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Dieci anni senza “Manolo”

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Manuel Vázquez Montalbán e le maschere delle città

 

di Alberto Giorgio Cassani

 

«Buon pro le faccia». Così, in quello che è rimasto l’ultimo romanzo della serie Carvalho, Millennio 2. Pepe Carvalho, l’addio  il detective privato più conosciuto di Spagna si era congedato dal mondo e dal suo pubblico, destinazione il carcere La Modelo di Barcellona. Con lui, ci aveva salutato anche il suo creatore, lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, per gli amici “Manolo”.

Perché il 18 ottobre 2003 un infarto l’aveva stroncato in un “nonluogo”, l’aeroporto di Bangkok; una morte sul lavoro, in uno dei tanti, forse troppo faticosi per lui che soffriva di cuore, tour de force internazionali fatti per reclamizzare il suo ultimo romanzo. Ironia della sorte, e davvero morte letteraria la sua, visto che la sua scomparsa è avvenuta nella città in cui lo scrittore aveva ambientato uno dei suoi primi romanzi della serie Carvalho, Gli uccelli di Bangkok.

Una di queste tappe pubblicitarie l’aveva portato, nel novembre del 2000, anche nella città in cui abito, Ravenna, in una serata in cui il ridotto del teatro Alighieri si era riempito all’inverosimile del pubblico dei suoi tanti ammiratori, per la presentazione de L’uomo della mia vita. Qualche ora prima, a las cinco de la tarde, al Museo dell’Arredo di Russi, nello spazio progettato da Ettore Sottsass, per la regia di Gianfranco Tondini e col supporto tecnico dell’architetto Alessandro Vicari, chi scrive, molto indegnamente, non essendo un attore, aveva reso un omaggio alla Barcellona di Pepe Carvalho, impersonando quest’ultimo in un breve monologo dal titolo Il centravanti è stato assassinato questa sera.

Con la scomparsa di Vázquez Montalbán, la Spagna e non solo essa, ha perso una delle voci critiche più profonde, intelligenti ed ironiche che abbia mai avuto. Perché “Manolo” non è stato solamente un grande scrittore “di genere”, ma un grande scrittore tout court, come dimostrano i tanti libri e saggi da lui pubblicati al di là della serie Carvalho. Basta leggersi Il pianista (El pianista, 1985, trad. it. di Hado Lyria, Palermo, Sellerio, 1990), o Io, Franco (Autobiografía del general Franco, 1992, trad. it. di H. Lyria, Milano, Frassinelli, 1993), per capire la sua qualità letteraria, la sua ricerca lessicale, il suo impegno intellettuale. Lunghissima la serie dei riconoscimenti, se i premi, come in questo caso, servono a confermare la grandezza di un autore: Premio Vizcaya de Poesía del Ateneo de Bilbao (1969), Premio Planeta (1979), Premio Boccaccio (1988), Premio Ciudad de Barcelona (1988), Premio Recalmare Leonardo Sciascia-Città di Grotte (1989), Premio Nacional de Narrativa (1991), Premio Europa (1992), Premio Flaiano (1994), Premio Nacional de la Crítica (1995), Premio Fregene, Premio Nacional de las Letras Españolas (1995), Premio Città di Scanno (1997), Premio Grinzane Cavour (2000). In suo onore, dal 2006, è stato creato il Premio Carvalho, dedicato alla produzione letteraria di genere poliziesco. A lui, la sua città natale, Barcellona, il 3 febbraio 2009, ha intitolato una piazza, tra la calle de Sant Rafael e la Rambla del Raval, vicino al luogo di nascita dello scrittore e all’amatissimo ristorante Casa Leopoldo.

Di uno scrittore, quando non c’è più, rimangono i ricordi di chi l’ha amato e conosciuto, ma, soprattutto, restano le opere. E queste vanno lette, rilette e studiate. Per ciò è nata l’Asociación de Estudios Manuel Vázquez Montalbán, di cui fanno parte sette studiosi, sei spagnoli e un francese, dedicata allo studio e alla diffusione della sua opera. L’Associazione ha creato un sito web , che, tra le altre cose, contiene notizie, video, libri e articoli apparsi dal 2010 e convegni. Tra questi, l’Associazione ha organizzato, dal 2 a 4 febbraio del 2012 un primo Congresso Internazionale dal titolo: “Manuel Vázquez Montalbán: Nuevas perspectivas críticas”, svoltosi all’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona; un secondo, Extraordinario, in occasione dei dieci anni dalla scomparsa, si è appena tenuto dal 17 al 19 ottobre, sempre presso l’Università barcellonese. Parte delle relazioni saranno pubblicate sulla rivista elettronica dell’Associazione «MVM: Cuadernos de Estudios Manuel Vázquez Montalbán».

“Manolo”, per tutta la sua vita, ha ragionato sul tema della Memoria. La città è il luogo che può conservarla o cancellarla. A Barcellona, protagonista di tutta la serie Carvalho, come in ogni grande città, entrano in gioco quattro città: quella della «Memoria», del «Deseo», della «Geometría» e della «Compasión». Queste quattro città, in realtà, a ben guardare, sono soltanto “due”: la città della «Memoria/Compasión» e quella del «Deseo/Geometría». La prima è la città degli Storici e degli Scrittori che, come l’Angelo della Storia di Walter Benjamin, ha il volto rivolto all’indietro nel tentativo di ricomporre le macerie causate da quella bufera che si chiama Progresso e che soffia dal Paradiso; la seconda è la città degli Architetti, del Progetto e dell’Utopia, che guarda, invece, solo al Futuro. Quest’ultima tende a cancellare la prima. Occorre perciò fare opera di “resistenza”, tentando di salvare le tracce delle tante archeologie urbane. Vázquez Montalbán ce l’ha insegnato: la “ricchezza” di una città sono i suoi strati archeologici. Per questo Roma è una delle città più belle al mondo. Per la città non vale lo slogan del grande architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe: «Less is More». Per la città, il più è più.

Occorre però sgombrare il discorso da un possibile equivoco. È inevitabile che non si possa conservare tutto: senza oblio non ci sarebbe la possibilità di agire, di creare nulla. Si resterebbe paralizzati. Lo ha scritto, una volta per tutte, Nietzsche nella seconda delle Considerazioni inattuali: Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Il problema, però, per Vázquez Montalbán, è che i vincitori non cancellino, per sempre e del tutto, le tracce dei vinti. Questo è il punto centrale. Perché questa sarebbe la seconda e definitiva morte. Si muore una volta, quando si cessa di respirare; e si muore definitivamente quando nessuno si ricorda più di noi. Ecco perché “Manolo” fa dire a Pepe Carvalho: «Quando muoio scomparirà la memoria di quei tempi e di quella gente che facendomi nascere mi hanno messo nella platea della loro rappresentazione»; e ad un altro personaggio mette in bocca questa riflessione: «Ogni morto si porta via una parte della nostra immagine».

Purtroppo, la stragrande maggioranza di ciò che vediamo di una città sono le “maschere” dei vincitori di turno. Gli antichi romani adoperavano due parole assai incisive: damnatio memoriæ, la cancellazione completa di tutte le testimonianze di una vita vissuta. Il malcapitato non era nemmeno esistito. Vázquez Montalbán, al contrario, ci ricorda continuamente il dovere di ricordare. E lo fa utilizzando un mezzo indiretto, apparentemente inadeguato: un detective privato, ex comunista, in seguito killer di Kennedy al servizio della CIA, rientrato in Spagna, a Barcellona, per sbarcare il lunario come “annusapatte”. Com’è possibile? In realtà, Pepe Carvalho è il flâneur dei nostri tempi, che si muove nella città come in un paesaggio della memoria, registrando i mutamenti subìti dai luoghi della sua infanzia. Come scrive, infatti, Walter Benjamin (citato da “Manolo” ne L’uomo della mia vita) «Se una persona scrive un libro sulla propria città, esso avrà sempre una certa affinità con le memorie; non per nulla l’autore ha trascorso la sua infanzia nel luogo descritto». E il romanzo giallo diviene, per Vázquez Montalbán, un «mezzo di conoscenza sociale o psicologica» , anche della storia architettonico-urbanistica della città.

Seguendo le tracce delle vittime e dei carnefici, Pepe Carvalho incontra le diverse archeologie di Barcellona e scopre, assieme al suo autore, che il rischio serio che corre la sua città è che gli archeologici del futuro si troveranno di fronte solo a tre grandi ere «geologico-architettoniche»: «Gotico, modernismo e kolossalismo post-moderno». Inoltre, sembra ormai che l’anno zero, ante e post, sia diventato il 1992, l’anno delle Olimpiadi, tanto da poter suddividere la storia di Barcellona in tre grandi epoche: Pre-Olimpica, Olimpica e Post-Olimpica. I “vincitori” hanno selezionato le diverse archeologie di Barcellona, rimuovendone quasi completamente alcune (le archeologie che “Manolo” chiama «maledette») e valorizzandone, a volte addirittura “inventandone”, altre.

Dal Montjuïc, come vuole la leggenda, Ercole aveva ammirato la bellezza del sito naturale, adatto perfettamente alla fondazione di una città; sul Montjuïc si mostrano, in tutto il loro conflitto, vita e morte, Memoria e Deseo, Geometría e Compasión. Sul Montjuïc, infatti, sono stati realizzati i nuovi templi dello sport per le Olimpiadi: il nuovo stadio, che ha sventrato quello vecchio lasciandogli soltanto la pelle, il Palazzetto dello sport di Arata Isozaki e la fiaccola olimpica di Santiago Calatrava. Al contempo, sul versante verso il mare, il Montjuïc mostra il luogo della Morte, il Cimitero nuovo e il luogo che dava morte, il Castello del Montjuïc, da dove, in occasione delle rivolte popolari, si sparava sulla città, presa tra due fuochi grazie al parallelo cannoneggiamento dal versante della Ciutadella.

Ancora una volta la città, le città, devono decidere se mettersi o togliersi la maschera, se nascondere o rimandare la verità elementare della vita e della morte, se cercare di mitigare l’angoscia nomade, inscritta nei cromosomi dell’uomo, con l’ordine della sua geometria, contaminando il passato con l’avvenire, ben sapendo che, prima o poi, «toda ciudad es o será arqueología».

L’altro insegnamento che ci ha lasciato Vázquez Montalbán è il pericolo che tutte le città diventino uguali, dopo un processo di “pastorizzazione” che le renda asettiche, ripulite di tutti i batteri nocivi al turismo culturale; cosa che è avvenuto a Barcellona dopo le Olimpiadi, riducendola ad una città «bella ma senz’anima».

L’Hotel W Barcelona, dai più chiamato Hotel “Vela”, di Ricardo Bofill, su cui “Manolo” avrebbe certamente puntato la sua penna tagliente se l’avesse potuto vedere, ha definitivamente fatto diventare Barcellona l’alter ego mediterranea di Dubai, la nuova città-icona del XXI secolo: una Nueva Dubai, una città senza “inguini”, senza radici, un «campionario architettonico di valore universale» , prendendo a prestito una frase di Vázquez Montalbán su Barcellona. Ciò che rischiano di diventare, sotto l’“effetto Bilbao”, tutte le grandi città contemporanee: un campionario di firme di archistar©, che ormai hanno preso il posto dei grandi stilisti della moda. Le città finiranno su «Vogue».

Dopo aver compiuto un viaggio intorno al mondo – che sembra l’ultimo desiderio di vedere cosa accade fuori della sua tana, dal suo guscio protettivo di Vallvidrera, dove Pepe Carvalho e anche “Manolo” abitavano – il detective, inseguito dalle polizie di tutto il mondo per l’omicidio dell’odioso sociologo Jordi Anfrúns, torna a Barcellona. Barcellona, malgrado lei, diventa per Pepe Carvalho la città «da cui non si voglia far ritorno».  Nel carcere La Modelo di Barcellona Carvalho era stato rinchiuso da giovane. E al carcere La Modelo ritorna, questa volta per sempre. Carvalho non riconosce più la sua città: e dunque tanto vale restarsene chiuso dentro una cella, da cui addirittura rimpiange di «esserne uscito». Vázquez Montalbán, da parte sua, stava per tornare a Barcellona, ma la morte l’ha colto distante da essa. Chissà se per lui Barcellona era quel luogo “da cui non voler far ritorno”.

A noi non resta che rendergli omaggio, un omaggio alla sua memoria (persino un vignettista satirico come Vauro, in Italia, gli ha reso uno struggente ricordo). Forse il migliore atto di riverenza che gli si possa fare è quello di nominare i luoghi di Barcellona che nessuno ricorda più. Come ha fatto lo storico dell’arte Juan José Lahuerta che, in un libro di qualche anno fa, ha riportato alla memoria due semplici soglie di una vecchia casa della Rambla di Santa Monica, oggi rimosse.  Due pietre consumate dall’uso con due strani buchi, provocati, nel corso degli anni, dal continuo battere dei tacchi a spillo delle scarpe delle prostitute. A “Manolo”, sono sicuro, sarebbe piaciuto molto questo ricordo.

«¿La arquitectura transformará las agonías?» , si era chiesto Vázquez Montalbán in Ciudad. No, se non imparerà anche a ricordare.

 

Nota dell’autore:
Subito dopo aver pensato questo titolo, ho ricevuto dall’amico Antonio Pizza, docente di Storia dell’arte e dell’architettura all’Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Barcellona, un articolo di Josep Ramoneda, pubblicato su «El País semanal», n. 1932, del 6 ottobre 2013, dal titolo: Diez años sin Manolo: Reatrato impresionista de un amigo. Evidentemente il vuoto lasciato dallo scrittore barcellonese, col passare del tempo, è l’elemento che più colpisce. Questo testo è apparso, in forma più ampia sulla rivista «Trova Casa Premium», n° 85, ottobre 2013, pp. 56-60. Ringrazio il Direttore Fausto Piazza per averne concesso la ripubblicazione.
La foto riproduce qualcosa che oggi non esiste più: la soglia di una casa di appuntamento all’inizio delle Ramblas coi segni dei tacchi delle prostitute che lì “battevano” appunto, coi tacchi, per il freddo.

Do you remember Amiri Baraka?

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Amiri Baraka
Amiri Baraka
Conversazione con Amiri Baraka (2011)

di Luigi Cinque

Amiri è un piccolo marziano. Non ancora sceso dall’astronave, si vede! Continua a viaggiare. Sorride. “Il passato e il futuro – mi dice – sono solo una speculazione “ volatile” del presente”. Viene da lontano.
Nel 1961 con il nome di LeRoi Jones scrive Preface to a Twenty-Volume Suicide Note (Prefazione a una nota suicida in venti volumi). E’ la sua prima collezione di poesie. Da poco ha fondato insieme alla moglie la Totem Press, casa editrice che pubblica, tra gli altri, opere di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Siamo in uno dei periodi più complicati della storia sociale americana. Le Roi è un nero di Newark. E i neri sono in gioco per i diritti civili, quelli veri. Si svegliano. Bruciano. Aderiscono in massa, nei ghetti, alla religione Islamica. Un’ Islam blues, si capisce, metropolitano, con spazi per il solista, ma quel che conta è avere un dio diverso dai bianchi, dai padroni, un dio affidabile che li riconosca come fratelli neri, separati e uguali, anzi più belli, dal resto del mondo. Siamo nell’America di Malcom X. “Se ti trovassi mai in un posto/perduto e circondato dai nemici/ che non vogliono /che tu parli la tua lingua/ che màcerano le tue statue e gli attrezzi/che proibiscono il tuo um bum ba bum (…. )/ be’! Probabilmente ti ci vorranno diverse centinaia d’anni per venirne fuori!” ( Amiri Baraka . saggio 1)
C’è da correre per venirne fuori. E’ vero. Ma gli afroamericani vanno veloci. Sopratutto in quella che è la loro storia, la loro possibilità : la musica. Sono gli anni in cui Ornette Coleman con sette angeli musicanti – come qualcuno disse – incide FreeJazz. Siamo alla rottura del tonalismo, al flusso di coscienza in musica, alla creazione istantanea, al martirio edipico del compositore. E il bello è che, per altre vie, i neri si ritrovano nelle stesse acque dell’avanguardia bianca dell’emisfero settentrionale. Non a caso la copertina di “Free jazz” è un’opera ( White light ) di Jacson Pollock vate dell’action painting, morto solo quattro anni prima. Intanto Miles Davis, con altri angeli che osavano avere nomi tipo John Coltrane e Cannonball Adderley o Bill Evans, incide ( nel ‘59 ) il leggendario “Kind of blue” che nella breve e intensa storia del jazz possiamo già definire una questione neoclassica, ovvero, il recupero di antiche scale modali applicate alla tecnica e all’alchimia del jazz. Le Roi in quegli anni partecipa all’avventura della “beat generation”. E’ il movimento artistico che esalta, tra l’altro, il rapporto tra letteratura e jazz; che indipendentemente da colore, razza, sesso e simili, interpreta – on the road – il disadattamento vero; che svela alla poesia quell’ America patinata, razzista, mafiosa,puritana – ancora maccartista – capace di combattere i movimenti bombardando i ghetti (e i giovani ) di ‘roba pesante’, eroina; un’America pronta ( come spesso Amiri scriverà ) ad assassinare, tra gli altri, JFK e suo fratello, Malcom e Luther, e così tantissimi altri fino a Lennon, fino alle Twin Towers, tra una guerra e l’altra. Verso il neoliberismo petrol/bancario, spietato, di oggi.

Amiri Baraka at Doctoclip 2013
Amiri Baraka at Doctoclip 2013
Nel 1963 LeRoi scrive il “popolo del blues”. E’ il racconto dell’intreccio che lega il blues e il jazz alla vicenda umana dei neri americani. In poco tempo “blues people” diventa un manifesto letterario-musicale. E pone (non è il solo) la questione dell’estetica nera. Scriverà Amiri in una recente introduzione alla ristampa del volume ( Shake edizioni, in Italia ): “non vogliamo più nessun Nietzche a dirci che la sensazione ostacola il pensiero. Per noi neri ciò che non può sentire non può pensare. La massima intelligenza sta nel ballo, non nella pubblicità delle scuole di ballo. Il pensiero massimo è concreto, vivo, non astratto.”
Mi dice: “Attraverso la musica si può dire moltissimo, forse tutto, di un popolo.” Fa un piccolo salto logico e aggiunge: “ io vedo l’arte come un’arma… forse, oggi, l’unica vera arma di cambiamento e di rivoluzione. Anche per una rivoluzione in senso marxista.”
Dopo l’assassinio di Malcom X ( ‘65 ), LeRoi prende il nome di Amiri Baraka e abbraccia la causa estrema del Nazionalismo Nero. Ma il suo sguardo sarà sempre sostenuto da profonda intelligenza critica. Al punto che il radicalismo diventa metodo filosofico, cambia la prospettiva, inverte la logica, guarda dalla parte degli esclusi, di tutti i “niggers” del mondo. Del resto, senza la “negritudine” e il meticciato dell’ ”emisfero settentrionale”, senza quella capacità di trasfusione, senza quella energia e istinto con la quale hanno rinnovato la tecnica e la chimica del ritmo, dell’armonia, del racconto, dell’astrazione, senza tutto ciò, il Novecento – in arte, sopratutto – sarebbe stato molto più povero e triste.
Amiri è arrivato a Roma da tre ore. Siamo in una stanzetta della Casa del Jazz. E’ in tournè Europea. Fra poco assisteremo ad una straordinaria lettura. Lo accompagna Dave Burrel al piano. Nel reading, la sua voce dall’ intonazione perfetta, ( l’intonazione è tutto per un oral poet) correrà per lo spazio siderale tra il canto del Congo Square ( lo slargo dove si riunivano la sera e i giorni di festa gli schiavi della piantagione) e il blues, il bebop, il rap, l’atonale. Beve un caffè. Silenzio. Ho in mano alcune sue poesie. La traduzione italiana è di Raffaella Marzano Leggo un frammento:
Supponete, di esservi svegliati una mattina/ E c’era il vampiro alla televisione /Intervistato da un negretto scemo/Un bel sorcio, per il quale l’idea di cervello era solo un’idea,/che non pensava, se ce la faceva a pensare, fosse cattiva./ E lo scemo era un assassino che ancora non si era laureato /alla scuola degli assassini /così adorava il dente del vampiro/ le due succose zanne che pendevano ai lati delle labbra/il negro pensava fosse figoe sognava di avere denti come quelli/ così avrebbe potuto essere un sorcio, /era stanco di essere un semplice stronzo ( da Fashion this .)
LC. Amiri, oggi che sei autore di più di 40 libri di saggi, poesia, teatro, storia della musica e critica, e sei un’ icona e un attivista politico e sei anche, a tuo modo, un rapper. Come ti descrivi?
AB. Se hai una visione, diciamo, africana, del mondo puoi anche considerare di essere molte cose contemporaneamente. Molti sguardi diversi. Ogni cosa sulla terra è viva e ogni cosa esistente è parte della stessa realtà. Anche lo sguardo, dunque, può mutare forma a seconda che guarda una rana o il presidente degli Stati Uniti che beninteso sono simili perché parte di un tutto.
LC. Visione africana?
AB. Quelli del rock and roll ( così Amiri definisce la cultura borghese dell’emisfero settentrionale ), hanno chiamato “selvaggio” chi credeva che “ ogni cosa è tutte le altre”. Invece sia la ciambella sia il buco sono la stessa cosa, sono semplicemente spazio. Ed io sono lo spazio che occupo.”
Chi ha ammazzato Malcom, Kennedy e suo fratello/Chi ha inventato l’AIDS/.. (…)Chi campa su Wall Street (…)Chi sapeva che la bomba stava per esplodere (…) Chi sa perché i terroristi impararono a volare a San Diego in Florida (…) Chi sapeva che il World Trade Center sarebbe stato bombardato, Chi fa soldi con la guerra, Chi fa grana su paura e menzogne, Chi vuole il mondo così com’è (…)(da Somebody blew up America ( qualcuno ha fatto saltare l’America) Amiri Baraka 2001)
“Somebody blew” è un testo caldo. Tra l’altro, quel CHI, ripetuto, ci ricorda qualcosa di familiare. Ha la stessa misura dell ’Io so di Pasolini (lettera al Corriere della Sera 14 novembre 1974) :. Io so i nomi dei responsabili (…) Io so il nome del vertice che ha manovrato(…)
Ma bisogna ascoltare “Somebody blew”, cantata da Amiri, come un blues, per ritrovare l’analogia con il poeta friulano. La pagina non basta. Glielo dico. Amiri sorride. Sorride, finisce il caffè e aggiunge : “l’idea di fondo della poesia civile è di aiutare la gente a comprendere davvero il mondo in cui viviamo, di promuovere una rivoluzione che cambi la società. Quanta gente oggi si trova nei guai a causa dei mercati borsistici o paga per le logiche di una società imperialista?
Amiri Baraka at Doctoclip 2013
DoctorClip fest a Roma nel novembre 2012. Le foto sono di Martina Cocco
LC. il rapporto tra musica e parola… per un poeta?
AB. La musica rende le parole più accessibili, più efficaci. I cantanti conoscono bene la questione. E poi… è la nostra storia di Afroamericani. Bisogna valorizzarla. Oggi le parole della poesia hanno bisogno di essere pronunciate ad alta voce, di essere declamate, cantate, amplificate, hanno bisogno di riprendersi tutta la loro sacralità. E anche nello scrivere dobbiamo essere coscienti che quando si scrive poesia, si scrive musica. Ci sono i registri, le scale, le tonalità possibili, le sillabe che richiamano certe intonazioni, parole che di per se hanno socialmente un loro suono.
LC … torno al bues… c’è una bella affermazione di Alan Lomax, che è stato uno dei più importanti ricercatori e studiosi del mondo afroamericano e soprattutto delle radici del blues, dice: “l’hanno chiamata l’età dell’ansia ma forse sarebbe meglio definire il novecento – il secolo del blues. Il blues è diventato il genere musicale più familiare alla modernità perché oggi tutto il genere umano comincia a sperimentare la stessa malinconia dei neri della terra del blues, quel senso di anomia e alienazione, l’assenza o la precarietà delle radici, la sensazione di essere merci più che persone…”
AB. Il blu è il colore dei vestiti che si usavano nelle feste del West Africa Guinea; in America diventa il colore della perdita, il colore della memoria, capisci cosa voglio dire? Blues viene dal [colore] blu, cioè dalla bellezza perduta della vita africana. Come non poteva questo adattarsi al disagio sociale della modernità… del neocapitalismo selvaggio di oggi… del furto di identità e del futuro dei giovani …
LC. Come lo dobbiamo definire il legame tra blues e jazz?
AM. C’e’ una canzone cantata da Julie Wilson che dice “Se non era per il blues non esisteva il jazz”. Questo e’ il legame più chiaro e semplice.
LC. Due figure simbolo del jazz: Louis Armstrong e Miles Davis.
AB: Louis Armstrong… penso che tanta gente ha sbagliato a considerarlo una persona sottomessa. Non è così. E se hai mai ascoltato le sue interviste, puoi capire che era molto cosciente di essere in una posizione sottomessa, capisci? Ma lui, non era stupido, pensava che era meglio sottomettersi perche’ questo gli permetteva di fare quello che voleva fare: suonare. E non c’e’ dubbio che Louis Armstrong era il più grande musicista del suo tempo, senza dubbio. Quando era giovane, lui era il migliore.
LC. Quando il Movimento Nero diventa più antagonista, cosa pensa di Armstrong? Un intrattenitore di bianchi, un cattivo esempio, uno zio Tom?
AB. I più giovani si risentivano del fatto che Armstrong era ritenuto troppo sottomesso agli Stati Uniti. Ma non era vero. Lui era nato in un’epoca così, era nato nel 1900, capisci? Mentre negli anni ‘50 e ‘60 c’era una estetica diversa e un atteggiamento politico più cosciente. Certo loro non capivano Louis, perché Louis sorrideva sempre, era sempre gradevole. Ma penso che due cose hanno risvegliato la gente sul vero Louis Armstrong. La prima fu quando i bambini neri provavano a entrare – contro la segregazione che di fatto ancora esisteva – a Little Rock High School e il presidente Eisenhower faceva delle dichiarazioni, allora Louis gli rispose pubblicamente, dicendo: “ tu ti dovresti alzare in piedi da uomo e andare a portare quei bambini a scuola. “ In questa reazione fu molto diverso da quello che si pensava di lui. Questo ha aperto gli occhi a tanti. Anche ai Panthers. Durante un’intervista che lui fece con Willis Conover a Washington con il suo manager, Joe Glazer, seduto accanto, Conover gli diceva “Louis, sei nel mondo della musica da più di 60 anni, dimmi come sei diventato così importante”. E Louis rispose senza freni: “Beh, quello che devi fare è trovare un uomo bianco e diventare “il negro” di quel uomo bianco, non e’ vero Joe? Ha, ha, ha.” E lo disse direttamente al suo manager. Erano probabilmente 50 anni che voleva dire questa cosa! [ride] Alla fine la gente ha capito chi era Louis Armstrong. Era tuo nonno che non poteva dire quello che puoi dire tu.
LC: Miles Davis…?
AB: Miles aveva una sua personalità particolare. Quando ero giovane ho provato a fargli un’intervista e non me l’ha concessa. Avevo circa vent’ anni. Quarant’ anni dopo, l’ho intervistato per il New York Times. Lo aspettavo nel ristorante dell’hotel delle Nazioni Unite e bevevo Courvoisier. Finalmente entrò Miles con quegli occhiali da sole da 500 dollari e mi disse: “Ehi… l’uomo del mistero.” E io gli risposi: “Tu… sei l’uomo del mistero.” Ho sempre amato Miles, era il mio eroe culturale anche quando ero bambino. Quando provavo a imparare la tromba imitavo lui. Per molti di noi, della mia generazione, Miles era il simbolo della musica. Abbiamo perduto un po’ di tempo per apprezzare Louis Armstrong ma tutti apprezzavamo Miles.

Walter Benjamin su “L’ospite ingrato”

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Dal mese scorso è disponibile il nuovo fascicolo dell’Ospite ingrato, la rivista del Centro studi Franco Fortini. Il numero, come al solito monografico, è dedicato a Walter Benjamin, ed è stato ideato e progettato da Michele Ranchetti.
Come vedrete dal sommario: il volume, curato da Gianfranco Bonola, accoglie inediti di Benjamin e di Rosenzweig, insieme a importanti commenti e saggi. È il frutto di un lavoro lungo ed intenso, che ha impegnato noi del Centro, gli autori e l’editore in una impresa a cui teniamo particolarmente, non solo per il valore intrinseco ma per il legame con Michele Ranchetti.

VOLPONI (dallo Zibaldone Norvegico)

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di Luigi Di Ruscio

Mi proponevo poesie a comunicazione rapidissima e senza sotterfugi, la gente ha fretta e bisognerebbe scrive­re romanzi di un’unica frase, la mia è una affermazione di identità e mi irrita se mi confrontano con un scritto­re molto importante che magari stimo. Antonio Porta quando dirigeva “Alfabeta” voleva pubblicare il primo capitolo del mio romanzo il Palmiro, dovette rinunciar­vi, aveva trovato tutta la redazione contro, nella reda­zione c’era anche Volponi e Leonetti, strano che anni dopo, tanti anni dopo Volpini mi disse che il Palmiro era un capolavoro, erano presenti De Signoribus e Zinato. Leonetti farà la prefazione alla mia ultima raccolta. Alla gente occorre anni ed anni per capirle le cose e non è certo colpa mia, anzi è colpa mia. Lavoro nella solitudi­ne più completa, non so niente della situazione letteraria italiana, leggo giornali e libri norvegesi è chiaro che al lettore occorre tempo per capire. Ero un amico frater­no di Eugenio De Signoribus, le sue poesie neppure le leggevo, mi arrivavano le sue raccolte con dedica, davo una vista e mettevo nella libreria, non è questione di va­lori, siamo diversi, Volponi è un grande scrittore, però la scrittura del sottoscritto e quella di Volponi o De Signo­ribus è tutta diversa, ho l’ambizione di essere solamente me stesso, nessun pugno e neppure denti, la scrittura del sottoscritto è diversa da quella di tanti grandi scrittori marchigiani o milanesi e se trovate qualche somiglianza è perché certi grandi scrittori sono stati influenzati dalla mia scrittura, io non leggo poesie dei contemporanei, abito ad Oslo, gli ultimi libri italiani che ho compera­to sono i libri di Sbarbaro editi da Garzanti, le opere italiane di Giordano Bruno e la biografia di Zangrandi e Feltrinelli della Baldini&Castoldi figuriamoci se vado in Italia a comperare i libri di Cucchi per esempio o del Ricciardino, mica ho soldi da buttare e non ho neppu­re tempo da buttar via a 76 anni. Sono incastrato in due fenomeni opposti, perché diverso vengo rimosso, i critici illustri preferiscono il prevedibile, vengo rimos­so anche perché viene disconosciuta la mia diversità, in fondo adoperiamo tutti lo stesso alfabeto, anche se l’ita­liano del sottoscritto è leggermente insolito. La fedeltà alla stima di Volponi di certi critici che hanno stimato la mia poesia non dovrebbe disconoscere che grande è la diversità della mia ultima raccolta con qualsiasi scrittura di Volponi, la mia prima raccolta edita nel 1953 è: Non possiamo abituarci a morire, poco prima Volponi pubbli­cava la sua prima raccolta, possiamo paragonare queste due prime raccolte? Ci possono essere due raccolte tanto diverse? Una con prefazione Carlo Bo, il ricercatore del viscerale, l’altra raccolta ha la prefazione di un Fortini del primo dopoguerra che se non altro si era accorto del­la terribile tragedia dell’ultima guerra mondiale e sapeva che una certa poesia dopo l’olocausto era diventata im­possibile. Ho amato la Divina commedia, le grandi poe­sie di Leopardi, I sepolcri di Foscolo e i sonetti del Belli, dei contemporanei le prime tre raccolte di Montale, la prima di Ungaretti, poi poesie isolate dei maggiori poeti del novecento. Si tratta di poeti estremamente diversi, un Leopardi e un Belli nonostante fossero contempora­nei è come fossero poeti di pianeti diversi, I sepolcri non è certo le Rimembranze, la prima raccolta di Ungaretti è la cosa più diversa degli Ossi di seppia.

Conosco i professori, mio figlio insegna cibernetica in una università norvegese, qualsiasi cazzata mi dice mi domanda poi ripetutamente se ho capito, poi magari mi racconta delle cagnare con certi ricercatori anche ci­nesi che gli avrebbero fregato non capisco bene quale enigma. Capisco anche che tutto può essere uguaglia­to e tutto può essere distinto, per esempio Iddio e il sottoscritto sono molto dissimili, siamo simili in una cosa, siamo tutti e due essere viventi anche se per po­co, come ripeto ho 76 anni. Il sottoscritto e Volponi che un tempo confondevo con Volpini sono tutti e tre marchigiani, siamo tutti e due nello stesso periodo sto­rico, però caro critico amico, dopo aver eguagliato poi bisogna distinguere. Anche nella marchigianità ci sono differenze, io sono nato a Fermo, Marche sporche, Vol­pini è di Urbino che non risiede nelle Marche sporche, lassù sono puliti. Le distinzioni bisogna farle oppure non si capisce più niente. Tra un assassino e il sotto­scritto ci sono somiglianze, ieri con un colpo di giornale ho ammazzato una mosca e non ho mai ammazzato un uomo e neppure una donna per fortuna, e ancora per fortuna non ho causato neppure per sbaglio la morte di nessun uomo o donna. Le vespe che terrorizzano Mary ho dovuto farle fuori perché non sono riuscito a farle volare fuori della finestra. Volponi che è nato nel 1924, nel 1944 alla caduta del fascismo aveva venti anni, cioè come tutti è stato fascista sino a venti anni, durante il periodo fascista erano tutti fascisti, io ho portato la ca­micia nera per tutti i sabato del periodo scolastico che si chiamavano proprio sabato fascisti, c’era una carriera stabilita, figlio della lupa, balilla, avanguardista e giova­ne fascista, Volponi avendo anni 20 nel 1944 sarà stato giovane fascista, stessa cosa per Pasolini, questa gente ha raccontato tutto mai hanno accennato di aver portato la camicia nera sino all’età adulta, la prima raccolta di Volponi è tutto il contrario del Volponi dell’età adulta. Cioè di un Volponi della sinistra italiana, insomma vor­rei che non si facessero più apologie ma analisi critica, gli autori seri come Volponi sono sempre estremamente travagliati, per esempio il sottoscritto di oggi è diverso dal sottoscritto della mia prima raccolta dove mai mi sarei permesso a scherzare con le vespe. Ho scritto di queste cose a diversi tipi, vediamo cosa succede, proba­bilmente niente, figurati se prendono in considerazione quello che dico io. Io vorrei essere il fratellino minore di questa gente, come ogni fratello minore che si rispetti dovrei spiarli e riportare tutto ai miei genitori, chi sa­rebbero i miei genitori in questo caso? A chi raccontare le malefatte dei nostri fratellini maggiori? Ora cerco di raccontarle a voi. Figurati se i professori in belle lettere prendono in considerazione quello che scrivo io.

[questo testo di Di Ruscio fa parte dello “Zibaldone Norvegico”, in uscita da Luigi Pellegrini Editore, collana “Itaca Itaca” con una prefazione di Angelo Ferracuti e una nota finale di Mauro F. Minervino]

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Oggi apre a Torino la mostra di Biagio Cepollaro : «le tre vie in otto tele»

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di Antonio Sparzani

Oggi alle 18.30, presso la galleria VOYELLES ET VISIONS, via San Massimo 9/A, Torino, vernissage della mostra di Biagio Cepollaro: Le tre vie in otto tele. La mostra durerà fino al 19 febbraio prossimo.
A cura dell’associazione Indypendentemente e di Francesco Forlani.

cave panem : Nanni Balestrini

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Video ( pubblicato su Alfabeta2 ) di Uliano Paolozzi Balestrini, montaggio Francesca Bracci, interpretato da Antonio Rezza, musica di Gianluca Ruggieri, testo di Nanni Balestrini.

CIELO NERO (11 gennaio 1944)

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di Giacomo Sartori

[19 dicembre 1943]

[buio; l’Anziana accende la lampada, lo schermo del computer e il videoproiettore: fa partire un video con delle immagini a colori della Germania attuale: passanti in una via di una città con caseggiati recenti …; per qualche istante lo guarda sullo schermo, ma poi si mette a scrivere delle note sul palmare: lentamente, e con molte pause, come se avesse difficoltà a trovare le idee; la Ragazza è seduta sul letto, con le gambe incrociate, in posizione yoga]

Ragazza [parla piano, guardando in basso]

Vedo solo il suo orecchio

la curva dell’orecchio:

l’anca sensuale di un violino

Le mie labbra premono

contro i suoi capelli fini e non puliti

respiro l’odore di uomo

e di alghe appiattite sugli scogli

durante la marea bassa

 

Anziana

È molto smaliziata

la piccola spia crucca

sussurra lui

stringendomi la vita

con molta delicatezza

come si toccano le cose fragili

 

Ragazza

[rivolta adesso verso il pubblico]

Non si muove:

sembra anche lui in ascolto

dei rumori del corridoio

anche lui aspetta

non può fare altro che aspettare

Mi aggrappo al suo collo [mima con le braccia il proprio gesto]

badando a non muovere il bacino

so che al minimo sussulto

non potrei più dominare l’energia

trattenuta nelle mie braccia ad angolo retto [mima]

nelle caviglie tese nello sforzo

morderei la cartilagine

che le mie labbra sfiorano

affonderei le unghie

nella pelle molle delle sue spalle

E soprattutto urlerei

All’inizio mi voltavo ogni due secondi

temevo di trovare nello spiraglio della porta

gli occhi di uno dei due olandesi

adesso non mi importa più nulla

sto seduta a cavalcioni

sulle sue cosce

veglio che niente rovini il nostro piacere

succederà quello che deve succedere

 

Anziana

Se continui così mi strozzi

mi dice lui

con una voce liquida:

[dando qualche occhiata allo schermo: adesso sfilano immagini di ragazzi in un parco, con coppie che si baciano …]

 

Ragazza

sembra salirgli dalle viscere

Preme però ancora di più la gola

nell’incavo del mio braccio [mima premendosi la mano sul collo]

come per essere strangolato

Sempre restando in ascolto del suo corpo

immobile

Vorrei piantarmelo ancora più in profondità

il suo membro caldo e vellutato

e invece centellino questa dilazione

quasi dolorosa

del piacere

questo comunicare

attraverso i guizzi ineffabili

degli organi più intimi

I nostri corpi si parlano

senza bisogno dell’aiuto di nessuno

i nostri corpi fanno all’amore

mentre noi due stiamo a guardare

 

Anziana

Non può durare

sospira

È un lamento quasi animale

suoni impregnati di umori

la lingua della carne

 

Ragazza

[guarda di nuovo in basso]

Durerà mille anni

dico io

accorgendomi

che dicendolo

è ancora più velleitario

 

Anziana

Dal corridoio giunge un gemito metallico:

una porta

[da qui in poi smette di scrivere: sembra ascoltare il racconto della Ragazza]

 

Ragazza

Lui gira la testa

verso il sottile squarcio di luce

io inarco il bacino [mima il movimento, ma accennandolo appena]

come colpita da una frustata:

tenta di trattenermi

affondandomi i pugni nei fianchi

ma io mi lascio cadere su di lui

con tutto il peso [mima ancora]

Cerca di sottrarsi scivolando all’indietro

io però non posso impedire al mio corpo

di fare quello che ha voglia di fare:

spingo in avanti le anche

come lanciando un lasso

il più lontano possibile

poi le richiamo indietro [mima i propri movimenti]

scalzandolo quasi dalla sedia

e poi ancora in avanti

aggrappandomi allo schienale

Quando lui geme

dentro di me sale una marea tiepida

una schiuma che diventa voce

senza passare per il cervello

Lui mi tappa la bocca:

io mordo con tutte le forze

il palmo di quella mano

che vorrebbe imbrigliarmi

Grida per il dolore

o forse per il piacere

perché il suo sesso ha un sussulto

e poi dei fremiti [li mima facendo tremare la mano aperta]

I movimenti non hanno più effetto

ma non posso fermarmi

qualcosa in me pretende

che quell’istante si protragga

che mi dimeni ancora

Ciano emette dei ragli avidi

come i cani l’estate:

io inghiotto il suo alito

con una concentrazione smaniosa

come bevono gli assetati:

l’aria che mi accarezza il palato

è calda e salata

simile al vento del mare

Dalla sedia crolliamo sul pavimento

senza quasi cambiare posizione

i nostri sguardi evitano la lama accecante

che irrompe da fuori

Lui mi accarezza

con molta delicatezza

non mi vergogno più dei miei seni

non mi sento più una ragazzina pubere

per la prima volta

ho la sensazione

che siamo davvero assieme

Ti amo

dico

 

Anziana

[sfilano adesso immagini della redazione di un giornale]

Anch’io

ribatte lui con una voce chiara e serena

come constatando una cosa ovvia

Sento che il mio cuore si imballa

ho l’impressione che potrebbe scoppiarmi

siamo assieme

e nessuna avversità può sfiorarci

 

Ragazza

La stufa non fa più alcun rumore

lui però non si alza

mi stringe ancora più forte

Il pavimento è gelido e lui è pesante

molto pesante

ma non voglio che vada

ho bisogno della sua pelle

vorrei che questo attimo di grazia

non finisse mai

 

Anziana

[interrompe il video, e fa partire un altro filmato dove si vede Edda in varie situazioni ufficiali, molto elegante; lei le guarda sullo schermo del computer]

Edda e Pucci vogliono

che io organizzi lo scambio del tuo diario

finisco poi per dire

riscossa dai rintocchi delle campane

dei carmelitani

 

Ragazza

Non cominciare pure tu a tormentarmi

con il mio diario

ribatte lui

con una voce lenta e impastata

[si volta a guardare sullo sfondo le immagini di Edda, come ipnotizzata]

 

Anziana

In cambio potresti chiedere

di essere liberato

non è poi così impossibile come sembra

insisto io

 

Ragazza

[sembra disturbata dalle immagini che vede: Edda con Ciano]

So che spezzerò la magia di questo momento

ma non posso sopportare l’idea

di non fare nulla

tra poco verranno con la cena

e non potremo più discutere:

mi svincolo dalla sua stretta

accendo la luce

 

Anziana

Quello che li interessa

è mettere le grinfie sul mio diario

prima che io sia morto

borbotta

riparandosi gli occhi con il braccio

 

Ragazza

[sempre con la testa girata all’indietro, osserva le immagini di Edda, ora con  il marchese Pucci]

Basta organizzare le cose per bene

ribatto

mentre con il fazzoletto

tampono la bava calda

che mi cola sulla coscia

[distoglie lo sguardo dal video]

 

Anziana

Diranno che intendono liberarmi

e invece mi fucileranno

dice

 

Ragazza

controllando che sui pantaloni

non siano restate macchie

come però lo farebbe un bambino

non sembra davvero preoccupato

[l’Anziana si alza, e spegne proiettore, computer e lampada]

 

Questo testo è tratto dall’adattamento per il teatro dell’omonimo romanzo scritto dal sottoscritto [Gaffi, 2011], premio portale Sipario.it 2013, e visibile qui: http://www.sipario.it/images/biblioteca_testi/cielo%20nero_sipario.pdf].
PERSONAGGI:
 – Ragazza: una giovane donna tedesca di ventitré anni, con un abbigliamento che richiama gli anni quaranta del secolo scorso
 – Anziana: una donna, la stessa donna, molto anziana e apparentemente in uno stato di salute precario, con degli spessi occhiali, e un abbigliamento attuale
 RICHIAMI STORICI:
 nell’ottobre del 1943, instauratasi la Repubblica di Salò, Galeazzo Ciano, genero e ex Ministro degli Esteri di Mussolini, viene imprigionato nel carcere degli Scalzi di Verona, in attesa del processo per il suo coinvolgimento negli avvenimenti che hanno portato al 25 luglio e alla destituzione del suocero. Nonostante il carattere per certi versi lasso del loro matrimonio, la moglie Edda, alla quale è quasi subito negato il permesso di rendergli visita, fa di tutto, anche recandosi più volte dal padre a Salò, e aiutata dall’amante Emilio Pucci, per salvarlo. La giovane agente-spia Hildegard Beetz, o “Felicitas”, incaricata dalle alte gerarchie naziste di sorvegliare Ciano, e che passa le giornate accanto a lui, finisce per essere sedotta dal fascinoso quarantenne imprigionato: nel tentativo di sottrarlo alla morte fa il doppio gioco, esponendosi a gravissimi pericoli. D’accordo con Edda, propone lo scambio dei diari tenuti da Ciano quando era ministro, ai quali i nazisti tengono, contro la liberazione del prigioniero. Poche ore prima all’attuazione del piano Hitler però lo blocca, e Ciano viene processato e condannato a morte: viene fucilato l’11 gennaio 1944 al Poligono di tiro di Porta Catena. Dopo la guerra la donna lavorerà come giornalista in Germania, dove morirà nel 2010

 

Forze di quale ordine?

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di Antonio Sparzani
morte Stefano Cucchi

Non lo faccio ormai quasi più, perché mi dico “tanto lo so già”, ma l’altra sera ho ceduto perché ho mangiato tardi per via di certi fagioli, e allora ho guardato «presa diretta» sul terzo canale della nostra tv di stato e per l’appunto «morti di stato» era il titolo della puntata: i bravi Riccardo Jacona e Giulia Bosetti raccontano con partecipato distacco e buona professionalità le tristi vicende, è il caso di dirlo, di Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Riccardo Rasman e Stefano Brunetti. Tutti cittadini italiani sui quali le forze dell’ordine hanno infierito selvaggiamente senza ragione alcuna, anche perché nessuna ragione ci può essere per il tipo di trattamento che a questi cittadini è stato riservato. La maggior parte di questi cittadini sono morti in seguito al trattamento, gli altri sono rimasti invalidi per tutta la vita. In qualche caso gli autori sono stati processati e condannati, di solito a pene abbastanza miti, per omicidio colposo e mai di più, talvolta mitissime tanto che alcuni tra i poliziotti assassini non hanno scontato un solo giorno di carcere e anzi sono stati mantenuti in servizio, e spesso promossi.
Se volete i dettagli potete guardare in rete, ad esempio qua, ma le cose che non capisco e su cui vorrei che tutti fossero un po’ più sensibili sono schematicamente le seguenti:

1. Quale molla spinge questi uomini (e, talvolta, donne) delle forze dell’ordine, che così si chiamano perché appunto sono delegati da tutti noi a far rispettare l’ordine democratico in una nazione dove, almeno di nome e in parte anche di fatto, un tale ordine esiste ed è regolato da leggi, quale brama di piccolo potere li spinge a esercitare la loro piccola ma spesso letale violenza su altri cittadini ?

2. Perché con quasi uniforme regolarità, il corpo di appartenenza, Polizia di Stato o Carabinieri, è omertosamente connivente, minimizza, copre, mai riconosce, mai si scusa anche dopo sentenze chiarissime passate in Cassazione, anzi promuove i colpevoli, ufficialmente riconosciuti tali?

In taluni casi, attenzione, la verità viene a galla, malgrado i rapporti ufficiali che dunque si rivelano platealmente falsi, grazie alle benedette telecamere di sorveglianza, che, sì, ci sorvegliano ormai in ogni istante della nostra vita pubblica, ma talvolta fanno il loro mestiere di documentare una realtà incontrovertibile a favore della giustizia. Sono passate nella trasmissione di Jacona alcune immagini di queste telecamere, e io vorrei che tutti le vedessero: non c’è scusante per l’aggressione gratuita del forte contro il debole, aggravata dal fatto che il forte in questi casi rappresenta la legge e l’ordine. L’unica scusante, pardon, spiegazione, è da psicopatologi.

Chi mi conosce immaginerà che sono particolarmente sensibile a questo tema, dato che nel 1971 un gruppo di poliziotti armati ― questore di Milano, per chi non ricorda, era Marcello Guida, ex-uomo di fiducia di Mussolini, che ricoprì, negli ultimi anni del ventennio, l’incarico di direttore del confino politico di Ventotene, e anche lui rimasto bellamente in servizio con una posizione di prestigio ― si avventò su di me con manganelli, rompendomi una mano, visto che per fortuna mi riparavo con questa la testa; fui poi, abbastanza ironicamente, denunciato per “resistenza aggravata”.

Ed è ben vero che il constatare come nulla sia cambiato da questo punto di vista mi provoca una feroce rabbia; e mi chiedo quale sia la strada per cambiare questo modo di essere che così malamente caratterizza il nostro paese: le forze preposte dallo stato, cioè da noi tutti, a mantenere l’ordine diventano in alcune occasioni i nostri nemici, o meglio noi diventiamo i loro nemici, sui quali sfogare aggressività e frustrazioni. E non è, in casi come questi, minimamente rilevante la famosa invettiva di Pasolini sui poliziotti “figli di poveri”, che oltretutto va letta fino in fondo, ad esempio qui.

Messico e Male; 2666 anni con Roberto Bolaño

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di Helena Janeczek

juarez

L’invito a partecipare al vostro “Seminario sul romanzo” mi ha suggerito una scelta istintiva e immediata. 2666 di Roberto Bolaño era l’ultimo libro incontrato dove la fatica di attraversare la lettura coincideva con lo stupore infinito che il romanzo fosse ancora capace di rinnovarsi in modo tanto spericolato e necessario.

Su “Il giorno che diventammo umani”

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di Francesca Fiorletta

zardi

Leggere Paolo Zardi, per me, è stata una sorpresa.

Sono su internet a fare zig zag tra i vari siti di letteratura che reputo solitamente più attendibili, e trovo un titolo che all’improvviso cattura la mia attenzione: “Il giorno che diventammo umani”.

Eh, chissà quando toccherà a me, mi viene da pensare, col sorrisetto a mezza bocca. La firma della blogger non la riconosco, l’immagine di copertina ha un che di languido e pietrificante insieme che sembra promettere fuochi artificiali, oppure solo un (altro) lungo pomeriggio soporifero? Sfondo blu notte, un  primo piano di bambina col pigiama rosso fuoco che dorme di profilo, a mani giunte, capelli raccolti dietro l’orecchio, sembra una giovane madonna asburgica intenta a galleggiare nella placenta ittica dell’oblio volontario, stato a cui invero forse solo gli adulti riescono ad ambire con così tanta tenacia. Gli adulti, cioè, dopo essere (loro malgrado) diventati “umani”. Sarà questo che intende l’autore, con quel titolo così apparentemente assurdo?
La casa editrice è la Neo., ho già letto libri interessanti e ben curati da loro, m’incuriosisco, scrivo subito una mail e chiedo se per caso mi mandano il libro, l’incipit della recensione non è affatto male, ma aspetto ancora un poco prima di farmi un’idea, la grande madre editoriale sembra essere sempre incinta, molto spesso senza il suffragio di una reale motivazione, staremo a vedere.

Mi arriva il libro e lo lascio per qualche giorno sulla scrivania, in cima alla pila di tomi e tomini che m’ero ripromessa di leggere per la settimana, il mese, chissà, non c’è mai abbastanza tempo per fare tutto, vita inumana.
Riprendo il lavoro al pc che mi fa bruciare gli occhi ogni sera, la nausea della retroilluminazione, e per caso mi imbatto nuovamente in un racconto di Paolo Zardi, un inedito stavolta, scritto per rispondere simpaticamente a una giornalista, che lo sfidava a scrivere un testo che non trattasse né di morte né di sesso né di atroci fobie. (E perché mai?)

Lo leggo celermente, mi incuriosisce ancora una volta, dove l’avevo messo, quel libro? Lo rintraccio, sposto la patina di polvere e i due post-it gialli che avevo incollato sulla madonnina dormiente, incrocio le gambe e inizio finalmente a diventare umana.

Di venti racconti si compone questa raccolta, ma a me ne basta uno solo, il primo, uno dei più caldi e raggelanti incipit che io abbia letto negli ultimi anni, scritto da un autore contemporaneo, vivente, italiano, classe 1970: “È risaputo che le puttane di colore non danno mai il culo”.

Sulle prime, la femminista sopita che è in me inizia a gridare sangue e vendetta, ma guarda un po’, un altro maschio in crisi ormonale che non sa come sublimare le sue voglie represse, che è convinto di risolvere i drammi del suo piccolo mondo erotico spiattellandole su carta.

Poi torno indietro, alla prima pagina, leggo la dedica del libro: “A mia madre”. Sta a vedere che ha pure un cuore, il pentito. L’esergo è una citazione di Charles Darwin sull’evoluzionismo, parla della delicata interazione fra i lombrichi e la formazione spontanea della crosta terrestre, che si materializza “in ogni contrada discretamente umida”.

Paolo Zardi ha capito qualcosa, allora, mi dico, quell’attenzione alla composizione superficiale, quell’indugio sulla consistenza “discretamente umida” deve averlo colpito molto, anche il tono che annunciava la deflorazione sarà dunque principalmente provocatorio? Diamogli una chance.

Ricomincio a leggere, già con l’animo lievemente mutato, e da lì le prime 50 pagine sono tutto un fiato corto: si passa da un amplesso violento e incredibilmente tenero a un male incurabile che inizia a deturpare il corpo partendo proprio dal suo fulcro nodale, il cervello. Pranzi di famiglia mancati, salubri promesse procrastinate, sparizioni inattese e altrettanto inaspettate redenzioni: devo già prendermi una pausa da Paolo Zardi, troppa umanità può anche incutere un po’ di timore, di primo acchito.

Non si tratta tanto di witz e trovate voyeristiche, ma di una vera e propria letteratura di vita.

Nei giorni successivi quelle parole continuano a ronzarmi in testa, la costruzione così meticolosa delle frasi più ossute e taglienti, lo scavo d’introspezione mai ammiccante o esasperato, la resa gnomica dell’attualissima condizione di angoscia esistenziale, di spaesamento del vivere quotidiano, e insieme un attaccamento viscerale, marmoreo, quasi altezzosamente ostinato nei confronti dell’umanità, dei suoi aspetti più ferali e primordiali.

Gli istinti atavici, molecolari, ricondotti così sapientemente dentro narrazioni brevi e fulminanti, aggressive e meditabonde insieme, sono quanto di più affascinante si possa ricercare nella letteratura oggi, a parer mio. E di questo procedimento, Zardi si rivela un ottimo esempio.

Le restanti 150 pagine le leggo quindi tutte in una volta, in una girandola ellittica che mi fa perdere e riacquistare il contatto con la più autentica materialità, fuori e dentro la pagina scritta, e così finalmente la spiegazione del titolo mi appare del tutto limpida, nella sua ineluttabilità.

Questo libro ha il grande merito di risultare una sorta di agnizione al quadrato, sia perché raccoglie in sé la moltitudine di agnizioni di cui si rendono partecipi i singoli personaggi raccontati, sia perché, esattamente come accadrebbe con un collage di spiccato stampo umanista, il lettore percepisce con chiarezza quel sentimento in nuce confuso e poi via via stoicamente decisionista che si definisce nel gergo comune come “presa di coscienza”.

Un genitore che guarda i figli con occhi diversi, un compagno che rivaluta le relazioni amorose, una creatura che reagisce o s’abbandona concretamente al dolore, ma senza mai rassegnarsi alla vera fine. La morte, in questo libro, funge da grande protagonista assente.

Non è un caso, perciò, se l’ultimo racconto, sviluppato in prima persona, tre pagine vergate fitte con un unico punto fermo, quello finale per l’esattezza, suona proprio come un autentico richiamo alla gioia della vita, dopo averne necessariamente toccato con mano, occhi, bocca e anima tutte le peggiori sfaccettature.

Forse i lombrichi darwiniani siamo noi, forse sono invece le inevitabili asperità dell’esistenza, ma una cosa è certa: l’umidità della scrittura di Paolo Zardi si sente eccome, nelle lacrime lancinanti e commosse, negli umori del sesso, nei liquami fetidi del corpo, nei sudori ardenti dei desideri.

Diventare umani, nostro malgrado, anche in letteratura, si può e si deve.

Fissò il lampione che dondolava sopra la strada, oltre al muro di recinzione; e poi guardò le piante, e l’erba, e gli parve di vedere, per un attimo, tutte le bestie che strisciavano in quel giardino, trascinando la loro fame instancabile da una foglia all’altra, e quelle che se ne stavano infilate dentro la terra da giorni, da mesi, per sfuggire ai loro insaziabili predatori, e quelle intente a costruire trappole mortali per le loro prede: da quanti miliardi di anni andava avanti quella lotta abominevole? Per quanto tempo sarebbe continuata? Poi, girandosi verso il salotto, vide la cagna assopita, le stampe alle pareti – c’era anche quella di Mirò – , le centinaia di libri allineati nella libreria, il baluginio azzurro della televisione, il divano che aveva scelto con sua moglie in un sabato pomeriggio di novembre, un cesto accanto alla poltrona con i giocattoli dei suoi nipotini e improvvisamente capì cos’era la vita – era quell’ammasso confuso di cose e, insieme, i suoi occhi che lo guardavano; e la morte era qualcosa che riguardava solo lui, e la sensazione, impossibile da condividere, di esistere. Poi, sulle scale per salire in camera, sentì che non voleva morire: che sarebbe stato disposto ad accettare che tutte le piante e tutti gli animali sparsi per il mondo finissero di colpo, se questo gli avesse garantito un giorno di vita in più.

Su “Contromosse”

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di Valerio Nardoni

Col volumetto Contromosse ( Bologna, Confine Edizioni, 2013) Paolo Maccari si presenta di nuovo – il mio ricordo va alla precedente plaquette, Mondanità, che anticipava Fuoco amico – con una piccola opera di grande solidità, che tende a rafforzarsi di lettura in lettura. Questo è frutto del lavoro poetico di Maccari, i cui testi poetici, in genere, né procedono isolati – come dettati dal momento –, né per serie – cioè, intenzionalmente correlati –, configurandosi semmai come prodotti di una stagione, in cui le poesie respirano la stessa aria ma non necessariamente si assomigliano a prima vista. Le poesie di Maccari richiedono un certo tempo affinché possano lievitare le une a contatto con le altre, come se fossero punti di partenza e non di arrivo di un pensiero. È un modo di praticare la poesia diverso da altre scritture apparentemente più frizzanti, ma la cui estemporaneità può a volte correre il rischio della frivolezza o – peggio – del facile ammiccamento.

“Frivolo”, qui, è invece il comportamento di un non meglio detto re del mondo (mi si passi il vezzo musicale), che nella poesia di apertura tratta gli uomini, sua creazione, come una canzonetta improvvisata fischiettando e poi subito dimenticata. Leggero è il motivetto iniziale, ma ben più grave il fondo oscuro a cui allude, cioè la fine di una certa fede e un nuovo bisogno di perdono per poter ripartire (o quanto meno mantenersi saldi): “Credemmo in tutto / poi in nulla / perdonami e sopportami”, così recita la citazione di Attilio Lolini in epigrafe.

Questo ribaltamento di termini, come indica il titolo Contromosse, comporta un moto di difesa più che di attacco (seppur siamo in gioco!), nei confronti di una stagione della vita che è giunta al suo epilogo. A parlare, adesso, non è più l’infante creatore del mondo ad ogni passo, ma il giovane uomo che – appunto – conosce a memoria tutte le mosse della partita che si ripete identica a se stessa, nella vita di chi ha imparato a rinunciare senza paturnie e a sopravvivere senza le smanie che si credevano l’unica fonte di realizzazione.

Sono diverse le poesie che indagano tale zona di confine, e sta infatti qui il fulcro di questo gruppo di testi: nel “presente anestetizzato”, nell’abilità di affrontare le situazioni a occhi chiusi senza più attraversarle né esserne attraversati, spunta lo spettro della falsità. Sotto movimenti lungamente educati fino alla naturalezza, ritorna un’immagine di sé che si era voluta eliminare: l’acqua del rimorso spenna il cigno e svela un pennuto antiestetico e incontentabile: “Quasi mai i cigni riescono a mantenersi cigni. Si immergono in acqua e tornano su brutti anatroccoli, quelli che erano stati, o quello che con grande fatica avevano saputo evitare di rivelarsi” (Cigni). Non si tratta, dunque, di fare dei bilanci tra prima e dopo; semplicemente, è finita la forza di non rivelarsi per quello che si è (si riuscirà a coglierla come un’opportunità?); bisogna però fare i conti con un passato che non ci appartiene più ed un presente che non può definirsi come proprio.

Certo, il tempo è passato, si inizia a notare la giovinezza dei giovani – come i due innamorati che con gesto superletterario (ma non lo sanno) incidono le proprie iniziali nella corteccia e poi la fotografano col telefonino – e a metà del cammino ci si ritrova, da una parte, il ritorno indocile di un sé che ha seminato errori a non finire; dall’altro, un nuovo spazio interiore – forse non volitivo, ma libero dai bisogni di apparire – che potrebbe essere una nuova casa del pensiero di sé.

Il problema vero sembra essere quello di seppellire il passato, non tanto attraverso la comprensione dei propri abbagli e oscenità, ma ottenendo il “perdono di quanti trassi in inganno / dicendo che credo, che so, che sono”.

Un libro di ripartenza nel segno di un necessario perdono che, però, per giungere a se stessi, non può più percorre le strade dell’autoinganno, ma dovrà passare attraverso la compromissione con gli altri, con l’altro, con quello che davvero c’è.

A questo secondo momento, cioè quello di un nuovo incontro col mondo, è dedicata la seconda sezione del libro, Pensieri in piazza, sedici brevi componimenti in prosa, che tracciano le prospettive aeree di vite che, a un certo punto, si posano per un attimo su una panchina e poi rivolano via. La piazza è perfettamente rotonda, al centro la statua, intorno le panchine, le strisce pedonali, il camion del venditore di frutta e verdura, i piccioni più o meno malconci, i cani che si annusano, la pioggia… Lo sguardo del poeta va dalle stringhe delle sue scarpe fino al cielo paffuto di nuvole, nell’arduo tentativo di prendere la vita per quel che è. Lasciare finalmente alla povera statua il centro del mondo e riservarsi un posto laterale, essere passante tra i passanti, con uno sguardo che non si difende più dall’ingenuità e un’intelligenza che combatte le sentenze. Questa (forse) la reale contromossa del poeta, nel pungente desiderio che, se questo scacco funzionasse, “quell’uomo e quel bambino, incantati da quella felicità, smetterebbero di essere un rimpianto e un miraggio e per qualche ora, magicamente, esisterebbero”.

 

 

La (difficile) arte della manutenzione della bicicletta

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La_mia_bicicletta

o delle aporie della conservazione

di Alberto Giorgio Cassani

Avevo bisogno di una bicicletta. Ma, volendo risparmiare, avevo deciso di comprarmene un’usata. Il mio amico Giancarlo, un giorno, mi telefona dicendomi che ne ha vista una di fronte a casa sua che sembra fatta apposta per me: è “vecchia”, ancora in buone condizioni, leggera di telaio; è però senza cambio. Ma a Ravenna, dove io abito, non ci sono troppe asperità da superare. Felice dell’acquisto, comincio a girare finalmente per la città col mio nuovo mezzo di trasporto, se non dopo aver comprato un’enorme catena americana che, da sola, costa più della bicicletta; ma mi sono già affezionato a quest’ultima e non voglio che me la rubino, come già accaduto con quella che usavo in precedenza.

Passato qualche mese, mi accorgo che, nel cerchione della ruota posteriore, un paio di raggi si sono rotti e la ruota non è più perfettamente calibrata. Allora vado dal mio ciclista di fiducia e li faccio cambiare. Certo, ora quei nuovi raggi stridono, nella loro brillantezza, rispetto ai vecchi arrugginiti. Io, che sono un sostenitore convinto della conservazione, cioè del mantenimento della materialità dell’opera, non posso essere felice di questo processo di sostituzione: ma dove trovare raggi vecchi e come pensare che possano durare? Mi consolo pensando che il sacrificio di pochi raggi originali mi permette di salvare il cerchione.

Passano altri mesi e il numero dei raggi si rompe con tale frequenza da dover ricorrere sempre più spesso al mio meccanico di fiducia, il quale, con mio grande disappunto, mi propone di sostituire l’intero cerchione. Io, naturalmente, inorridito, dico di no e preferisco spendere un euro a raggio. Col tempo, però, anche i raggi nuovi si rompono e mi trovo costretto, con rammarico, a dover accettare il rimpiazzo dell’intero cerchione (a forza di sostituire i raggi rotti, avevo speso, ormai, una cifra pari a due cerchioni nuovi). Guardo la mia bicicletta: il nuovo cerchione brilla del suo “valore di novità”: un pugno nell’occhio nel contesto dell’intera bicicletta. Devo solo sperare che il tempo (ma quanto ci vorrà?) lasci la sua patina e renda meno stridente il contrasto col cerchione della ruota anteriore.

Nel frattempo erano accaduti altri due fatti incresciosi: i pedali della bicicletta non stavano più nel perno e mi scappavano in continuazione, creando situazioni di vero pericolo per me e per gli altri. Per qualche tempo ho anche pedalato senza un pedale – sempre per evitare la sostituzione dell’autentico vecchio pedale, ma poi, visto che rischiavo la pelle, ho dovuto procedere all’acquisto di due nuovi pedali e alla sostituzione anche dei due perni. Altra dolorosa perdita d’autenticità.

Inoltre, un bel giorno – avevo parcheggiato la mia bicicletta in Piazza del Popolo nelle rastrelliere davanti al Comune –, un simpatico studente di una gita scolastica mi aveva per scherzo rubato la parte in plastica della sella originale della mia bicicletta – che, quasi subito dopo l’acquisto, aveva perduto i due fermi che lo univano alla struttura sottostante – lasciando quindi in vista lo scheletro in ferro di quest’ultima. Devo dire che, sempre per spirito di conservazione, non avevo mai pensato di comprare una nuova sella, ma ora non potevo certo più farne a meno (per qualche giorno mi ero seduto sulla struttura in ferro, ma la scomodità della cosa era più che evidente). La nuova sella, in similpelle, ma modello “vecchio”, non mi poteva certo soddisfare: avevo perso l’autenticità della sella originale e l’avevo addirittura sostituita con una nuova imitante quelle di una volta. Una doppia inautenticità. L’ultima disgrazia è stata il dover cambiare il vecchio fanale – definito addirittura “marcio” dall’aiutante del mio ciclista di fiducia. Ora lo guardo: è la solita imitazione, in plastica “cromata”, di un vecchio modello. Luccica in modo sgradevolissimo, e temo che su di esso la patina del tempo non potrà far nulla, se non mettere penosamente in luce, col tempo, la plastica che c’è sotto (che già fa capolino a causa di un graffio).

Le tristi vicende della mia bicicletta fanno emergere le aporie che s’incontrano quando si pretende di conservare qualcosa che deve servire ad un uso: il “valore di antichità” non può nulla di fronte al “valore di novità”. Questo è molto triste, ma ci deve far riflettere.

Senza dire che, con quello che ho speso per tutti gl’inautentici pezzi di ricambio, mi sarei potuto comprare un’autentica bicicletta nuova fiammante.

 

Post scriptum 1

L’amico Mario Bencivenni, cui ho fatto leggere quest’appunto, mi suggerisce giustamente che avrei potuto cercare su E-bay i pezzi “originali” via via accidentati. Questo, però, secondo me, avrebbe creato ulteriori aporie: la materia originale perduta può sostituirsi con altra materia proveniente da altri “monumenti” dislocati in altri luoghi? Un po’, mutatis mutandis, quello che succede nei musei con le opere d’arte e su cui scrisse pagine veementi Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy.

 

Post scriptum 2

Un altro amico, Lucio Fontana, cui ho sempre inviato questo mio testo, mi fa dono di questo breve, per me illuminante, commento:

«I (veri) ladri di biciclette (è facile il gioco: la realtà non è come il cinema, nella realtà le biciclette si rubano davvero) oggi rubano più biciclette, le smontano e le ricompongono utilizzando parti provenienti da differenti biciclette. In questo modo il derubato non può riconoscere la propria bicicletta rubata. Il risultato è un pastiche tra parti diverse, nuove e vecchie, originali e non, originali per epoca o per marca ma di epoca di costruzione o d’uso diversi, ecc. ecc.

La tua bicicletta mi ha ricordato questo processo. Stesso risultato partendo da due pensieri e azioni diversi. Di sicuro i ladri non sono dei conservatori. I conservatori sono dei ladri?».

 

Tariffe

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Di Giorgio Mascitelli

 

Alba di Milano e io lavoro. Alba di Milano e io già in piedi. Alba di Milano in cielo e io già sui mezzi a terra. Alba di lavoro a Milano che io sono qui per questo.

Signora, signora non è che mi si agita? Non è che mi si agita perché quello lì è scappato senza avere il biglietto. Non si preoccupi,  quello lì è un portoghese. Signora, ce l’ ha presente i portoghesi?  Finito, il tempo dei portoghesi è finito, non c’è da preoccuparsi. No problem. Il portoghese ha i giorni contati. I portoghesi sono morti e non lo sanno e camminano e scappano ancora e si ostinano, vitalismo di pretta marca bergsoniana. Certi cadaveri dopo morti continuano a farsi crescere le unghie e i capelli, idem i portoghesi. Canzone preferita del portoghese: mi ritorni in mente bella come sei, ma soprattutto mi ritorni in mente. I portoghesi è come dire i ladri di biciclette. I portoghesi è come dire gli scioperi, sì magari addirittura i tranvieri in sciopero. La statistica dice di quello lì che se non sarà preso oggi, sarà preso domani e pagherà una multa più cara di qualsiasi tariffa di abbonamento. Così dice la statistica e così credo io. Signora,guardi l’alba: alba striata di Milano decorata dall’inquinamento, altro che luce grigia, alla Bigazzi,qui c’è il rossore che si perde oltre l’orizzonte, cioè oltre la città. Dove lo trovano il biancoenero, il grigio, il chiaroscuro, io mi domando, dove? Dove potrà fuggire il portoghese in quest’alba striata di rosso? No, il tempo dei portoghesi è finito e basta. Ma forse lei, signora, è troppo giovane e non ricorda il tempo dei portoghesi.

Cioè lei magari, signora, adesso crede che io sono un controllore:  molto di più di un controllore, signora, io sono dissuasore.  Lei continua a credere che quel portoghese se ne sia andato, scappato, che abbia fottuto il campo, ma in realtà non è andato da nessuna parte. Girerà per un po’, prenderà un’altra linea, scenderà cercando di incrociare qualche altro mezzo che lo porti alla meta, magari sfuggirà ancora a qualche collega ( una giornata fortunata non si nega a nessuno) e alla fine dopo tre ore arriverà alla sua meta, ammesso e non concesso che un portoghese possa avere una meta. Questa città si perde oltre l’orizzonte, ma nell’epoca odierna tre ore è come andare a piedi e lei mi insegna che nell’epoca odierna i tempi di connessione sono tutto. Non c’è città che tenga, non c’è orizzonte che tenga, non c’è tariffa che tenga di fronte a tre ore, probabilmente il tempo che impiegava mio nonno con la cavagna sulle spalle ricolma di prodotti nostrani per andare alla fiera dell’Est. Io sono un dissuasore, se controllo il biglietto, è solo per amore delle tradizioni, per rassicurare lei e gli altri passeggeri onesti. Oggi si fa diversamente: per esempio qualche giorno fa ero di servizio in metropolitana e lì il controllo avviene sul mezzanino. Bene un portoghese scende dal treno mi vede, torna in banchina e prende il treno per scendere alla stazione successiva; io me ne accorgo, avverto i colleghi che lo aspettino lì e lui come li vede, torna di nuovo in banchina e prende di nuovo il treno e così ad ogni stazione fino al capolinea. Al capolinea ci sono anch’io, ma  lui resta sul treno e torna indietro e cerca di nuovo di fare lo stesso gioco, ma anche io faccio lo stesso gioco: alla fine lo acchiappo io all’altro capolinea, a cui lo avevo rispedito, e nel comminargli la multa gli dissi “se lei si ostina a non convalidare il documento di viaggio, in futuro le commineremo altre multe”.

E il portoghese mi guarda storto, ma poi si mette a piangere, quando si accorge che nessun controllore teme più i portoghesi perché l’orologio dello sviluppo li ha superati e che io sono un dissuasore e per un dissuasore non c’è nessuno da temere, semmai da intimorire. Ma il controllo non è che la fase iniziale, la preistoria, della circolazione e delle attività di dissuasione. L’obiettivo è dare un nuovo ordine alla circolazione in cui tutto procederà con naturalezza senza bisogno di alcun intervento censorio e i giovani cederanno i posti a sedere agli anziani, chi deve scendere per ultimo non si metterà stolidamente davanti alle porte, nessuno avrà accessi di flatulenze che disturbano gli altri viaggiatori e i matti in metro staranno zitti. La mia e quella degli altri colleghi sarà semplicemente una presenza amichevole o meglio ancora una presenza e basta. Attraversare la città sarà un sogno dal quale non si vorrà essere svegliati e anche i forestieri resteranno incantati a salire per la prima volta. I tempi di connessione che verranno allora saranno tempi d’oro.E chi non ha i soldi se ne starà a casa sua. Sì, magari qualche portoghese lo terremo in attività, giusto perché i più giovani di noi facciano pratica. Sarà un lieto diversivo anche per i viaggiatori la caccia al portoghese residuo. E con questi mezzi la città non sarà più Milano, ma veramente una nuova Atlantide e dove arriverà un nostro mezzo lì sarà la città e poco a poco allora Milano non verrà più chiamata solo Milano, ma la Milano celeste, sul modello di quella marittima. E tutti  nel prendere il passante ferroviario si compiaceranno di questo curioso ossimoro di un passante celeste che va sottoterra. Una città celeste senza limiti di spazio e di tempo e non so perché quando penso così mi vengono spontanee le parole del poeta: tutta mia la città, un deserto che conosco, questa notte un portoghese piangerà.

Il tempo dei portoghesi è davvero finito e anche loro lo sanno, non vorranno insistere e spariranno come il serpe velenoso al ritorno della nuova età. Nulla è più sicuro: infatti se i portoghesi non esistono più, non potranno certo prendere il tram o l’autobus o il metro senza pagare, giacché se lo facessero, avremmo di nuovo dei portoghesi e abbiamo visto che essi non esistono più. Essendo in meno, si viaggerà più comodamente. Avremo una città bellissima senza limiti di circolazione, con tempi di connessione rapidissimi sostenuti da tariffe vantaggiose e semplicemente i portoghesi non ci saranno.

Signora, non vorrei mai che lei mi prendesse per uno di quegli utopisti dei secoli passati che se la menavano tutto il giorno con i loro sogni. Tutto non accadrà subito. Ci saranno dei problemi. C’è da rimboccarsi le maniche. Signora, proprio ieri su questa stessa linea …. A proposito, signora lei ce l’ha il biglietto? Non è mica per essere malfidenti, però sa anche lei come dice il proverbio: amor ch’al cor gentile ratto s’apprende.

Ecco, infatti a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si prende. Lei ha il biglietto valido solo per la tratta urbana e  siamo nella prima semizona extraurbana. Le devo applicare la soprattassa.   Non si rifiuti, non inizi a polemizzare, proprio con me che non voglio far polemiche, piuttosto che far polemiche me ne vado, come quella volta che ho urtato un ciclista con l’auto e quello polemizzava e io me ne sono andato. Guardi lasciamo perdere che è un’ingiustizia che già la parola ingiustizia mi innervosisce. Senta, lo so vedo anch’io che qua dove siamo ci sono case e negozi, come a Milano; senta adesso io stendo il verbale, però non è che mi ripete ogni tre secondi che  è un’ingiustizia,eh? A me non mi interessa niente che questa è un’estensione di case a cui si sono dati per finta nomi diversi. Adesso è colpa mia se la città lì è finita? Magari la città sarà anche unica, ma le tariffe sono differenti. La città ha i suoi limiti che sono le tariffe e questi limiti si possono superare, pagando però. Secondo me, lei continua con questa storia dell’ingiustizia, perché non è una sportiva, se no saprebbe che la lealtà è alla base di ogni sano spirito agonistico.

Ancora? Adesso basta! Oh l’ho dovuta abbattere.

Un frammento, due ritratti

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di Davide Orecchio

Accidenti, lenzuolo!
Mi sveglio, m’alzo e scopro che sei una memoria.

bosco

FRAMMENTO
Ecco gennaio con la pioggia sui vetri e la ghisa che s’intiepidisce nella dimora. L’inverno è il ripostiglio di piccole cose, gesti minuscoli. A. sostiene un esame. S. compra un vestito e un computer. A Maccarese mangiano frittura di pesce. L’inverno è la teoria della vita, l’ansia e il progetto; è scrittura.

Dialoghi per l’anno che verrà

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Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere

Vend. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Pass. Almanacchi per l’anno nuovo?
Vend. Sì signore.
Pass. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Vend. O illustrissimo, sì, certo.
Pass. Come quest’anno passato?
Vend. Più più assai.
Pass. Come quello di là?
Vend. Più più, illustrissimo.
Pass. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Vend. Signor no, non mi piacerebbe.
Paas. Quanti anni nuovi sono passati dacchè voi vendete almanacchi?
Vend. Saranno vent’anni, illustrissimo.
Pass. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
Vend. Io? Non saprei.
Pass. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Vend. No in verità, illustrissimo.
Pass. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Vend. Cotesto si sa.
Pass. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Vend. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Pass. Ma se avestge a rifare la vita che avete fatta nè più nè meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Vend. Cotesto non vorrei.
Pass. Oh che altra vita vorreste rifare? La vita c’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Vend. Lo credo cotesto.
Pass. Nè anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Vend. Signor no davvero, non tornerei.
Pass. Oh che vita vorreste voi dunque?
Vend. Vorrei una vita così come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Pass. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
Vend. Appunto.
Pass. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascono è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato che il bene; se a patto di riavere la vita di prima con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Vend. Speriamo.
Pass. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Vend. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Pass. Ecco trenta soldi.
Vend. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Giacomo Leopardi

“Dicono che repetita iuvant;
che il primo bacio è insipido, ma è il secondo che conta;
che il bis d’un minuto radioso
s’insaporisce d’un miele che ci sfuggì quella sera …
Ma l’anno che ritorna col suo rauco olifante
a soffiarci dentro le orecchie
l’ennesima Roncisvalle,
e ingrossa i fiumi, impoverisce gli alberi;
l’anno che nello specchio del bagno consegna
a uno svogliato rasoio la barba sempre più bianca;
l’anno che cresce su sé con l’ingordigia dei numeri,
sgranando sul calendario
il recidivo blues del Mai più …
chi oserebbe dire che meriti la festa del Benvenuto?
chi potrebbe giurare che non sia peggio degli altri?
Il male si moltiplica e repetita non iuvant.
Eppure … Eppure nella tombola arcana del Possibile
fra i dadi e il caso la partita è aperta;
gonfiano fiori insoliti il grembo d’una zolla;
lune mai viste inonderanno il cielo,
due ragazzi in un giardino
si scambieranno i telefoni, i nomi,
stupiti di chiamarsi Adamo ed Eva;
verrà sotto i balconi
un cieco venditore d’almanacchi
a persuaderci di vivere …
Crediamogli un’ultima volta”.

Gesualdo Bufalino

I poeti appartati: Anna Santoro

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Poesie

di

Anna Santoro

Fare mattoni con parole

usarle come pezzi di cemento

concrete – pazientemente poste

le une accanto alle altre

a (de)costruire senso

 

Parole da toccare, assaporare

Alfazeta per Alfabeta: P come Poesia

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Francesco Forlani in Alfazeta per Alfabeta2

Elektro-poetry a Milano (Libreria Popolare di via Tadino)
All’interno degli incontri di Tu se sai dire dillo

LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO
via A.Tadino 18 3 ottobre 2013, giovedì ore 21

Andrea Inglese e Stefano Delle Monache presentano il libro Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato + cd There’s a choir in the straw stack (ed. ItalicPequod, 2013), in una performance per voce e live electronics insieme con Giovanni Cospito.

Migreurop e la carta dei campi chiusi per stranieri

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[Dal sito Migreurop: osservatorio di frontiere pubblico questo intervento, che chiarisce gli intenti dell’osservatorio militante e fornisce un aggiornamento sulle campagne contro la detenzione dei migranti nei campi chiusi.]

393. E’ questo il numero di campi chiusi per stranieri che appaiono sul sito closethecamps.org, online da oggi. Recensiti nei paesi dell’Unione europea (UE), quelli candidati all’adesione all’UE, elegibili alla politica europea di vicinato (PEV) o ancora negli Stati che collaborano alla politica migratoria europea, questi campi erano tutti operativi tra il 2011 e il 2013.

Note per un Romanzo che non scriverò

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di Francesco Forlani

(progetto settembre 2013)

con immagini  di Salvatore Di Vilio

« Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto? »
(Pier Paolo Pasolini nel ruolo dell’allievo di Giotto- Decameron)

 

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La Reggia custodita

Per Jean-Michel Gardair

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Jean-Michel Gardair, professore e letterato, scrittore e traduttore, è morto lo scorso agosto nella solitudine della malattia (http://etudesitaliennes.hypotheses.org/4456). Tra i molti ricordi, il più intenso è la presentazione che abbiamo fatto, in una piccola libreria parigina, oltre dieci anni fa, del suo libro Jean-Michel Gardair legge Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (Metauro, 2001); è una straordinaria e personalissima lettura del romanzo pirandelliano. Questo il primo capitolo.

 

 

Il fu Mattia Pascal
romanzo del fu Luigi Pirandello

Quid amabo nisi
quod aenigma est?
G. De Chirico, Autoritratto, 1911

 

Il fu Mattia Pascal è l’autobiografia postuma di un suicida e, in quanto tale, idealmente dedicata ai «fratelli» suicidi («fratelli miei», p. 87, li chiama appunto il narratore protagonista) di tutti i paesi e di tutti i tempi, suicidi veri o finti, o presunti, o falliti, o semplici candidati al suicidio, a tuti coloro, insomma, che hanno il suicidio per pensiero dominante; se non addirittura riservata a loro, così come Jean Genet aveva apertamente (ad apertura di libro) riservato agli «invertiti» la lettura di Querelle de Brest.

Ma è anche un giallo. Un giallo ontologico di un morto latitante. Un giallo in cui non si tratta di scoprire chi sia l’assassino, ma chi sia morto, e dove sepolto; addirittura se sia vivo o morto, o risuscitato: la sua tomba potrebbe essere vuota, e il presunto morto, suo latitante ospite, potrebbe essere il narratore che, specchiandosi nella lapide del proprio cenotafio, esclama in extremis: «Io sono il fu Mattia Pascal». O perfino l’autore, se, scherzando – ma non troppo – in una lettera dell’autunno 1904 (ossia tra la pubblicazione del romanzo a puntate e l’imminente edizione in volume), può suggerire il seguente frontespizio: Il fu Mattia Pascal / romanzo del fu Luigi Pirandello. Il giallo ontologico diventa, prima, ontologia del romanzo (di questo romanzo, e della narrativa in genere), poi, ontologia della scrittura.

Ma la tabula rasa del frontespizio e della lapide, la lapidaria eleganza del tombeau letterario non deve far dimenticare né il lungo intricato romanzo del dolore, cui attinge il «pensiero dominante» del suicidio, né il lampo accecante dell’ultima sofferenza che spinge all’ultimo salto nel buio.

(…)

La lettura che segue è stata ispirata e scandita da quotidiane passeggiate tra due tombe, nel parigino cimitero di Montparnasse, entrambe intestate a Baudelaire, lungo un percorso idealmente parallelo a quello che porta Mattia Pascal, dall’affollata scena della sua alienazione giovanile, fino alla pace del soliloquio con la lapide di se stesso. La prima, ad ovest, modesta e perfino meschina, defilata in seconda fila, piena, anzi strapiena in un angusto spazio, quasi un monumento all’infelicità familiare di Baudelaire, strozzato dall’odioso amore per la madre, risposata col Generale Aupick, che si pavoneggia in eterno nella vanitosa pompa di una lapide piccolo borghese:

 

Jacques Aupick
generale di divisione, senatore,
già ambasciatore
a costantinopoli e a madrid,
membro del consiglio generale
del dipartimento del nord, grand’ufficiale
dell’ordine imperiale della legione
d’onore, insignito da numerose
onorificenze estere,
deceduto il 27 aprile 1857
all’età di 68 anni
___________
 
Charles Baudelaire
suo figliastro, deceduto a parigi
all’età di 46 anni, il 31 agosto 1867
 
___________
 
Caroline Archenbaut Defayes
vedova in prime nozze di
Mr Joseph François Baudelaire
in seconde nozze
del generale Aupick
e madre di Charles Baudelaire
deceduta a Honfleur (calvados)
il 16 agosto 1871, all’età di 77 anni.

 

All’altra estremità, lungo il muro di cinta, ad est, la lapide sepolcrale, segnata dal solo nume del poeta, del cenotafio di Baudelaire, che vi giace sopra, ad occhi chiusi, fasciato da strette bende di pietra, vegliato, in cima a un piedistallo a forma di pipistrello, da un genio meditabondo e scontroso che potrebbe essere il poeta stesso, o il suo doppio, l’ipocrita lettore, «(son) semblable, (son) frère».

Sulla diagonale contorta che porta dall’una all’altra, s’incontrano pure, volendo, le tombe di Ionesco e Beckett.

Ma oltre alle indubbie affinità –psicologiche e formali–, tutt’altro è il singolare percorso di Mattia Pascal; tutt’altra l’originalità del fantasticare pirandelliano, oggetto primo della nostra indagine.