato una donna polacca e avuto due figli. Uno di questi gestisce un piccolo posto di ristoro a un centinaio di metri dai cancelli dell’ex miniera, ormai trasformata in museo e dichiarata dall’Unesco “Patrimonio mondiale dell’umanità”. All’interno c’è un flipper e la cucina è belga-abruzzese: arrosticini invece delle immancabili moules, le tipiche cozze belghe, e patatine fritte. La famiglia è originaria di Manoppello, in provincia di Pescara. Come Camillo e Rocco Jezzi, le prime due vittime italiane di cui si conobbero i nomi, dopo la tragedia dell’8 agosto 1956. E come altri trentotto suoi concittadini.

Dei 262 morti nella tragedia mineraria che sconvolse l’Europa facendo scoprire una schiavitù legittimata dai primi governi italiani del dopoguerra che commerciarono in uomini in cambio di carbone – duecento kg al giorno per ogni lavoratore – ben 61 erano abruzzesi. E Manoppello, un comune che all’epoca contava circa seimila abitanti, pagò il dazio più pesante. Ancora oggi molti italiani rimangono qui. Lo testimoniano le tante bandiere tricolore alle finestre e le facce delle persone che incontri per strada. Avrebbe dovuto essere un’emigrazione temporanea, quella dei nostri concittadini. Invece in tanti hanno messo radici da queste parti e non si sono mai mossi, smentendo quanto scriveva con qualche pregiudizio di troppo, all’indomani della strage, Le peuple, un quotidiano di ispirazione socialista e vicino al sindacato: “Se avesse voluto (il lavoratore italiano, ndr), forse avrebbe trovato, ai margini delle tetre periferie industriali, una casetta e un giardino. Ma lo spostamento gli sarebbe costato e vuole risparmiare molto per restare il minor tempo possibile in Belgio. E poi si sarebbe trovato solo, in mezzo a stranieri, mentre a lui piace sentire cantare nella sua lingua, mangiare le specialità della sua cucina e sfogarsi tra i suoi”. Per questo, concludeva, “accetta di vivere ai piedi dei terreni di scarico, dietro alle mura di vecchi accampamenti dei prigionieri di guerra”, “chiude gli occhi sui canali che scaricano l’acqua sporca del bucato e non vede più la sua baracca coperta di bitume, non sente più il triste odore che sale dall’accampamento”.

Parole che oggi potremmo ascoltare anche alle nostre latitudini, rivolte ad altri migranti. Ma dietro c’era anche dell’altro. Ai belgi non andava giù che gli italiani accettassero di lavorare di più e a condizioni peggiori, facendo regredire i diritti conquistati a fatica. Non si faceva lo sforzo di provare a capire chi erano i nuovi arrivati, da quale contesto provenissero e come venissero selezionati. Come avrebbe potuto, un’emigrazione dai piccoli e poveri paesi dell’Appennino, pensare di stabilirsi in una periferia industriale senza avvertire ancor più lo sradicamento? E in che modo avrebbero potuto farlo persone che non parlavano la lingua locale e che spesso leggevano negli annunci “non si fitta agli stranieri”? Senza considerare che l’alloggio era garantito, alla firma del contratto in Italia, dalla compagnia mineraria. La storia si è peritata di dimostrare il contrario.

Gli italiani, verso i quali la Democrazia Cristiana aveva usato la leva dell’emigrazione per attenuare il problema della disoccupazione e risollevare il Pil con le loro rimesse, non solo non sono tornati indietro ma sono stati artefici di una scalata sociale che tutti in Belgio riconoscono, come dimostra il caso dell’ex premier socialista Elio Di Rupo, anch’egli di origini abruzzesi e figlio di minatori. Quei contadini del nord, per la prima ondata, e poi del centro-sud, sono diventati la seconda comunità di migranti in Belgio, mantenendo radici identitarie molto forti e conservando persino le tradizioni contadine: prima di allora i belgi non conoscevano melanzane, peperoni e neppure il basilico. Gli arrosticini e il caciocavallo del barista di seconda generazione ne sono una testimonianza diretta.

L’ex lager nazista, poi capovolto dai rovesci bellici in campo di prigionia per i soldati tedeschi, oggi si è trasformato: le cantines, baracche di legno dove si viveva ammassati su letti di paglia, senza acqua, riscaldamento né servizi igienici, sono state abbattute e trasformate nelle casette basse in mattoncini tipicamente belghe, e così le “case di ferro”, come chiamano da queste parti i terribili hangar militari in cui si moriva di freddo d’inverno e si arroventavano nelle rare giornate di sole. Resistono, a memoria di quel che è stato, i terril, colline nere formatesi con i detriti di carbone sulle quali crescono piante ed erbacce, un po’ come il monte dei cocci di Testaccio, a Roma.

Marcinelle oggi è un tranquillo villaggio che conta appena un verduraio, un barbiere, il bar dell’emigrante di Manoppello e un ristorante. Dopo i tragici fatti del ’56, è assurto agli onori delle cronache solo in un’altra occasione. Fu quando si scoprì che un elettricista del luogo, Marc Dutroux, in più di un decennio aveva sequestrato, seviziato e ucciso alcune ragazzine. Si ipotizzò un giro di pedofilia molto più esteso, il governo e le forze di polizia finirono sotto accusa al punto che due ministri furono costretti a dimettersi, e a Bruxelles una “marcia bianca” di 350 mila persone chiese che si facesse luce fino in fondo sulla vicenda. Ma questa brutta storia non ha cambiato il volto di Marcinelle, un luogo-simbolo delle tragedie dell’emigrazione e della “guerra del carbone” che il piccolo Stato belga decidette di combattere per risollevarsi dal conflitto mondiale. Un passato che ha impiegato del tempo per essere archiviato definitivamente.

Il Bois du Caziers, dove i minatori scendevano fino ai 945 metri, come avvenne alle 8,10 della mattina dell’8 agosto 1956, senza protezione alcuna se non un caschetto, ammassati uno accanto all’altro in ascensori in cui non ci poteva neppure alzare in piedi, costretti a scavare il carbone in cunicoli alti al massimo cinquanta centimetri, ha chiuso i battenti oltre un decennio più tardi. L’ultima miniera è stata dismessa nel 1984, nonostante dopo i fatti di Marcinelle l’Italia avesse disdetto gli accordi con il Belgio. Ma, così come gli italiani avevano preso il posto dei belgi che non volevano saperne più di scendere nelle viscere della terra, allo stesso modo quest’ultimi furono rimpiazzati da turchi e marocchini.

La strage fu uno spartiacque. Il governo italiano fu costretto, sull’onda dell’emozione, ad aprire gli occhi. Il Corriere della Sera il giorno dopo titolò “Tragedia nostra” un commento di Dino Buzzati: “Bois du Cazier, questo lontano posto che non si era mai sentito nominare, diventa Italia”. Ruben Tedeschi, inviato dell’Unità, dettò a braccio: “Uno spettacolo pauroso si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli della miniera. Il fumo – un fumo denso, nero, acro – oscurava il cielo e rendeva l’aria irrespirabile. Dal cielo buio cadeva una pioggia silenziosa di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere della terra. Una folla composta in massima parte di donne e di bambini, a stento trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie. Le informazioni che costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile contraddittorietà, contribuivano ad alimentare l’incertezza e la confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive: invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma, soprattutto, in italiano, perché italiani sono in massima parte, i sepolti vivi e italiani i loro figli e le loro mogli”.

Oggi la crisi batte forte pure da queste parti. A Marcinelle, chiusa la miniera, il museo, una sorta di monumento alla civiltà industriale, non basta a garantire il benessere degli abitanti. Tutta l’area, nata intorno alla grande industria manifatturiera, versa in una crisi quasi irreversibile. Perfino il terziario e la logistica soffrono della stagnazione economica. I tassi di disoccupazione sono ai livelli del sud d’Europa e il nord ricco e fiammingo è sempre più insofferente nei confronti del sud povero e, a loro detta, dissipatore di risorse pubbliche. È per questo che la destra nazionalista guidata dal sindaco di Anversa ha spopolato nelle Fiandre e il premier Di Rupo è stato costretto alle dimissioni. A sud, nelle zone operaie, i socialisti sono ancora il primo partito (con i comunisti del Ptb e i Verdi sfiorano il 50 per cento dei consensi) e resiste una solida cultura sindacale. È questa la vera differenza con il vicino nord della Francia, dove il voto popolare è traslocato tutto verso l’estrema destra del Front National. Che fare, dunque? Il barista pare avere pochi dubbi. “Qui le cose vanno male. Torno in Italia. Proverò ad aprire un bar sul mare, a Montesilvano”. Come a dire, quando i figli emigrano nelle terre dei padri.

NOMADICA – Mostra itinerante per il cinema di ricerca

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di Giuseppe Spina

NOMADICA – 5° anno
Mostra itinerante per il cinema di ricerca
20-24 agosto 2014
Capo D’Orlando (ME)
nomadica.eu

Dopo l’intenso passaggio dello scorso anno, in cui abbiamo presentato quei film di Vittorio Sindoni e Giuseppe Fava che raccontano la Sicilia tra inchieste, arte, poesia, denuncia, in modo ancora oggi insuperato, Capo d’Orlando diventa nel 2014 il luogo da cui prende il via la 5a Edizione della Mostra Itinerante di Nomadica, che nei mesi successivi percorrerà diverse città italiane e poi Francia, Germania e così via. Questo programma dà luce alle molteplici entità artistiche che compongono Nomadica, con “omaggi” dedicati a maestri del cinema del ‘900 come Norman McLaren, genio dell’immagine in movimento, famoso e prolifico autore di film d’animazione di cui quest’anno tutto il mondo festeggia il centenario dalla nascita; Augusto Tretti [vedi lospeciale a cura di RC] che al contrario realizza pochissimi film in Italia, muore nel silenzio dei media, schiacciato da un sistema produttivo che non consente linguaggi innovativi – di lui Fellini scrisse “è il matto di cui il cinema italiano ha bisogno”; terzo omaggio è per un intellettuale attivo come Luigi Di Gianni, il cui contributo dato alla “rottura” della “forma documentaristica” è una spinta che Nomadica condivide nei confronti di quel cinema italiano sempre più ingabbiato nella sterilità del documentarismo.
L’omaggio è anche “ripresa” di poeti, come John Giorno e Luigi Di Ruscio, (mentre Domenico Brancale aprirà le giornate con una performance poetica), di “cine-poesie” dall’underground italiano dei ‘60 (in collaborazione con la Cineteca Nazionale di Roma), di apertura all’archivio INVIDEO “Mostra internazionale di video e cinema oltre” (Milano), di passaggi attraverso giovani cineasti attivi nel nostro circuito (come Luca Ferri, Jonny Costantino, ecc.). E ancora saranno presentate opere cinematografiche di recente realizzazione, divenute già dei cult-movie: La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli, Aeterna di Leonardo Carrano (di cui Ennio Morricone ha scritto: “è un’opera straordinaria, unica, eccezionale!”).
Nomadica è sempre affiancata da amici, collaboratori e partner, come Ottomani, associazione dedicata al giovane cinema d’animazione italiano, le riviste digitali di cultura cinematografica Rapporto Confidenziale eRifrazioni. Dal cinema all’oltre. Per tutto questo saranno presenti diversi ospiti che, tra il FARO e la Sala della Biblioteca Comunale, si intrecciano e accompagnano queste cinque serate dedicate al cinema contemporaneo. Un cinema inteso come mezzo di ricerca caleidoscopico, multiforme, come territorialità sperduta nei suoi confini, senza un tracciato preciso e proprio per questo ricco di poesie, leggende, fantasmi, suoni, colori, luci ed eclissi, che possono stupire, meravigliare, condurre lo spettatore verso il riconoscimento di un nuovo sguardo, di nuove e nascoste percezioni.

Nomadica / Capo d’Orlando, Agosto 2014

Un gesto per la pace

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di Antonio Sparzani

Giardino tranquillo, verde, natura libera, ibischi, rose fiorite, erba tanta e spontanea che nessuno modera, lo sguardo si sperde nel golfo di Trieste e oltre, navi acquattate nella pace del pomeriggio, ma ecco che arriva la parola drammatica a svegliarmi e a strapparmi dalle allettanti persuasioni dell’indolenza, la parola pace è arrivata, come si fa a pronunciare questo bisillabo, oggi, che appena sporgiamo lo sguardo fuori dal nostro così soddisfacente particolare, sentiamo le grida strazianti di tanti milioni di nostri simili che di questa parola hanno perso le tracce, se mai le avevano avute? La loro esperienza prevalente è il dolore, l’insicurezza, la perdita, la mancanza di ogni appiglio; uomini donne e bambini stanno male tutti, credo io, anche i più corazzati.
Mi chiedo per l’ennesima volta che fare e che pensare. Mi son detto già più volte che se avessi l’età e l’energia giuste (roba di quarant’anni fa) andrei là, là dove serve, con Emergency o con i medici senza frontiere o con chi altro ritenessi meglio collaborare e condividere, almeno a curare i dolori fisici di tante e tanti che quei dolori non meritano.
Ma ora, qui noi a guardare telegiornali e servizi grondanti di notizie talvolta gonfiate ad arte per colpire, tal altra invece reticenti sugli aspetti più imbarazzanti, cosa dire, pensare – è forse possibile dare con la parola un contributo, certo infinitesimo, ad un qualche miglioramento della situazione? Ovvero, al di là e oltre l’appoggio materiale che tutti possiamo dare a quelle organizzazioni, governative e non, che ci sembra operino nella direzione di un mondo migliore, noi, io, qui ed ora cosa posso dire. Io che sono una goccia in un mare, così come, non m’illudo, gocce in un mare sono Putin e Obama, Xi e Merkel e giù giù fino al nostro nazionale Matteo.

Gocce sì, però, gocce con movimenti diversi dalle altre.
E allora fatemi fare questa fantasia: se uno di questi personaggi un bel giorno si presentasse ai confini di quegli stati, canaglia o non canaglia ma comunque pieni di gente che sta male, e chiedesse di entrare a visitare il paese, che farebbero, gli direbbero di no? Si metterebbe subito in moto una macchina complicata, appunto “diplomatica”, per trattare l’ingresso con le dovute norme. E poi? Se questo ipotetico importante personaggio insistesse per visitare tante zone del paese, i locali governanti rifiuterebbero? Non so, ma nulla darei per scontato. O il papa, per esempio, se andasse lui, Francesco, che tanti segni ha già dato almeno di diversità dai suoi predecessori, a bussare alle porte d’ingresso degli stati? Ma, lui e tutti gli altri, di persona lì davanti, con tutto il seguito, tutti con passaporto diplomatico e tutti lì ad aspettare una risposta, ci fate entrare o no? Francesco si presenta bel bello con la papamobile ai confini della Siria e chiede di scorrazzare per il paese, che succede? Mi piacerebbe molto guardare e anche fare il tifo per lui.

Ovvero, l’unico pensiero che riesco a formulare è quello del gesto clamoroso, apparentemente infattibile, supremamente imbarazzante: ho sempre meno fiducia nella cosiddetta diplomazia che abbiamo fin qui conosciuto.

Solo musica italiana ovvero opinioni di un disadattato

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di Giorgio Mascitelli

 

Nell’incantevole località marittima nella quale ho soggiornato recentemente campeggiavano manifesti annunzianti perentoriamente una grigliata danzante prevista sia per il sabato sia per la domenica nella piazza del paese esclusivamente a base di musica e carni italiane. Devo confessare che mi ha trattenuto dal parteciparvi tutta una serie di ragioni, la più importante delle quali è il fatto che il sabato e la domenica in questione erano quelli immediatamente precedenti al mio arrivo, tuttavia il titolo del manifesto, recante la scritta a lettere cubitali ‘italian music’ in inglese, mi ha colpito. Scartata subito l’ipotesi che il manifesto si rivolgesse ai turisti stranieri, pure presenti, perché il testo anche nelle sue parti informative era scritto esclusivamente nella nostra lingua, sono restato alquanto sorpreso di una scelta simile. Certo la differenza tra italiano e inglese in questa espressione è veramente minimale, due a e un’inversione dell’ordine delle parole, e dunque comprensibile anche all’italofono più digiuno della lingua di Shakespeare, ma era per me sorprendente che si fosse sentito il bisogno dell’inglese per un’iniziativa che faceva leva sull’orgoglio nazionale, sia pure nelle forme relativamente innocue di tipo musicale e alimentare.

In realtà questa mia sorpresa non aveva ragione d’essere ed era tutt’al più un sintomo del mio perenne disadattamento: infatti gli organizzatori non avevano altra scelta che usare l’inglese. Solo un titolo in inglese poteva testimoniare che la manifestazione sarebbe stato un evento a tutto tondo del mondo contemporaneo e non un’attardata esibizione provinciale di cose ormai superate dal pericoloso sapore di papaveri e papere o di Marianne che vanno nelle campagne; solo così il turista desideroso di assaporare carni nostrane e tetragono alle musiche barbare avrebbe partecipato con la necessaria convinzione alla festa e con la confortevole sicurezza che fosse qualcosa di ben organizzato e serio. Insomma nell’era della globalizzazione qualsiasi contenuto per essere recepito favorevolmente deve rispettare determinati standard globali. Ciò naturalmente non toglie che esista quella contraddizione che ha fatto nascere in me il sentimento di sorpresa, anzi direi che questa contraddizione non riguarda solo gli organizzatori di feste di paese, ma anche tutti i settori della produzione culturale e artistica. Naturalmente quando si parla di campi della cultura più articolati simbolicamente questa contraddizione prende forme più complesse e certo non riconducibili con evidenza immediata a quella palese opposizione tra messaggio italiano e medium inglese o meglio globale del manifesto.

Proprio la globalizzazione, nonostante gli ultimi quindici anni di guerre violenze crisi ne abbiano minato l’immagine ottimistica tipica degli anni novanta, resta la principale leva simbolica della cultura contemporanea. La globalizzazione in quanto agente simbolico pone a ogni artista, a ogni scrittore e a ogni operatore culturale del nostro tempo una domanda subdola che suona così: “cosa hai fatto per essere globale?”. La domanda è subdola perché sembra suggerire che siano possibili varie gradazioni di risposte ( “ho fatto abbastanza”, “ho fatto qualcosa”, “non ho fatto molto, però in quella circostanza..” e così via), mentre effettivamente quella domanda contempla solo due risposte: tutto o nulla.

In verità nessuno può dare seriamente la risposta nulla perché i tempi non sono maturi, il pubblico non capirebbe e lo sventato che la desse si troverebbe nello spazio di un mattino retrocesso a poeta ufficiale della bocciofila dietro casa. Coloro che non hanno fatto nulla possono solo rispondere alla maniera dei somari a scuola che hanno trascorso il pomeriggio al parco anziché a fare i compiti “non sono stato bene, mi giustifico prof” oppure “non sapevo che ci fossero compiti per oggi”. L’ordine simbolico della globalizzazione è severo con i suoi fannulloni, ma anche chi ha fatto tutto porta la sua croce: innanzi tutto perché quel tutto non è mai abbastanza e in secondo luogo perché ci si accorge dopo un po’ che per aver fatto tutto per essere globali si finisce col non fare altre cose.

Non si tratta di dire chi ha ragione o chi è migliore, anche perché alla domanda che pone la globalizzazione non sempre si riesce a rispondere in maniera consapevole essendo una domanda subdola. Certo l’ordine simbolico della globalizzazione premia con la sua meritocrazia chi più si impegna nella sua diffusione, ma credo che questo non si possa definire in alcun modo qualcosa di nuovo sotto il sole, piuttosto è più interessante sottolineare la fondamentale unicità degli standard a cui tutti sono sottoposti.

Si può ipotizzare che l’ordine simbolico della globalizzazione nella problematica soggettiva dello scrittore o dell’artista agisca come una prevalenza simbolica di uno spazio che si vuole uniforme su un tempo sentito come irregolare e non lineare che procede per sbalzi. Il premio a sua volta simbolico di questa lotta contro quella che per comodità potremmo chiamare il peso della storicità è un sentimento di piena appartenenza al proprio tempo, una sorta di perfetta contemporaneità. Il problema è che questo sentimento di pienezza è a sua volta un inganno perché impedisce di cogliere certi tipi di sfumature che sono irrinunciabili nell’elaborazione di un senso simbolico dell’esperienza, che credo resti lo scopo dell’attività letteraria e artistica.

Ad esempio, per prendere in considerazione un’opera giustamente rinomata nel quadro della cultura internazionale, nel romanzo Le correzioni di Jonathan Franzen assistiamo a un autentico capolavoro di finezza nell’analisi dei sentimenti dei personaggi e della rappresentazione dei loro rapporti. Improvvisamente questa finezza in occasione dell’episodio di un viaggio del protagonista in Lituania cede il posto a una rozzezza caricaturale nella rappresentazione del paese quasi da pittoresco giornalistico. Ecco nello scarto tra il cesello della vicenda personale e la mannaia di una rappresentazione della Lituania ignara della sua storia si trova il prezzo pagato all’ordine simbolico della globalizzazione. Non si tratta certo di un errore letterario di un autore così scaltrito né di stigmatizzarlo moralisticamente, cosa sciocca e inutile, ma di rilevare che ciò che è estraneo all’ordine simbolico della globalizzazione può sussistere solo nella forma del pittoresco, ridicolo in questo caso, cioè in una forma letterariamente riduttiva o addirittura non letteraria.

Il problema che sollevo qui non è di tipo politico prescrittivo: occorrerebbe cioè una letteratura impegnata storicamente e politicamente al posto di una intimistica ( al contrario a me piace la letteratura intimistica e decadente, mentre penso che sia nella vita che si debba avere, per quel poco che i tempi concedono, un impegno storicamente consapevole); al contrario è un problema squisitamente estetico nel senso etimologico della parola. L’ordine simbolico della globalizzazione contempla solo alcuni elementi della realtà e nel contempo si autorappresenta come la totalità del contemporaneo o meglio, come ho già scritto, del qui e ora. Si tratta di una rappresentazione ideologica nel senso marxiano della parola ossia di un discorso volutamente incompleto, di un’autorappresentazione che lascia fuori molti tratti fondanti. E si sa quanto l’ideologia nuoccia alla produzione artistica e letteraria.

Ciò che tra l’altro resta fuori dall’ordine simbolico è proprio la percezione della storicità dell’esperienza umana e colui che l’avverte, non necessariamente in maniera progressiva o ottimistica, ma anche in chiave negativa o pessimistica, finisce proprio per non fare nulla per essere globale, naturalmente nel senso che a questa parola viene dato dall’ordine simbolico della globalizzazione così come essa è effettivamente oggi e non come potrebbe o dovrebbe essere. E’ un’esperienza frustrante quella del fannullone della globalizzazione perchè appunto gli viene negato perfino lo spazio simbolico del contestatore o del dissidente: egli è solo uno che si attarda su cose passate, come la storia, invece di godere dei vantaggi e delle possibilità pressoché infinite offerti dalle nuove tecnologie materiali e mentali.. E’ una condizione frustrante, ma dalla frustrazione talvolta nascono i fiori.

les nouveaux réalistes: Valerio Evangelisti

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Il Grande Fratello
di

Valerio Evangelisti

La luce andò via proprio mentre i sei concorrenti superstiti de Il Grande Fratello stavano festeggiando il compleanno di uno di loro, Niccolò. Prima la casa fu invasa dal buio, poi le note di My Way di Sinatra si strozzarono negli altoparlanti dell’impianto hi-fi.
Martina, abbastanza ubriaca, domandò dopo un poco: «Insomma, torna o no questa luce?»
Paolo interpellò il loro interlocutore invisibile di tutti i giorni: «Grande Fratello, cos’è successo? E’ saltato il mixer?»
Silenzio. Fu Paolo, il più anziano del gruppo, a replicare: «Dev’esserci stato un corto circuito. Niente paura, la luce tornerà da un momento all’altro.»
«Io ho visto da qualche parte una lampada tascabile» disse Samir, l’egiziano inserito nella trasmissione per darle una coloritura multietnica. «Ora la cerco.»

Alla luce della torcia elettrica, sembravano smunti, con le guance incavate e borse vistose sotto gli occhi. Cristina, detta Cris, scoppiò in una risatina. «Sembriamo quelli dell’Isola del Famosi. Morti di fame. Invece noi mangiamo persino troppo.»
Niccolò, accanto a lei sul divano, le si fece vicino. «Le telecamere devono essere spente. Nessuno ci vede.» La sua voce, dal forte accento romanesco, era greve e faceva presagire la frase successiva. «Adesso posso toccarti le tette.»
«Non ci provare!» strillò la ragazza.
«Ma l’ho già fatto, e non hai protestato.»
«Sì, però le telecamere funzionavano.»
Nella frase di Cris era, a ben vedere, sintetizzata la filosofia del programma, e la psicologia elementare di chi vi partecipava.

La luce tornò, e costrinse tutti quanti a battere le palpebre. Era una luce diversa da quella consueta. La sua intensità illuminava ogni angolo quasi a giorno. Chissà quanti watt andavano sprecati.
Luigi, l’intellettuale del gruppo, batté le palpebre come gli altri. Fu il primo ad alzarsi. «Grande Fratello?» chiamò, esitante. Attese un attimo e rafforzò il timbro. «Grande Fratello? Cos’è capitato?»
Silenzio.
Si levò dalla poltrona anche Wang Ping, la cinese, la cretina per definizione, amatissima dal pubblico. «Grande Fratello?» trillò, con la sua vocina assurda.
Non vi fu risposta.

Di indole pratica, Paolo riprese ad affettare la torta, come faceva prima dell’interruzione di corrente. Mentre eseguiva bofonchiò: «Chi ci vede da casa crede che qui tutto sia perfetto. Non sa nemmeno che ogni tanto salta la corrente, e che gli altoparlanti possono rimanere muti, come adesso.»
Martina fu la prima ad afferrare una fetta del dolce. Mentre masticava, un rivolo di crema le scivolò lungo la scollatura e vi scomparve. Non vi fece caso. Per abitudine ormai consolidata si girò verso la telecamera più vicina. Il led non lampeggiava. Dunque era spenta. Fu una piccola delusione.
Inghiottito il boccone, disse: «Da casa, in questo momento, non ci vede nessuno. Nemmeno il Grande Fratello può vederci. Almeno credo.»
Fedele alla sua parte, Niccolò prese a strillare: «Evviva, ragazze! Finalmente si scopa!»
Cris si scostò. «Stai calmo. Fatti una sega» gli disse, acida.
Contava sulla sospensione della diretta. In circostanze normali, la sua frase sarebbe stata coperta da un bip prolungato.
«Perché non me la fai tu?» chiese Niccolò, che quasi sbavava.
«Guarda che non ci stanno filmando.»
«Ah, già.» Niccolò si ricompose sul divano.

Improvvisamente, il Grande Fratello riprese a parlare. La sua voce risuonò nelle stanze di compensato della Casa. Era insolitamente dura.
«Avete meritato una punizione. Luigi sarà il primo. Si rechi immediatamente nel Confessionale. Prima indossi una camicia bianca che troverà sul suo letto.»
Vi fu un generale sbigottimento. Chiaramente il più stupito fu Luigi. Deglutì e, per abitudine, si portò sotto una telecamera spenta. «Ma cosa ho fatto?» chiese con un filo di voce.
«Non sono consentite domande» rispose il Grande Fratello, quasi rabbioso. «Va’ e indossa la camicia bianca. Ti aspetto nel Confessionale.»
«Io non ho fatto nulla.»
«Non amo ripetermi. L’ordine lo hai capito.»
Cris raggiunse il giovane sotto l’oculare cieco. «Luigi non ha violato il regolamento, e noi nemmeno»» quasi gridò. «Perché punirci tutti?»
Non vi fu risposta.
Cris attese un poco, poi toccò il braccio del compagno. «E’ meglio se vai. Chissà cos’hanno in mente, ‘sti stronzi.”
Luigi si allontanò, riluttante.

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Nel dormitorio maschile, sul suo letto, Luigi trovò un camicione bianco che gli arrivava ai piedi. Lo strinse in mano con una certa esitazione, ma poi finì per indossarlo. Solo allora si accorse che, sul dorso, era stampato un triangolo rosso. Sotto figurava un numero: 26. Era già abbastanza stupito per interrogarsi su quella stranezza. Così abbigliato, camminò con esitazione fino alla stanza che ospitava il Confessionale.
La voce del Grande Fratello risuonò melliflua. «Siediti. Siediti sulla poltroncina. E’ bello guardarti. Sei molto pallido, sai?»
Luigi cercò con gli occhi una telecamera, però non ne vide. «Che scherzo è questo? Io non ho fatto…»
«Siediti, ho detto!»
Gli altoparlanti avevano vibrato, sotto quell’urlo. A Luigi non restò che obbedire.

Paolo sbadigliò e guardò l’orologio. «E’ là da oltre tre ore. Mi sembra insolito.»
Cris, la più ricca del gruppo, controllò sul suo Rolex. «E’ vero. Scommetto che ha bestemmiato.»
«Cosa vuoi dire?» rispose Martina. Depose la fetta di dolce che stava mangiucchiando. «Non l’ho mai sentito bestemmiare. Nemmeno una volta.»
«L’avrà fatto da solo. Magari in diretta.»
Intervenne Niccolò, semisdraiato su un sofà. La Casa era piena di sofà. «No, non è il tipo. Era l’unico che non scoreggiava mai a letto. Nemmeno quando, a Natale, ci hanno imbottiti di cotechino e lenticchie.»
«E con ciò?» chiese Paolo, intento a dividere quanto restava dello champagne tra le coppe. «Forse non bestemmiava in pubblico, però lo faceva in privato. Una telecamera lo ha sorpreso. Non immaginate i guai, in un caso del genere.»
Samir si avviò verso il confessionale. «Sentite, io vado a vedere.»
«Vieni, vieni pure!» ridacchiò il Grande Fratello.
Samir ebbe un’esitazione, ma poi imboccò il corridoio.
«Fermo! Indossa prima la camicia bianca! E’ sul tuo letto. Riponi gli abiti e indossala!»

Le ore passavano. Non c’era altro da fare che continuare a bere. Martina era sbronza. Anche Cris vacillava. Niccolò si era addormentato. Paolo si versava altro spumante, con mano malferma. Solo Wang Ping, astemia, rimaneva lucida, per quanto glielo consentiva la sua palese idiozia.
«Grande Fratello» squittì «dove hai messo Luigi e Samir? Non li avrai mica espulsi, vero?»
Gli altoparlanti restarono muti.
«Ma piantala, Ping» disse Paolo, dopo un singulto. «Perché dovrebbe averli espulsi? Non hanno fatto niente.»
«Nemmeno noi, ma ha detto che vuole punirci tutti.»
«E cosa vuoi che sia? Ci toglierà la cioccolata, ci obbligherà a imparare qualche canzoncina…»
«Ma perché vuole punirci tutti?»
«Perché siete tutti colpevoli!» Gli altoparlanti oscillarono, tanto la voce del Grande Fratello era iraconda. Niccolò si svegliò di colpo, Paolo lasciò cadere la bottiglia. Gli altri sussultarono.
«Colpevoli dall’inizio. Pensate a ciò che eravate, prima di venire qui. Pensateci e ve ne renderete conto.»

Niccolò fece una risatina che suonò artificiosa. «Ha una voce da avvinazzato. Non siamo gli unici a bere. Beve anche lui.»
Wang Ping scoppiò a piangere. «Vuole farci del male! E’ terribile! Terribile!»
A peggiorare la situazione, la luce ondeggiò e si spense di nuovo. Nel buio, si udì la voce incerta di Marina, che cercava di consolare Wang Ping. «Ma cosa vuoi che ci faccia? Guarda che è un funzionario della televisione. Conta meno di un cazzo.»
«A proposito di cazzo…» esordì Niccolò, tornato alla lucidità.
«Tieniti lontano da me!» strillò Cris.
Paolo si interpose. «Bando alle stronzate. Luigi e Samir sono da ore nel Confessionale, a pochi metri da qui. Andiamo a cercarli.»
«Ma non c’è la luce…» obiettò Marina.
Si udì una sghignazzata, poi il Grande Fratello urlò: «Volete luce? Peggio per voi. E luce sia!»
Le lampadine si riaccesero, però di una luminosità rossastra, che creava ombre lunghissime.

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Nel breve corridoio che conduceva al Confessionale, Paolo bofonchiò: «Lo scemo ci dice di pensare al nostro passato. Sarà che ho bevuto troppo, ma non ricordo nulla di particolare.»
«Non siamo in condizione per ricordare» asserì Martina, con un filo di bava che le colava dalle labbra. «Ho bisogno di dormire.»
«Tutti ne abbiamo bisogno» osservò Niccolò. «Dirmi, adesso, di frugare nei ricordi, è come chiedere a un cieco di descrivere com’è fatto un pinguino.»
Si fermarono di fronte all’uscio del Confessionale. Paolo ne tentò la maniglia.
«E’ chiuso a chiave dall’interno» disse, dopo qualche tentativo.
«Prova di nuovo.»
«Sto provando. E’ inutile.»
«Si sentono voci, là dentro?» domandò Cris. «Rumori?»
«No, non si sente nulla. Secondo me non c’è nessuno… Chissà dove sono finiti.»
«Dove meritavano!» rispose il Grande Fratello. L’intonazione fece capire che stava sogghignando.

Wang Ping ebbe una nuova crisi di pianto. Si gettò addirittura in ginocchio. «Perdonaci, Grande Fratello!» singhiozzò. In realtà pronunciava “flatello”. «Non so cosa abbiamo fatto, ma perdonaci!»
«Ammesso che non abbiate fatto nulla, siete colpevoli dall’origine.»
«Perché? Perché?»
«Non occorre che ve lo dica io.» La voce che rimbombava nelle stanze della Casa era chiaramente quella di qualcuno in preda all’alcool, o a sostanze ancor più inebrianti. «Per voi esiste una sola speranza. Pentirvi. Confessarvi. Abbandonarvi inermi all’eventuale pena. Altrimenti sarete cancellati
«Ma pentirci di cosa? Confessare che?» domandò Wang Ping a mani giunte, le guance rigate di lacrime.
Cris si piegò su di lei e le afferrò una spalla. La costrinse a sollevarsi. «Basta, non dare retta a quello stronzo. Non è dignitoso. Vabbe’, hanno deciso, per motivi loro, di cacciarci fuori tutti. Giudicheranno i telespettatori. Adesso ho sonno e voglio dormire, altrimenti me ne andrei subito.» Ansimò leggermente, mentre sosteneva l’amica. «Che vada affanculo il Grande Fratello. Qual tizio dipende da noi, e dall’Auditel, più di quanto noi dipendiamo da lui.»
«Giusto!» esclamò Niccolò, che si appoggiava a una parete di compensato per tenersi ritto. «Domattina ce ne andiamo in massa, e stanotte dormiamo nella stessa stanza, maschi e femmine. Se ci cacciano, l’ultima notte possiamo fare quello che vogliamo.»
Cris replicò, sardonica: «E’ inutile che mi guardi così, Niccolò. Per te non c’è speranza.» Non ansimava più. Wang Ping pesava quanto una piuma, e non era difficile tenerla in piedi.
«Non c’è speranza per nessuno di voi!» ridacchiò il Grande Fratello. Era drogato, non c’erano dubbi. La sua voce cambiava di timbro all’interno della stessa frase. Si udì persino, amplificato all’eccesso, un suono gorgogliante. Forse aveva vomitato. Chissà quali intrugli aveva bevuto.

Furono risvegliati da un ordine pronunciato come fosse un ululato, perché la sua coda ridanciana si protrasse a lungo, variando di tono. «Martina nel Confessionale! Nessuna camicia bianca, però! La voglio nuda, ah ah ah ah!»
Martina si districò dal groviglio dei compagni con cui aveva diviso il letto e scattò in piedi. Era perfettamente lucida. Marciò verso un altoparlante sormontato da una telecamera e mostrò il medio della mano destra.
«Vaffanculo, Grande Fratello. Non mi spoglio nemmeno se mi paghi.» Come gli altri aveva dormito vestita. «E poi, che richieste sono? Fammi parlare con un dirigente. Qualcuno più importante di te.»
«Più importante di me?» La voce incorporea suonò incredula, prima che l’ilarità montante la rendesse chioccia. «Davvero non vuoi spogliarti per me? Mostrarmi le tue bellezze
«No, non voglio!» gridò Martina.
«Oh, che peccato. Non eri così, durante i provini. Mi tocca eliminarti. Vai al Confessionale, bambola sexy. Anche vestita, non posso più salvarti. Però ricorda di metterti gli occhiali da sole
Martina ebbe uno scatto d’ira. Saltò, nel tentativo di afferrare la telecamera. Non vi riuscì: era troppo in alto. Senza ragione apparente si mise a piangere.
Il timbro del Grande Fratello diventò carezzevole. «Non prenderla così, piccolina. Vai al Confessionale. L’espulsione, in fondo, non è un dramma
«Ma la porta è chiusa!» obiettò Martina, tra i singhiozzi.
«La troverai aperta. Del resto è sempre aperta a chi dà segni di pentimento. Vai Martina. Tornerai ciò che eri prima di venire qui. Ricordi?»
«Non ricordo nulla!»
«Ottima risposta. Forse ti salverò. O forse no, chissà. Ho un cervellino talmente bizzarro!»
Martina si avviò lungo il corridoio, a capo chino. Il Grande Fratello prese a cantare un motivetto buffo e allegro, che parlava di una “casetta piccolina in Canadà”. Solo all’ultimo gridò: «Martina, non dimenticare gli occhiali scuri! E’ per il tuo bene

«No, basta! Io non sono più disposta a sopportare!»
Cris non aveva reagito all’espulsione di Martina perché troppo assonnata, ma adesso si drizzò in piedi, gli occhi verdi luccicanti di collera.
«Hai ragione» disse Niccolò. Represse uno sbadiglio.
In quel momento Paolo tornò dal bagno. Si passava sul viso un asciugamani, che gettò in terra con rabbia. «Dobbiamo andarcene. La produzione ci ha messo nelle mani di un ubriacone che si crede Dio in persona. Non è tollerabile.»
«Ma così perdiamo tutti i soldi!» trillò Wang Ping, con espressione infelice.
«Sì, ma agli occhi dei telespettatori acquistiamo in dignità.» Paolo gonfiò il petto. «Forse tu, Ping, prima di venire qui facevi qualche lavoro servile. Sei abituata a ricevere ordini.»
«Non facevo niente!»
«Però eri portata a obbedire agli ordini. Io no. Io ero…» Paolo lasciò la frase in sospeso. Per un attimo la sua sicurezza si incrinò, ma si riprese subito. «Ciò che eravamo non conta. E’ questione di indole. Io ci tengo alla dignità, e non voglio essere trattato da schiavo.»
«Bravo!» Cris batté le mani. «Tutti d’accordo? Si lascia la Casa e si affossa il programma?»
Dopo una breve esitazione, Niccolò disse: «D’accordo.» Non sembrava molto convinto.
«D’accordo» pigolò Wang Ping. La frase esatta fu “d’accoldo”, ma la sostanza era quella.

societeduspectaclePer arrivare all’uscita della casa occorreva passare davanti al Confessionale. Nel frattempo la luce, da rossa, era tornata bianca. Ci doveva essere stato un aumento di watt, perché il calore era da piena estate. I giovani ora sudavano.
Niccolò disse, additando il Confessionale: «E’ una porta di compensato, facile da sfondare.»
«Perché mai dovremmo sfondarla?» chiese Paolo, sbalordito.
«Be’, è chiusa.»
«E allora?»
«Martina, Luigi e Samir potrebbero essere ancora lì dentro!»
Paolo scoppiò a ridere. «Ma piantala, scemo! Non farci perdere tempo. Andiamo all’uscita vera.»
«Io non mi muovo. Voglio capire perché hanno chiuso la porta.»
«Bravo, rimani qui. Sei sempre stato un idiota, ora lo confermi.»
«Ho il diritto di sapere cos’è capitato ai nostri amici!»
Paolo guardò l’altro con una specie di compassione. «Amici? Da quando in qua? Fino a ieri erano per te dei concorrenti. Tutta la tua amicizia è nata da quando li hanno espulsi.»
Niccolò si rivolse alle ragazze: «Cris! Ping! Restate con me? Sfondiamo la porta e vediamo cosa c’è di là.» Pensando al suo ruolo e alle telecamere aggiunse: «Poi magari si fa qualcosa sulla poltrona…»
Uscita infelice. Le ragazze non gli risposero nemmeno. Si avviarono con Paolo lungo il corridoio.

La porta principale della Casa era serrata come quella del Confessionale. Non era però più solida. Paolo saggiò la maniglia e disse, ad alta voce: «Grande Fratello, è inutile cercare di tenerci chiusi. Io e le ragazze ce ne andiamo, lasciamo il reality. E’ ridicolo tentare di trattenerci!»
Non vi fu risposta.
Dopo una breve attesa, Cris alzò le spalle. «Quello starà dormendo, sbronzo com’è. Dai, passiamo. Non vedo l’ora di tornare all’aria aperta.»
«C’è un chiavistello.»
«Non eri tu il superuomo del gruppo?» domandò Cris con ironia. «Forza, usa i muscoli. Molla un calcione alla porta.»
Paolo eseguì. L’uscio crollò. Furono investiti da una luminosità intensissima, e da un calore che superava i quaranta gradi. Facce stupite li accolsero. Si udiva, in sottofondo, il suono di onde che si frangevano sugli scogli.

Niccolò, a furia di calci, riuscì a demolire l’uscio del Confessionale e a entrare. Una luce che feriva le cornee lo obbligò a battere le palpebre. Sulle prime non riuscì a decifrare lo spettacolo che aveva di fronte. Quando ne fu capace, non poté trattenere un grido, più d’angoscia che di terrore. Forse, un angolo della sua mente aveva già previsto qualcosa di simile.
La poltrona centrale era vuota. Lungo le pareti, però, erano appoggiati con la schiena una trentina fra uomini e donne. Tra loro c’erano Luigi, Matina e Samir. I trenta giacevano inanimati, gli occhi chiusi, senza alcuna espressione sul volto. Indossavano camici bianchi. Non erano morti: una traccia di respirazione si percepiva dall’alzarsi e abbassarsi della cassa toracica.
«Ma questi sono…» mormorò Niccolò.
«…i concorrenti delle passate edizioni» completò ilare il Grande Fratello. «Bravo, Niccolò, hai indovinato!»
«Come mai sono qui? Sei tu che li hai portati?»
«Sono qui da anni. Adesso puoi vederli perché te lo permetto.»
Niccolò, malgrado la paura che provava, si sforzò di ridere. «Vuoi prendermi in giro, pezzo di stronzo? Saranno controfigure. Quelli veri li si vede di continuo in tv.» Diede uno schiaffetto a una ragazza dai capelli rossi. «Ehi, svegliati!»
«Così la fai soffrire di più. Soffre già abbastanza.»
Niccolò si volse alla telecamera più vicina. «Cosa vuol dire che soffre?»
«Sogna, e non sono bei sogni.»
«Non capisco…»
«Lo capirai tra breve. Buon sonno, Niccolò!»
La luce si spense di nuovo.

Paolo, Wang Ping e Cris erano ammutoliti dallo stupore. Stavano uscendo da una capanna, e calpestavano una sabbia bianchissima. Attorno si scorgevano palmizi, fitti fino alle rive di un oceano ribollente di onde impetuose, ma di cristallina trasparenza.
Avevano di fronte due uomini e due donne: i maschi in mutande, le femmine in bikini. Sembravano sbalorditi quanto loro.
Paolo fu il primo a parlare. Guardò uno degli uomini e disse: «Ma tu sei… Il cantante famoso!»
Quello rispose: «Proprio io.» Aveva una corporatura tozza, molti peli sul petto e sopracciglia foltissime. «Ora spiegami perché uscite dalla capanna dei cameramen.»
«Capanna dei cameramen?» Paolo era smarrito. «Noi veniamo dalla Casa.»
«E la chiami casa, quella bicocca?… Fa nulla, siamo tutti contenti di vedere persone che ci porteranno in salvo. E’ quasi un mese che le lance della produzione non arrivano più.»
Una nota fotomodella, ridotta a un corpo con poca carne addosso, indicò le palme. «Le noci di cocco sono finite. Non ci danno le nostre razioni di riso. Anche i pesci stanno alla larga. Viviamo di radici, e dei paguri che ancora riusciamo a trovare.»
Cris ebbe un’illuminazione terrificante. «Mio Dio! Non sarete… L’Isola dei Famosi?»
Un’attricetta un tempo celebre le disse: «Sì, bella. Aspettavamo chi ci tirasse fuori da questo inferno. Per fortuna siete qua.»
I tre fuggiaschi non risposero. Non sapevano cosa dire. Wang Ping, facile alle lacrime, scoppiò a piangere per l’ennesima volta. Chi le asciugò gli occhi fu un’anziana ex presentatrice, sbucata da un intrico di mangrovie. L’uomo che tempo addietro era stato Il Corsaro Nero, in una fiction rimasta leggendaria, resse Ping per le spalle, a impedirle di cadere.

Intanto Niccolò, addormentato, sognava. Rivide in sogno il suo passato: nulla. Poi scorse le facce dei telespettatori, fino a quel momento presenti nella sua mente, che si appannavano. Non esistevano: esisteva solo la Casa fluttuante nell’oscurità, e altre stelle lontane.
«Bene, è ora di staccare la spina» mormorò il Grande Fratello.
Vi fu un lampo, nei sogni di Niccolò, poi i segnali confusi e gracchianti di un canale spento. Linee irregolari sovrapposte, faticose a vedersi e insopportabili a udirsi.
Le avrebbe viste e udite per sempre. O almeno fino al suo prossimo ruolo.

Strategie per arredare il vuoto

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di Giacomo Verri

marinoLa vita procede nonostante la crepa aperta sul limitare dell’estate: il tredicenne Edo, protagonista di Strategie per arredare il vuoto, esordio di Paolo Marino (già finalista al Premio Calvino e ora in libreria per Mondadori, pp. 227, euro 17) ha perduto i genitori e, com’è naturale in questi casi, la famiglia apre grandi ali per contenere il dolore e per offrire al ragazzo una nuova casa, quella di zia Selma e di zio Dante. Ma Edo con tenace pacatezza rifiuta, “preferirei di no” glossa, e fa spazio al silenzio che aggira spiegazioni e formule. Non è un atto della volontà presente a se stessa, come fu di Cosimo che per fuggire il piatto di lumache rampò sull’elce senza più discendervi; del Barone esprime l’insofferenza, non più viva ma catatonica, priva di spinte a uscirne; Edo, barricandosi, lascia fuori le parole eccessive e inutili dei parenti, l’esperienza del mondo, degli amici, la vita.

Se fosse un eroe, non dico romantico, ma decadente, la clausura domestica lo condurrebbe a praticare un ostinato approfondimento di ciò che si è e di ciò che non si riesce a essere. Ma Edo non fa nulla, rimedia i pasti e parla poche parole, ché le uniche buone sembra recitarsele solo in testa; facendosi scivolare sull’impermeabile piumaggio della propria ipnotica atarassia gli inviti e le preghiere degli zii, accoglie tra le mura – senza volerla, senza rifiutarla – la compagnia delle gemelline Rovati, Greta e Lavinia, di Enea che s’accula prima della soglia e narra al padroncino di casa di avventure con la bicicletta, di un surreale rappresentante d’aspirapolveri ossessionato dai microbi, del terzetto di bulli (Seba, Carli e Draeger) che riddano in salotto, fumando e urlando. I colloqui decadono a rumore di sottofondo sebbene da Edo non facciano altro che parlare, tutti: “attaccavano con un discorso, ne appiccicavano un secondo, ne sovrapponevano un terzo, v’innestavano un quarto, ritornavano al primo”.

Finché pian piano la casa si svuota delle persone, Edo sgombera i mobili della stanza che fu dei genitori, ricopre tutto con la pellicola trasparente e si automummifica con la garza. Desidera cancellarsi e cassare la propria esistenza, così, senza enfasi; non c’è dolore, non una lacrima, nessun cenno alla disgrazia che ha inghiottito papà e mamma. Ne esce la figura di un mondo inutile dal quale assentarsi facendo di se stessi un carapace, e eludendo la costruzione di un destino reificato e coatto: “trovavo insopportabile che fosse stato stilato un catalogo di cose utili da mettermi a disposizione. Ci voleva della malafede, la volontà subdola di darmi un posto e qualcosa da fare”.

les nouveaux réalistes: Andrea Ponso

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di

Andrea Ponso

 

Non è niente, ma attento a questo sfinimento. Non è niente, gente, gelate pure seduti sulle vostre sedie, sugli scalini di gesso, scrollate poi via tutto. E non so che ore sono, dove andiamo da queste parti, se qualcosa rimane che si possa dire racconto, vi prego, fatene fiori.

 

 

 

 

Introitus

Oh, quale potenza – e che strano pensiero: arrossisco, tosse, scorbuto, semantica da sputo. Mi darai indietro tutto: i miei libri, gli assegni, anche se in bianco, e l’imbuto da dove mi hai bevuto, prosciugato tutto il sangue – brutta ghirlanda inacidita, eppure così, dolcissima, mia morte e pittima. Che non ci volevo andare, lo spazio di una sigaretta, non ci volevo proprio andare fino alla bottega, a ritirare le poche cose che mi servono per mangiare e digerire, per stare in piedi fino a sera e poi addormentarmi, dimenticarmi delle mani, e delle fistole in testa, dei tesseramenti e abbonamenti scaduti all’infinito. Eppure, così, mai parlato d’altro: degenerazione e argento, genitali e risorgere – una stessa pasta finissima: ti ci abitui, l’assuefazione è contagiosa, gioiosa, e grida e ingravida di deserto il tuo esercito scalcagnato e ora pure insabbiato, tenuto a bada da quattro fresconi che ti premuri di accudire, nutrire, lavare, spolverare e mettere in bella mostra nello spazio vuoto e lucente della mente.

Ed ora dai, su, tesoro: inventa qualcosa; rassegnati alla rosa e a questo deserto, negli stinchi ci sbatte spesso e volentieri … non vuole lui, non lo vogliamo noi, ma è così: sposalo – che non c’è divorzio, o giudizio, che ciò che l’uomo ha unito … tentenna, si alza da solo e carica la pistola: non so perché – e non è Dio, e non è Cristo, eppure è una festa. La foglia è stata corrosa dalla malattia, l’unghia è sporca di terra fresca, ancora fresca per poco, e la vigna … la vigna è veggenza, è invasione, è contagio: genera grigiore di cenere, ma genera.

Appostato in fondo al giardino, mangio da un cartoccio qualcosa che non ha odore, che non ha nessun sapore: dicono conoscenza, e riconoscenza quella che dovresti avere; dovresti inginocchiarti a pregare, a ringraziare. E lo faccio, mi straccio le vesti, e nessuno mi vede – ed è perfetto questo angolo buio in piena luce. Se sei così luminoso e pallido, ti credono malato, e invece sei graziato: ti attraversano, imperversano schiavi dei tuoi simulacri: li recriminano ad ogni passo, vogliono indietro il loro orgoglio … ma non ne ho più abbastanza, tutto è raccolto in questa stanza, lo posso mettere a disposizione della produzione, lo posso pesare come eroina, con un bilancino d’oro o d’argento.

Intanto il vento sparpaglia anche questo, il vento invade, divarica, prosciuga.

E siamo sempre allo stesso deserto. L’inserto settimanale è stato staccato, e verrà conservato a lungo in qualche cassetto della cucina, tra le posate arrugginite, i cucchiai, i coltelli per l’arrosto. Ho dato, e mi sono tolto di mezzo; ora azzimato passeggio, senza alcun pensiero o gonfiore del cervello – cammino, guardo, osservo, respiro, passeggio – genero per loro, il mio nome non avrà ragione, la mia discendenza in questa stanza rimanda il suo dovere, altrove.

E da parte nostra strilla, arsenico, come imbuto imbevuto tutto di te, di noi, di lei: l’arsenale in fiamme, guardate, guarite guardandolo l’arsenale in fiamme, fatene la vostra fame, e non vi sarà dato cibo, o broda o mercanzia. Eppure da imbuto a ponte, il passo è sommerso, il ponte travolto, rannuvolato subito in alto, tra le Ande del mondo, altissimo, santo, cristosegnato e travolto.

E rinvenendo ritrovo la vita, la rivedo venirmi addosso con la forza di un sasso scagliato in se stesso, fermo nel suo polso di gesso, slogato per sempre – come quando rinvieni da un morso, da un profondo e non percepito salasso, e ti alzi, e tutto ti gira, e le vertigini ti scassano il cranio, te lo smussano, ma da dentro e giù giù fino allo stomaco, anch’esso, chiaramente, luminosamente rovesciato: ed eccoti tutto, lì, vomitato sul selciato. Guardalo, rammemoralo, adoralo se puoi, verme insulso, uomo in barca in brache di tela, uomo da museo, imbalsamato: vi trovi il sangue, e un siero nero, escrementi, imprecazioni, gelo vilipeso e raggrumato; ma grida se vuoi, ma guardalo: rinvieni in esso, rinvieni in esso l’oscuro rapporto, quando come tutti ti hanno a sangue, a sangue e a prezzo del sangue, salvato e penetrato – strato su strato, nessuno spessore ermeneutico, nessun inutile intrallazzo, politica, potere, porzioni sigillate: niente.

Tutto viene da nord, da est, da ponente s’impone, prono s’impone e pompa nel tuo sangue, ti sradica, ad ogni spinta tenta di staccarti, scacciarti via da te, da quello che penso, e pensi, dai sensi e dai non sensi, dal sale e dal pane amato, dal ventre vidimato e ingravidato che, potenzialmente, e solo potenzialmente sei, sei stato e sarai.

E dove abito è sempre debito – ma un bruciore, vi dico, un’alba barbara, una bordata e un cratere. Proprio lì, dove mi faccio la barba, tengo farmaci e vita in ordine: tutta una bruttura, un limbo, un brano di carne mangiata d’altri. Si, un bruciore. E va bene, lo accetto, lo centro in pieno – potessi fare altro, tramandarlo come per procura, passando da notai a fiscalisti, lascerei ad altri questa frescura, questo sottobosco, sottopelle senza cura – lo renderei al creatore, alla brutale bellezza della sua natura, alla filosofia e alla ragione, ai suoi aggeggi geniali, agli ingranaggi, ai geli suoi.

Ma non v’è ragione o motivo: v’è solo questo debito imbavagliato e buio, che non sappiamo, che non amiamo mai, mai, mio dio mai; potessimo solo farlo buono facendoci buoni, e bui, e belli – vestendo l’ombra sua, e l’obbrobrio come orpelli, come camminamenti dentro lo spessore sfiatante dei venti … ma niente. Sono solo momentanei, monumentali accorgimenti: travature, travet, cicisbei, bullismi, monismi riduttivi, incivili, invalidanti, anti vita, anti schianti, anti tutti quanti – per niente, aureole di gas caino, cianotiche le nostre guance nel suo bacio, accecante. E sono tante le legioni, pochissimi i profili, innumerabili gli affanni, i fregi, i nomi, i dimmi che mi o non mi ami: cianfrusaglie, croste, accresciute crisalidi.

Ed io che senza assetto, che non ho madre, che ho sempre sete e silenzio tra le costole, e le costole sprofondano nel buio del bar ogni sera, e al pomeriggio, dopo le sei sempre – caffè sigaretta come siero per l’ansia e la ritrosia; e mentre guardo levriere le cameriere alzarsi sulle punte, tossire, sorridere, dare il resto, ecco m’investe il loro sapore, la loro sapienza da antiche speziali mi spezza il tempo di adesso, mi precipita fuori, nel già e non ancora, la loro ingenua geniale inconsapevole gentilezza, anche se venata d’odio, e fatica, e smaniosa indifferenza … quanta capienza in quelle stanze, quante scale, saliscendi, pianerottoli e rotta di collo giù ci dividono, mie inesistenti figlie, e madri, e sorelle, voi così sublimi, e morte, e belle, mai nate mai nemmeno annusate – eppure è così: ogni mattina vi alzate calde dai letti, vi lavate, profumate, vi preparate alla fatica in faccia ai clienti, alle loro grandinate, ai loro odori avariati o dolcissimi, o pesti, o straziati, voi lo fate, fasciate della vostra magrezza, della vostra superba scaltrezza – avete gli attrezzi, quello che serve, per trasformarvi all’occorrenza in belve vive di tenerezza e spezzare la mia e d’altri cavezza, liberandoci nel deserto, lasciandoci alla sete, alla gioia minuta immensa, all’esodo della xenitéia, da schiavitù, da insulsa alterigia, da scontrosa pretesa d’essere assennati, buoni avventori, velenosi solo per timidezza, scaltri anche noi per niente, scalcagnati dal niente, rincorsi, azzuffati, pestati, massacrati, criticati, criticanti, dementi, lucenti: attenti – lussati e addormentati.

E c’è una fame, una fine, un fuoco, una fatica infinita.

E fu così che da questo deserto scavarono vite, intasarono oasi e silenzi, stremando ogni attenzione, costruendo davanzali, ponti e delusioni – scavando fino al fondo, fornendo idee, concetti, ragioni; generando vertigini e mali immaginari, portando sabbia scura nelle bocche, chiamando tutto questo perfezioni – dimenticando la verginale, esigente escoriazione iniziale.

E sbucarono ceffi da dietro i banchi di chiese senza altari, assaltando i fedeli; uscirono da ogni cassetto, affilati come coltelli, incidendo ogni cruccio, ogni cicatrice: svendendo vittime e dolore – dai tiranti, in alto, sollevavano ogni stagione, ogni gola sbrecciata di muro, ogni erba, ogni odore; drenarono reni, intestini, spine dorsali … come squali, il sangue freddo, pulsante, nell’azzurro, salato.

Mi ritirai nel nome, muovendomi poco, accorato, negli scambi, tra verbi e consecutio temporali: fili spinati pensati come cieli, costellazioni, ospedali. Mi ferivo e fiorivo, e dal ferro una fede finalmente sfiorava la fonte, limpida a tratti, a tratti sporca di terra e sangue, e canali.

 

Consummatum est

E pose la sterile nella sua casa, quale madre gloriosa di figli: e così affina insieme affezione e indifferenza, distacco e presa, clamore e mormorare sommesso – è lo stesso ed è diverso, sed transire,e in questa pasqua passa, Quamdiu in imagine pertransimus, e non si ferma mai, non vacua imago, sed veritas, mai.

 

 

La forma saggio e il footage, un metodo di produzione

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di Rinaldo Censi

Nel 1983 Harun Farocki recita come attore in Klassenverhältnisse (Rapporti di classe), di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub. Realizza un film a partire dalla sua lavorazione, Arbeiten zu, “Klassenverhältnisse” von Danièle Huillet und Jean-Marie Straub (1983). E’ un film importante che mette a nudo un processo di lavoro, di creazione: le prove, le ripetizioni, le riprese, il film. A quel tempo, i rapporti fra i tre sono già di stima reciproca, qualcosa che somiglia ad una vera e propria amicizia (nel 1987 Farocki realizzerà per la televisione tedesca un altro film sulla coppia, Filmtip: Der Tod des Empedokles).

Per comprendere questo rapporto speciale bisogna ripartire da una rivista tedesca, Filmkritik, fondata nel 1957. All’epoca vi lavorano figure di spicco come Enno Patalas (animatore e agitatore del Filmmuseum di Monaco tra il 1973 e il 1994), e poi Frieda Grafe, Ulrich Gregor, Wilhelm Roth. E’ una rivista di cruciale importanza per Harun Farocki e per altri giovani cinefili: Hartmut Bitomsky, Wolf-Eckart Bühler, Manfred Blank, Hanns Zischler. E poi Rudolph Thome, il giovane Wim Wenders. Ognuno di loro lascerà tracce scritte sulla rivista, a partire dalla fine degli anni ’60 fino al 1984, quando Filmkritik chiude i battenti.

Si respira aria nuova. I nuovi collaboratori scrivono, e quando non scrivono realizzano film: si occupano di autori amati, di cui descrivono minuziosamente il metodo di lavoro, la peculiarità di alcune sequenze, come se proprio lì si nascondesse il segreto della loro arte, proprio lì dove nessuno sembrava coglierlo. C’è l’amore per John Ford. E poi Renoir, Bresson e Jean Gremillon. E gli Straub.

Christian Petzold ricorda come già dalla scrittura si potesse intuire il lato modernista, quasi joyciano, di Harun Farocki. Non è dunque un caso che la forma “saggio” circoli dalla carta alla celluloide. E’ proprio questa la forma su cui si misurano vari collaboratori, compreso Holger Meins, altro nome che ruota a sua volta intorno alla rivista. E se c’è qualcosa che Farocki ha compreso da quei “maestri”, non è forse uno stile, ma piuttosto una logistica, un metodo di lavoro e di produzione. La presenza di Jean-Marie Straub – all’epoca esule in Germania – e Danièle Huillet deve aver in qualche modo funzionato da detonatore dialettico. Lo scambio di idee deve aver reciprocamente dato buoni frutti. Lo si comprende se avviciniamo Inextinguishable Fire, che Harun Farocki realizza nel 1969, a Einleitung zu Arnold Schoenbergs Begleitmusik zu einer Lichtspielscene (1972): la politica, la forma “saggio”, il processo di lavoro, la Storia, il footage di repertorio, il montaggio, la dialettica delle immagini.

Ogni film di Harun Farocki sembra poggiare su queste coordinate. Rivedendo oggi Zwischen Zwei Kriegen (1978) o Ein Bild (1983) o il suo Arbeiter verlassen die Fabrik (1995) viene spontaneo notare come questa forma “saggio” metta in luce tutto l’acume di Farocki , la sua intelligenza, la sensibilità, lo sguardo ultrasensibile su alcuni gesti all’apparenza anodini. I suoi film, le sue installazioni, restano insuperate lezioni di cinema.

(Il 30 luglio è se n’è andato improvvisamente Harun Farocki. Questo pezzo è apparso sul Manifesto, il 1 Agosto 2014, insieme a quelli di Nicole Brenez, Elfi Reiter e Cristina Piccino)

Cìcikov

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lunadi Romano A. Fiocchi

Quando il modulo lunare appoggiò le sue zampe metalliche in prossimità del Mare dei Sogni, il piccolo astronauta ebbe un tuffo al cuore.

Si chiamava Ivan Petrovič Cìcikov, discendente di quel Pàvel Ivànovič Cìcikov che collezionava anime morte in un romanzo d’altri tempi. Ecco perché tutti lo chiamavano semplicemente così, Cìcikov. Ma al contrario del suo trisavolo, niente anime morte: questo Cìcikov collezionava sogni. Fin dai primi anni di scuola aveva sognato di diventare astronauta per vedere la faccia nascosta della luna e si era così incaponito in quel desiderio infantile da dimenticarsi di crescere. Era rimasto un Cìcikov della statura di un bambino o poco più. Proporzionato ma piccolo. Nel frattempo aveva realizzato altri sogni: aveva portato avanti gli studi con ottimi risultati, si era laureato in ingegneria alla Lomonosov di Mosca e nonostante l’altezza, si fa per dire, era riuscito a conseguire il brevetto di volo con il celebre colonnello Dolgov. Ma da queste inaspettate soddisfazioni a finire sulla luna c’era un bel passo. Senza averci mai sperato, la sua corporatura da bambino si rivelò un autentico vantaggio quando l’Agenzia spaziale sovietica decise di agganciare un modulo lunare segreto a una navicella Soyuz. L’abitacolo ridottissimo scatenò la caccia agli ingegneri di dimensioni lillipuziane. Cìcikov si fece avanti. Fu subito accettato.

E allora eccolo lì, il piccolo Cìcikov, che senza rispettare il programma della missione, disobbedendo al comandante rimasto a bordo della Soyuz, interrompendo i contatti con la base di Baikonur e con la stazione orbitante, dirottava il suo modulo lunare oltre la linea di demarcazione di una splendida luna piena per finire dall’altra parte, nell’oscurità della sua faccia nascosta. Lì il buio dell’universo scendeva sino al suolo e si mangiava ogni cosa. Niente più crateri, solchi, striature a raggiera, monti e catene montuose. Cìcikov slacciò le cinture che lo legavano al sedile, agganciò zaino e manicotti per la passeggiata all’esterno, infilò il casco, aprì il portello del modulo lunare e uscì.

La tuta da cosmonauta, costruita su misura, lo isolava da ogni percezione ma sapeva che intorno a lui il silenzio era più profondo del rumore del suo respiro. Non c’era vento, sulla luna. E non ci sarebbero state né pioggia, né neve, né giornate nuvolose, né giornate afose. Il tempo non cambiava mai. C’erano soltanto la luce del giorno e il buio di una notte gelida che durava due settimane con una temperatura che scendeva sino ai centocinquanta gradi sotto lo zero. Cìcikov accese la luce sopra il casco. Compì alcuni passi incerti. La polvere si sollevava attorno ai piedi, si sentiva leggero e al tempo stesso trattenuto sul suolo lunare da una mano misteriosa, che era poi il peso stesso della tuta.

Salì l’altura che delimitava il Mare dei Sogni, accese il faretto di profondità e guardò dentro l’abisso. Fu una visione straordinaria. In fondo a un canalone c’erano ammucchiati migliaia e migliaia di oggetti provenienti dalla Terra. Erano di ogni tipo e forma, alcuni primordiali come vecchi utensili ricavati da ossa di mostri preistorici, altri modernissimi come testate nucleari dismesse. E poi mobili distrutti dai bombardamenti, chincaglierie, quintali di libri, di giornali, bottiglie di vino, armi arrugginite, attrezzi agricoli, vestiti nuovi e usati, spartiti musicali, pacchi di lettere, giocattoli, parrucche, manichini, montagne di scarpe da donna e da uomo, borse e sacchetti a non finire. Finito il canalone se ne apriva un altro, anche questo traboccante di manufatti umani lasciati lì da millenni. Era evidente che tutti i mari della faccia nascosta fossero pieni di queste cose. Gli sembrò allora di sentire la voce della luna che diceva: «Vedi, piccolo astronauta, la mia forza gravitazionale non serve solo per il movimento delle maree e per le pance delle gestanti: attira tutto ciò che l’uomo abbandona e dimentica, e lo raccoglie qui, nei mari della mia faccia nascosta. Un giorno, tutto ciò che avrà costruito l’uomo nel corso dei millenni finirà quassù».

Cìcikov si intristì. Il freddo saliva di intensità e cominciava a penetrare la tuta. Si incamminò con i suoi movimenti rallentati verso la linea di demarcazione. Una volta uscito dalla zona d’ombra, la protezione del casco dovette far fronte a una sferzata di luce e di calore. Fu allora che la vide.

Era una sfera colorata sospesa nell’oscurità dello spazio, senza frontiere né confini se non quelli dei mari e degli oceani. I bianchi erano abbacinanti, i blu intensi, i verdi e i rossi più vivaci del piumaggio di una paradisea. Non vedeva la vita – uomini, animali, piante – ma la vita traboccava da quella sfera colorata con una forza che investiva tutto l’universo. Disse allora una sequenza di frasi senza senso, del tipo: “Pensavo che fosse una cosa seria. Neppure la morte lo è. Neppure Russia America Giappone Cina. Anche le guerre, da quassù, sembrano nulla”.

Cìcikov capì che il sogno che aveva sempre inseguito era in realtà il mondo dove aveva sempre vissuto. Ma se fosse tornato a vivere laggiù, nel mondo meraviglioso che si chiama Terra, una specie di presbiopia cronica gli avrebbe impedito di riconoscerlo. E allora Ivan Petrovič Cìcikov decise. Rimase lì per l’eternità. Sarebbe stato uno dei tanti astronauti dispersi nello spazio e di cui più nessuno sapeva il nome.

E voi sulla Terra, finché la Terra continuerà ruotare intorno al sole, quando sollevate lo sguardo verso la luna ricordatevi del piccolo astronauta russo che con occhi infiniti vi osserva da lassù.