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La foresta che cresce

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via Pascarella, Quarto Oggiaro
via Pascarella, Quarto Oggiaro
via Pascarella, Quarto Oggiaro

di Gianni Biondillo

Pasquale l’hanno ucciso a neppure cento metri da casa di mia madre. Sarò passato di lì migliaia di volte. Che dico, milioni. Via Pascarella e via Trilussa sono come il cardo e il decumano della mia memoria infantile. Sono cresciuto in via Lopez, nocciolo duro di un quartiere difficile. Nel mio cortile c’erano (e tuttora ci sono) detenuti agli arresti domiciliari, appartamenti occupati abusivamente, alloggi sovraffollati e diroccati. Quarto Oggiaro è ancora casa mia, anche se ora vivo da un’altra parte. So come si sentono gli abitanti del quartiere in questi giorni. Scoraggiati, delusi, frustrati. Anni e anni di lavoro per le strade del quartiere, dal basso, per sfatare un luogo comune, per lavare l’onta di un pregiudizio, buttati via nel giro di pochi giorni. Decine di giornalisti, televisioni, alla ricerca di una notizia. “Ma io con quelli non ci parlo” mi dicono gli amici, “vengono qui solo quando c’è il morto.” Si sa, fa più notizia un albero che cade che una foresta che cresce.

“Ma ti ricordi com’era il quartiere quando eravamo bambini?” mi chiede Marco. Certo che me lo ricordo. Ricordo la banda di via Lopez, ragazzini che per gioco gettavano dal tetto dei palazzoni i gattini raccolti sugli alberi, o legavano alle rotaie del treno i cani, oppure, crescendo, li rapivano, per chiedere il riscatto ai proprietari. Adolescenti col destino segnato, scolpito nella colpa. Ricordo il pestaggio del giovane vicepreside della scuola media, a fine degli anni Settanta, colpevole di aver sgridato uno della banda. Picchiato mentre apriva la portiera della sua 128 coupé rosa. A terra, lui e le zampe d’elefante dei suoi jeans. Ognuno di noi potrebbe raccontare una storia così. Quarto era un quartiere difficile, dove anche solo un gesto di generosità poteva essere pagato caro. “Una volta alle medie aiutai Mario, un ragazzo di prima, che veniva preso in giro, il giorno dopo mi aspettarono fuori dalla scuola e mi pestarono fino a farmi sanguinare”, ricorda Marco, che vive ancora lì, in via Graf. Mario crescendo frequentò i “giri giusti”. “Ogni tanto lo incrociavo sul suo Mercedes, alla fermata dell’autobus, quando tornavo dal liceo” – quel liceo che si frequentava vergognandoci di dire dove vivevamo – “E mi caricava per darmi un passaggio fino a casa.” Perché succedeva anche questo a Quarto. Curiosi incroci di vite, di esperienze così differenti. Aderenze e distanze, spesso incolmabili.

Dalla finestra di casa mia vedevo il cortile dove abitavano i Tatone. Ma non si creda che ne avessimo un timore reverenziale. Si viveva nello stesso posto come fossimo in realtà spaziotemporali diversissime. Noi avevamo la sala musicale, la biblioteca, l’oratorio. Ognuno faceva le sue scelte, viveva la sua vita, dandoci le spalle. Lo sapevamo, ovvio. Della droga, della delinquenza. Lo sapevano i nostri genitori, che ci venivano a prendere per le orecchie, avvertiti dal controllo sociale dei cortili, per riportarci a calci a casa. “Non frequentare quella gente. Non combinerai mai nulla nella vita”, mi dicevano i miei. Ognuno a casa sua. Evitare di infettarci, di vivere la nostra condizione di sottoproletari come una scusa per lasciarci affascinare dal male.

Guardo un video del Corriere fatto sul luogo del delitto, dove alcuni amici della vittima hanno lasciato dei fiori, sullo sfondo riconosco mia madre. “Stavo tornando dal supermarket” mi dice. Poi mi racconta una storia. Tutti hanno una storia da raccontare a Quarto Oggiaro. “Una volta, mentre facevo la fila col carrello della spesa vedo una signora tutta ingioiellata davanti a me. Le chiedo se non ha paura ad andare in giro così, ma lei mi risponde sprezzante di non preoccuparmi.” Santa donna mia madre, che neppure aveva riconosciuto “Nonna Eroina” mentre sfoggiava come la regina di Saba i suoi ori a ostentazione del controllo  della sua famiglia sul territorio. Ma niente è eterno, pure a Quarto Oggiaro. Pasquale era già sfuggito ad un attentato quasi vent’anni fa. A fare questa vita perdi sempre. i Tatone, camorristi autoctoni, hanno fatto il loro tempo, non sappiamo chi li sostituirà. Quello che so è che il quartiere, di fronte al pregiudizio e all’abbandono da parte dell’intera cittadinanza, ha sempre saputo produrre da solo i suoi anticorpi. Che erano il Circolo Culturale Perini o l’associazione Quartoggiaro Vivibile, che è lo Spazio Baluardo, e tutta quella infinita serie di associazioni sorte dal territorio per il territorio. Così tante che si sono associate tutte assieme. Vill@perta si chiamano. Questa è la Quarto Oggiaro che non viene raccontata mai, quella dalla quale partire per davvero per restituire dignità ai loro abitati, stufi di essere inchiodati dentro ad un luogo comune, incorniciati in un pregiudizio duro a morire. Tutti mi chiedono: com’è oggi il quartiere, hanno paura ad uscire di casa?

Hanno paura ad essere abbandonati quando il chiasso mediatico finirà, questa è la verità. Quando pubblicai il mio primo romanzo neppure esisteva un commissariato a Quarto Oggiaro. L’hanno inaugurato poco dopo, quasi che la realtà si dovesse adeguare alla fantasia di uno scrittoruncolo. Molto lavoro hanno fatto e fanno le forze dell’ordine, ma non è militarizzando il territorio che si risolve la voglia di rivalsa del quartiere. Quanti di voi che mi state leggendo c’è mai venuto qui, mi chiedo. Non è forse anche questa Milano? Qui, ad un tiro di schioppo dall’Expo? Non meriterebbe di essere vissuto dall’intera cittadinanza, conosciuto di persona, attraversato a piedi, questo quartiere pieno di storie di emancipazione e di riscatto, e non solo di criminalità troppo spesso romanticamente romanzata?

Quello che sta accadendo – una lotta fra faide per il controllo dello spaccio? – ad oggi non c’è dato saperlo. Lasciamo agli inquirenti le indagini. A Quarto dobbiamo andarci tutti. Ma non oggi o fra una settimana a fare i turisti dell’orrore. Dobbiamo andarci, numerosi, il mese prossimo e quello dopo ancora. Non per l’ennesimo albero criminale che crolla, ma per la foresta di legalità che cresce. Rigogliosa.

(pubblicato ieri su Il Corriere della Sera)

Porno e dot-com. Trasfigurazione di San Francisco

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di Silvia Pareschi

BDSM

“Qui, prima dell’aids, il sesso era dappertutto. Quando andavo a una festa, spesso mi ritrovavo in mezzo a un’orgia”, mi racconta un amico nostalgico. San Francisco, con la sua vasta comunità gay, venne colpita duramente dall’epidemia, che ne modificò almeno in parte l’atteggiamento gaudente nei confronti del sesso. Ma il trauma dell’aids non è l’unico avvenimento che ha cambiato la faccia stravagante e anticonformista della città. Alla fine degli anni Novanta arrivò il primo dot-com boom, la bolla speculativa del settore informatico con epicentro nella vicina Silicon Valley. La città si riempì di giovani imprenditori e programmatori strapagati, e l’afflusso spropositato di denaro, con il conseguente aumento del costo della vita, contribuì a espellere dalla città quelli che non potevano più permettersi di abitarci, fra cui una buona parte degli artisti e degli eccentrici che riuscivano a rendere interessante un posto un po’ provinciale e sonnacchioso come San Francisco.

Sformato di merluzzo

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[C’è questo gran cuoco, davvero un cuoco dai mille piani (un principe  dell’anarco-gastronomia), ma assolutamente discreto – pur avendo contaminato la nostra cucina tradizionale con la nouvellissime cuisine – ebbene costui mi ha distrattamente lasciato in casa, durante un pranzo, questa ricetta: la rendo pubblica per il piacere dei lettori nostri buongustai, che la sperimentino su fuochi & la innaffino con grappe, ne facciano materia orale e gustativa. a. i.]

di Nanni Balestrini

 

la mano sinistra si appoggia sul libro come una conchiglia non perdiamo l’occasione di vivere un’avventura fatta

Trittico della letteratura italiana, #2

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di Mariasole Ariot

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Un reading dalle poesie di Lorenzo Calogero

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Il Fondo Librario di Poesia Contemporanea di Morlupo RM

in occasione della prima riunione del circolo dei lettori di poesia

presenta lunedì 4 novembre alle 18,00

presso il Centro Libellula un reading

dalle poesie di Lorenzo Calogero

 

INGRESSO LIBERO

A Gabriele

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sedia-sdraiodi Gianni Agostinelli

 

A Gabriele lo hanno licenziato. Sono tre mesi buoni che sta a casa senza fare nulla e considera che è estate. Mi dispiace; per me. Mi dispiace che lo abbiano licenziato perché adesso che Gabriele sta a casa giorno e notte me lo ritrovo sempre affacciato al balcone di fianco al mio quando esco per fumare una sigaretta. O per prendere il sole, e mi tocca girare il culo verso la palestra invece che verso la spiaggia, sennò io a Gabriele finisce che lo guardo in faccia mentre lui sta appoggiato alla ringhiera della sua terrazza e la qual cosa non mi piace proprio. Io quando mi è stata data la notizia che ci pareva a tutti una bella cosa, a me, mio padre e mia madre che infatti siamo andati a dormire sereni quella sera; la ricordo, perché era prima di una partita dell’Italia agli europei che anche se abbiamo pareggiato con la Croazia non ce la facevo proprio ad incazzarmi. Mamma parlava a bassa voce, a papà lo aveva detto in macchina. Lo hanno licenziato? Ho domandato io che mi è arrivata questa notizia come una pacca forte sulla coscia svestita che ho sussultato. Mi sono infilato le infradito che tenevo come tappeto sotto i piedi e mi sono alzato. Ho preso la vaschetta di gelato dal congelatore, pensavo a come delle volte quando non ti aspetti delle sorprese queste poi arrivano. Incredibile ho detto a voce alta, ha dieci anni più di me, ci deve pagare le rate a tanta gente, e Rosanna? La mamma ha detto Vieni seduto e così mi sono dimenticato di prendere i cucchiaini che lei ha fatto il gesto con la testa e con lo sguardo di dire Ci penso io lascia perdere questi cazzo di cucchiaini che qui succedono cose. E infatti ecco che mi ha raccontato la storia per come le era stata venduta. A Gabriele lo hanno licenziato perché era finito il lavoro, ma tutto questo a fine febbraio, mica adesso che siamo a giugno. No ho detto. Sì. La mamma ha continuato il racconto troncando la mia frase che era cominciata con E come.

Ha detto che all’inizio faceva finta che fosse tutto normale. Poi faceva finta di stare in ferie e lì si è insospettita la Rosanna. Alla fine ha ceduto e così che quella è pure incinta l’ha fatta svenire. Addirittura. Zitto che non è finita.

E invece era finita lì, solo che la mamma ha aggiunto un tot di particolari inutili ed un tot di altre supposizioni, ma la sostanza era quella.

Ciòdetto come diceva il professor Sgabrelli, ciòdetto il mio vicino di casa si è sentito come liberato, deduco io, e così adesso sta sempre in terrazza che fuma, beve, mangia, si gratta, controlla il cellulare. Parla poco, fortunatamente, ogni tanto dice Oh, altre voce dice Eh, impreca e quando impreca è buon segno che da dentro la finestra c’è bisogno urgente di lui e deve tornare dentro.

Io con Gabriele all’inizio dell’estate facevamo pure finta di non vederci in terrazza. Io entravo, alla luce del giorno che stava sopra il balcone annunciandomi quasi. Un colpo di tosse tipo. Aspettavo così che magari lui se era lì e puntava lo sguardo verso la mia ipotetica direzione avesse tutto il tempo di girarsi da un’altra parte. Così io uscivo e quando ce lo beccavo, molto spesso, notavo con la coda dell’occhio che aveva capito il mio segnale. Le prime volte però, erano drammatiche. Tipo io entravo in terrazza strizzando gli occhi per il tanto sole che stava sopra il mare e lui era fermo come quei cani che li becchi proprio in mezzo alla strada e non sanno dove buttarsi, però tu non puoi frenare ormai e manco sterzare senza far danni, sicché lo salutavo, e lui mi salutava. Tutto apposto? Ed era sempre tutto apposto, poi strisciava le ciabatte fino a dentro casa.

All’inizio, dopo la sorpresa, il fatto che quando entravo in scena io faceva sì che non ce n’era per nessuno, mi ha dato una certa importanza. Mi bastava un colpo di tosse per farlo cacciare via e rintanare dentro, quel topo gigante. Avete paura del suono del padrone eh? Timore mio. È stata una sorpresa pure questa che mi ha dato nuova stima in me stesso. Rinnovata fiducia come dice il ct.

Poi però, a fine mese, la musica è cambiata. L’Italia l’avevano rimandata a casa con tre gol e, peggio, io tossivo ma lui non se ne andava. Sarà il casino in strada, la televisione, non lo so. Sembrava non sentire. E io mi interrogavo e così mi rigiravo per la terrazza senza incrociare il suo sguardo. Come dicevo prima ho iniziato a prendere il sole sulla nuca più che in faccia perché mi toccava guardare la palestra invece del mare. Facevo dei sospiri profondi e mi mordevo la lingua quando ero in terrazza perché tanto se mi giravo come volevo mettermi avrei trovato lui coi gomiti sulla ringhiera. Alla fine la rabbia è diventata insostenibile, ho detto ora basta a bassa voce e poi ho detto Oh vediamo, a voce alta mentre mi alzavo rumorosamente per mettermi nella posizione che preferivo. Mi sono voltato e Gabriele stava nella sua solita posa coi gomiti poggiati alla ringhiera, la schiena curva, i calzoncini corti, e poi aveva un piede in una ciabatta, un’altra ciabatta a terra ma senza piede dentro perché con il collo del destro si stava grattando il polpaccio sinistro. Quando mi ha sentito far rumore con le sedie si è girato per guardarmi. Oh – ha detto – e pigliate qualcosa per la tosse. E poi è rientrato.

Sono rimasto impietrito sulla sdraio. Ho iniziato a sudare.

Simone

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di Franco Buffoni

Dalle cronache dei giorni scorsi ho appreso che a Roma il 21enne Simone si è ucciso gettandosi dal tetto dell’ex pastificio Pantanella in via Casilina perché omosessuale.

“La vita piena e serena di Simone, i suoi impegni, i suoi sogni, il suo essere grato a tutte le persone, il suo obiettivo di diventare un bravo infermiere per aiutare gli altri…”: sono le parole con cui Don Lorenzo, che lo conosceva bene, inizia l’omelia nella chiesa di San Giustino di viale Alessandrino, accanto alla sua bara insieme a Don Giulio, Don Silvano e padre Gianni. Anche Don Giulio, Don Silvano e padre Gianni conoscevano bene Simone e i suoi famigliari, molto assidui in parrocchia.

Due poesie di Oskar Pastior

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 [Due preziose traduzioni dal tedesco del grande Pastior, ancora poco conosciuto in Italia. Grazie al sito Poetarumsilva che le ha ospitate e, ovviamente, alla traduttrice. a. i.]

Traduzione e nota di Anna Maria Curci

RESA DEI CONTI

La statua della vaghezza si nutre di paradossi salmistrati.
Gli addetti al sipario della parola lo calano sul banchetto della vergogna
nel quale sono beoni a fare da magnaccia.

Personaggi Precari 2013: Bau Seven

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PersonaggiPrecari 300 di Vanni Santoni

Giorgia
Tutto maggio tra pelucchi e smog sotto un sole bianco postnucleare gli occhi arrossati la tosse secca in piazza Indipendenza Giorgia legge.




Samuele
Capisce di essere, per così dire, arrivato, un giorno in cui si scopre a scaldare il caffè in padella per non sbattersi a lavare una tazza.


Alessia
– Perché è rotto? Perché gli amici del babbo sono degli stupidi, stupidi, stupidi pezzi di merda.
– Di cane?
– Ecco, sì, bravo, bravissimo: di uno stupido, stupido, stupido cane.




Laura
Assomiglia pur sempre a una persona davvero molto famosa.

A scuola dell’insignificanza

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rizzante

In chiusura della manifestazione, Portici di Carta- Ottobre nelle librerie , che ha visto coinvolte ben sessantadue librerie torinesi indipendenti, e della settimana dei traduttori  con la presenza, tra gli altri, di Maria Nicola, Antonietta Pastore, Anna Nadotti, Isabella Amico di Meane, Enrico Ganni, giovedì 31 ottobre sarà la volta di Massimo Rizzante per un doppio incontro, come poeta e come traduttore. Su “Scuola di calore” di cui è possibile leggere alcune delle poesie su Nazione Indiana, ha scritto Giuseppe Montesano: “ha il tono inconfondibile dello scrivere quando è in viaggio verso l’essenziale”.

 

Alle 18,30 Presentazione di
Scuola di calore
di Massimo Rizzante
con l’autore Francesco Forlani
letture a cura di Alessandra Terni

 

 

Libreria Il Ponte sulla Dora
VIA PISA 46 10153 TORINO
+39 011 1992 31 77

insignificanzakundera

«Solo dall’alto dell’infinito buonumore puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne ».

Alle 21 presentazione di
La festa dell’insignificanza
di Milan Kundera
Massimo Rizzante (traduttore dell’opera)
presenta l’ultimo romanzo di Milan Kundera

Il lavoro, il carcere, la Coca-Cola

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di Dr.Fabio Dito (Stopopg Campania) e Mario Schiavone

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Un’ora di lavoro fra alcune mura delle carceri italiane frutta un compenso: vale meno del costo di due bottigline di cocacola pet da mezzo litro.

Giovanni lavora da parecchi anni negli istituti penitenziari. Per non perdere traccia di quel che fa, scrive alcuni appunti: annota su foglietti ciò che lo colpisce di più. Quei piccoli appunti lo portano ad osservare da vicino quanto accade oggi all’interno delle Carceri e degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La contraddizione è così forte che gli viene in mente Freud.

Editor e autori (non il solito pippone)

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(L’intrepido Lucio Angelini ha letto Publisher di Alice Di Stefano, editor con cui in passato ha avuto contatti professionali. Ecco la recensione – JR)

Basta con gli autori! che siano gli editor d’ora in poi a firmare i libri! – Flavio Santi in Diamo tutto il potere agli editor

di Lucio Angelini

A) Lette le prime 50 pagine di “Publisher“, il libro in cui Alice Di Stefano racconta suo marito Elido Fazi. Riassumo: Alice, già abituata a frequenti (quanto astrusi) cambi di partner (il solito barista, chauffer o al massimo skipper) viene invitata niente popò di meno che da Elido Fazi, editore conosciuto allo Strega, a raggiungerlo in India. Lei gli fa presente di non potersi permettere il biglietto e lui le manda un SMS con l’indirizzo dell’agenzia in cui ritirarlo aggratis. Alice esegue “in puro Cenerentola style” e i due scorrazzano per l’India (nell’incipit finanche in un atollo delle Maldive). In linea di massima fanno cose normalissime, a parte una cacata di Elido in un vaso prezioso in una suggestiva dimora-albergo (quando scappa, scappa!). Alice scopre piccoli episodi di tirchieria di Elido con i ragazzi dei tuc tuc (magari dopo aver pagato conti per migliaia di dollari in hotel e ristoranti per turisti), ma è soddisfatta delle scopate con lui (fra cui una nel deserto, tra rumorosi ventilatori a pale). Che dire? Alice non è Chatwin, forse nemmeno Francesca Pascale, ma vi informerò sul senso del libro nelle puntate successive, ammesso che lo trovi.

B) Terminato a fatica “Publisher”, il libro in cui Alice Di Stefano cerca di trasformare il marito editore in un personaggio romanzesco di grande spessore (in effetti nelle ultime pagine si ammette che un po’ di pancetta post-matrimoniale a Elido è spuntata), ricostruendone infanzia marchigiana, adolescenza, giovinezza, maturità e incipiente senescenza con fin troppi dettagli (solo quelli dei cibi ingurgitati dalla coppia occupano un buon quinto del libro). Accanto al ritratto di Elido, vengono tratteggiate anche le figure di vari personaggi di contorno, tra cui quelle degli amici del cuore di Elido. Particolarmente detestabile e tediosa risulta, fra tutte, la figura di Valentino Zeichen. Alice non scrive male, ma come editor si è lasciata sfuggire un “gli” al posto di “le” (pag. 94) (“lui gli [ad Alice] aveva detto”), l’espressione “ricerca di cineserie” nel corso di un viaggio in Giappone (p.137) e altre imprecisioni.

Spesso si ha la sensazione di essere capitati nelle “Pagine promozionali e celebrative” di Wikipedia, da cui cito:

Esempio di pagina promozionale o celebrativa
“Sigismondo Barillacqua della Verdesca (Castiglion della Pescaia, 25 dicembre 1985) è un cuoco di Canicattì. Dopo il diploma in ragioneria si iscrive alla facoltà di biologia marina dell’università di Reykjavík, senza terminare gli studi. Sposato con la signora Marinella Fontanabuona de Rimboldi, fra le sue passioni vi sono il curling e la lippa. Da bambino sognava di diventare astronauta, ma ora il suo più grande desiderio è quello di fare lo scrittore di manuali di elettrotecnica.”
Cosa c’è di sbagliato in questo testo?
Ovviamente nulla di personale contro l’esimio signor Barillacqua, ma è evidente che questa pagina non può rivestire alcun particolare interesse né utilità per un’enciclopedia come Wikipedia. Il tono di per sé è formalmente corretto e non presenta promozioni evidenti, ma è l’esistenza della voce stessa a essere promozionale: non indicando alcuna attività degna di nota svolta dal personaggio e non specificando perciò per quale motivo egli dovrebbe avere una voce tutta per sé.”

In PUBLISHER vengono rievocati eventi editoriali come la pubblicazione del seminale “Cento colpi di spazzola”:

“Con la scelta di pubblicare il diario di una sedicenne in cerca di sé (.) il Publisher aveva fatto bingo. Grazie a quel romanzetto cochon e a distanza di poco tempo dalla sua fondazione. la casa editrice aveva spiccato il volo scalando ogni classifica e vendendo più di un milione di copie nel giro di pochissimi mesi. In quel turbinio di emozioni difficile da gestire, l’ormai Publisher a pieno titolo aveva perso la testa e persino suo figlio, Thomas, aveva un po’ sbandato con la bella pensata di innamorarsi di Melissa”

e naturalmente il lancio dei noti romanzetti seriali sui vampiri.

È nel corso di una convention della GD (Grande Distribuzione) a Portofino che Alice, ormai promossa dal fido Elido editor-in-chief della Fazi, prende la parola. A tal proposito la Di Stefano non manca di ricordare che

“per accedere alla grande distribuzione occorre avere libri che vendono davvero. non per niente, gli unici autori invitati a Portofino sono tutti ex cantanti datisi all’autobiografia, attori, attrici, giornalisti TV, comici i cui brevi interventi durante la cena costituiscono degli sketch fenomenali e tuttavia pericolosi, visto che se sbagli una parola ti sei giocato tutto, altro che RAI. “

Quell’anno a presentare il frutto delle loro fatiche c’erano niente popò di meno che Geppi Cucciari e Nada. e per la parvenue Alice, quella mattina, era stato un po’ “come entrare a Cartoonia.”

Publisher e editor, nel romanzo, non tubano soltanto, ma litigano anche. Per esempio a p. 136 lui le dice:

“Tesoro, smettila di parlare a vanvera e dedicati all’unica cosa che sai fare”. Seguono propedeutici strofinamenti sui divanetti e scopata finale.
Epperò: “dopo quasi un anno di rapporti pluriquotidiani, triplette, terzetti e scambi di coppia, lui, già a settembre, le dice: ‘Ormai anche il sesso tra noi non va’.”

Come viaggiatori, sono mossi più che altro dalla ricerca di ristoranti e alberghi in cui spendere tantissimo ottenendo pochissimo.
Il capitolo più divertente è “Io sono Keats”, dove non è chi non convenga con Alice:

“Fazi si sente John Keats, artista visionario di cui dice di aver capito quasi tutto e di cui si reputa l’assoluta, perfetta incarnazione. In realtà, i due in comune hanno solo le umili origini. “

Ma l’autrice non si perita di trovargli un’attenuante:

“La passione per i versi era nata durante l’università, per contrasto con la facoltà scientifica prescelta e per riscattare forse il suo passato a Quintodecimo. Nei paeselli, da sempre, i versi rappresentano il simbolo di una vita agiata, trascorsa a non far niente, sempre seduti, al massimo con una penna in mano, esprimendo in solitudine il cosiddetto animo nobile. Comporre rime nel silenzio di una stanza anziché raccogliere pomodori sotto il sole era considerato il vertice cui aspirare fin da piccoli per evitare una vita altrimenti monotona e fastidiosa. Per un ragazzo cresciuto vicino all’orto, tra i grugniti dei maiali e le grida dei vicini, la poesia era la cosa più distante e perciò la più difficile da ottenere (dopo i soldi).” (169-170)

A pag. 184 c’è forse il passo che meglio tradisce le segrete molle comportamentali della Di Stefano:

“Alice da piccola giocava a Barbie reginetta del ballo in cui, per aspirare a diventare tale, bisognava mettere insieme vestito, fidanzato, anello e distintivo del circolo (il più difficile da ottenere, per ovvie ragioni di lobby) prima di poter tentare la fortuna ai dadi, fare centro ed essere incoronata unica e assoluta REGINETTA DEL BALLO. “,

cui fa eco, a pag. 240:

“All’università. era in una situazione che dire difficile era poco. Anche la scorciatoia suggerita da qualcuno, che le aveva consigliato di cedere alle avance dei professori per fare carriera più velocemente, non aveva un granché funzionato: pur avendola perseguita, e a volte anche con gusto, non si era mai ritrovata in cattedra per questo, smuovendo l’amore gli oceani ma non evidentemente la burocrazia.”

A pag. 294, dopo aver rivangato le trascorse pratiche amorose (per lo più con un “pubblico di manovali, facchini, idraulici, imbianchini, skipper e persino un pornodivo, icona a livello internazionale”), aggiunge:

“Da tempo, infatti, a torto o a ragione, Alice sosteneva di essere ‘la più grande filosofa del mondo’ nonché l’unica, infallibile ‘dea dell’amore’.

Gli ultimi due capitoli raccontano, appunto, la capitolazione di Elido di fronte a tanta dea [“Come ti chiedo in sposa”] e il ménage vero e proprio [“Fazi marito perfetto”].

P.S. Riguardo al senso complessivo del libro… be’, posso dire che esso è chiaro almeno per Elido: dopo il libro di Cesarina Vighy, madre di Alice, e quello di Melissa, morosa del figlio di Fazi, un libro della moglie ci stava.

Poiché ero l’albero più occidentale del giardino. Di fragilità e potenza, opera di Federico Gori

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federico_gori_02 di Francesca Matteoni

foto 1 di Martino Margheri

foto 2/3 di Bärbel Reinhard

 

L’albero che si stacca dalla terra è un albero morto. Nessuna fioritura dai suoi rami, nessuna acqua trattenuta nelle sue radici. Maestoso nel suo irrigidirsi e sfaldarsi fino al nulla. Davvero nulla? L’albero che non sente più la sete accenna il volo su una materia minerale che si imprime dei suoi rami, foglie, elementi vegetali che mutano al variare della luce e delle stagioni. Impronte, residui di sostanza viva, lente memorie. La memoria, come il tempo, non è mai intera. Si frange in noi, capaci di abitarne solo piccoli pezzi, reinventati nella prospettiva che cambia con l’esperienza o seguendo improvvise epifanie in cui il passato ci chiede di riconoscerlo presente. Si confondono l’effimero e il duraturo: la morte del gigante arboreo è la sua fragilità che nutre il paesaggio naturale a cui si riconsegna. La sua sospensione è la distanza necessaria affinché parli – non più abbeverato, sgorghi nella consapevolezza di chi osserva. Siano comprese le sue tracce.
Non un albero, ma un fiore appassito è il protagonista di una poesia che scrissi con tutto il fervore dei miei otto anni. Un fiore ha un passaggio breve nell’esistenza, lo dimentichiamo in fretta quando muore, lo gettiamo. Allora questo mi sembrò un difetto imperdonabile della vista, per cui si cercano le cose belle, ma di rado le apprezziamo fino in fondo – quando ci lasciano e, come tutto, liberamente muoiono. Era proprio, nella mia visione di bambina, la fine con la sua povertà, il suo ingrigirsi e avvizzirsi a dover sollecitare l’amore più intenso. Sentivo che solo così la bellezza è completa. Che la perdita è una parte struggente dello scoprirsi grati.

Mi apparve dunque come una specie di miracoloso fenomeno empatico leggere pochi anni dopo, tra le fiabe di Hans Christian Andersen, la storia di un fiore e di un bambino. A raccontarla è un angelo che, mentre conduce un bambino in paradiso, sosta tra le macerie di una casa lungamente abbandonata per salvare un fiore di campo, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato. Nella casa era vissuto un altro bambino così malato da non poter mai uscire, la cui primavera si era tutta concentrata in quel fiore piantato in un vaso, poiché aveva le radici. Ogni anno rinasceva, facendo brillare la stanza e l’immaginazione del suo ospite. Il bambino era morto volgendosi al fiore.

L’angelo della fiaba sa tutte queste cose perché lui stesso è stato quel bambino: da un altrove ignoto ricorda e torna. Io, con la mia fede infantile e assoluta, ero certa che ci fosse una ricompensa per l’aver cura di ciò che è fragile e la ricompensa infatti venne, mantenendo una sorta di promessa, e fu il dolore. Bel guadagno, direte. Ma non giudicate troppo in fretta le parole, ripetetele come si affonda un seme nel terreno. Il dolore di morire per la prima volta: crescere. Seppellire i fiori dell’infanzia nella mia persona. Per coglierli ora devo imparare a scandire una memoria dopo l’altra. Nelle vene dei polsi percorrere gli steli ondulati, perché sboccino in un tempo diverso con la loro meraviglia minuscola, così facile da lacerare, da votare all’oblio dell’età adulta. La ricerca continua di quei fiori diventa la ricerca della felicità, l’ostinazione del bene niente affatto ingenuo: si affida ai desideri come al loro rovescio, si spinge verticale sulla vita – ne è responsabile – proietta un’ombra che la ripara. Si tende tra il sottosuolo e il cielo – si allunga, mette su strati di corteccia, si schianta impercettibilmente ad ogni cerchio, allarga le sue fronde. La pianta è quieta e paziente. Forse è, come nei versi di Margherita Guidacci, un albero esposto agli ultimi raggi solari che immergono il mondo nel crepuscolo.

Poiché ero l’albero più occidentale del giardino
Per ultimo mi scuotevo di dosso la fredda rugiada.
Nebbia e noia via dai miei rami lentamente strisciavano
E nessuno al mio risveglio applaudiva,
Ché i miei compagni erano da tempo gloriosi nella luce.

Ma la sera su me emigravano gli uccelli
Che l’ombra sgomentava da ogni altro verde asilo;
Lungo e dolce da me s’alzava il canto;
Avidi gli occhi degli uomini mi fissavano, mentre
Ero avvolto dal sole nell’amoroso addio
E brillavo come una torcia sul mondo spento.

_MG_2787a01 Ecco, la potenza dell’albero è la sua attesa. Il suo sfolgorare più vivido perché a lungo ha conosciuto l’oscurità e di nuovo sta per entrare nel buio notturno. In questo albero che si accende in procinto di sparire noi possiamo meglio distinguere l’umano, la soglia mortale che ne determina il valore. L’amore con cui la pianta si congeda dal giorno dei vivi viene da tutte le esistenze che in lei si sono assopite; dalle ombre che non hanno mai smesso di dialogare in noi, di solcarci, inciderci, non più con le loro vite concluse, ma con la nostra. Così tanto l’albero ha scosso la sua chioma nell’aria che infine, morto, si è alzato in un sogno tangibile a dispetto della gravità. Così tanto possiamo porre lo sguardo nel ricordo e nell’immaginazione da far sì che il tempo dismetta il suo inganno più antico, che ci vuole gradualmente separati in uno scorrere lineare, e riveli invece come il coraggio si sovrapponga alla sofferenza, come siano forti le frasi interiori di chi amiamo, non importa da dove provengono, da quale regione, corpo consumato in una fotografia.

Facciamo di nuovo attenzione all’opera, alle scritture impresse sul rame, in basso, dove stiamo. L’albero è scomparso, spezzato. Le linee che lo spezzano non sono i confini della morte, ma le ferite della nostra speranza, la gora dell’acqua che mai abbiamo cessato di versare, perché tornassero lo stelo e la corolla. Ogni lastra ha una sua altezza, reca un frammento simile agli altri eppure unico: ha una data, un nome, un gesto. La curva di una foglia è lo scodinzolio di un cane o la schiena del gatto, calati nel cimitero domestico di un orto. Questo intreccio di rami e germogli sono le dita di un compagno che prematuramente abbiamo dovuto ascoltare oltre il silenzio – abbiamo appreso a tenere con noi, mentre lo perdevamo. Un’amica. Un genitore. Un fratello. Dobbiamo fare fatica, ora, per guardarli. Non sono più come li volevamo. L’acqua che ci unisce ha l’amarezza del pianto, ma ogni lacrima ci alleggerisce, ci rende più umili, malleabili. Ogni lacrima scava la nostra natura fino al paese dove nessuno è dimenticato. Riemerge. Esile, ma tenace, voce di un coro. Per ognuno di noi ha un invito, una commovente fiducia, un timbro ineguagliato. Dice: non temere, gioisci. Anche se non ritorno, io resto. Accoglimi.

 

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Il testo è tratto dal catalogo dell’opera Di fragilità e potenza di Federico Gori (Gli Ori, 2013).

L’installazione, esposta sotto una quercia sospesa a Palazzo Strozzi nella primavera 2013 e ora in collocazione definitiva presso la sede di Vannucci Piante (Pistoia).

Ricerca di Poesia: Elio Pagliarani

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Il mondo orizzontale from Frenesi Gates on Vimeo.

A spiaggia non ci sono colori
da “La ballata di Rudi” (1995)”

A spiaggia non ci sono colori
la luce quando è intensa uguaglia
la sua assenza
perciò ogni presenza è smemorata e senza trauma
acquisita solitudine
Le parole hanno la sorte dei colori
disteso
sulla sabbia parla un altro
sulla sabbia supino con le mani
dietro la testa le parole vanno in alto
chi le insegue più
bocconi con le mani sotto il mento
le parole scendono rare
chi le collega più
sembra meglio ascoltare
in due
il tuo corpo e tu
ma il suono senza intervento è magma è mare
non ha senso ascoltare
Il mare è discreto il sole
non fa rumore
il mondo orizzontale è senza qualità
La sostanza
è sostanza indifferente
precede
la qualità disuguaglianza.

Testo – Elio Pagliarani

Video di Agnese Trocchi


Musica – Massimiliano Sacchi: Massimiliano Sacchi, elettronica; 
Cristiano Della Monica, percussioni; 
Lorenzo Niego, Didjeridoo; Francesco Banchini, clarinetto

Registrato a CasaCuma studio

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Gli orfani (appunti per un fantasy no-gender)

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di Davide Nota

 con illustrazioni di Diana Roman 

“Tutto ciò che sogniamo e che forse si realizza in un’altra dimensione è la sola strada frequentabile per tornare a noi stessi spolpati dell’irreale realtà. Ma quanto più sincera è una lettera menzognera rispetto a tutto ciò che un uomo è condizionato ad essere? Così ho deciso di erigere anch’io una galera da cui tentare l’evasione. Scaverò la mia minuscola finestra per indagare un cielo che all’aria aperta mi è impossibile vedere.”

 

Standard del fantasy re-innervati di ebbrezza creaturale e di resistenza alle definizioni di genere (sessuale o narrativo) fondano il canovaccio di 5 racconti inediti, post-apocalittici e anti-cattolici, misto di narrativa pop e tensione a una nuova spiritualità. Potete leggerli cliccando qui.

La storia di tuta la mia vita da quando io rigordo ch’ero un bambino

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di Tommaso Bordonaro

(Navarra Editore riporta in libreria “La Spartenza”, autobiografia di Tommaso Bordonaro narrata con un linguaggio che mescola dialetto siciliano, lingua inglese e italiana e nel quale l’autore capovolge in punto di forza e invenzione di lessico e metrica il semianalfabetismo delle sue radici. Rispetto alla prima edizione Einaudi nel 1991, che seguì di un anno il riconoscimento all’opera del Premio Pieve Santo Stefano, la nuova – sempre curata da Santo Lombino – è arricchita da alcuni materiali inediti, tra i quali una prefazione di Goffredo Fofi. A seguire un estratto. Le prime pagine del libro.)

Oh, honey it was paradise

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Lou Reed non è vero che Berlin è il tuo album migliore

Lou Reed non è vero che la droga aiuta a scrivere canzoni

Lou Reed non è vero che la droga aiuta ad ascoltare canzoni

Lou Reed non è vero che oltre alle canzoni scrivevi poesie

Lou Reed non è vero che Metal Machine Music non è un album da ascoltare sotto l’ombrellone

Lou Reed non è vero che la storia del rock si confonde con l’eternità del rumore

Lou Reed non è vero che sapevi essere triste come una rete metallica

Lou Reed non è vero che avevi una voce anomala e ammaliante

Lou Reed non è vero che hai nutrito le nostre più adolescenti malinconie

Lou Reed non è vero che sei morto

Ricerca di Poesia : Iosif Brodskij

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A URANIA

a I.K.

Tutto ha un limite, compresa la tristezza.
S’impiglia lo sguardo alla finestra, come alla palizzata
la foglia. Puoi versare acqua, scuotere chiavi.
Solitudine è l’uomo al quadrato. Il dromedario
così fiuta, ingobbendosi, il binario.
Si scosta il vuoto, come una portiera.
E cos’è poi lo spazio, in generale, io
dico? Assenza di corpo in ogni punto.
Per questo Urania è più vecchia di Clio.
Di giorno, e al lume di lumini ciechi,
vedi che non nasconde nulla: cerchi
di guardare il globo, e guardi una nuca.
Eccoli, i boschi pieni di mirtillo,
fiumi dove si pesca a mano lo storione,
una città che non ti annovera più
nell’elenco del telefono. E a sud
anzi a sud-ovest, ecco montagne brune,
e vagano nel càrice cavalli, prževali,
si fanno gialli i visi. Poi, più in là, corvette
navigano e si fa azzurro lo spazio,
come una biancheria con i merletti.

Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi, Milano 1986 (traduzione di Giovanni Buttafava)

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s e n t i r e , v e d e r e

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di Giusi Drago
pelle di elefante

(Giusi Drago è già apparsa in Nazione Indiana, qui;
questa è una delle sue ultime scritture, a.s.
)

 

 

 

pochi i verbi per dire, delle cose che senti,
il fiato speciale, il tessuto

di tutte le cose che senti, i mutamenti

Lo stato terrorista 2

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di Antonio Sparzani
0593 - ECHOS
Qui la prima puntata.
Notizia bomba di questi giorni sembra essere lo spionaggio USA sulle comunicazioni di tutti, in particolare dei governanti dei paesi loro cosiddetti ― per amore o per forza ― alleati, che quindi devono, di fronte alla pubblicazione inattesa delle notizie, mostrarsi indignati, la Bundeskanzlerin in prima linea, ben s’intende, come sempre. Eppure, verrebbe da dire, la cosa si sapeva da tempo, almeno dalla prima uscita di Snowden, e probabilmente da prima, guarda caso che perfino i nostri servizi (che nome ben scelto!) sembra dessero manforte.

Quando sento questo la mia prima reazione è quella cinica che prende ormai quasi tutti, ovvero le persone disincantate, quelle senza più incanto di niente, quelle per le quali tutto è oramai noto e scontato. Ma subito dopo mi prende invece un senso di scandalo, di vergogna, di dolore acerbo per l’appartenenza ad un paese inossidabilmente alleato di questa banda di cialtroni e arroganti delinquenti che costituiscono senza eccezione l’elite governante degli Stati Uniti d’America, casa bianca, pentagono, NSA e CIA.
Personalmente sono stato un anno negli USA, con una loro borsa di studio nei lontani anni ’70, trent’anni prima delle torri gemelle, ai tempi di Nixon e del Vietnam. La borsa durava 21 mesi, ma dopo 12 mesi ho deciso irrevocabilmente di troncare e di tornare in Italia: avevo visto abbastanza, non volevo perdere un giorno di più della mia vita in una terra così abbandonata da qualsiasi senso di umanità. In Italia (io sono tornato a settembre 1972) era presidente della repubblica Giovanni Leone e capo del governo Giulio Andreotti: delle meraviglie, al confronto, non ho dubbi.
Da allora la situazione umana degli Stati Uniti è andata continuamente peggiorando. Ridotti, a prezzo di violenze inaudite, ai minimi termini i legittimi abitanti nativi di quelle terre, esaurite, e soffocate nel sangue, le lotte operaie dei primi decenni del secolo, spentesi, dopo l’intervento della Guardia Nazionale che uccise quattro studenti alla Kent State University, Ohio, 1970, le pallide, ma foriere di speranze lotte studentesche, la molto determinata follia capitalista, in questa particolarmente virulenta varietà, ha preso senz’altro il sopravvento e procede a vele spiegate.
Adesso c’è il datagate, perché gli sciocchi si sono lasciati sfuggire un pesce non così piccolo che ha cominciato a raccontare cose. Ma, mi chiedo io, i governi alleati, oltre a scandalizzarsi, a protestare, a minacciare, cosa possono realmente fare? Come possono/possiamo controllare se davvero quelli smettono di intercettare, con quale sofisticata tecnica? Io non lo so. Sappiamo tutti bene che fidarsi della parola di un presidente, Obama poi peggio (ascoltatevi Noam Chomsky sull’argomento) di altri, è impensabile: dire la verità è fuori della mentalità statunitense, è una cosa che non esiste: se proprio occorre dire qualcosa, va detto esattamente quello che conviene. Magica parola conviene, parola che asciuga e protegge tante situazioni, parola che contiene un bel misto di giustificatoria leggerezza e di ammiccante complicità: stai attento, caro, non ti conviene! Lo sa bene l’Elettra di Sofocle quando si rivolge alla madre Clitennestra: « . . . so che faccio cose inopportune e a me non convenienti . . .» (Sof., El., 617-18).
I nostri ineffabili omologhi dicono che sotto il mare corrono 26 reti e nessuno è in grado di escludere che l’Italia sia stata oggetto di spionaggio ― il nostro paese è al centro del traffico tra 4 continenti. Ma non abbiamo elementi, così Emma Bonino, per sapere che i nostri siano stati intercettati. Come dire, certo che sì ma non ce ne siamo neppure accorti. Enrico Letta dice: «Non sono concepibili zone d’ombra tra alleati, quali siamo e intendiamo continuare ad essere
Ho qualche conseguenza da trarre da tutto questo: la prima e la più banale è che la tecnologia, che forse in sé non è né buona né cattiva, in mano ai cattivi è sempre cattiva.

La seconda, altrettanto ovvia, è che i trattati internazionali, le convenzioni unanimemente approvate, anche tra alleati, valgono finché valgono, cioè finché, ecco di nuovo il verbo fondamentale, convengono. Quando non convengono più, si rompono, senza tanti complimenti e nessuno può farci niente, salvo dichiarare guerra o, ammesso che ne abbia il potere, imporre ritorsioni commerciali.

La terza, connessa con la seconda, è che la legge fondamentale, quella che decide in ultimissima istanza, è sempre quella della forza, come tra i primati e tra gli animali in generale. Nulla di stupefacente, ma non facciamoci illusioni bizzarre.