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L’etichetta di Spinoza

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di Francesco Forlani

La memoria è anche una statua di argilla.
Il vento passa e, a poco a poco, le porta
via particelle, granelli, cristalli.”

“Il vento mi soffiava sul viso, mi asciugava
il sudore sul corpo, mi rendeva felice.”

José Saramago, i quaderni di Lanzarote

 

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Dove nascono i venti? E poi nascono davvero oppure ci sono da sempre? E per sempre si muovono, talvolta in modo insolente a due, tre, quattro nodi sospingendo da una parte o dall’altra chiunque e qualsiasi cosa ne intralci la corsa. Il vento è in tutte le cose, dipinge le nuvole in cielo e libera le terre dalla siccità portando la pioggia che irrora la campagna, benedice il raccolto, o li annega, i campi facendo impazzire i torrenti e piegando ogni speranza di chi ha coltivato la terra. Muove ogni cosa e semina, il vento; raccoglie e scompiglia i capelli, li sconcica proprio, specie se ricci e neri come la pece che sembrano lapilli con i riflessi rossi, quelli di Julie.
Per dire vent dico vin perché come tutti gli italiani sbaglio l’accento. Però ci soffio sopra alla parola, per farmi capire e Julie mi dice che da loro dicono: siffler une bouteille, fischiare la bottiglia, come il vento e mi fa vedere come le labbra intente a deglutire vino prendano la stessa forma di un arbitro o di un vigile che soffi con tutto il fiato nei polmoni in un fischietto. Fischi per fiaschi, insomma.

Julie ci ha convocati di buon ora per traslocare un migliaio circa di bottiglie dallo scantinato della casa editrice in cui lavorava, l’Harmattan, prima di passare aux Editions du Seuil. Due macchine sette persone, divisi tra correttori di bozze, editor, artisti di strada, un pittore, un fisarmonicista e uno che non si sa bene e quello sarei io. L’appuntamento è all’Atmosphère, e la prima ad arrivare è la macchina di Patrick Chevaleyre, Peugeot 404 azzurrina Grand Tourisme.
– C’est ma bagnole! Il mio scatorcio, dice Patrick, e poi aggiunge quasi sempre: la macchina del film Tontons flingueurs, mica Fiàt. Anche loro sbagliano i nostri accenti. La destinazione, la libreria al 21 bis rue des Ecoles, nel quinto arrondissement, quartiere latino.

Il vino è di quello buono, pregiato, bottiglie dei nonni di Julie, persone importanti, collezionisti di Châteaux. E quando ci caliamo nella cantina, uno alla volta la visione d’insieme è impressionante. Non se ne stavano gli uni, i vini, da una parte e dall’altra i libri ma tutti insieme, «maritati». Tra questi ultimi, ben riconoscibili, quelli di José Comblin, Maryse Condé, Yasmina Khadra, Alain Mabanckou; Denis Pryen, l’aveva fondata negli anni settanta, l’ Harmattan, e pretendeva il giusto rispetto per un’impresa che aveva al proprio attivo migliaia di titoli, per lo più saggi e autori del terzo mondo, di quella francofonia che quando non si veste d’esotico non entusiasma affatto il mercato. Dalle bottiglie rilucevano non sempre le etichette però si capiva lontano un miglio che fossero preziose. Certo rimaneva il dubbio: e se fossero diventate aceto? Lo stesso valeva per i libri, in effetti, un tarlo per i collezionisti. Ma la sensazione che permaneva era quella di un fitto dialogo tra le etichette delle une e le quarte di copertina degli altri. Così quelle parole dicevano al solo pronunciarle, sillaba dopo sillaba, premier cru, tête de cuvée, domaine, appellation, récoltants, vignerons, e raccontavano mappe che disegnavano mondi e cartografie sottili, venature nel cuore della Francia profonda, che quasi quei villaggi li sentivi respirare.

Julie si accorge della mia sorpresa e mi dice che se voglio, il libro di Khadra, De l’autre côté de la ville, lo posso tenere. E aggiunge subito dopo: a proposito di prima lo sai che l’Harmattan è un vento famoso, nel bene e nel male.
– E perché?
– Perché tira su tanta di quella sabbia e polvere da rendere invisibile ogni cosa, bloccare gli aerei per giorni e costringere soprattutto i vecchi a rimanersene rintanati in casa.
Mentre lo dice agita le mani davanti a sé a mulinello e si vede che ha visto davvero ‘sta cosa. Mi accingo a rimettere mano alle scatole di cartone e Julie si inginocchia accanto a me sussurrandomi è un vento cattivo che rende nervosi, aggressivi, violenti, ma a volte rinfresca, e reca sollievo alla gente, e infatti lo chiamano proprio per questo «dottore».

Sistemiamo con cura le bottiglie quasi avessero al proprio interno messaggi d’importanza capitale. Alla stregua di messaggeri inviati alle corti degli imperatori e dei papi, sistemiamo con cura certosina ogni cosa, sotto la guida attenta e affettuosa di Julie. La mattinata va via in un sorso, punteggiata dai nostri oh oh, ah ah, a segnalare un’ennesima scoperta sensazionale, ora un vino degli anni trenta, ora un libro che tra le carte ingiallite rivelavano destini alla maniera degli arcani misteriosi infilati in qualche pagina strappata.
Così Franck Lassalle, suonatore di fisarmonica a un certo punto legge, ad alta voce ma prima dice nome dell’autore e a seguire il titolo e l’annata.

Alexandre DUMAS, « Le Corricolo», 1843.
Mi direte che malauguratamente l’onore non basta a sfamare una bocca e che per vivere bisogna pur sempre mangiare. Ora, è ovvio che quando sui mille scudi di rendita si carichino la manutenzione di una carrozza, il nutrimento dei due cavalli, le spese di un vetturino l’affitto di un alloggio al Fondo o a San Carlo non rimante certo granché per far fronte alle spese della tavola. Al che risponderò che Dio è grande, il mare profondo i macaroni a due soldi la libbra e l’asprino d’Aversa a pochi centesimi il fiasco. Per ben istruire i nostri lettori che probabilmente ignorano cosa sia l’asprino d’Aversa, noi gli faremo sapere che si tratta di un piccolo buon vino che si situa a metà tra la tisana di champagne e il sidro di Normandia. Ecco allora che con del pesce, macaroni e dell’asprino, si può mettere su in casa una deliziosa cenetta che costerà quattro soldi a persona. Immaginate che la famiglia si componga di cinque persone, tutto verrà venti soldi. Rimangono così nove franchi per tenere alto l’onore del nome.

Curioso, penso. il libro di Khadra, De l’autre côté de la ville. Era se ben ricordavo proprio l’origine del nome della città di Aversa, dall’altra parte di Napoli, della capitale. E l’Asprino? L’allegro, il brioso, che come la manna dal cielo, a detta di Dumas faceva passare il mal di testa che ogni forzata contabilità da quattro soldi, destinava ai poveri in canna? Mantenendo salvo l’onore? Una lunga conversazione a tavola pochi anni prima, i conversari, dove le parole venivano servite insieme al vino nei bicchieri degli incontri alla libreria Quarto Stato d’Aversa. Il ricordo si sovrapponeva così ai gesti ripetuti del riporre la bottiglia all’orizzontale, spostare il libro rimettendolo in verticale, e comporre così il nuovo ordine delle parole. A quel tavolo c’erano Ernesto e Antonella, librai comunisti, Alessandro Manna gallerista, Salvatore  di Vilio fotografo, Raimondo Di Maio, libraio editore, Massimiliano Sacchi e Marco di Palo, rispettivamente clarinetto e violoncello dei Ringe Ringe Raya, con cui avevamo appena concluso un tour dall’avvincente titolo «Reading Reading che mamma ha fatto gli gnocchi», e Enzo Falco che dell’Asprinio ne ha fatto una battaglia personale. E nei calici di cristallo che si toccavano ad ogni passaggio di testimone, di parola, Asprinio di terre un tempo aversane e ora disseminate in mille nomi, Carinaro, Casal di Principe, Casapesenna, Cesa, Frignano, Gricignano di Aversa, Orta di Atella, Parete, San Cipriano d’Aversa, San Marcellino, Sant’Arpino, Succivo, Teverola, Trentola-Ducenta, Villa di Briano e Villa Literno.

Ernesto racconta come da piccolo uno dei cesti con l’uva appena raccolta gli avesse dato alla testa. Non avvedendosi del lancio di uno dei vendemmiatori non aveva fatto in tempo a scostarsi. – Come la manna dal cielo – fa Alessandro, poi aggiunge: «uomini ragno», che non soffrono di vertigini per salire sugli scalilli appoggiati all’alberata, ci ho trascorso un’intera giornata e vi giuro che a vederli da sotto maneggiare i tralci e i grappoli sembravano insetti.
– Sono stati i francesi a inventarsi ‘sta cosa delle alberate – dice Salvatore dopo uno schiocco di lingua che segue un lunghissimo sorso. – Louis Pierrefeu, il cantiniere di corte di Roberto d’Angiò, tralci di vite, “maritate” ai pioppi, alti dieci quindici metri.
Quindici metri a salire e quindici a scendere, se si considerano le grotte, a’coppe e a’sotte, e fa il segno con la mano, scavate a 13 mt di profondità. Così si vinifica l’Asprinio – è Raimondo a parlare stavolta. Ernesto scende in libreria a prendere un prezioso volume. Si tratta delle Passeggiate Campane di Amadeo Maiuri e legge stavolta restando in piedi. «Sono i campi delle viti eccelsi di Plinio, materialmente abbracciate agli alti pioppi, i campi delle uve più feconde di mosto e del vino arbustivo (come era un tempo chiamato dagli intenditori), come se da quella stretta tenace a quei tronchi gravi e sostenuti, un poco di ligneo umore potesse calare nel succo del vino».
Tutto questo m’era venuto in mente, manco avessi bevuto un paio di quelle bottiglie

Julie ci fa segno che è ora di andare. Ci sono più di venti scatoloni riempiti di bottiglie e ci dice che quelle che rimangono, un centinaio le lascia al libraio. In macchina ci dirigiamo verso Montmartre che è l’unico luogo in cui in tutta Parigi ci sono le vigne. E ripenso ai pioppi, a questi alberi così imponenti. Rousseau nel 1778 era morto nell’isola dei Pioppi, a Ermenonville nell’Oise e su una tavola dello stesso legno Leonardo aveva dipinto la Monna Lisa. Pioppi bianchi e neri, capaci di trattenere le voci degli inferi o della salvezza. Il brusio delle foglie mosse dal vento ricorda le voci della gente, come non immaginare agli oracoli smarriti nel brusìo delle foglie? Ecco perché populus, peuplier, pioppo, significano corsa al cielo, alle anime che non ci sono più. Voci che tessono tele capaci di imprigionare ogni più recondito ricordo, esperienza, da lasciare libero al primo sbattere di rami, di foglie. Legno che costruisce navi, mobili ma anche la carta che imprigiona le parole, i pensieri, le storie. Alberi libri che cercano mani potenti, arrampicatori senza vertigini che possano raccogliere ogni cosa. Alberi e vite, libri e bottiglie, maritate, ovvero simbolo stesso di quello che Spinoza chiamava un vincolo d’amore, qualcosa che dura oltre ogni ragione del cuore, qualcosa di simile all’amicizia, la sola più duratura dell’amore stesso. Capace di dire fino a quando tremeranno le foglie, fino a quando ci sarà vento. E in quella corrispondenza dei sensi, che significa unione nella buona e nella cattiva sorte, reca d’un tratto sollievo rileggere il passo che il filosofo dedica all’amata, ma forse bisognerebbe dire, l’amica. E strappo la pagina dalla vecchia edizione che ho a casa di Julie ou la Nouvelle Héloïse.
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Lettre XXIII à Julie
L’unica cosa per la quale non godevo di nessuna libertà era la durata eccessiva dei pasti. Potevo disporre di me nel non mettermi a tavola; ma una volta seduto, bisognava rimanerci una buona parte del giorno, e passarla a bere.
Non c’era modo di immaginare che a un uomo e per di più svizzero non piacesse bere? Effettivamente, confesso che il buon vino mi pareva una cosa eccellente e che non ho in odio la cosa al punto di distaccarmene a patto che non mi si obblighi. Ho del resto notato che le persone false sono sobrie e la grande riservatezza della tavola annuncia assai spesso dei modi finti e delle anime doppie. Un’anima franca teme meno il cicaleccio affettuoso e le tenere effusioni che precedono la sbronza. Però bisogna sapersi fermare e prevenire gli eccessi. Ed era proprio quanto mi era impossibile fare con cotanto risoluti bevitori come i vallesani con vini violenti quanto quelli del paese e su delle tavole dove non si vide mai acqua. Come risolversi a giocare furbamente il ruolo del saggio e a far dispetto a così brave persone? Mi ubriacavo allora per riconoscenza; e non potendo pagare lo scotto con la mia borsa, lo pagavo al prezzo della mia ragione.

La ripongo in una bottiglia, quella che mi è stata regalata perché imbottigliata nell’anno della mia nascita. Quella appena scolata nel nome del bere buono, del vivere felici e gliela spedirò. Anzi le scriverò sulla bottiglia, queste parole, incollandole all’etichetta. Ecco che almeno per un attimo saremmo stati legati anche noi, indissolubilmente come Rousseau a Julie, come la vite all’albero maestro, e l’albero al vento.

Elezion sarà: nodo più forte,
Fabbricato da noi, non dalla sorte.

Lanzarote, 13 luglio 2013

Testo pubblicato su Corriere.it per il progetto Racconti in Bottiglia

per Carlo Giuliani – 20 luglio 2001

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di Gianni Montieri

targa per carlo giuliani
s t a n d o    a    c a s a   (20  luglio  2011)
 
Dieci anni fa era luglio e c’era caldo
non mi sono mosso da Milano
potevo andarci a Genova, potevo esserci
alcuni amici andarono e, poi, tornarono.

Quella volta dieci anni fa ho avuto paura
il giorno prima dissi: “non verrò ragazzi,
laggiù tira una brutta aria, resto a casa”.

Anniversari affettivi – 20 luglio 1965, Like a Rolling Stone esce negli Stati Uniti

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LaRS

di Filippo Tuena

Credo che sia stato Roddy Doyle a chiedersi che impatto poteva avere su un teen-ager il primo ascolto di Like a Rolling Stone. Poiché sono stato teen-ager, o meglio adolescente allora posso rispondere. Nato il 24 luglio del 1953, avevo dodici anni quando il disco uscì: l’età in cui si passa dalla fanciullezza all’adolescenza.
Perché il disco uscì proprio il 20 luglio del 1965 negli States. In Italia, al solito, diverse settimane dopo, certamente nell’autunno di quell’anno. E io credo di averlo comprato – al prezzo di cinquecento lire, più o meno – durante quell’inverno.

ite, kermesse est

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Silent Words
performance Nikolina Silla

SILENT WORDS 2
I giardini delle Parole – Collisioni 2013
(…)Quale processo interno ha luogo nel momento in cui le parole lette avvolgono la nostra esistenza? Perché ciò che accade al lettore, si potrebbe dire, va oltre la semplice funzione del cervello. Le parole risuonano nel corpo. Ci prendono per la mano e ci portano attraverso il confronto, i pensieri, i sentimenti, i ricordi, il respiro del corpo (…)

Al festival Collisioni, Barolo, ho assistito nel mezzo di una kermesse cultural letteraria paragonabile solo a Woodstock, per numero di persone al metro quadro, a una straordinaria performance. Nikolina Silia, artista croata ha creato, in disparte, in controcanto rispetto al rumore di fondo, baccanale cultural gastronomico – e astronomici prezzi per mangiare e bere – quel che succede davvero in uno scambio letterario. Tutto accadeva in mezzo a parole mute, al mutevole gioco di sguardi, specchi opachi di incerte calligrafie, mappe calcate su drappi bianchi, stralci letterari, nell’assoluto silenzio. Mentre fuori tutti si accaparravano il proprio posto al sole della belle plage littéraire, e tocca l’autore con mano, e gratta e vinci, nell’ombra, vestita di bianco lei esplorava lo spazio bianco della lettura, ora un impercettibile movimento delle labbra, ora il tic nervoso, la mano a sfogliare l’aria, il gesto del piego libri. Perfino gli scrosci del cesso situato al piano di sopra avevano un senso. Anzi a questo frammento di Heinrich Böll in Foto di gruppo con signora, mi hanno fatto pensare .

SILENT WORDS 3
“…uno schifo, le dico. (…)Siccome Wilhelm, mio marito che pure aveva fatto l’idraulico, poi il tecnico e infine il disegnatore, si dimostrò di una schifiltosità incredibile, e siccome io e Margret morivamo dal ribrezzo, sa chi ha risolto il problema? Leni. Non fece altro che cacciar dentro la mano, e mi sembra ancora di vedere il suo bel braccio sporcarsi di giallo fin sopra il gomito. Afferrò la mela la butto nella pattumiera, tutta quell’orribile broda scese giù di colpo gorgogliando, e Leni andò a lavarsi: si lavò a fondo, certamente, più e più volte e si strofinò braccia e mani con l’acqua di Colonia, e fece un’osservazione- ora mi torna in mente- che per me fu come un fulmine. “i nostri poeti sono stati i più coraggiosi disotturatori di cessi”

SILENT WORDS 1

Nikolina Silla è nata il 5 giugno 1981 a Zagabria, Croazia. Ha studiato fotografia presso la Scuola di Belle Arti e Design, e giornalismo presso Università delle scienze umanistiche a Zagabria. Lavora come free-lance fotografa e si esibisce principalmente nelle gallerie e nei musei di Zagabria. Molto presto realizza il bisogno di spostarsi dalla primaria espressione fotografica verso il concettualismo e multimedia. Così nascono le collaborazioni con i colleghi artisti e partecipazioni alle mostre come “Much too Much”, Padiglione d’Arte di Zagabria, Kleine Spioninen la mostra realizzata sotto la direzione artistica dell’ artista tedesco Stefan Bohnenberger nel HDLU, Zagreb. Guidata da un progetto di collaborazione si sposta in Cina, e qui per qualche tempo fa perdere le sue tracce, per poter di nuovo disegnare i sentieri dei concetti artistici cominciando da quest’ anno 2013.

2 frammenti da “Il bambino mammitico”

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Bambino mammitico Copertina
di Giacinto Conte

La mia impressione dopo aver conosciuto Enzo è di una persona magnifica, carismatica, indubbiamente di grande talento e sensibilità umana. Enzo è anche enormemente simpatico, scrutatore dell’anima e profondamente religioso. Sono stato a colloquio con lui tutta una notte nella sua cameretta del monastero. Mi ha offerto l’Ouzo, un liquore orientale, e poi durante tutto il nostro colloquio abbiamo fumato delle sigarette sudamericane.

Drive

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di Alessandra Greco

greco0

Sotto, alla base, c’è la madre, un orologio atomico al cesio. Aggiustamenti d’ora necessari solo molto raramente e sempre si tratta di frazioni infinitesime di secondo. Lo strato più evanescente spesso manca di buio, la lacrima all’occhio, la zona corrispondente alle ombre meno intense, l’impercettibile distanza, lo strato meno spesso di un corpo, quello che si vede: una bruma di campagne ibride avvelenate per chilometri.

Del perché ho deciso di non rispondere alle domande della prova orale del concorso docenti

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di Gualtiero Bertoldi

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Sono appena tornato dalla prova orale del famigerato concorso docenti voluto dall’ex ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Francesco Profumo. La prova consisteva in questo: preparare e presentare oralmente per 25-30 minuti una lezione su di un argomento estratto a caso dal candidato stesso il giorno precedente (nel mio caso appunto ieri), e rispondere quindi ad alcune domande di carattere generale (che potevano riguardare la lezione stessa o l’intera disciplina) della commissione. Si è trattata di una prova di breve durata, dal momento che mi sono presentato, ho consegnato alla commissione un elaborato contenente la lezione da me preparata e ho dichiarato, affinché venissero verbalizzate, le testuali parole: “Iniziamo, ma penso finiremo subito, dal momento che, per protesta nei confronti del concorso, ho deciso di non presentare questa lezione e di non rispondere alle domande. Tutto qua.”

Vaterland

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di Helena Janeczek

Fred Stein Hannah Arendt 1944

Siegfried Oppenheimer a 18 anni caduto
fürs Vaterland in Francia, 1919.
Sulle Alpi scomparso Werner suo fratello.

Corsivo slanciato su targa in bronzo,
targa su pietra in forma di roccia,
lapide monumentale, monumento
all’ignoto masso roccioso
che cadendo
forse travolse dei fratelli il secondo.
Estremo omaggio (virile, artistico)
di padre (e madre) scomparsi
senza traccia.

Su 3 chapbook poetici

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Lyn Hejinian, Un pensiero è la sposa di cosa pensare, traduzione di Gherardo Bortolotti, Marilena Renda, Michele Zaffarano, Arcipelago, 2012, pp. 41, € 3,00.

Rachel Blau DuPlessis, Bozza 111: Arte Povera,   traduzione di Renata Morresi, Arcipelago, 2012, pp. 27, € 3,00.

Nathalie Quintane, La foresta dei vantaggi, traduzione di Michele Zaffarano, Arcipelago, 2012, pp. 37.

Di Andrea Inglese

Il termine poesia suscita oggi un caratteristico fraintendimento.

Fuori dal mio paese!

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una confessione di Gianni Biondillo

Kyenge

Questa confessione è una dichiarazione di sconfitta. La mia. Ho creduto ingenuamente che si potessero governare i grandi flussi migratori degli ultimi vent’anni. Sapevo che questa Nazione era matura. Ma la verità, oggi, è che qualcosa non è andata. E non è andata per colpa loro, non nostra. Gli intolleranti sono loro, non noi.

Sono una minoranza nel paese ma hanno messo in scacco tutti noi. Forse le minoranze, certe minoranze, non possono essere integrate, la differenza antropologica è sotto gli occhi di tutti. Va bene portare pazienza, finché lavorano, finché producono, ma quando li vedi che vengono eletti nel Parlamento della nostra Repubblica (gente che neppure parla l’italiano corretto), o quando addirittura diventano ministri, c’è evidentemente qualcosa che non va. Questa è gente che non ci rispetta, che fa quello che gli pare, che non ha alcuna idea dei dettami dei nostri padri costituzionali.

La verità è che Lombroso aveva ragione, basta guardarli in faccia. Volti animaleschi, disumani. Stanno sovvertendo le basi etiche di uno Stato nel quale non si riconoscono. Fanno strame delle nostre leggi. Forse dovremo avere il coraggio di dirlo, anche andando contro a quello che abbiamo sempre pensato. Se ne fottono delle nostre regole di vita civile? Odiano l’Italia, la nazione dove mandano a scuola i loro figli, se ne approfittano furbamente dei diritti legislativi ma berciano quando c’è da seguire e rispettare le regole che vanno contro i loro interessi etnici? Bene, e allora che se ne vadano al diavolo. Fuori dalle palle.

Nella città, nella regione dove vivo li incontro dappertutto. Gli extracomunitari sono ormai il 10% della popolazione nazionale. Alle ultime elezioni politiche la Lega ha ottenuto il 4% circa. Siete una minoranza irredimibile, cari leghisti. Cercatevi un’altra patria. Magari in Tanzania, dove avete ottimi interessi finanziari. Sapranno di certo accogliervi nel modo più adeguato.

 

(in apertura la foto della dottoressa Cécile Kyenge, cittadina italiana e Ministra per l’Integrazione con delega alle politiche giovanili della Repubblica Italiana. Qui sotto gli innominabili)

 

leghisti

 

La nostra misteriosa follia

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di Antonio Moresco
freccia-strasburgo 2013

(Molto volentieri ripubblico qui il pezzo conclusivo di Antonio Moresco sulla freccia Freccia d’Europa, as)

La freccia è arrivata. Non so bene come sia stato possibile. Un mese e otto giorni di cammino, un centinaio di camminatori, quattro Paesi attraversati, più di 1150 chilometri per strade, sentieri, boschi, persino ghiacciai, al caldo, al freddo, nel forte vento, sotto il sole, la pioggia. Credo che sia stato il più lungo cammino compiuto in questi anni in Europa da camminatori non professionisti, di ogni età e condizione fisica, più lungo ancora del più lungo tratto del cammino di Santiago di Compostela.
Non so bene come sia stato possibile per un così gran numero di persone vivere insieme in condizioni spesso difficili e disagevoli per tanti giorni e per tante notti.
Aleggiava su questa impresa una sorta di misteriosa follia.

Cogito Argo Sum- la morte ai tempi della rete

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argo
di
Francesco Forlani

“La memoria è anche una statua di argilla.

Il vento passa e, a poco a poco, le porta

via particelle, granelli, cristalli.”

José Saramago, i quaderni di Lanzarote

Chiunque abbia avuto dentro il fuoco della scrittura o della lettura sa che non c’è acqua che possa estinguere le fiamme, fare recedere dal proposito di fare delle proprie scritture e letture qualcosa di simile a un’eredità necessaria, per chiunque, da destinare a un numero infinito di persone di cui non si conosce né si saprà mai nulla, nemmeno il nome. Solo chi conosce o ha conosciuto bibliofili infaticabili, cercatori di rare e preziose edizioni, combattendo ogni tipo di guerra, a volte negoziando la resa del venditore aggiustando il prezzo dell’acquisto altre sperimentando ogni forma di veleno in grado di sterminare i maledetti vers de bois, i tarli, che trasformano i versi, le frasi e i  verdetti in polvere finissima intorno ai buchi, può saperlo.  Conosce la delusione delle risposte negative delle biblioteche storiche o universitarie ad accogliere il lascito, il fondo, per non disperderne il disegno. Così come chi scrive si affretta quando la notorietà abbia superato la soglia della celebrità acclamata, a creare una fondazione in grado di tenere unito oltre la morte dello scrittore la vita dello stesso, perpetuandone il racconto attraverso le cose che gli sopravvivono. L’isola di Lanzarote vale il viaggio per quello che costa il soggiorno e il resto. L’equivalente di pochi giorni in un lido della costa ligure o siciliana. Un mare così lo trovi solo in Sardegna e la terra sa di vulcano, che un vento che fa da brezza al caldo africano tiene sospeso per chilometri di deserto. Qui Saramago è morto e qui ha voluto creare insieme alla sede di Lisbona, la biblioteca, la casa, la fondazione.

La cura della moglie Pilar nel rendere leggibili i momenti di felicità, ora l’ascesa al monte bianco, monte ventoso delle Canarie ora la consegna del Nobel, tra i reali di Svezia, è amore e si trasmette in ognuno dei passaggi che io e Giulia facciamo da una camera all’altra, dal giardino alla Calle de la Libertad dove la dimora è. C’è qualcosa che riguarda la vanità dell’umano, l’infinitesima sua insorgenza temporale rispetto alle ere planetarie, ai movimenti tellurici, al pianeta. Una memoria che si erode davvero ad ogni colpo di vento e rende raccapricciante, patetico il volere fermare tutto, immobilizzare la vita, e la morte, in un monumento luccicante. E non ci saremmo accorti di quello che stava accadendo se non ci fosse stato il cane, ad accoglierci, il vecchio cane di Saramago. Saremmo rimasti altrimenti come accecati di fronte alla interminabile collezione di vasi, di Cristi, di penne stilografiche, e ci avrebbe divorato il paesaggio che dalla finestra a croce cade a picco sullo scrittoio del navigatore portoghese. Avremmo chiuso in un pugno una delle pietre riposte sopra un ripiano per sentire come lui la vicinanza agli amici lontani, distanti, in altre terre, quelle dei sassi raccolti. Saremmo rimasti come incantati dalla seggiola da pittore en plein air, immobile nel giardino solcato dai melograni e dalle piante grasse, da cui l’oceano traccia linee di blu e di verde disseminandole tra cumuli di pietra vulcanica e case bianche. Josè si chiama come il padrone, ma vederlo zoppicante, di una vecchiaia insolita per un cane di piccola taglia, ci fa pensare ad Argo. Così riprendo il capitolo dell’Odissea superbamente tradotto da Daniele Ventre, che recita:

Queste parole così scambiavano l’uno con l’altro,
ma ecco un cane disteso levare la testa e le orecchie,
Argo, di Odìsseo dal cuore costante, che il sire in persona
crebbe –ma non ne godette e prima per Ilio la sacra
se ne partì. Nel passato, in caccia di capre selvagge,
di caprioli e di lepri l’avevano i giovani spinto;
ma abbandonato giaceva, allora (era assente il padrone),
dentro quel molto letame di mule e di bovi che a mucchi
s’accumulava alle porte, perché per il grande podere
lo raccogliessero i servi di Odìsseo per farne concime;
là il cane Argo giaceva disteso, coperto di zecche.

 

talismano-copertina-jpgQualche giorno fa è morto Valter Binaghi. Io gli ho voluto bene. Ci siamo frequentati per circa un anno quando partecipammo a un progetto editoriale, ambizioso, nemmeno più di tanto, e fallimentare oltre ogni più nera previsione. Di lui mi aveva sempre colpito l’estrema determinazione teoretica, il sapere certo, la tenacia e il rigore delle asserzioni, ancor più ammirevoli, per quanto mi riguarda se calate in una vita da poeta maledetto, musicista blues, di chi porta molto in avanti la soglia dell’estremo. Così il suo cattolicesimo, la sua conversione radicale quanto il precedente ateismo, cosa di cui non ne sono certo ma che ho sempre sentito  così. da qualche giorno in rete in tanti hanno descritto il proprio dolore ma soprattutto il peso di un’assenza che qualcosa di così insondabile come la morte aveva deciso di inscrivere nel suo registro. Di tutte le parole spese con estrema attenzione e cura, come quelle che su Micro Mega ha scritto Marco Rovelli, o di slancio e autentica insofferenza di Franz Krauspenhaar, due testimonianze, da giorni, accompagnano i pensieri che rivolgo a Valter , al fatto che dopo i quarantanni spesso orfani di genitori, ci troviamo faccia faccia con  la matrice più autentica del nostro essere umani, ed avviene attraverso la disparizione dei fratelli, degli amici a noi contemporanei. Come se il grande compilatore delle enigmatiche nostre vite avesse deciso di lasciare le sequenze verticali delle parole per procedere con le orizzontali. Due, dicevo, le testimonianze che mi hanno colpito di più, quella di Giulio Mozzi che di Valter è  l’ Amico- uso il verbo al presente deliberatamente,  e di Loredana Lipperini che meglio di chiunque altro ha tirato giù il velo dell’inimicizia in rete, sancendone l’inautenticità, innanzitutto e a seguire l’inutilità  rispetto al grande progetto della rete, delle vite “virtuali” in comune. Spesso, il più delle volte, il principio di realtà è nemico dei sogni e dei sognatori, ma a volte ci soccorre, ci sussurra prima e poi lo grida, quando siamo prigionieri di idiosincrasie, di incazzature ad personam o verso gruppi di persone, ora un blog, ora una rivista, un editore, un paese intero, che è ora di svegliarsi dai cattivi sogni perché la vita, soprattutto quando c’è la morte, è altrove.
Ecco perché leggere in rete, assistere al passaggio di testimone per l’ultimo omaggio, la firma sul libro virtuale della camera ardente mi è sembrato qualcosa di molto lontano da quello che nelle stesse ore accadeva in una chiesa stracolma nel cuore di una Padania più autentica e dunque più reale del resto.

da “Dire II”

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Danielle Collobert di Danielle Collobert

traduzione di Andrea Raos

[…]
sempre la stessa difficoltà – ora – parole – parole-immagine – frasi-immagine, anche – trappole tese da una parola all’altra – cadere – inciampare ogni volta – non appena ci si lascia andare – benché cosciente sia della trappola che della caduta – ma loro sono più forti – le dighe troppo fragili – limiti fragili intorno a loro – sfondano all’interno – dovunque – inventano una voce – ancora metafora – una voce

Era capace di staccare l’interlocutore dal presente . . .

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di Alessandro Spina

Cristina Campo (1923-1977)
(Cristina Campo moriva, non ancora cinquanta-quattrenne, a Roma l’11 gennaio 1977. Data la recente scomparsa di Alessandro Spina, qui sotto molto opportunamente ricordato da Flavio Marcolini, vorrei offrire alla lettura l’incipit dello scritto di Spina, Conversazione in Piazza Sant’Anselmo, pubblicato per la prima volta da Scheiwiller, Milano 1993, e ripubblicato poi da Morcelliana, Brescia 2002, con l’aggiunta di altri scritti, sempre di Spina, su Cristina Campo. Altre notizie su Cristina Campo traduttrice avevo pubblicato qui e qui. a.s.)

Il lutto per Cristina Campo fu un lutto di pochi. Perché stupirsi? La società letteraria era allora (il ‘77) occupata da altri personaggi, altri interessi, da polemiche che la Campo non ricordava che per deriderle, sdegnando di schierarsi con questi o con quelli:

Staccare la Spina

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Spinadi Flavio Marcolini

Dopo una breve malattia l’altroieri è morto a Brescia lo scrittore Alessandro Spina, che da anni viveva nel suo buen retiro in Franciacorta, in una tenuta secentesca nella campagna di Padergnone.

Nato a Bengasi nel 1927, Alessandro Spina è stato per decenni lo pseudonimo di derivazione verghiana dietro il quale si è celato Basili Khouzam, un facoltoso imprenditore milanese che in Libia aveva trascorso l’infanzia, dirigendovi poi l’azienda di famiglia dal 1953 al 1979.

Di  famiglia cristiano maronita, laureato in lettere con Mario Marcazzan, è stato un autore prolifico e un fine intellettuale, intrattenendo rapporti con figure di primo piano della cultura italiana: Bassani, Cristina Campo, Pietro Citati, Elémire Zolla, Vittorio Sereni, Alfredo Cattabiani e Claudio Magris.

Dopo il lungo soggiorno africano, era tornato in Italia dove viveva appartato dal mondo letterario. Schivo e riservato, Spina si era dedicato da sempre alla lettura, alla scrittura, al culto della musica (per anni si vantò di avere come unico lettore il compositore Camillo Togni) e dell’arte, coltivando pochi sceltissimi rapporti d’amicizia.

I numerosi romanzi (pubblicati via via da Mondadori, Garzanti, Rusconi, Scheiwiller, Ares, Morcelliana) costituiscono un ciclo narrativo ma unitario, che ripercorre con diversi spunti di estrema attualità la complessa e troppo spesso rimossa vicenda coloniale italiana: “Il giovane maronita”, “Le nozze di Omar”, “Il visitatore notturno”, “La commedia mentale”, “Le notti del Cairo”, “Ingresso a Babele”, “La riva della vita minore”. Pregevoli pure le “Storie di ufficiali”, dedicate al delicato tema dell’onore, e l’agile volumetto “Tempo e corruzione”.

Saggista e orientalista, aveva curato anche diverse traduzioni: la “Storia della città di rame”, le “Cinque novelle arabe”, la “Catastasi” di Sinesio di Cirene. Nel 2007 aveva vinto il Premio Bagutta con la monumentale opera “I confini dell’ombra” (ben 1268 pagine pubblicate da Morcelliana), nella quale aveva raccolto ben undici tomi della sua sterminata produzione. Pochi mesi dopo era di nuovo in libreria con i tre romanzi brevi raccolti in “Altre sponde” (Morcelliana, 2008).

Ma tutto era cominciato dall’apprezzamento che oltre cinquant’anni fa Cristina Campo ebbe modo di riservare alla sua novella “Giugno ‘40”, giudicandola “il miglior racconto scritto in lingua italiana”. “Lo mostrò a tutta Roma e questo cambiò la mia vita” ricordava Spina. Di quella vicenda, della figura della scrittrice toscana e della loro amicizia epistolare sono testimonianza due volumi, editi sempre da Morcelliana: “Conversazioni in Piazza Sant’Anselmo e altri scritti” (2002) e il prezioso “Carteggio” (2007).

Ai tempi dell’ultima guerra italiana in Libia era stato inseguito dalla stampa nazionale per un commento autorevole su quella tragedia e, più in generale, sulle “primavere arabe” nei paesi del Nord Africa, che conosceva come pochi in Italia. “Mi occupo di storia, non di cronaca”  si schermiva laconico, parco di informazioni anche sulle propria attività. “A questa età non c’è più tempo per orizzonti lunghi, non è più possibile incominciare alcunché”.

Eppure era stato al centro di una fitta rete di iniziative e attenzioni: nel 2009 la comunità di Bose gli aveva dedicato una singolare giornata di studi (gli atti sono stati pubblicati da “Humanitas”), nel 2011 “Paragone” lo aveva celebrato con un numero monografico e il quotidiano “Avvenire” gli aveva affidato dall’autunno del 2010 a quello del 2011 la rubrica settimanale ”realtà e finzione”, i cui articoli sono appena confluiti nel volume “Elogio dell’inattuale” (Morcelliana, 2013), l’ultimo guizzo del suo acume.

Luogo di culto frequentato con passione da un crescente numero di lettori innamorati della mente di uno dei più incisivi (almeno sub specie aeternitatis) quanto appartati maître à penser dell’Italia contemporanea, quei folgoranti pezzi d’autore hanno fatto scoprire o riscoprire, attraverso la sua penna attenta e cristallina, una nutrita serie di talenti misconosciuti del panorama culturale internazionale. Sotto la cifra stilistica della inattualità richiamata dal titolo, ad attestare una fisiologica estraneità allo stolto chiacchiericcio delle cronache mondane, le prose spiniane meditano e inducono a meditare sul destino nostro compagno, aiutando il lettore a disambiguarne gli enigmi. Lo scrittore vi ha disegnato l’affascinante cartografia dei suoi incontri, il dialogo incessante con i classici di una personalissima biblioteca ideale, la riflessione sul peso reale o fittizio dei contemporanei.

Fra affinità elettive e divergenze spiegate, questo ultimo libro, come molti degli altri in precedenza, ha proposto una letteratura concepita come esperienza di vita, delineando paesaggi narrativi e poetici di un nitore desueto.

Tutto quello che Alessandro Spina raccontava era pervaso di un’aura di autorevolezza, consegnato alla storia con un allure tenacemente aderente alla inattualità come ineludibile necessità per cogliere le persistenze nell’inesorabile scorrere del tempo.

“Delle guerre coloniali non importava a nessuno” – aveva detto al Festivaletteratura 2011 di Mantova, stigmatizzando “le scemenze scritte in Italia sulla guerra di Libia, che ha distrutto un terzo della popolazione”.

“Il senso di colpa non è al centro del nostro sistema mentale” osservava desolato. “Ci sono tanti Istituti per la storia della Resistenza ma, se almeno uno di essi venisse dedicato allo studio della resistenza libica, sarebbe un atto nobile e importante, un omaggio ai veri valori della Resistenza italiana”.

Da tempo non pensava più al futuro, Spina. “Non ho alcun progetto” ripeteva con la sua voce da crooner. “J’ai veçu, come diceva quel personaggio di un romanzo francese di ritorno da Parigi”.

Ciao Valter

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valter-a-cerviniaHo conosciuto Valter Binaghi 7 anni fa, in Toscana (quella sera era venuto a trovarmi Marco Rovelli per un bicchiere, si fece baldoria), per uno dei tanti inutili premi letterari dello Stivale. Che però se poi ti fanno incontrare belle persone in fondo non sono così inutili. Il giorno appresso tornammo a Milano in macchina – guidava lui – come due amici di vecchia data. Gli chiesi un pezzo per Nazione Indiana.

Sapevo che non stava bene, da tempo. Ci siamo scritti la scorsa settimana (mi ha regalato un suo testo che voleva leggessero solo gli amici) e con Franz Krauspenhaar eravamo pronti ad organizzare una rimpatriata. Oggi Giulio Mozzi mi ha dato la notizia della sua scomparsa.

Non so cosa dire.

Solo questo. Domani, alle 10.30, nella chiesa di Busto Garolfo ci sarà il suo funerale.

Ciao Valter.

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Messico

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A cura di Ilide Carmignani, di Fabio Morábito

(Dopo le prime puntate in Spagna e Argentina – qui, qui e qui – ecco un nuovo contributo per capire che ruolo giochi la nostra letteratura fuori dai confini nazionali. Questa volta esploreremo il Messico grazie a Fabio Morábito, poeta, romanziere, studioso, traduttore dell’Aminta del Tasso e dell’opera omnia di Eugenio Montale. Ilide Carmignani)

Libero (di morire) come un fringuello

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fringuello-cartucciadi Flavio Marcolini

 

Dopo esser emerso come una delle parti più sconvolgenti del libro “Further Away” dello scrittore americano Jonathan Franzen (tradotto l’anno scorso per Einaudi col titolo “Più lontano ancora”), il massacro dei fringuelli che si perpetrava ogni anno nella stagione delle migrazioni sul colle bresciano di San Zeno ora è entrato in un film prodotto dallo stesso Franzen e presentato con successo al Documentary Film Festival di Sheffield.

La pellicola si intitola “Emptying the Skies” ed è stata girata dal regista Douglas Kass in collaborazione con Andrea Rutigliano, Sergio Coen e Piero Liberati, tre volontari del comitato contro l’uccellagione Cabs, l’associazione nota nelle valli bresciane come “i tedeschi” e oggetto in passato di ordinanze ad hoc da parte di sindaci nonché di interrogazioni parlamentari per allontanarli da quelle zone.

Birdwatcher di lungo corso, Franzen guida qui lo spettatore attraverso i rischi e le emozioni dell’impegno anticaccia, argomentando l’importanza di porre fine a questa strage. La troupe di Kass ha seguito le azioni del Cabs a Cipro, in Francia e nel Bresciano, con il sequestro e la distruzione di migliaia di trappole, reti, rami cosparsi di vischio per catturare a tradimento gli uccelli, gli scontri con i bracconieri, le denunce e il coordinamento con le autorità giudiziarie.

“Lo scrittore ci contattò nel 2010 – racconta il portavoce del Cabs Andrea Rutigliano – per un suo articolo sul bracconaggio. Ci vedemmo poi a Cipro per due giorni, durante i quali fummo gravemente aggrediti dagli uccellatori, fatto poi narrato dallo scrittore. Pubblicato il racconto, Franzen mi scrisse che Roger Kass, produttore del celebre ‘A History of Violence’, aveva letto l’articolo e voleva trasporlo sugli schermi. Gli dissi che era un’idea che avevo in testa da tempo – una missione difficile, uccelli splendidi, panorami mozzafiato, suspence e dedizione – ma irrealizzabile senza finanziamenti. Roger mi chiamò e ci incontrammo in Francia. Dopo aver subito con noi alcune aggressioni oltralpe e a Cipro, nell’autunno 2011 la troupe venne nel Bresciano, dove le mostrammo gli archetti, le trappole e le reti piazzate intorno ai capanni dei cacciatori. Videro e registrarono l’illegalità totale che verteva intorno al mercato dei richiami vivi. Filmò le missioni del Nucleo Operativo Anticaccia, durante la tanto vituperata quanto efficace Operazione Pettirosso. Spiegai a Kass il quadro legale della Direttiva Uccelli e come la Regione Lombardia per 20 anni avesse scientemente piegato la giustizia autorizzando l’abbattimento sistematico di milioni di uccelli protetti (fringuelli, peppole, pispole, frosoni)”.

“L’anno prima – informa – mi ero recato a cercare archetti sul colle San Zeno e insieme a una volontaria inglese avevo rivisto per l’ennesima volta una scena allucinante. A poche decine di metri dal rifugio del Passabocche tre cacciatori sparavano in fila agli stormi di fringuelli che passavano a 5 metri sulle loro teste attraversando il valico. Si vedevano i piccoli uccelli cadere a decine sul prato, raccolti dalle solerti mogli dei cacciatori, alcuni saltellare via feriti nel bosco e perdersi fra le foglie, ignorati dai cacciatori che continuavano incessantemente a sparare sui gruppetti che migravano. Era una violenza disgustosa, lo dicevano anche gli escursionisti che assistevano allo spettacolo”.

“La settimana seguente – prosegue – mi reco da solo sul Passabocche. C’è nebbiolina bassa e un passo straordinario, come ogni anno a metá ottobre: passano fringuelli incessantemente, in piccoli gruppi, richiamandosi di continuo. Alle 7 non c’é nessuno stranamente, ma si sentono spari ogni secondo poco lontano. Cosí mi incammino in direzione di San Zeno, al passo Gale, quel lembo di colle che la Provincia ha tenuto aperto alla caccia. E’ una raffica di colpi continui. Appena alle spalle del colle a terra vedo subito una pispola ferita, nessuno la reclama. Ha un’ala rotta dai pallini e saltella via terrorizzata. Io supero il dosso e mi trovo nel mezzo della scena del crimine: intorno a me ci sono una trentina di tiroavolisti che sparano in continuazione. Mi piazzo nel mezzo fingendomi un escursionista suicida e riprendo tutto, soprattutto il numero di spari al secondo. Due volte vengo colpito anche io, ma i cacciatori neanche mi dicono di spostarmi, talmente sono presi dalla foga di ammazzare tutti i fringuelli che passano sopra le loro teste. Riprendo scene comiche se non ci fosse da piangere: un cacciatore che per uccidere uno stormo si inarca fino a cadere all’indietro, i cani che corrono su e giú per star dietro alle decine di fringuelli che saltellano feriti dappertutto. Alla faccia dei controlli, della caccia in deroga in condizioni rigide e con piccoli numeri. È una carneficina che il video solo in parte riesce a rendere”.

Il fine settimana dopo Andrea torna con i volontari della Lega Abolizione Caccia, per rallentare il massacro e riprendere ancora. “Riusciamo nel secondo obiettivo, non nel primo” afferma. “I migratori devono passare per quel colle perché così gli insegnano milioni di anni di storia, e i cacciatori tirano su tutto, fringuelli, pispole, allodole, lucherini. Poi si accendono i richiami elettromagnetici nelle tasche per far tornare indietro quelli che si erano salvati al primo passo”.

Dopo aver ricevuto il film, il Commissario Ue all’Ambiente Janez Potočnik scrisse all’allora ministro Corrado Clini chiedendo la fine degli abusi sulle deroghe, “tant’è – osserva Andrea – che nel 2012 non c’é stato nessun “caso San Zeno” e i cacciatori si sono ritirati in buon ordine da quella zona. Come ha detto uno di loro, ‘questo video ha fatto piú male alla caccia di tanti anni di battaglie degli animalisti’. Quello che succedeva sul colle San Zeno accade ancora ogni giorno a Malta, in Francia, in Spagna, a Cipro. Fra i 200 e i 300 milioni di uccelli vengono uccisi dalla caccia intorno al Mediterraneo ogni anno; viene anche da chiedersi se la caccia non sia la prima causa di scomparsa degli uccelli in Europa”.

Ma questa pratica nel nord Italia non è scomparsa: “Scene analoghe – assicura – le abbiamo riviste sulle alture di Lumezzane, in aree off limit visto che le chiavi della strada di accesso le hanno solo i cacciatori, o sul passo del Lavidino.”

video arte #23 – adrian paci

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Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007.

La muta

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di Gianluca Cataldo

Ma le tue responsabilità?
Un quarto va ascritto all’ereditarietà,
un quarto alle circostanze, un quarto alla
casualità: solo un quarto di responsabilità è mio.
(Akutagawa Ryūnosuke, trad. L. Origlia)

Non parlo del dubbio, che di questa moneta bicefala è il volto attivo e dinamico, ma dell’incertezza, che ne è l’aspetto passivo, perché mi è esterno e mi rende impotente, incapace di dare una risposta. Ho sempre dubitato tanto, di tutto, e mi sono sempre mossa – avanti o indietro – lungo la linea della mie consapevolezze, o delle mie convinzioni monolitiche, ma dinanzi all’incertezza mi blocco, giro a vuoto in una laconica circolarità. Impotente. E mentre fuori dalla finestra sento grida e boati io mi sento innocua, con tutti i muscoli intorpiditi, tutti, da quello della vanità e quello della volontà, passando per i polpacci e i tricipiti. Mi sono rinchiusa in casa ormai da un paio settimane, e un fetore sottile sta poco a poco attraversando le stanze, scovandone ogni interstizio. A me non importa. Puro è colui che accetta la santità, lo scontro in piazza e il martirio, mentre io ho voluto rinunciare alle icone, e mi sembra l’unica scelta che abbia mai davvero preso.

Borghesiana, Giardinetti, Alessandrino, Tomba di Nerone

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di Alessandro De Santis

Borghesiana
Ore 20,50. Nella folla. Spaurito. Pericoloso
Cammina senza sosta, Claudio
sempre la stessa musica
a cui hanno tolto l’audio