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Reader’s digest: Filippo Deodato

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The_Brothers_Karamazov_by_LordShadowblade

Un incontro inatteso

di

Filippo Deodato

Aveva terminato la sua lezione su I Fratelli Karamazov quel pomeriggio. Aveva chiarito a se stesso e forse anche ai ragazzi presenti ad ascoltarlo, che le figure del Cristo e del Grande Inquisitore, convivono nel fondo dell’anima di ciascun uomo. Il giorno che si stava consumando volgeva rapido verso quella fase, che prende, nel tepore delle case, la forma dell’agognato riposo; niente aveva più da chiedere a quella mente stanca, che lenta, stemperava la sua estenuante tensione. Eppure, scritto segretamente nell’immediato futuro, c’era ancora qualcosa che lo attendeva e che avrebbe risvegliato nuovamente, di lì a poco, la sua attenzione; qualcosa che del resto aveva spesso vagheggiato nelle sue innumerevoli e malinconiche fantasticherie.

– Ciao Nathan, ci sentiamo presto. Oggi devo correre a fare la spesa e poi passare a ordinare il Dvd che ci servirà per il prossimo incontro – aveva detto prima di congedarsi da lui la sua amica e collega con la quale aveva ideato il progetto che una volta alla settimana li teneva impegnati di fronte trenta studenti di un liceo di periferia. – Ma no Carla, potrei prenderlo io il film. Di recente l’ho visto esposto nella libreria del centro commerciale che sta proprio lungo la strada che faccio per tornare a casa – rispose con naturale cortesia. – Oh caro, te ne sarei grato davvero se lo prendessi tu. Allora buona serata e … A martedì! –. Nathan si diresse verso il negozio ad effettuare l’acquisto come aveva promesso.

La libreria era semivuota, pervasa dagli umori eterogenei dei clienti che nell’arco dell’intera giornata l’avevano popolata. Una volta rimanere davanti a tutti quei libri senza sceglierne uno da portare via con sé, sarebbe stato impensabile; che la lettura compulsiva degli anni passati avesse molto spesso frenato i suoi slanci creativi più che alimentare un autentico desiderio di conoscenza, oggi rientrava tra le sue consapevolezze. La scrittura che aveva per anni mormorato dentro di lui come una vocazione silenziosa e immanifesta era ormai diventata una sorta di guardiano, e al contempo, un prezioso strumento che poteva dar voce all’impellente necessità presente nei recessi più profondi del suo essere; lo aiutava a perforare quel muro  che blindava la sua frustrata sensibilità.

Passò con una rapida occhiata le novità impilate e ben in vista, sdraiate come seducenti sirene sugli scogli; lambì con lo spirito il suo reparto prediletto costellato di antiche e nuove costruzioni narrative. Sogguardò sprezzante la saggistica solida e velleitaria, tutta tesa a spiegare le tortuosità dell’attualità politica, prima che un rifiuto animalesco lo spingesse oltre, verso i quadri e i disegni che raccontavano la storia dell’arte. Una spossatezza sempre più grande respinse persino la bellezza dell’arte figurativa. Come dimentico del motivo che lo aveva portato fin lì, cercò allora i ripiani che ospitavano la fotografia, per documentarsi su uno degli autori contemplati nel suo progetto scolastico. Provò ad immergersi nel mondo colorato di McCurry; lesse, rimanendo impermeabile al loro significato, i commenti che raccontavano la complessità di quei luoghi tanto distanti, che il fotografo aveva percorso con coraggio, quando la sua distrazione, fu scossa dal calore di un’altra presenza. Un uomo sulla sessantina, ben vestito, sfogliava con garbo uno dei volumi sulla storia fotografica di Roma. Nathan gettò un rapido sguardo sulle pagine aperte del catalogo. Una foto che ritraeva Roma ai primi del ‘900 con al centro un calesse sopra una strada interamente allagata, fu il luogo cui conversero i rispettivi bisogni di manifestare un recondito, quanto umano, desiderio di comunicare.

– Non sembra cambiata molto da allora; gli stessi problemi avviliscono gli splendori della capitale – proruppe l’uomo iniziando la conversazione. – Forse sono cambiati solamente i mezzi di trasporto – rispose scherzosamente Nathan. I due avevano deposto dal suo trono la regina che spesso decide le nostre solitudini; il regno della diffidenza si era arreso alla loro volontà di aprirsi l’uno all’altro. All’uomo sembrò opportuno continuare il discorso che aveva audacemente cominciato. Sfruttò a pieno l’argomento per distillare con disillusione i torti subiti negli ultimi anni; dalla sua amarezza zampillavano ininterrotte condanne all’economia del suo paese e all’intera classe dirigente. Nathan reagì stizzito ma dissimulò il suo stato sforzandosi di non interrompere il flusso di parole e di non chiudersi come molte altre volte aveva fatto. Gli fu più chiaro adesso, il motivo per cui la politica finisce per imporsi su qualsiasi altro tema. – Lo sa lei che la Telecom era una delle aziende più ricche del mondo con i suoi 240.000 impiegati, oggi ridotti ai soli 50.000? Siamo stati gli inventori della carta prepagata e del Gsm; ma stiamo diventando un popolo di individualisti. Stiamo perdendo irreversibilmente l’idea di comunità. Le dico ancora una cosa: molti anni fa una delle case automobilistiche tedesche era sull’orlo del fallimento; molti operai rischiarono di essere licenziati.

Decisero allora per il bene di tutti con un encomiabile atto di civiltà di abbassarsi lo stipendio. Oggi la Volkswagen è uno tra i tanti vanti dell’industria della Germania. – Nathan annuiva passivamente, temendo di ascoltare l’ennesimo sollecito che lo invitava a trasferirsi in uno stato più sano, più prospero. Invece, quell’uomo che era vissuto in molte parti del mondo, smentì la sua tacita previsione, chiedendogli improvvisamente se aveva mai veduto il monumento dell’olocausto eretto a Berlino; esaltò il genio dell’architetto che lo aveva progettato e poi recitò alcuni versi in tedesco che il fascino di quell’opera gli avevano ispirato. Lo fece con voce fioca biascicando le parole. I suoi occhi presero ad inumidirsi; divennero una sorta di acquario dove smarrita nuotava la sua commovente fragilità. Proseguì esponendo le ragioni che avevano destato in lui tanta ammirazione: – Il memoriale della Shoah mi ha dato la possibilità di vedere il confine dove convivono l’amore e la morte. – disse sommessamente l’uomo – Lei la conosce la sua struttura? – Nathan fece si con il capo. – Poter vedere tra le fessure che dividono le stele commemorative, bambini saltellanti o lo sfilare ansimante dei turisti è uno spettacolo incredibilmente suggestivo! –. Nathan ascoltò con trasporto, senza afferrare  fino in fondo il senso di quella singolare descrizione. Ripresero a parlare di politica, o meglio di tutti quegli attori politici che con ineguagliabile impudicizia e inverecondia, negli ultimi anni, avevano contribuito a gettare nel disincanto milioni di cittadini.

Nonostante i due si conoscessero da così poco tempo l’uomo confessò a Nathan un segreto che forse da qualche anno portava con sé: – Sa, lei è giovane ed ha ancora dentro di sé quella che si chiama speranza. Io non solo temo di averla perduta ma mi sento di dirle che mi spaventa l’idea di affrontare la mia vecchiaia in un paese che sembra non solo disconoscerne il valore ma che lascia i vecchi in balia delle loro debolezze. Nathan trasalì, sentendo che l’uomo che aveva di fronte non era l’ennesima noiosa incarnazione del malcontento generale; possedeva una sensibilità straordinaria ed era come avvolto da quella misteriosa tristezza di chi sopravvive ai suoi cari. Gli aveva inoltre narrato dello strano rapporto che possedeva con le proprie radici; si sentiva un specie di apolide pronto a radicarsi in tutti quei luoghi che il destino gli assegnava. I due condensarono nel favore di quella atmosfera le riflessioni che avevano maturato negli anni, fino a quando, qualcun altro non fu investito dall’emanazione contagiosa del loro desiderio di raccontarsi. Una terza persona insinuò con leggerezza il suo dissenso sulle ultime considerazioni critiche dell’uomo, che del resto, avevano lasciato perplesso anche lo stesso Nathan; lo fece non per affermare la propria ragione ma con la sola intenzione di partecipare ad una discussione dai toni pacati, aperta. I tre sconosciuti continuarono a dialogare e a scambiarsi in una totale armonia le loro idee; si ascoltavano con pazienza senza interrompersi l’un l’altro come se stesse loro più a cuore il legame magico che li teneva uniti rispetto a ciò che avevano realmente da dire.

Sembravano scoprire istante dopo istante il piacere di un umanità ritrovata. L’ultimo arrivato fu il primo ad abbandonare la discussione mentre gli altri due ne approfittarono per ritornare al loro prezioso confronto che prima di essere interrotto, aveva raggiunto una speciale intimità. Nathan si preoccupò che fosse tardi e invitò con dolcezza il suo interlocutore ad uscire dal negozio per lasciare che i commessi si preparassero per la chiusura. I due fecero qualche metro insieme fiancheggiati dai ristoranti brulicanti, interrompendo la loro marcia vicino una scala mobile. Nonostante il brusio la loro conversazione si fece ancora più confidenziale; Nathan si sentì compreso quando spiegò all’uomo i motivi che lo trattenevano nel suo paese e soprattutto gli parve di trovare un nuovo compagno lungo il suo faticoso percorso. Prima che i due si accomiatassero di nuovo qualcuno si permise di trovare un varco nella loro spontanea complicità: – Sono a quel tavolo laggiù insieme ad altri amici; se volete potete aggiungervi anche voi! Possiamo cenare insieme se vi va! –. Era lo stesso uomo che poc’anzi si era intrattenuto con loro. Declinarono entrambi con misurata gentilezza. Attraversati da un misto di stupore e gratitudine si salutarono con un inconsueto senso di pienezza generato -e di questo ne erano pienamente consapevoli – da un cibo che l’alienante modernità ha  reso sempre più introvabile.

Boum Boum Za zà

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10940_194855097070_495328_nLa domenica pomeriggio su Radio Tre, c’è un programma che mi piace assai e si chiama Zazà . A loro, in particolare all’indiano Piero Sorrrentino dedico questo divertissement. Seconda puntata effeffe

Second Act

(megafòn du shoperò)

Ke lu effeffe mo mo proprie steve ‘n miezze è ssirene de touti li type; que l’una ca pariva n’ambulance de Pompiers et l’era na machina da pulizia, n’artra qui pariva  du pronto secours  et l’era de la monnezza, alors qu’en miez à tute le sirine ce pariva da esse n’Ulysse quoi, n’Odissé du domil ma sans l’espacio quoi que l’era ocupat de tute le schole de la ciudad, de tute le fabrike, de kelle ke c’erano rimastute ça va sans dire, la plaza. E si li uni de l’action catholique parivano de sturbarse et ‘mbarazzarse nu poke dop l’ambaradan de li fimminielli ca cum tode chose musical et non, putipù et scetavajasse, stivene annanz et arète, nu groupo compacto de lo sindicat  tiniva arte et dirite le bannere rocie, arte et dirite  ca l’una nun s’era ‘n finita nei fili du Sturm und Tram facinni scintill et lampo ca pareva nu signo do deo cristiano, do deo musulmano, ‘nzom de tute l’aneme do puriatorie?

Et alors cum paso circunstanziat et la cocarda à lo bavero de la chemise effeffe circava a Zazà ‘n do trambuste general, et à quiconque lo dimandava, l’uno diziva que nu l’aviva viste pennient, n’artre qui nun sapiva manco qui l’etait sto Zazà, et nu vigili cor casco blanco e cor galiardeto de la ciudad de Turin, pariva de savoir et pure que ce stive indikàn la direziona, l’indicaziona, l’informaziona, quannno, cumm l’est cumm nun l’est, la radiotrasmittent ca ce aviva sur la spalet alarmata diciva que lo tafferuglie ‘n miez à lo cortege stava degenerann assaje.

Et c’est comme ça que lo effeffe vidiri mo c’aviva lo vigile courrir ‘n miez à les uns et les autres cor galiardeto en lanza pure gadagnari la posiziona. Et tout le cortege s’arrestette pè capiri et faciri quelque chose.

En fait, ‘n do lo miezo de la Via Po, nu cartiello No Tavor No Tavor de nu grupo ‘ntussecose assaje da sirinata des flicks et cops, s’agitava da na parte a chell’ata, que à lu effeffe pariva n’arbre magistro, nu cattivo magistro ça va sans dire, ‘n miez à la tempesta, et shake accà et shake allà, la capa de tuti li manifestant pariva de abbottari, cum consequencias facili à imaginarse.

Et cumm l’est cumm nun l’est, lo effeffe et d’autres si misiro à ir là ove se puede, pe racapizarce na chose, la chose.

Et la chose l’era simple en fait; le no Tavor nun cintravi na cipa in da lo nervosisme general car la  vira question l’era toda cuncentrata sur le philosophe ke le stava fora sur le balkon et qui diciva que la manifestaziona l’era tuta sbaliata, ke nun se potiva à l’epoque actuala de tolerarse la postaziona du cortege cum la derecha à droite ( les cathos, les liberò, les fasciò, les massons et li artri) et la gauche à gauche ( li demukrat, li comunist, li radikà)  comme effectivement se putiva notarse à regarder le cortege cum la Plaza Castelo areta et la Gran Madri devant. Et plus lo philosophe stiva a urlarse que nun c’erani plus sinistreddè, que l’era finisciuto lo temps de cerises, et kilo de druategosce, plus los autres lo stivene à auscucciar ‘mpettiti et stralunat pers. Ke  deja poki minuti auparavant l’era stat lo skandal entre deux groups de gauche que tous chacun pretenniva de starse à la senestra de l’otro, ke la instance de groupe l’era plus marxiste leniniste maoiste trotskjste de l’autre, et pareillement à l’ata parte, les uns se dicivani quel u brazio teso l’era prerogatif label markiu a difinnire de la forza nova, nova de fabrika ma antika de convincimient, et non de li furkunari ou pejo encor des centristes buttigari. Or, si le philosophe tiniva raggiuna, la chose se cumplicava encore de plus, et poke ce stava da faciri a li viggili, de tratenerse les deux skieramenti a sinistreddè, alors que nun se putiva mica spustare la question sur l’avant et andrè? Li progressist en fait se revelàn cunservatori et li reazionà prugressist, les futuristes passatistes et li campagnari metrupulità, li stracciun comme vestiti à la moda de la street fescion et la pasta et fasuli cunsiderata nu plat gurmé tout comme les molignane ambuttunà cunsiderati stela stela michelin mènemo mènemo comme n’ostrega fine claire de Charente Maritime!

Mo tuta sta question intellectuelle, à l’intellecto c’aveva fato surgiri nu male d’intelecto, nu male a la capa, in da nu mòment ‘n pilluli, et cumm’l’est cumm nun l’est lo effeffe lassiai lo cortege pè trasiri in da na librairie ke makari truvasse lo libro do philosophe fore comm’un balcùn. Et c’est ainsi ca dimandette lo titro do libbro à lo libbrario que se ciamava Pablo come los apostolos, mais l’era communard anarchique  de Masa,  oui, mais de Carara.

Et si truvarini à parlà des uns et des autres, de sta crisis infinì, de sta misère du coeur et de banka et quanne lo effeffe ce dimandette de Zazà nu lecteur d’un livre à l’anne interessàt, ciertament, incurioù encore plus de toute respuesta ce dimanditte: Zazà nun sapiri saccio onde sta, mais vous sapite si la Titina c’en sta?

Or cumm’l’est cumme nun l’est se truvarini que l’uno lo effeffe circava a Zazà et l’artro, scanosciù la Titina, Pablo lo libbraio les lecteurs, et kille d’afora, la senestra et la dè. Et que se putiva diciri sans doute, que qui stava meso pejo l’era killati ke steveno à fora, à fora pesstrad et sur balcòn, avec sto bourdel de geometries post euclidiè et post fordistes.

Et c’est comme ça que penzette lo effeffe avant de riprindiri à cercarse Zazà, mo, mo que lo vigili de toute à l’heure, l’aviva briffé que Zazà steva à la fabrica de Mirafiò.

Astronomi di costellazioni linguistiche- Carlo Cenini

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“Astronomi di costellazioni linguistiche”: serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Secondo appuntamento: 23 marzo, H. 18.00, con Carlo Cenini, scrittore.

“… e non sapevano (-mo) più cosa fare per arrestare l’evaporazione dell’immagine, come un dissanguamento, una polaroid che si sviluppa al contrario, ovvero prima c’è l’immagine e poi, mano a mano che la osserviamo e ne troviamo i dettagli cercando disperatamente di raccoglierli come chi durante una bufera ha troppe cose da salvare, tutti quei preziosissimi e interessantissimi e fondamentali dettagli vengono irreparabilmente risucchiati, sprofondando come gigantesche ossa deformi nell’abisso della loro stessa, diciamo, alchimia.”

Carlo Cenini, nato nel 1978, vive a Trento. La sua produzione è in parte pseudonima e desidera rimanga tale. A suo nome ha pubblicato alcuni racconti per Linus, Nuova prosa e Nazione Indiana. Ha scritto anche testi teatrali e un libretto per un’opera lirica in inglese, oltre ad articoli di filologia e critica letteraria. Uno di questi testi teatrali contiene alcuni video, marcata parodia di prodotti farmaceutici ed erotici, che verranno proiettati durante l’incontro con l’autore. (I video sono vietati ai minori di quattordici anni).

I poeti appartati: Giuseppe Cornacchia

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cornacchia

 

 

 

Popolari

di

Giuseppe Cornacchia

 

 
Tweet dopo 10 anni

condividendo metri
ne occupi lo spazio
non pensi quale spazio
connoti la misura
nel tutto vivo della grazia
che metro è un metro
*
Nuovi poeti italiani (22 Jan 2014)

Alla quarta stazione
di questa via crucis del cuore
mi è riemersa la voce:
io sono l’amore senza un oggetto,
io Sono. Io sono la luce del giorno,
il ragazzo che ero.
Sono sempre rimasto qua attorno.
Ora cieco, mi vedo.
*
Sogno pisano (2 Feb 2014)

Ho capito il mio male con Pisa.
Il tempo s’è fermato,
la gente resta uguale
jeans, scarpette e maglietta
dai cinque ai sessantacinque anni.
Ho capito cos’è la vita in zona rossa
la placida vita delle coppiette
innamorate, sempre come a quindic’anni,
dei bambini in gran quantità,
dell’aria stranita dei vecchi
ancora in jeans, scarpette e maglietta.
L’ho capito da un certo male di testa
che mi ha preso in città.
Era come sentire il canto
delle Sirene, l’avevo sentito
a vent’anni e mi ero legato al palo
volendolo sentire senza farmi rovinare.
E’ la vita raccontata dal mio
collega nucleare: gli eterni
borsisti senza ambizione.
E’ la vita della gente che sorveglia
l’alluvione, la piena annunciata
e puntualmente non verificata.
Gli accenti del sud delle maestranze.
E’ come se il sud,
i paesini malridotti del sud,
abbia trovato redenzione
in un paese un po’ più grande,
molto civile e tutto
sommato pacificato, ceralaccato.
Ecco dunque cosa soffrivo,
il canto della Sirena, della vita
tranquilla da buon padre di famiglia.
“Aspetto qualcuno che mi venga a salvare”
diceva il mio amore ma cara,
ti devi salvare da sola,
le braccine le hai per nuotare.
Nel mio mondo di grandi passioni
che posto mai ha la vita umile
della brava gente che vota il PD?
Io ho sempre votato radicale,
i fatti miei non me li sono mai
voluti fare, ho sempre dato,
dato, dato senza ritorno.
Ogni giorno una prova d’amore.
E’ una vita popolare
che non ho mai vissuto.

*
Popolari (17-27 Feb 2014)

Come uomo anche se
ugualmente, quando
e non capisce, in fondo
un altro scopo di me
che subisco, meno male,
e sentirsi contenti
a far delle cose,
mezz’ora di quiete
servirebbe un altrove
mezz’ora, una sera.

*
Rigeneratore del passato (28 Feb 2014)

Se penso a tutti i passato
che ho lasciato cadere
e dunque a tutti i presente
che non ho maturato, nemmeno una
delle mie mancate vite,
una strada diversa da quella
in buona fede, la storia amputata
di tutti i miei passato che non hanno
potenziale futuro, volti inerti
che distolgono da quello che manco.
*
Ri-manifesto pop (14 Mar 2014)

Nella vita la spinta lo da il fumo,
l’ambizione, la speranza di fare imprese.
Se non sai sognare non fai sognare.
L’assuefazione al compitino, il timore
che non si porti a casa la pagnotta,
puoi vivere così? Saremo spesso sazi
vendendo le emozioni, sognando sogni
concentrati sui grandi appuntamenti.

*
Donne dei pesci (15 Mar 2014)

Sto fermo all’ultima stazione,
le mie mutevoli sirene
appiccicose, più fedeli.
E’ vero, amano i gioielli
e circondarsi di attenzioni,
ci vuole senso pratico.
Noi siamo bravi in tutto, siamo
quattro, io prendo decisioni
terribilmente affascinato,
stordito nell’acquario, pigro,
avendole girate tutte
ho capito, ma le sapevo nate
viziose, sensuali, che proprio
si donano e fanno innamorare.

*
Non credo alla poesia (15 Mar 2014)

Attenzione, le mie responsabilità
me le sono sempre pagate,
nessuno può dire che non ho mantenuto
o che sono scappato.
Io dico le cose una volta
le parole sono solo parole
i fatti si fanno con chi li vuole fare
perché cruda è la vita.

*
Una sera (16 Mar 2014)

la vita che ho fatto
i tempi accelerati
voi non immaginate
sono stato felice
non avrei mai pensato
ero io senza io
una sera una sera
ho sfiorato la vita
e sono straripato

Primo capitolo di un romanzo noir

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di Orso Tosco

Noir
Doctor Who, Pig Slaves

Il contenimento della lotta

Gesù disse “Ho gettato fuoco sul Mondo, ed ecco, lo custodisco fino a che divampi”.

E tu sei il Porco.

E devi trovare Denise Brown.

Tempo e storia sullo scaffale dell’eterno presente

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di Claudio Vercelli

center of history
Sulla natura del tempo che stiamo vivendo, più ancora che sulla sua qualità, parrebbe di potere dire che siamo oramai calati in una sorta di eterno presente. Un tempo che è senza storia, se non altro perché essa presuppone non solo lo sguardo rivolto all’indietro, ovvero a ciò che è stato, ma anche e soprattutto la fiducia verso quello che potrà essere. La storia, come racconto di un’origine comune, condivisa, accetta, e come tale anche però demitologizzata, si sfarina dinanzi all’atto d’imperio di un presente che, nel dichiarare impraticabile l’idea di un tempo a venire (se non come foriero di dubbi e angosce) lo sostituisce con un «qui ed ora» che sembra essere l’unica dimensione plausibile non solo delle relazioni umane ma anche dell’identità individuale.

Pezzi di merda

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di Ranni Querciano

Tentare è il primo passo verso il fallimento (Homer Simpson)

 Me lo ripete da così tanto tempo che ho quasi finito per crederle. “Devi imparare a volerti bene” – mi dice, saggia materna e femmina – “smetterla di trattare te e gli altri come se in ogni scelta o cazzata ci fosse sempre in ballo il giudizio di dio. Meno pesantezza e seriosità soprattutto. Leggero, leggero …”. Le piace proprio sta storia del giorno del giudizio, deve averla sentita da qualcuno alla tele o dalla parrucchiera. E adesso me la rivoga a ogni occasione propizia per farmi intuire verso quali lievità godute mi potrebbero condurre la sua mente e le sue mani (“Abbiamo un corpo! Non dimenticarlo mai. Tu sei tutto testa!”), se soltanto non opponessi tutta sta resistenza inutile.

video arte #28 – carlo casas

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carlo casas

Carlo Casas, End Trilogy, 2002-08. 

(Proiezione video multicanale: cliccare due volte sull’immagine, qui e nel sito di arrivo.)

Rap news: Media war games

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Consigliati schermo pieno e volume alto.

Vedi: https://en.wikipedia.org/wiki/Rap_News

Da Belleville al Kitsch

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Di Ornella Tajani

Nelle ultime settimane mi è capitato di leggere due articoli che parlano dell’abitare nell’est parigino. Il primo, scritto da Jean-Michel Normand per il magazine di Le Monde, si intitola «Paris, si les bobos votaient à droite» e analizza le contraddizioni della vita nella boboland, il regno dei bohémiens-bourgeois convenzionalmente situato nel triangolo del decimo arrondissement intorno al canal St Martin.

Reader’s Digest: Zena Roncada

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COPERTINA da Margini
Storie di donne e di uomini senza storia

di

Zena Roncada

 

Bigio

Un bicchiere di clinto, che la Gemma gli segnò in conto del prossimo fagiano o di un gobbo da mettere nel forno. Uno schiocco di soddisfazione, per sentire più forte il sapore di fragola e di uva. Una manata sul cappello, perché restasse ben calcato, lungo il viaggio. E via. Verso Verona. La schiena dritta, come da seduto, per ingannare gli anni almeno un poco, l’asciugamano fra il collo e la camicia bianca, Bigio partiva anche quel giorno, prima di bassora, con la bicicletta dal manubrio largo: da Carbonara, fin dove si poteva, cercava l’argine maestro. Per rendere il tragitto più tranquillo e per guardare, intanto. C’era la riva di Po, che si grinza nei rovi e nei sambuchi e dopo si sfilaccia, lunga, con le barene di sabbia chiara. E c’era la terra: larga e piatta, coi quadri di stoppie stropicciate e di medica già al secondo taglio, spartiti dalle cavedagne di polvere battuta. Pensa te al sudore che c’è dentro, si diceva ogni volta, pedalando. Tutta fatica nostra. Tutta fatica vecchia. Rigulada zo. Rotolata giù. E gli pareva di vederla scivolare giù, fra le crepe, in basso, insieme all’acqua e ai vermi. Come la pioggia rossa, densa di calore.

Poco ne torna sopra, di lavoro: spiga o pannocchia, dritta come un fuso. Lui lo sapeva che a volte resta al fondo, la fatica. Addormentata dentro a una corteccia o presa in mezzo alle radici. Anche insabbiata, lungo Po. Castagna dolce d’acqua. La vita delle piante che si è fatta nera, carbone da bruciare se non c’è la legna. O trifola, tartufo che sa di fungo e nebbia. Bigio lo intendeva, questo, perché aveva la pazienza del cercare, del chiedere soltanto a terra e a riva: tutto per un vivere selvatico, senza padroni e senza monsignori, fra gente con i nomi brevi e parole poche. Un vivere di sponda, di vita mai asciugata, come la battellina nera, ora sulla spiaggia, ora sotto riva a snidare la tinca nella melma e certo sanguinello, tenero all’intreccio. Nella casa giù nella golena, magazzino e officina delle mani, con l’acqua che rigava i pioppi e soffiava nei giorni della piena. Caccia, pesca, più spesso perizia di raccolta. A quel suo vivere di sponda doveva pochi amici e un grande amore: non le malizie della vedova in cerca di radicchio, neanche la storia vecchia con la Jone.

Quando una possiede anche un mulino, crede che un uomo sia farina da comprare.Un altro amore. Con la casa vuota, senza mai una donna, senza bambini, neanche il cane che impreca alla catena, si sente bene il lamento dei fagiani, che si sgraziano al fondo della macchia, e il secco percuotere dei picchi, fra merli in chioccolìo o cince che fischiano dal basso. Arriva il fragore d’ansa in sottofondo che succhia l’acqua in gorghi e mulinelli e poi la fa girare e la sbatte contro i tronchi di  golena. Rauca. Arriva la voce di pioppo e quella di rubilia, di salice che si sfronda e frusta, di gelso a foglia larga che scartella. Si sente ogni cosa, se il vento aiuta.

Passava delle sere ad ascoltare, Bigio, con lo stare bene che non ha parole e neppure si riesce a raccontare: solo fischiava all’aria e al suo toscano, per stare dentro all’armonia. Poi venne Bindo. Bindo col furgone, delle cose da vendere e comprare. Bigio aveva fra le mani un tartufo che faceva gola, scovato al bivio dello stradello vecchio. Quello lo prendo io, e ho giusto una cosa, disse Bindo. Lasciò un grammofono e qualche vecchio disco. Esplose dentro la golena la voce di una donna: di vetro e di catena, alta su nidi e pioppi, alta sopra le anatre di passo. E dentro c’era tutto: il vento e il ghiaccio, il fuoco e le stagioni, i mondi di margine e di fiume. Con una forza che non è d’accetta: l’accetta attacca, spacca e squarcia con un colpo netto, come la falce. E neppure è quella del ramo che resiste, che tiene al vento e al frutto, nella sua pazienza. Era la forza che scioglie la fatica nel lento risveglio delle vene, che accoglie la voglia di piangere del mondo e la ferma nell’angolo dell’occhio, in lacrime bambine. La forza del bello in forma di dolcezza, amore che commuove e bacia dentro. Tutto in una voce di vetro e di catena, e nelle altre che arrivarono fra i pioppi, all’appuntamento amoroso di ogni sera, barattato con cavagne di salice e canestri di mele campanine: arie di opera e romanze, con rane e grilli a raspare sotto. O soltanto nebbia. Nuova felicità di compagnia.

All’Arena di Verona, andava Bigio, in uno dei giorni più caldi dell’estate, quando le corti sono gialle per l’arsura e il clinto passa breve per la gola, poi resta sulla pelle a luccicare. All’Opera, con l’agitazione buona nelle gambe e la voglia di musica nel petto. In bicicletta, ripetendo le parole mandate a memoria senza scritto e solo mormorate sulla bocca, la musica ormai sotto la buccia, nella testa dive caste e gelide manine. Ogni amore ha i suoi riti, impone fedeltà ed anche devozione: quattro ore, pedalate senza tregua, fra argini e contrade, quando Gino suonava nell’orchestra d’agosto e lo faceva entrare, confuso in mezzo al coro. Dopo c’era da aspettare il buio, rannicchiato sopra a un gradone, nello sbieco di un’ombra protettiva. E quella fu la sera di Manon. La sua Toti vista proprio in faccia, non solo pensata nei rami del cortile, la sua Toti che cantava scura e decisa come la lama della luna, la voce tornata al corpo e ai gesti, finalmente. E Puccini da ogni parte, a prendere come un gorgo di Po o una spira di foglie e tramontana.

Per il Bigio fu un sentire grande, un ascoltare con il cuore a balzi. Fu come fasciarsi la pelle di musica e di canto: dolce quanto lasciarsi andare all’acqua intiepidita nella mastella di zinco, sotto il sole, per un bagno che toglie sudore e fatica, la schiena appoggiata al bordo caldo. Allora bisognava dire grazie, anche senza una lepre, anche senza un fagiano a rendere meno povere le mani. E la Toti, davanti al vecchio così in adorazione, l’odore della vita tutto addosso, nel camerino di cipria e borotalco capì che c’era da accogliere e da dare. Il Bigio se ne andò col suo trofeo: una sciarpa, forse proprio un velo, ripiegata come una reliquia emessa da pettino, sotto la camicia. Tornò senza sentire la fatica, senza ascoltare il lamento dei pedali. Solo con quella contentezza liscia che quasi fapaura. Ritrovato l’argine, lasciò che la ruota cercasse il binario di un solco amico e chiuse un poco gli occhi per cantare nella notte, adesso sì, a voce piena, senza paura di niente e di nessuno.

Juggernaut

1

juggernaut di Gianni Biondillo

Alan D. Altieri, Juggernaut, TEA, 2013, 251 pag.

 

I veri scrittori sono sempre ossessionati da qualcosa. Le storie sono solo espedienti per espettorare dal buio di sé le angosce più profonde e inconfessabili. Tutto si può dire di Alan D. Altieri tranne che sia uno scrittore parco, minimalista, senza sangue. Sono trent’anni che, viaggiando nel tempo e nello spazio, scrivendo saghe storiche, contemporanee o fantascientifiche, Altieri contempla l’Apocalisse. Guarda dentro l’abisso dell’umano per trovarlo empio, ferino, irredimibile. E ne ha terrore. Panico.

Juggernaut è il primo volume di una pentalogia (!) ambientata in un futuro postumano e premorale dove nelle Ecumenopoli – scenari metropolitani in fase terminale – si rappresenta l’incubo di una società senza scampo, fatta di caste, prima ancora che di classi. Il bene non trionfa sul male in Altieri. Il male combatte contro un male peggiore, inviluppati in un vortice autodistruttivo. Come in ogni sua saga anche qui campeggiano personaggi tratteggiati con l’ascia, antipsicologici. Pura vita in azione. Eroi necessari, di chandleriana memoria. Fra questi Karl Dekker, un hunter/killer, icona ricorrente nei romanzi di Altieri.

La lingua dell’autore prosciuga la sintassi, si fa descrizione pura, perde ogni orpello, eppure, nella sua petrosità – a tratti roboante e romantica, colma di enfasi, di anafore – si fa quasi sperimentale, avanguardista: elenchi sterminati di dati tecnici, descrizioni minuziose di armi letali, raffigurazioni plastiche di combattimenti di una violenza esasperata.

Juggernaut si legge accettando tutto, pure l’ipotesi di non capire esattamente cosa stia accadendo. Il mondo immaginifico di Altieri è più grande, è più largo del nostro. Avremo bisogno di altri quattro volumi per comprenderlo appieno. Eppure non si riesce a staccare gli occhi dalla pagina, tale è la capacità visionaria. In un mondo privo di pregiudizi di genere (letterario) Altieri avrebbe un posto d’onore. O lo si ama o lo si odia, lo so. Di certo non può lasciare indifferenti.

 

(pubblicato su Cooperazione, n° 29 del 16 luglio 2013)

Sei poesie

5

di Luigi Socci

Da Il rovescio del dolore, Italic Pequod, 2013.

luigi socci

Il viaggiatore ignoto

Accappatoi fregati negli alberghi
saponi con i peli appiccicati
sfoghi d’acne da treno:
segni inequivocabili di viaggio
più o meno.

L’avviso ai naviganti era criptato.
Era evidente il posto era sbagliato.

Scelte per punto fermo
come riferimento
stelle cadenti e vento.

Era evidente il posto era sbagliato
col cane che non solo
non riconosce ma persino
staccare dal polpaccio è complicato.

Era evidente
il posto era sbagliato:
tizi mai visti
spazi ridotti, pieni di rischi.
non ho
amici con divani come questi.

Come in una morale
senza l’ombra di fiaba
era evidente io stesso ero sbagliato,
andato a finire
e tornato.

0.8

Chino nel mio cunicolo.

Munito di binocolo.

Non cerco l’ironia, trovo il ridicolo.

28 agosto 94

per Franco Scataglini

Nerastro miramare
funereo zittarsi di triglie
bare a vela.

Onde con l’ombra al collo,
il loro andar di sale
ingozza il porto.

Cozze col cuore a pezzi
tette a lutto.
Il sole simultaneo
traduce sassi in terra
(grossi, di Portonovo; grassa di Tavernelle)

Curioso capolino
di vermi o cicche spente?
Dentro le sabbiature
lenta lebbra dei vivi.

Un morto vive altrove.

In attesa dell’onda anomala delle 15.30

Lei si legge l’oroscopo si scambia
messaggini carini, fa il sudoku
(a lei niente pertiene
di questa apocalisse
in un bicchiere d’acqua e nelle vene
a lei niente ne viene)
si controlla e si tocca
per vedere se c’è
ancora il suo sedere.

Abbi pietà di noi
nave superveloce per la Grecia
di noi che ti preghiamo
di passare d’urgenza in barba ai limiti
di chiuderci nel gorgo
(noi che non siamo a bordo) di strapparci
gli asciugamani a nodi marinari
via dalle mani.

Prima della liquefazione
dello sgocciolamento del calippo
prima che le mie membra
finiscano di spargersi di crema
prima del compimento
dello smutandamento,
al largo (l’acqua in bocca)
portaci a un punto dove non si tocca.

Venga l’acqua
alla gola
che si sloga e si sgola
che per ogni parola
che dice si allaga.
Annegherai i parei,
gli infradito di prada
e piangerà anche lei
ma l’acqua farà sì che non si veda.

Scrivo, con la pistola ad acqua
a spari sul bagnato
di profonde immersioni
nelle proprie ferite
fatte da uno che ha appena mangiato.

Nuova forma di nuoto
invoco
verso il fondo
imploro la marea
che mi nasconda
e mi alzo mi abbasso
faccio l’onda.

Di proprio pugno

Mi scrivo una tua lettera
finché dura la mano
finché mi regge il pugno, finché stringe
finché so l’italiano.
Come consolazione o per rivalsa
mi scrivo una tua lettera
falsa.

Mi scrivo di mio pugno
(la grafia non è mia)
senza fare la brutta
copia, senza bisogno
di sprecare saliva
per chiudere o affrancare.
Mi scrivo una tua lettera.
Poi te la faccio firmare.

Questa poesia non è
per te né per nessuno
non lascia alone
ha l’aut. min. ric.
non odora di chiuso
e poi
non si fa i fatti miei
ha tutte le carte in regola
è ochei.

Questa poesia è bielastica
può essere una esse
o volendo un’ixelle,
questa poesia si stende
come una parte del corpo,
una pelle.

Questa poesia non quadra
il cerchio casomai
si acumina in un rombo,
questa poesia non è
per te che sparirai
prima che tocchi il fondo.

(Per chi fosse interessato, una prossima doppia presentazione della raccolta di Luigi Socci e de Il sangue amaro di Valerio Magrelli si terrà a Roma giovedì 20 marzo alle 18.30 presso l’Esc Atelier autogestito di via dei Volsci 159, con la presenza di entrambi i poeti e il coordinamento critico di Andrea Cortellessa.)

Una testimonianza

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di Carlo Carlucci

Avevo letto i libri di Davide Lajolo su Beppe Fenoglio. Quelli finalmente positivi sugli scritti del letterato di Alba ed erano scritti bene, stimolanti, pieni di rispetto. Inquadrandolo finalmente nel suo ruolo di partigiano e di scrittore autentico dalla prosa secca,scarna, creatore di personaggi e di atmosfere di quel periodo sulle Langhe indimenticabile.
Ero andato ad Alba con l’amico Vincenzo, un mio collega di scuola, ed avevamo girato a caso. Avevamo trovato la piazza con la macelleria di suo padre, e poco altro. Poi passammo davanti alla sede del partito comunista ed entrai a chiedere informazioni. Un militante trentenne simpatico si offrì di accompagnarci nei luoghi segnati dalla presenza dello scrittore. Il campo del gioco dove anche lui scommetteva, altri posti,ma poi gli feci la domanda che mi stava in gola: vedere la sua casa e conoscere la madre che allora era ancora in vita. Eravamo nel 1976 o nel 1977. Non ricordo la data precisa.
Entrammo finalmente nella casa e il militante ci tenne ad avvertirci che la madre parlava uno stretto dialetto albese, per noi quasi incomprensibile. La signora Fenoglio, quando capì che volevamo rendere omaggio a suo figlio, diventò gentilissima sapendo che venivamo apposta da Milano per conoscere la casa dello scrittore e lei.
Prima di ascoltare lei io rubavo le atmosfere di quella casa dove “il partigiano Johnny era vissuto, aveva concepito i suoi romanzi e mi guardavo in giro un po’ distratto.
“Lui scriveva sempre”, disse subito lei, in ogni angolo e su ogni tavolo di sala e cucina. E qualche volta io e suo padre lo abbiamo rimproverato perché lavorava poco in macelleria (non aveva ancora un impiego fisso) e qualche volta facevamo fatica a tirare a campare.”
Era una donna forte, dal viso severo e segnato dagli anni, ma molto sicura di sé e dura nelle difesa della memoria del figlio scrittore. “A Torino hanno dedicato una via a Cesare Pavese ma a lui no. A Mosca però una via lo ricorda.”, confermò lei molto orgogliosa.
A un certo punto parlò anche della moglie di Beppe, la nuora. Lui stava già male e lei una volta era uscita dopo aver aver ricevuto un mazzo di fiori, l’ho vista io.
La conversazione durò circa un’ora. Lei confermava che il figlio fumava e tossiva molto. Ma non si aspettava una fine cosi rapida in un uomo così giovane. Alla fine il giovane del Pci ci accompagnò anche alla tomba di Fenoglio, e lì ci siamo commossi tutti. .

Paolo Lezziero


La scarna, essenziale testimonianza rilasciatami dal carissimo e laconico amico Paolo apre, a distanza di quarant’anni, uno sguardo su un mondo che non c’è più. Non ci sono più i comunisti. Quel gentile cordiale ‘militante’ del Partito ci tenne a precisare a Lezziero che comunque tra i compagni che erano stati partigiani, Fenoglio non se la diceva molto. E, nell’Italia di allora, dove buona parte degli intellettuali erano più o meno allineati, l’attacco sarcastico de I 23 giorni della città di Alba suonò come un’offesa alla Resistenza. Peggio ancora doveva aver suonato ad Alba. Il punto però è un altro. Lezziero che riporta di questa visita alla madre di Fenoglio mi conferma che durante il colloquio ebbe quasi sempre bisogno dell’assistenza del giovane di Alba come vero e proprio traduttore altrimenti avrebbe capito ben poco. Dunque in casa, alla macelleria, si parlava esclusivamente questo dialetto strettisimo, vera e propria e tempestante lingua materna che avvolgeva lo scrittore che ‘scriveva sempre’ come disse la madre. L’apprendimento dell’italiano era avvenuto sui banchi di scuola e molto con le divoranti letture cui si affiancò a un certo punto l’inglese della straordinaria Maria Lucia Marchiaro. A dirla tutta sul giovane Fenoglio furono determinanti anche il prof. Leonardo Cocito di italiano, e il prof. Pietro Chiodi. Un trio di insegnanti straordinariamente dotati per un alunno decisamemente fuori del comune.
Il ricorso a quel potente soggiacente che era il dialetto albese, vera e propria lingua materna e originaria (non va dimenticato il legame profondo che c’era con la madre) non era quindi un mero artificio ‘afrodisiaco’ come lo presentava Vittorini, ovvero non era un ricorso a una matrice (dialettale) al fine di ottenere particolari effetti espressivi. Nella cucina dove regnava la madre, era sovrana la parlata dialettale come l’acqua in un acquario. E Fenoglio sempre intento a scrivere (sotto gli occhi della madre povera di cultura ma intelligente e lucida come il figlio), con la perenne sigaretta accesa, si trovava a ‘trans-ducere’, a tradurre quel potente soggiacente materno nell’italiano come seconda lingua, un particolarissimo italiano che ha fatto di lui oramai una vera e propria icona letteraria. E naturalmente, vedi Il Partigiano Johnny, laddove ai fini espressivi l’italiano poteva sembrargli povero o raggrinzito ecco giungere in soccorso il vocabolo se non la frase inglese. Di ciò e di quant’altro me ne sono occupato doviziosamente ne L’inglese di Beppe Fenoglio e in vari altri saggi minori più di quaranta anni fa. Le critiche che mi vennero dal clan della Corti (che sosteneva tra l’altro come le vicende del Partigiano fossero una stesura a caldo immediatamente a ridosso degli avvenimenti) sempliemente mi distolsero dall’occuparmi ulteriormente dello scrittore di Alba.

Armando Punzo – È ai vinti che va il suo amore

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La direttrice
della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte
Maria Concetta Petrollo Pagliarani
e
Compagnia della Fortezza / Carte BlancheCentro Nazionale Teatro e Carcere

sono lieti di invitare la S.V.

alla presentazione del libro

 È ai vinti che va il suo amore

I primi venticinque anni di autoreclusione con la Compagnia della Fortezza di Volterra
di Armando Punzo / Ed. Clichy

Mercoledì 19 marzo 2014 – ore 17.30

MiBACT- Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte
Sala della Crociera
Via del Collegio Romano, 27- II° piano – 00187 Roma

Intervengono:

Armando Punzo – autore del libro e regista della Compagnia della Fortezza
Aniello Arena – attore della Compagnia della Fortezza
Anna Bandettini – La Repubblica
Ilaria Bonaccorsi – Left
Ninni Cutaia – Teatro di Roma
Laura Palmieri – Rai Radio3
Lidia Riviello – poetessa e scrittrice

coordina:

Massimo Marino – docente universitario – critico Corriere della Sera/Controscene

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Sarebbe da non crederci, se non fosse tutto vero:
c’è chi fa di tutto pur di entrare in carcere.
No, non è uno scherzo: è la pura verità.
Accade in Italia, a Volterra per la precisione, città toscana
le cui origini affondano nell’epoca etrusca.
E’ qui che l’impossibile si fa realtà.
Tutto merito della Compagnia della Fortezza,
compagnia teatrale dei detenuti attori della Casa di Reclusione di Volterra
e della lucida “follia” del regista e drammaturgo Armando Punzo,
fondatore della compagnia e ancora oggi
al timone di questo incredibile gruppo.
Venticinque anni fa Punzo ha concepito e battezzato
una rivoluzione culturale e sociale:
trasformare il carcere in luogo di cultura,
e ancora oggi la cavalca senza scendere a patti o a compromessi,
fermamente intenzionato a non lasciarsi distrarre
da chi è incapace di andare oltre quello che vede con gli occhi
e a non lasciarsi tentare da strade più facili.
Senza mai accontentarsi di quello già

Amarcord Poétique : Valerio Magrelli

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978880621845GRANota

di

Alida Airaghi

VALERIO MAGRELLI – IL SANGUE AMARO – EINAUDI – TORINO 2014 – pagine 136 –    euro 13

Il sangue amaro di Valerio Magrelli, che esce a otto anni di distanza dal suo ultimo volume, è una raccolta estremamente articolata e varia, sia nei contenuti sia formalmente. Suddivisa in dodici sezioni, spazia dal privato al politico, dalla religione alla denuncia civile, dalla polemica letteraria alla riflessione filosofica. Lo stile sa adeguarsi plasticamente ai temi trattati, sia utilizzando metri e formule tradizionali (sonetti, endecasillabi, epigrammi: con un ricorso più esplicito che nel passato alla rima, sfruttata non solo ironicamente), sia servendosi di curiosi stratagemmi quali le sciarade e finti rebus, o inserti prosastici e narrativi. In maniera decisamente meno cerebrale e oscura che nelle precedenti prove, qui l’ansia comunicativa del poeta diventa più esplicita, segnata dalla risentita amarezza nei riguardi della società e del mondo cui fa riferimento il titolo. «Io mi faccio il Sangue Amaro./ E’ una specialità della casa, sin dal lontano 1957»: così nell’ultima sezione, dedicata a un se stesso depresso e immalinconito, talvolta rabbioso («Mia debolezza, debolezza mia//…la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi,/ e in questo Grande Sfascio…»; «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza»; «Sopporto le ingiustizie dalla nascita,/ a cominciare ovviamente dalla nascita./ Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, necroburi, ogni variante dell’illegalità…»). Aiutarsi medicalmente non basta («Queste che prendo gocce/ con tanta religiosa compunzione…»), se lo spettro della morte attanaglia pensieri e cuore («Qui, tutti noi aspettiamo/ sulle rive del Nihil»; «Poi, di colpo ho capito che il problema non è morire, ma rimanere soli nella morte»), attraverso le sembianze di una futura malattia neurologica o della insopportabile separazione definitiva dai propri cari. E’ proprio dagli affetti familiari che può arrivare l’unica redenzione, e quindi i versi più inteneriti del volume sono quelli rivolti alla figlia («Ho una figlia che ha voglia di cantare/ e canta./ Può bastare»), al figlio che studia Dante sotto la doccia, e alla moglie, nella splendida sezione La lettura è crudele. Dove la constatazione banale che quando la persona amata e vicina si immerge nella lettura, inevitabilmente si allontana da noi (precipitandoci in una solitudine -vuoto, silenzio, abisso, distanza, vertigine, paura, sono i ricorrenti termini chiave- che è sostanzialmente estraneità, irraggiungibilità), sembra far precipitare il poeta in un’angoscia senza scampo («atterrito e remoto, separato,/ legato alla vertigine che amo,/ se amore è la distanza che ci chiama/ e insieme la paura di varcarla»). Paura che torna anche in un altro capitolo del libro, kierkegaardianamente intitolato Timore e tremore, e aleggia ovunque, intrecciata a sentimenti di rivolta e rifiuto nei riguardi di ogni bruttura e ingiustizia, naturale o sociale: quindi verso le infermità dei bambini handicappati, i morti della Thyssen, gli incidenti stradali, i giovani disoccupati, i balzelli fiscali, le disonestà finanziarie, le dittature telematiche («La password, il codice utente, PIN e PUK/ sono le nostre dolcissime metastasi»), i ladri che penetrano in casa, gli uccelli che entrano dalla finestra («Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola/ in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato»), lo sfacelo urbano, le latrine insozzate di una Roma pasolinianamente suburbana, o zingaresca.

Non si salva nemmeno Dio, in questa rappresentazione negativa dell’esistente, nelle sue epifanie natalizie desolatamente commerciali, o nella corruzione istituzionale della Chiesa: «reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione», «Tutti noi siamo vittime di una chiesa delebile,/ priva del vero inchiostro della sua verità». Una geremiade sconsolata, con toni di pessimismo leopardiano: «Non la Crocefissione, ma la Culla// è segno di martirio, lutto, scandalo». La stessa diffidenza Magrelli sembra nutrire anche riguardo al suo campo d’azione più proprio, la letteratura («il linguaggio/ ha innanzitutto lo scopo di nascondere»; «O forse sono cavie, queste poesie che scrivo»), e pare attenuarsi solo nella descrizione attenta di alcuni aspetti della quotidianità  (gesti, rumori, oggetti, musiche), o nella descrizione della natura. Così, nella sezione La lezione del fiume assistiamo a un partecipe omaggio, a una convinta celebrazione del fenomeno acquatico, dal lavaggio dell’auto all’intrico delle tubature sotterranee, dalle sorgenti agli argini, dai ponti ai canyons, alle dighe, ai pesci: nel calore estremo come nel rigore dei ghiacci.

E nei Paesaggi laziali una nota nostalgica e quasi idilliaca riconcilia il poeta con il bene, e non più con il male, di vivere: in una delle poesie più delicate e commosse della raccolta, Principe delle Volpi!, riemerge dal passato la figura proletaria di un amico adolescente dal «sorriso mite», regale come un elegante nobile russo, che avanza nell’incenso di copertoni bruciati in periferia, reso salvo dal «sacramento/ di un’Aristocrazia nata dal cuore».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Reader’s Digest: Maria Luisa Putti

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La confessione

di

Maria Luisa Putti

 

Arrivare a Bellagio in gennaio non è una gran fortuna. Passate le feste di Natale non ci si vede più un’anima e fa veramente un freddo boia.

I negozi sono chiusi; le saracinesche abbassate e mucchi di posta infilati a forza nelle cassette. Un paio di caffè illuminano i porticati di aria calda e di pochi rumori. I lampioni con le luci gialle, le insegne dipinte a mano e coltellate di vento all’incrocio di ogni salita rendono questo paese un presepe immobile.

Sono sempre le stesse persone, sempre la stessa gente, i bellagini. Vivono d’estate; tra Sant’Ambroeus e la Befana riaprono per le feste. Ma subito dopo si adagiano nel loro letargo pigro. Dietro le finestre delle case, il muoversi operoso delle chiacchiere, che creano, distruggono, inventano, così, per ammazzare il tempo e questo freddo boia.

Oltre ai caffè, d’inverno a Bellagio rimane aperta la salumeria, la farmacia, il panificio, il giornalaio e, ovviamente, la chiesa.

Il vecchio parroco è morto da tre settimane, giusto in tempo per la messa di Capodanno. Litigava con quelli del coro: «Ma che roba è questa qua?», gridava don Luigi dalla sacrestia. Non gli piacevano i canti moderni da chiesa, con quella chitarra strappata e le «canzonette», come le chiamava lui. Si arrabbiava e diventava tutto rosso, come una bolla che sta per scoppiare. Era uno all’antica. Un montanaro che sapeva il latino e amava la musica. Gli piaceva il suono dell’organo, il gregoriano, «il canto che avvicina a Dio», diceva, quello buono. Ma l’organista si era ammalato, e Antonio, il ragazzo che lo aiutava con il coro, se n’era andato con la moglie in città, a lavorare nell’azienda del suocero. Era pianista, Antonio. Ma non faceva mica i soldi insegnando musica nei paesini. E poi, d’inverno, con questo freddo boia, oggi un bambino ha l’influenza, domani c’è neve e non c’è verso di arrivare a far lezione, e poi devono preparare i compiti in classe per la scuola e non hanno il tempo di mettersi al piano. Insomma: nulla di sicuro. Meglio lasciar perdere.

È bella la chiesa qui. E andare in chiesa è meglio che star sempre in casa. Una ragione per mettersi un vestito, una scusa per andare a spettegolare, per osservare e criticare, un luogo dove trovare qualcosa da raccontare e far passare di bocca in bocca fino a che, quel «qualcosa», diventerà un’altra cosa, condita di dettagli piccanti, di particolari buoni a renderla più credibile, ma, alla fine, molto diversa dalla realtà.

Che la signorina Costanza non venisse mai in chiesa si erano affrettate a riferirmelo il primo giorno: «È una strana persona, padre, sa? Non viene mai in chiesa. Però manda le offerte».

«Non la si vede in giro nemmeno d’estate»

«Non ha parenti, non ha nessuno…»

«Si affaccia al balcone, innaffia le piante, prende un po’ d’aria così…»

«Mi hanno detto che insegni ai bambini, il pomeriggio. Non si fa mica pagare…»

«Era un’insegnante, credo. Non è di queste parti…»

Le voci delle beghine si confondevano, una sull’altra. Ognuna a voler dimostrare di saperne di più.

Non mi restava che andare a trovarla, questa signorina Costanza. Non so se, come parroco, ne avessi veramente il dovere, ma di sicuro mi sembrava la cosa più divertente da fare in un paesino di mille anime, a gennaio, con questo freddo boia.

Suono al portone. Mi aspetto di trovarmi di fronte una di quelle mezze matte che vivono con i gatti, che parlano da sole, e che in fondo non hanno mai vissuto. Mi aspetto di vedere una vecchia trascurata, sciatta, una povera anima da ricondurre all’ovile del Signore. Suono ancora. Una voce limpida mi risponde, chiara, giovane, calda: «Sì? Chi è?». Immagino sia qualcuno che è venuto a farle visita: «Sono don Flavio, il parroco. Cerco la signorina Costanza». Il portone si apre, una porticina in legno massiccio. L’androne è buio, anche ora che sono le dieci del mattino; le scale ripide e polverose. In cima alla rampa si dischiude una porta: vedo una lama di luce proiettarsi sul muro. Dalla fessura di quella porta aperta, un calore dolce di casa mi viene incontro: odore di zucchero a velo, odore di Carnevale. I ricordi della mia infanzia si affacciano uno ad uno, ad ogni gradino che salgo, ad ogni passo, ad ogni respiro, che profuma di cannella, di biscotti appena sfornati. E i ricordi si affacciano ora alla ringhiera di ferro battuto che costeggia la rampa, nella sagoma imponente di una donna. La vedo controluce, ora che la porta è spalancata alle sue spalle e di fronte ai miei occhi: una poltrona foderata di verde e un lume su un tavolino déco è tutto ciò che riesco a cogliere. E quella sagoma ferma che mi scruta nella penombra, i capelli raccolti, il corpo formoso. Arrivo in cima: «Si accomodi, padre». La stessa voce che avevo udito al citofono, la stessa voce bella che nulla aveva di vecchio mi invita ad entrare. Ancora non riesco a vedere il viso di questa donna: perché mi offre le spalle per farmi strada nell’ingresso della casa. Si volta, ora, per chiudere la porta; mi guarda negli occhi e mi sorride: «Lei è il nuovo parroco, allora…».

«Sono arrivato da pochi giorni. Mi hanno portato la sua offerta domenica scorsa e sono venuto a ringraziarla.»

Non è vero; non sono venuto per ringraziarla. Sono qui perché ero curioso, terribilmente e morbosamente curioso di vedere lei, la signorina Costanza, che immaginavo così diversa.

I capelli biondi raccolti in uno chignon elegante, gli occhi azzurri, grandi, truccati come si usava negli anni Sessanta, con l’ombretto celeste e le ciglia allungate di nero, e il corallo lucido del rossetto. Indossava una gonna grigia, la signorina Costanza, e sopra un twin set giallo chiaro con un filo di perle. Il profumo è lo stesso che portava mia madre, Arpège, sì, mi sembra Arpège. Ed è tutto questo insieme di odori, di colori, di parole scelte come si faceva una volta, di toni di voce pacati, di gentilezze ormai passate, a darmi la sensazione, tanto istintiva quanto irrazionale, di ritrovarmi dentro la mia infanzia, di fronte alla mia maestra.

Mi offre un caffè. Apre una scatola di cioccolatini e la poggia sul tavolo tondo del soggiorno, dove siamo seduti a chiacchierare: «Non ho un vero salotto in questa casa, padre. Mi perdoni se la ricevo così». Nessun altro, in questo Duemila senza forma e senza sostanza, avrebbe mai pronunciato una frase del genere. Ma la signorina Costanza sembra uscita da un quadro antico, in una casa pensata all’antica, vestita com’era di moda quand’era ragazza lei, e il fascino delle donne era pieno di mistero, e lentamente si lasciava scoprire.

«Non ha voglia di confessarsi?»

«Di confessarmi? È venuto a casa mia per redimermi?». La signorina scoppia in una risata piena, non sguaiata, ma libera.

«Non so, se vuole, io potrei confessarla.»

«È passato mezzogiorno, padre», prosegue sorridendo con tenerezza «sarebbe il caso che lei tornasse ai suoi uffici. E poi, io non mi confesso da quarant’anni, per cui, se proprio vuole, dovrebbe restare a casa mia una settimana… Perché per confessarsi dopo quarant’anni almeno una settimana ci vuole».

Capisco che è una battuta, ma la prendo sul serio: «Va bene: resterò qui da lei per una settimana». Mi fissa negli occhi, mi sfida: «Allora cominci col venire in cucina con me: dobbiamo preparare il pranzo».

Il tavolo di marmo della cucina con la verdura da lavare; il frigorifero pieno di roba; la cassetta del vino, l’acqua minerale e i dolci di Carnevale in un piatto con il bordo dorato. Apparecchio la tavola; la signorina Costanza comincia il suo racconto. Non è solo una confessione, ma una narrazione che confonde il giorno con la notte, il pranzo con la cena.

È una settimana che non dico messa; tutto contravviene al protocollo, alle regole, e forse persino alla decenza. Non vorrei andarmene mai più. Me ne starei per sempre qui, in questa casa con il parquet, con le stufe di ghisa, con i mobili antichi, con l’odore del bucato e il profumo di Arpège. Con lei, che mi parla senza segreti, che sorride con ironia, che si commuove, che ricorda, che si arrabbia, e che cucina da Dio: lo sformato di spinaci, il pasticcio di lasagne, le cotolette, l’arrosto, il polpettone, le patate al forno, la pizza di ricotta, i panzerotti, fave e cicorie, i tortellini, la pasta all’uovo, il bollito, la polenta con gli osei scampai, risi e bisi.

Fuori dal portone il freddo mi sorprende, impreparato. È quasi notte, ed io mi volto a guardare le finestre di quella casa, le luci accese, la sagoma della signorina Costanza in controluce, che scioglie i suoi capelli come non avevo mai visto nei giorni della confessione.

Continuo a camminare, ripensando, ricordando, rivivendo.

Incontro un paio di beghine. Di sicuro si aggirano da queste parti perché muoiono dalla curiosità di sapere. Mi fermano, smaniose di chiedere: «Non posso dire nulla: è una confessione».

Astronomi di costellazioni linguistiche

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ASTRONOMI DI COSTELLAZIONI LINGUISTICHE – GIORGIO MASCITELLI
“Astronomi di costellazioni linguistiche” è una serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Primo appuntamento: 16 marzo, H. 18.00, con Giorgio Mascitelli. A Macao (sala archivio biblioteca) viale Molise 68, Milano

“Fischiettai la nota canzone “La Fine” del noto canzonettista americano e ciò fu simbolico. Me ne stetti così lunga pezza senza muovere nulla, come chi scriva e non sa cosa scrivere. Avrei voluto fare un po’ di tutto e un po’ di niente, ma non feci né un po’ di tutto né un po’ di niente.”

Giorgio Mascitelli (1966) vive a Milano. Ha pubblicato racconti e romanzi (“Nel silenzio delle merci”, “Catastrofi d’assestamento”, “L’arte della capriola”) e diversi suoi scritti sono apparsi su riviste cartacee e on-line nonché in volumi collettivi. È redattore di ”Alfapiù” e “Nazione indiana”. Dal suo racconto “Ancora un incendiario!” è stata tratta l’omonima opera rappresentata a Venezia nell’ambito della rassegna “La costruzione del suono”. Con Andrea Inglese ha curato la rassegna di letteratura contemporanea Akusma, tenutasi presso il Teatro Franco Parenti di Milano.

Pitch

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pitch

 

 

 

 

 

 

 

di Mattia Paganelli, 2006-2014

 

Per chi non avesse dimestichezza con le regole del gioco:

Pitch = campo di gioco

Herd = mandria          Team = squadra

School = banco            Band = banda

Pack = branco              Squad = plotone

Flock = stormo            Crew = equipaggio

Litter = cucciolata       Staff = personale

 

Alain Resnais e la Nouvelle Vague.

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di Carlo Carlucci

Finivamo il liceo, si superava il Manzoni (ma non il Leopardi) e il D’Annunzio fastoso con Ungaretti e Montale letti alla macchia, non per obbligo scolastico grazie a Dio. Quanto alla prosa, vi erano state le onnivore letture a partire dai primi anni delle elementari ma mancava un ipotetico, difficile ubi consistam per la prosa. Moravia, Pasolini, Pratolini? Oscuramente qualcosa ci diceva di andare oltre, ma dove, ma come?
In questa attesa, in questa ansia del nuovo arriva l’esplodere di Resnais e della Nouvelle Vague attraverso il meccanismo allora in voga del cineforum. Nella piccola e chiusa provincia dove vivevo, Trento, il cinema sociale interrompeva la sequela dei film in programma per regalare a noi patiti del nuovo dieci giorni di proiezioni seguite immancabilmente da discussione o dibattito che sia. Qualcosa di sconvolgente e nello stesso tempo di coinvolgente dentro l’atmosfera chiusa della piccola città. Al termine di quella pausa o astinenza per il pubblico ‘normale’ e riprendendo il Cinema Sociale le normali rappresentazioni con ‘Ben Hur’, colossal americano, uno spettatore soddisfatto dell’abbuffata nell’uscire dal locale fu udito esclamare:’ Finalmente un film che pone e risolve un problema!’ Già perché il non tirarci fuori la cosiddetta morale o conclusione che sia era un po’ il nuovo credo artistico. E proprio in quegli anni (1962) Umberto Eco usciva col suo ‘Opera aperta’ a giustificazione della nuova tendenza.
Sia Resnais sia i cineasti della Nouvelle Vague (che provenivano dai Cahier du Cinema) improvvisamente venivano ad operare una radicale rottura coi moduli narrativi tradizionali sia del cinema sia della narratio romanzesca. La longevità creativa di Resnais si può spiegare in vario modo. Innanzitutto con la sua flemma che non ammetteva discussioni a costo di apparire distante e anche soverchiante. In secondo luogo egli si serviva e sapeva servirsi, di volta in volta, di uno scrittore ad hoc che lavorava attorno al copione. In quel corto terribile dedicato ai campi di sterminio nazisti si era servito di uno scrittore che vi era stato deportato e il risultato è sconvolgente.
Marguerite Duras nata e cresciuta in Indocina, autrice assolutamente ribelle a qualsiasi classificazione fu colei che lavorò alla stesura del testo di ‘Hiroshima mon amour’, film che irruppe come novità assoluta e sovvertitrice dentro l’operoso quasi soporifero tran tran dell’Italia. Per tanti giovani (io avevo 18 anni) i tanti temi mescolati dalla sapiente mano del regista, la Bomba orrenda, la distruzione, la tragedia collettiva, la relazione affettiva fra un giapponese e un’europea, il sesso, i silenzi, le incerte, a tentoni prese di coscienza fra i due apparvero come vera e propria epifania sovvertitrice.
Il passo successivo ‘L’anno scorso a Marienbad’ vedeva all’opera un altro scrittore, quel Robbe-Grillet teorico del Nouveau Roman e fondatore della cosiddetta école du renard che rifiutava il romanzo tradizionale e la sua presunta mimesi del reale. Il ricordo che ancora ne porto è di una sontuosa, geometrica e in definitiva assolutamente algida anzi glaciale perfezione formale. Davide Montemurri che vi ebbe una parte ricorda la distanza che il regista frapponeva fra sé e gli attori, quasi temesse una possibile, deprecabile, invisa contaminatio. M era in definitiva il necessario distacco che il regista si imponeva e imponeva presagendo quella lunghissima, inalterabile, incredibile creatività au but du souffle.

da “Utopie Letali”

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[Da quando, più di tre anni fa, è iniziata l’avventura di “alfabeta2”, ho cominciato a seguire il lavoro di Carlo Formenti, e mi è parso ben presto insostituibile all’interno della costellazione teorica dell’anticapitalismo di sinistra. Insostituibile, innanzitutto, per la sua capacità di criticare parole d’ordine che in questi anni hanno facilmente attecchito tra le file della pur dispersa sinistra radicale. Parole d’ordine spesso elaborate in laboratori universitari e poi date per buone dai movimenti. In questo suo libro appena uscito, di cui pubblichiamo le conclusioni, è possibile anche leggere la parte propositiva della sua riflessione. a. i.]