Home Blog Pagina 271

Pesce di lago per il pranzo della domenica

2
lago_trasimeno
Particolare da Pietro Barucci, Ansa del lago Trasimeno con personaggi e animali, fine ‘800

di Giovanni Dozzini

Una domenica mattina d’inverno di quarant’anni fa arrivò con la sua Seicento e si prese subito a male parole con mio cognato, che a quel tempo era uno dei camerieri del ristorante e ormai da un pezzo fa compagnia alle anime dei nostri vecchi al camposanto. Scese tronfio e grasso come un pachiderma, si tolse gli occhiali da sole e chiese urlando se qualcuno gli potesse preparare un tavolo per pranzare in fretta, anche se era solo mezzogiorno.

La difficile manutenzione social-liberale

4

di Andrea Inglese

In Italia, c’è l’ingovernabilità, l’antipolitica e tutto quanto. Ma, si sa, noi abbiamo il baco antropologico, il guasto nazionale ereditario. La Francia, però, difetta di questo alibi. I francesi mica hanno patito vent’anni di fascismo, quaranta di democrazia cristiana, venti di berlusconismo e due mesi di Grillo. Essi si godono un presidente della Repubblica socialista e un governo a guida socialista nelle due camere dal maggio 2012. Inoltre Hollande, come ha ribadito fin dall’inizio del suo mandato, è un presidente normale, che non dice parolacce né urla ai microfoni.

Due anni

3

Oggi sono due anni dalla morte di Vittorio Arrigoni. Lo ricordiamo con una canzone – a lui dedicata – di Marco Rovelli
http://www.youtube.com/watch?v=3VhI5_kzZeQ

Il Manifesto di un libraio

5

manifesto-mortuario

Se io avessi previsto tutto questo
di
Claudio Moretti
vd intervista qui

Qualche giorno fa, poco dopo aver aperto la libreria, il postino entra e mi recapita due buste verdine. Multe. Sarà la sosta vietata di qualche mese prima. Apro senza timore. Prendo il bollettino e leggo la cifra. Iniziano a girarmi. Guardo meglio il foglio del verbale: non è un divieto di sosta, è una locandina abusiva. Mille euro. Una locandina. Di multa. Senza timbro. Mille. Attaccata sulla pietra. Con lo scotch. Milleesettevirgolazerosette.

Si fa tanto parlare di questi tempi del ruolo delle librerie del futuro, di come potranno restare a galla, di chi ce la farà. Sembra di stare in un film,quello degli immortali della serie “solo uno sopravviverà”. Ma tutti concordano che la libreria non potrà più essere quella a cui siamo abituati. Forse perchè se ci fossimo abituati, se si fosse creata un’abitudine alla libreria, significeherebbe che qualcuno ha l’abito o l’abitudine di andarci e magari comprarci qualcosa e forse non ci sarebbe nessun problema. Comunque si abitueranno alla libreria del futuro dove oltre al libro ci troverai il caffè, il libraio avrà fatto il corso di libreria 1, libreria 2 e complementi di libreria, e soprattutto la libreria sarà un punto di aggregazione delle persone perchè altrimenti che ci vanno a fare se il libro lo possono comprare dal divano di casa?

Tutte queste teorie hanno la loro validità, non sia mai che io osi dubitarne. Ma la mia libreria segue due filosofie: deve arrivare a fine mese tutti i mesi e deve piacermi, la libreria e lavorarci dentro. I libri li scelgo io, quelli che voglio. Mi permetto di ignorare delle novità. Non seguo le campagne promozionali. Adesso gli editori cercano di avere un rapporto diretto con i librai, hanno capito che è una grande opportunità per essere visibili. Bravi. Nella mia libreria, da quando vendo anche libri nuovi, il rapporto diretto con gli editori è stata la regola.

Da tre anni ho iniziato a fare presentazioni di libri, incontri con gli autori. Penso che una libreria possa farne a meno, la mia no. Lavoro in libreria ma i festival della letteratura ho proprio difficoltà a seguirli, vorrei andarci ma non trovo il tempo. Allora lo faccio in libreria: chiamo l’autore il cui libro mi è piaciuto. Lo sento parlare alla radio e mi piace, provo a vedere se viene in libreria da me. Ci deve essere qualcosa che scatta, un interesse per il libro, per l’autore che fa diventare l’incontro prima di tutto un incontro fra autore e libraio e, dopo, fra autore e lettori.

La locandina pubblicizzava una lettura ad alta voce fatta in libreria. L’autore leggeva brani da dei suoi libri vecchi, pubblicati anni fa. Una sorta di addio a quel genere di libri, il mese dopo sarebbe uscito un suo nuovo libro di tutt’altro genere. Un omaggio ad un autore che apprezzo e alla sua opera. Copie vendute: zero, non c’era nulla da vendere. Nella maggior parte dei casi, le vendite delle presentazioni non coprono le spese.

Sono un commerciante di libri o un operatore culturale? In questo dilemma si stanno arrovellando in molti. Quando scelgo un libro da mettere in vetrina posso farlo per motivi non commerciali ma voglio che sia venduto. Quando chiamo un autore non lo faccio per vendere i suoi libri a pacchi però so che ad ogni incontro in più la libreria accresce la sua credibilità. I due aspetti, commerciale e culturale, sono intrecciati e non si possono separare. Nè lo vorrei. Non vorrei una libreria sovvenzionata come non voglio una libreria supermercato.

Vorrei la mia libreria, non sovvenzionata ma almeno sostenuta, riconosciuta nella parte culturale che svolgo. Conosciuta e riconosciuta.

Invece fino ad oggi è mancata proprio la consapevolezza di quello che la libreria ha fatto e fa. Per capirlo c’è stato bisogno prima di una serie di chiusure annunciate di librerie veneziane che rende ancora più desertificato il panorama libraio in laguna e poi della protesta a causa di questa multa. Per un giorno le vetrine della libreria sono state oscurate: Venezia città delle librerie invisibili, come tante altre città di librerie che non sono conosciute e che non vengono apprezzate per il lavoro che fanno. Solo quando chiudono si sente la loro mancanza.

Adesso a Venezia sembra che le cose stiano cambiando, grazie anche all’impegno degli scrittori veneziani che hanno deciso di riunirsi e di avere una voce unica a difesa delle librerie.

Per ora, la multa resta. Ma oltre la multa, resta la certezza che adesso in molti si sono svegliati, quelli che sono venuti a protestare al nostro fianco, quelli che ci dicono di non mollare, quelli che adesso ci seguono con più fervore sapendo che è per loro e grazie a loro che una libreria esiste.

Da Costa a Costa

1

di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini

poster10_2155075i

Un medico psicoterapeuta e uno scrittore suo paziente si imbarcano spavaldi su una nave da crociera (viaggio in superofferta!),scrivono un diario comico e con quello si avviano verso il premio Strega. Le pagine sotto sono un estratto del libro pubblicato da Booksprint.

L una notte soffrendo d’insonnia si mise a navigare con l’iPad, cosa da non fare se non si è disposti a conoscere l’ignoto. L’iPad è uno strumento strano, incredibile, vuoi vedere una cosa e te ne esce un’altra, come nelle favole in cui, per intervento della bacchetta magica della fata, compare qualcosa dopo uno scintillio.

Tre poesie

4

Annovi

di Gian Maria Annovi

Da Italics, Aragno/I domani, 2013.

LA GLORIOLA

                                                                        La gloriola...
                                                                       O povero fanciullo!
                                                                          Giovanni Pascoli

la neonata dentro il cassetto
forse dimenticata nella credenza
o dietro la pila dei giornali di ieri
ha certamente fame

(morirà, probabilmente)

tu invece sopravvivi
al cadere dei tronchi di pino
nella legnaia
alla lezione su Dante
nel fienile:

la gloria della lingua
(pare)
non piange per farsi nutrire

ma se la gloria è gloria
(dunque)
sappia dire la gloria delle cose

ad esempio
il nome per dire
l’ossatura delle piante:
legnanza o legnagione o
legnosura oppure semplicemente
un segno inciso sulla corteccia del cervello
illeggibile se non ti spaccano la testa coi manganelli

sappia dire le cose nuove

ad esempio
il nome dei suoi nuovi cittadini
il nome del paese che ha confini
di corpi affogati e vulcani:

(questo paese ha un nome
impronunciabile)

lingua che cede e cade dalle gengive

che dica l’assoluto tremore
di questa donna: sulla barca che sbanda
di notte col neonato schiacciato
tra le cosce
che non respira

Una sessione di consapevolezza riguardo a Hitchcock e ai film che parlano di grandi opere

1

di Giuseppe Zucco

Un poster del film Hitchcock, di Sacha Gervasi, 2013
Un poster del film Hitchcock, di Sacha Gervasi, 2013

Va bene, partiamo dalla morale: se fossimo più trasparenti a noi stessi, se sapessimo leggere meglio il fondo opaco e brulicante dei nostri desideri, forse vivremmo con più ragionevolezza e adesione la nostra vita, soprattutto perché apparirebbe il risultato di una nostra scelta, chiara, limpida, meditata, priva di quella straziante sensazione che qualcosa ti guidi dentro con il pilota automatico, votandoti malinconicamente a una qualche forma di fatalità.

Ed è più o meno con una consapevolezza di questo tipo che varco la porta a vetri del cinema un paio di sere fa: se ho fatto una corsa dal lavoro, e ho comprato il biglietto, e mi sono sorbito con ammaestrata diligenza tutti i promo e i trailer, e ho azzittito la suoneria per evitare di infastidire me stesso e quindi il prossimo, e sono scivolato lungo la poltrona dimenticando di avere un corpo e altre mille incombenze, è anche perché avevo proprio voglia di vedere attraverso Hitchcock come se la fosse cavata il maestro della suspense nel prolungato e spossante continuum che dal primo concepimento alla rottura delle acque lo ha predisposto a partorire una tra le più indimenticabili e gotiche creature della storia del cinema, Psyco (1960).

Del resto, essendo questa una sessione di consapevolezza, mi accorgo di non essere nuovo a questo genere di desiderio. Nella mia neanche così lunga carriera di spettatore, oltre a percorrere le molteplici vie della cinematografia mondiale, attardandomi nei classici siti presenti su tutte le guide, battendo allo stesso tempo strade maestre e sentieri marginali, ho anche trascorso un numero imprecisato di ore a guardare film che mettevano in scena la gestazione travagliata di alcune grandi opere, passando per esempio dal racconto dei sei anni che Truman Capote impiegò per ideare, scrivere, rivedere A sangue freddo (Truman Capote: a sangue freddo, di Bennet Miller, 2005) al resoconto delle difficoltà che Orson Welles attraversò per dare alla luce Quarto potere (RKO 281 – La vera storia di Quarto potere, di Benjamin Ross, 1999).

Ponendomi la domanda del perché ricerchi questo genere di film, dalla profondità oscura del desiderio salgono alla coscienza le bollicine di due risposte. La prima è cercare di mettere a fuoco e cogliere da un’altra angolazione il genio, il talento, la tecnica, la tenacia, la sfida e tutta un’altra serie di cose innominabili riguardo alla vita che crepitano nelle opere originali: cioè, farne una lezione. La seconda, addirittura più importante, è tentare di pensare le grandi opere non come oggetti puri, alieni, avveratisi per miracolo, apparsi sul rullo trasportatore dell’industria culturale perfettamente puliti e incellophanati, ma come parte di un lungo e imprevedibile e sfiancante processo materiale che ha segnato in più punti quella pagina, quella pellicola, quella tela: cioè, farne una lezione situata nel mondo.

I capolavori, di per sé, sono realtà totalizzanti, non presuppongono il distacco, piuttosto stringono tra le proprie spire i lettori e/o gli spettatori. I capolavori fagocitano i loro autori, eclissando una volta per tutte la loro vita quotidiana e ogni sforzo compiuto in favore della pura evidenza di un risultato. I capolavori, pensati così, sono dei dispositivi romantici, intorno a cui si addensa la cortina fumogena del mistero, o di tutta una nuova mitologia, invece che la materialità delle circostanze nel loro divenire. Per dire, Psyco, se Hitchcock avesse avuto carta bianca, non sarebbe uguale a quello che noi conosciamo: molte scene, tra cui quella celeberrima dell’assassinio nella doccia – 35 inquadrature in 22 secondi dove non si vede mai affondare il coltello nella carne bianchissima di Janet Leigh, sebbene ogni spettatore alla fine del film ne abbia certezza assoluta – sono state architettate proprio per superare i vincoli che la censura americana dell’epoca aveva imposto alla produzione.

Va da sé che poi i film che portano in scena le grandi opere sono piuttosto deludenti. Non fosse altro che i nuovi autori non sono all’altezza dei predecessori di cui tentano di svelare la formula della loro grandezza – una miscela scoppiettante e hollywoodianamente standardizzata di genio, depravazione e meschineria. Anche se la cosa non deve stupirci né rammaricarci: per avere un film geniale su una grande opera e la sua travagliata lavorazione avremmo bisogno di un regista di valore assoluto – solo che poi ci troveremmo davanti qualcosa che si avvicina più a Otto e mezzo (Federico Fellini, 1963) o Mulholland Drive (David Lynch, 2001) o Barton Fink (Ethan e Joel Coen, 1991) che a un dignitoso making of da cui apprendere come il tale regista ha posizionato i carrelli e a quali sventure economiche hanno fatto fronte le sue capacità compositive. È una strana legge: i capolavori non svelano altri capolavori, semmai li richiamano e li riverberano mentre intanto ricostruiscono il mondo e ci riconnettono a tutte le più minute creature e ci permettono di fare esperienza.

Mi rendo conto che la visione di questi film, messa così, non suona più come la risposta a un desiderio, ma come l’abbandono a una specie di perversione: alla fine non si fa altro che cercare di rivivere e capire e catturare l’insieme di emozioni e sorprese che ti ha dato una grande opera con altri mezzi, per di più inadeguati e votati al fallimento.

Hitchcock, uscito in sala a firma di Sacha Gervasi, fa parte di questa perversione. Il suo obiettivo è quello di dichiarare la girandola di complicazioni produttive che l’elegantissima pellicola in bianco e nero nasconde. Ogni tanto affiora qualcosa legato al processo creativo – che è esattamente quello che ci aspetteremmo da questo genere di film – e così scopriamo che la spinta profonda che ha varato questa produzione è stata proprio la volontà di Hitchcock di filmare l’omicidio nella doccia ricavato da un romanzo omonimo al film che Truffaut definì vergognosamente falso, poiché pieno di convenzioni narrative; oppure che la sfida narrativa di fare morire la protagonista dopo i primi trenta minuti del film precede la lavorazione della sceneggiatura; o anche che solo nell’ultima fase di montaggio Hitchcock si decise a usare il gioiellino della colonna sonora scritta da Bernard Herrmann – il tutto rigorosamente sotto la benedizione di sua moglie, Alma Reville, che ebbe un ruolo fondamentale nella scrittura della sceneggiatura e nel montaggio di molti suoi film, nonostante non venisse mai accreditata nei titoli. Per il resto, veniamo a sapere che al culmine della sua carriera – era appena uscito nelle sale Intrigo Internazionale (1959) – proprio perché tutti gli richiedevano di bissare la suspense e il successo del film precedente, Hitchcock non riuscì a strappare a nessuna casa di produzione i finanziamenti per girare il nuovo film, ritenuto troppo violento e poco adatto al pubblico di massa, tanto che dovette ipotecare la villa in cui abitava e sovvenzionare la produzione di tasca propria e destreggiarsi in completa economia pur di portare a termine tutte le fasi di lavorazione del film.

Ma questo, e qualcosa in più, è appena lo sfondo su cui si situa il film. La reale occupazione del regista, infatti, si muove su un altro piano. Intanto trasforma Hitchcock in una figurina dell’album delle psicopatologie di Sigmund Freud – un omicida mancato, costantemente in oscillazione tra voyeurismo e ossessioni varie, che di frequente vede e dialoga con Ed Gein, il serial killer che ispirò il romanzo e il film e che rimarrà per sempre impigliato tra le nostri sinapsi con il sorriso spettrale di Norman Bates – e poi ne fa il campione di una storia di gelosia. Hitchcock, in fondo, grattando sotto la patina squillante e à la page della fotografia, non è altro che una commedia banalmente sentimentale, con tutto il suo usurato equipaggiamento di urla, incomprensioni, notti in bianco, pedinamenti, tradimenti immaginari che il bacio finale tra Alfred Hitchcock e Alma Reville ripulirà di colpo. Quanto di più vicino a una fiction televisiva da prima serata, insomma: anche se alla fine la sua visione non ti lascia le labbra serrate per il senso di colpa di avere sprecato 98 minuti della tua vita, essendo tutta l’operazione nobilitata dal profilo panciuto di uno tra i migliori registi di tutti i tempi. Alfred Hitchcok impiegato a fini di marketing, per farla breve.

Tuttavia, per gli spettatori più perversi, che intuiscono la delusione ma decidono comunque di consegnarsi a questo film, c’è una scena riparatrice. Siamo verso la fine, la scena dura un paio di minuti. È la prima di Psyco: Alfred Hitchcok non siede tra il pubblico, aspetta fuori dalle porte della sala. Infilato nel suo smoking, cammina su e giù nervosamente. Sembra non accada niente, e in effetti va avanti così, se non che il pubblico, tra urla e gridolini, comincia a suonare la partitura del terrore. In un attimo, Hitchcock si accende, e salta, gesticola impazzito – come un direttore d’orchestra, muove le mani, a tempo, mentre la scena della doccia fila sullo schermo e il pubblico con le pupille dilatate risponde con esattezza da mezzosoprano alle sue disposizioni. Ecco, questa non è un’invenzione del regista, ma la puntigliosa trascrizione filmica di quanto Alfred Hitchcock rilasciò a François Truffaut in un meraviglioso libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock: La costruzione di questo film è molto interessante ed è l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco con il pubblico. Con Psyco, mi comportavo come fa un direttore con la sua orchestra, era proprio come se stessi suonando l’organo. E poi: La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla quale tenevo di più. In Psyco del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora, e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare un’emozione di massa. E con Psyco ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico, è stato il film puro.

Proprio per questo, Hitchcock immaginava Psyco come un film low-budget molto sperimentale che apparteneva più ai registi che al pubblico. Evidentemente, si sottostimava. Nell’ultima pagina del libro-intervista, Truffaut scrive: Quando è stato inventato, il cinema è servito innanzitutto a registrare la vita; era allora un’estensione della fotografia. È diventata un’arte quando ha smesso di essere un documentario. Si è capito che non si trattava di riprodurre la vita, ma di renderla più intensa. La filmografia di Hitchcock è ancora così visitata e ricordata dal pubblico perché ha reso più intensa sia la vita che il cinema. Al punto che anche una pellicola di secondo ordine non fa altro che accrescerne l’aura del regista e spingere a rivedere molti dei suoi film – assicurandosi ancora una volta la minacciosa sensazione che il male, in percentuali ogni volta variabili, conviva in tutti gli atomi dell’universo.

[Le citazioni dell’intervista sono tratte da Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut, traduzione di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, il Saggiatore Tascabili, pp. 233 e 293]

. . . per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata . . .

1

di Antonio Sparzani
Machiavelli Uffizi2

Dopo gli ozi letterari (1516-17), Niccolò Machiavelli, quasi cinquantenne, riesce a ricucire i suoi rapporti con i Medici e viene incaricato di scrivere quelle che diventeranno le «Istorie fiorentine». La scrittura va dal 1520 al 1525 e Machiavelli presenta l’opera a Giulio de’ Medici nel frattempo diventato papa col nome di Clemente VII, nel 1526. Varie vicende ritardano la pubblicazione dell’opera, tra cui la morte di Machiavelli nel 1527, così che le Istorie vedranno la luce solo nel 1532, postume. Vi copio qui il capitolo I del libro V, che mi pare contenga vari spunti che ci fanno risuonare qualche campanello nella testa.

Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare; perché, non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e similmente, scese che le sono, e per li disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità, non potendo più scendere, conviene che salghino, e così sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna. Onde si è da i prudenti osservato come le lettere vengono drieto alle armi, e che nelle provincie e nelle città prima i capitani che i filosofi nascono. Perché avendo le buone e ordinate armi partorito vittorie, e le vittorie quiete, non si può la fortezza degli armati animi con il più onesto ozio che con quello delle lettere corrompere; né può l’ozio con il maggiore e più pericoloso inganno che con questo nelle città bene institute entrare. Il che fu da Catone, quando in Roma Diogene e Carneade filosofi, mandati da Atene oratori al Senato, vennono, ottimamente cognosciuto; il quale, veggendo come la gioventù romana cominciava con ammirazione a seguitarli, e cognoscendo il male che da quello onesto ozio alla sua patria ne poteva risultare, provide che niuno filosofo potesse essere in Roma ricevuto. Vengono per tanto le provincie per questi mezzi alla rovina; dove pervenute, e gli uomini per le battiture diventati savi, ritornono, come è detto, all’ordine, se già da una forza estraordinaria non rimangono suffocati. Queste cagioni feciono, prima mediante gli antichi Toscani, di poi i Romani, ora felice ora misera la Italia. E avvenga che di poi sopra le romane rovine non si sia edificato cosa che l’abbia in modo da quelle ricomperata, che sotto uno virtuoso principato abbia potuto gloriosamente operare, non di meno surse tanta virtù in alcuna delle nuove città e de nuovi imperii i quali tra le romane rovine nacquono, che, sebbene uno non dominasse agli altri, erano non di meno in modo insieme concordi e ordinati che da’ barbari la liberorono e difesero. Intra i quali imperii i Fiorentini, se gli erano di minore dominio, non erano di autorità né di potenza minori; anzi, per essere posti in mezzo alla Italia, ricchi e presti alle offese, o eglino felicemente una guerra loro mossa sostenevono, o ei davono la vittoria a quello con il quale e’ s’accostavano. Dalla virtù adunque di questi nuovi principati, se non nacquono tempi che fussero per lunga pace quieti, non furono anche per la asprezza della guerra pericolosi; perché pace non si può affermare che sia dove spesso i principati con le armi l’uno l’altro si assaltano; guerre ancora non si possono chiamare quelle nelle quali gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiano, i principati non si destruggono: perché quelle guerre in tanta debolezza vennono, che le si cominciavano sanza paura, trattavansi sanza pericolo, e finivonsi sanza danno. Tanto che quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle altre provincie spegnere fu dalla viltà di quelle in Italia spenta, come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a’ barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli. E se le cose fatte dai principi nostri fuori e in casa, non fieno, come quelle degli antichi, con ammirazione per la loro virtù e grandezza lette, fieno forse per le altre loro qualità, con non minore ammirazione considerate, vedendo come tanti nobilissimi popoli da sì deboli e male amministrate armi fussino tenuti in freno. E se, nel descrivere le cose seguite in questo guasto mondo, non si narrerà o fortezza di soldati, o virtù di capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata, si governavano. Il che sarà forse non meno utile che si sieno le antiche cose a cognoscere, perché, se quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e spegnerle gli accenderanno.

Note-book: Parole sante di Eva Clesis

1

Nota sull’ultimo libro di Eva Clesis, Parole Sante.

Canto e controcanto524686_10151537732932071_464886817_n-1
di
Francesco Forlani

C’è in Eva Clesis una tale naturalezza nello stile, nella frase, nelle sequenze, che mi sono a lungo chiesto se in lei la narrazione, qualunque tipo di narrazione, si “facesse” con la scrittura, se solo grazie alla parola le cose potessero essere. Insomma, nei libri di Eva Clesis accade qualcosa di simile a un’invenzione da stregoneria, di uno sciamanesimo però di tipo popolare, non esoterico, aristocratico. Le cose, insomma. è come se si parlassero prima fra loro, intrecciate a strani rituali, credenze, segreti di famiglia, ancor prima di rivelarsi al narratore, al lettore, quasi prescindendo dall’uno, dall’altro.
C’è in queste “parole sante” di Eva Clesis, un’inversione sintattica imprescindibile; perché ci si possa salvare, bisogna dapprima “intendere” la parola, sentirla e poi si vedrà se, insomma, sono sante o meno. Si tratta di un polar? Di un noir? L’intrigo è solido, i colpi di scena non mancano certo, e sempre al tempo giusto, eppure non è soltanto un noir, nè solamente un polar.
Si tratta di una scrittura in un ritmo che conviene a quegli strani paesaggi del Sud Italia in cui perfino quando le strade evaporano al sole, e il calore appesantisce i passi, la parola è nervosa, rapida, veloce come una fucilata. Quasi il contrario di quanto accade al nord, dove il passo è sicuramente veloce, il movimento rapido, ma non la parola, rarefatta e che nelle conversazioni sembra sempre evaporare insieme al vino, al respiro.
La dimensione del racconto è meridiana. Per quanto lo spessore del volume superi le duecento pagine l’architettura è quella del racconto, più che del romanzo, i capitoli compiuti, mano a mano, rendendo la lettura agile, accattivante (e cattiva). Meridiana è la dimensione perché è una narrazione che può esistere solo attraverso l’esperienza comune e comunitaria. La lingua madre, locale, scàlpita in tensione continua con quella matrigna, globale, standardizzata. Una storia venata, anzi svenata, di credenze, è “Parole sante”, abitata, anzi domiciliata da mostruosità più o meno taciute, segreti più o meno confessati, che anche quando sembra arrecare sollievo, ” in fondo qui siamo una grande famiglia” in un tempo che atomizza ogni cosa, isola senza solitudine i propri abitanti, di colpo, ma non all’improvviso, ti vomita addosso il male, la condanna di essere una terra, una cultura come la nostra, meridiana e meridionale, incapace di raccontarsi come altro, da una grande famiglia.

Animus e Anima: Beppe e Maria tra Jung e Collodi

5

Beppe

Francesca Palazzi Arduini

Sembra incredibile ma oggi l’Italia offre due personaggi dai nomi biblici, Giuseppe “Beppe”, e Maria, come catalizzatori sociali dell’opinione pubblica e dell’affettività. Maria, severa ma compiacente amica che conduce all’espressione dei propri sentimenti, dell’affettività, del proprio talento artistico, e guida benevola le persone nell’espressione di sé, amorevole Avvocata (termine usato anche per la Madonna che intercede e aiuta) di tutti che permette a tutte/i di esprimersi perché ognuno può essere anche solo per un attimo al centro dell’attenzione. Maria la sacerdotessa della tv  fatta dalla gente, distinta e discreta manovratrice in sordina di un immenso potere gestito dietro le quinte, forse vestale di ritualità, di sottomissione e di gioco cruento paludato poi sullo schermo da una infinita dimostrazione di lealtà. Maria l’Anima, la parte permeabile e ‘passiva’ di noi, che gestisce le nostre timidezze e invita pacata ad aprire i cuori, poi si fa l’Altra, colei che ragiona, che ammonisce le passioni incontrollate e il trascendere, che invita all’equilibrio tra i desideri e la realtà.

A questo personaggio che “fa parlare” e spesso solo guarda e tace, dittatrice della scena televisiva, per ogni età, e regna nei salotti e nelle cucine, fa da contraltare il Re delle piazze, Giuseppe detto Beppe. Lo stereotipato principio maschile quanto cozza con Maria! Lui è incontrollato, la scena dal vivo è solo sua, non fa parlare gli altri se non per concedergli un millesimo del suo spazio, gli altri sono coloro di cui è portavoce, ai quali fa da promoter, che vuole portare con sé alla vittoria … ma sono pur sempre quasi muti e grigi nell’arena. Il pubblico, i militanti, gli elettori, possono se vogliono scrivere dei loro desideri in uno spazio che è il regno di Giuseppe, e anche sua proprietà. La rabbia, l’aggressività verbale, l’intolleranza di chi non ne può più, è espressa da Lui, che gesticola, urla, sfida e impreca. Compito della sua Massa è lavorare per giungere agli scopi indicati come comuni. Lì, nella banale e quotidiana manovalanza, c’è per loro soddisfazione e parola, lì le energie di Beppe confluiscono come a Pentecoste nel loro discorso. Viene in mente il breve saggio “Psicologia del reclutatore”, nel quale Patrizia Santovecchi, citando G. Le Bon, scrive: “Il leader deve saper cogliere le aspirazioni segrete della folla e proporsi come colui che è capace di realizzarle; come l’incarnazione stessa di tali desideri”. Ma chi oserà riconoscere l’incredibilità, e la scontatezza, di questa situazione psicologica? Pochi, in una società nella quale l’inconscio, lo dice bene Recalcati, è non più un sintomo di qualcosa da scoprire ma un difetto da truccare.

Se Maria gestisce quindi il suo potere con dedizione ma non si pone come modello con la sua vita privata e le sue opinioni personali, che semmai dirigono il gioco ma non si paludano da Verità, lui, contrariamente al Giuseppe evangelico, salta alla ribalta con prepotenza e afferma di possedere la Verità. Ogni cosa che dice è una trovata risolutiva, ogni accenno che fa è dimostrazione di saperne più degli altri, di avere in mano la soluzione dei problemi, con la parola. La parola diventa arma che sconfigge la complessità, le lunghe frasi e le tematiche pesanti per la loro storia e la loro composizione si sciolgono in poche frasi, la parola d’ordine è: unanimità. Così chi lo sostiene lo fa per disperazione politica, passando sopra a quella veemenza e allo strisciante superleaderismo (come  definito da Federico Boni), o perché “ha scoperto i problemi dell’economia ascoltandolo”. Qui Beppe è l’ago che rompe la bolla autistica del cittadino senza più classe sociale e appartenenze e lo introduce in una nuova più accogliente bolla totale, la “piattaforma”, progetto di una connessione web non più caotica ma da lui amministrata ed ispirata sulla base di una visione generale non del tutto esplicita.

Anche la vita privata di Beppe è poi oggetto che incarna i desideri del giovane maschio italiano: Beppe ha vissuto e vive di parole, artista e libero da condizionamenti, è ciò che  l’italiano mite, precario o sottomesso al lavoro non sa e non può; fa jogging, nuota e va in barca, ha una moglie (il nome non importa, non è nemmeno compagna di lotte o first lady, è lì e basta) piacevole e non italiana, un discreto conto in banca accumulato con i click degli AdWords di Google. Non vecchio né giovane, ondeggia nella mezza età, capace di catalizzare con spirito giovanile, la chioma brizzolata del saggio richiama il personaggio di Pinocchio. Ecco un’altra versione di animus e anima nell’inconscio collettivo italiano: La Fata turchina è Maria. Il Grillo parlante, che ha avuto il compito di fare da Super-io al burattino di legno, è Beppe. E si sa, il Super-io è bravo a stabilire le regole e ha il compito di punire le trasgressioni, è concentrato fuori da sé, un po’ come Travaglio (ma senza Complessità aperta in mano). Mentre Maria quindi è incarnazione dell’interno, del principio femminile, vero o falso che sia, del dialogo e dell’emotività, Beppe è l’incarnazione della rabbia punitiva verso gli altri e liberatoria verso se stessi, la fase finale della ricerca di libertà (dalle tasse, dai caporali? La libertà svolazzante del mondo virtuale diviene modello per quello reale,  ben differente nella sua concretezza materiale), quella libertà spesso venduta dai truffatori del Paese dei balocchi o della Casa delle libertà, a caro prezzo, agli ingenui cittadini. Giuseppe è a volte anche Mangiafuoco nella fantasia degli italiani (e di Bersani), la  volontà che si crede potenza, della finalità del rendere tutti unanimi, della conquista della maggioranza assoluta che trasforma tutti i burattini.

Così, gli adepti di Maria vengono scelti per ubbidienza e dedizione ma premiati con lo spettacolo di se stessi, mentre quelli di Beppe il Reclutatore restano incagliati nel sogno del potere assoluto, raggiungendo il quale, allora  e solo allora, sarà possibile ottenere ciò che si vuole, sconfiggere il “sistema” corrotto ed essere protagonisti, al fianco di Beppe, della Storia. Già le cinque stellette sembrano cucite sulle mostrine … riuscirà la massa a vedersi per quello che è e rendersi autonoma? L’Animus scuote la testa: l’altro, il contagioso, il marcio, il corrotto, il vecchio, l’ottuso, è il pericolo; facendo questo mostra una realtà inesistente, in cui tutti i mali sono stati causati da Altri. L’interlocutore, cioè, è presentato sempre come nemico e come un falso, al massimo come un inetto. Gli individui non iscritti, quindi  “nemici” o incapaci, scompaiono dietro l’ombra delle loro opposte e varie fazioni: non può esservi dialogo perché solo noi stessi rappresentiamo ciò che è degno e meritevole, non c’è bisogno di rappresentazione, di scenario e di soggetti differenti, con diverse storie, visioni ed esigenze. La politica dunque è un gioco senza senso (che brutta parafrasi del ‘Bene comune’ e di Simone Weil!), giostrato da chi si diverte a presentarsi “diverso” ma non lo è, perché l’unica “differenza” valida e vera deve essere contenuta in chi segue Beppe e lo sceglie come voce. L’iperbole del partitismo si accartoccia nel totalitarismo digitale per Beppe, l’iperbole dell’emozione si allarga nel circo della banalità per Maria. Così il qualunquismo diviene virtù, sia quello che ha solo amici, di Maria, che quello che ha solo Nemici, di Beppe.

 

 3 aprile 2013

*

 

[Testo preparatorio per il lavoro d’artista di Saverio Feligini alla quinta Biennale d’arte contemporanea promossa da Satura, Genova 2013. Di Saverio Feligini è l’immagine collage in apertura.]

 

L’ombra del Grillo

16

di Nicola Fanizza

Uno spettro si aggira fra le tenebre trasparenti che avvolgono la nostra penisola: lo spettro del grillismo. Che si fa latore di inedite speranze di salvezza, di nuovi sogni e, insieme, di nuovi incubi. Alcuni fra i nostri direttori di coscienza  ritengono che il M5S si configuri addirittura come un fenomeno di rinascenza del fascismo. Da qui il loro invito a combattere contro il nuovo mostro bicefalo. La consegna è una sola: instillare nelle masse il germe della paura.

La caccia

2

cover_la_caccia   di Gianni Biondillo

Laura Pugno, La caccia, Ponte alla grazie, 131 pagine, 2012

 

Mai parlare di “genere” se vuoi essere ben voluto dalla critica, né di racconti se vuoi che un editore ti venda (mistero di una tradizione letteraria in realtà fatta sostanzialmente di racconti, quale quella in lingua italiana). È per questo che La caccia di Laura Pugno viene presentato come un romanzo “letterario”, quando è a tutti gli effetti un racconto “fantastico”. La mia è una semplice constatazione non un (pre) giudizio, e dalla mia so che la fortuna dell’autrice sta nell’essere un’ottima poeta, e i poeti mediamente leggono (e scrivono) fantasy, gialli, fantascienza senza pregiudizi.

Due i personaggi messi in scena in questo onirico racconto, tutti e due portatori di passati indicibili e presenti sfocati e inquietanti: Mattias, un ragazzo capace di entrare in contatto telepatico con chi tocca e Nord, il fratello scomparso da una città, Leilja, dove vige un regime postbellico opprimente e militaresco. Di lui Mattias segue le tracce telepatiche che lo portano sui monti selvaggi del Gora, dove è scomparso, proprio come scomparve anni addietro il loro padre. Entrambi alla ricerca affannata di un mistero: la Bestia. Animale o mostro? Vero o illusorio?

La storia si apre col corpo di una ragazza bellissima ritrovata morta nella casa di Nord, ma il sangue rappreso non è di lei, è del fuggiasco. Come si dipanano tutti questi misteri, a caccia di chi prima il fratello maggiore e poi quello minore vanno nel bianco accecante della neve di montagna?

Al di là di una certa prevedibilità dell’intreccio, la ricchezza di questo lungo racconto sta, come è ovvio, proprio nella scelta linguistica: asciutta, pietrificata, scabra. Laura Pugno sembra quasi, in altra forma e genere, dialogare con la lingua poetica che ben conosce: la bestia che i suoi protagonisti cercano è davvero molto simile a quella descritta da Giorgio Caproni ne Il Conte di Kevenhüller. I protagonisti la cercano ma ci sono dentro. O “dietro la Parola”.

(pubblicato su Cooperazione n. 50 dell’11 dicembre 2012)

video arte #20 – floris kaayk

0

Floris Kaayk, The Order Electrus, 2005.

Gente perbene

32

di Renata Morresi

Sono appena tornata dai funerali di Civitanova, Marche, Italia. L’ho saputo proprio all’ultimo, dopo due giorni in giro fuori, senza connessione, non capisco perché nessuno m’abbia telefonato per dirmelo, un messaggio, niente. L’ho saputo solo sabato, nel primo pomeriggio, mentre me ne sto ancora in pigiama a trafficare davanti al computer. Prima m’imbatto in questo status di Eleonora – siamo in classe insieme nello stesso corso, nella speranza di trovare uno straccio di lavoro reale – :

Ecco, io ieri sera mi sono allungata sul divano, pensando di lasciarmi alle spalle la prima parte di un qualcosa che dentro di me so essere un’ennesima sanguisuga attaccata sulla pelle di gente perbene. Ecco, io sul quel divano ho preso il telecomando, ho acceso la televisione e mi ha travolto il silenzio di una silenziosa disperazione, quella che ti fa credere che essere perbene sia una maledizione, quella che ti fa pensare che magari c’è un altro posto in cui nessuno potrà calpestarti mai più.

Bevo il mio caffè e non capisco, mi piace e non capisco, funziona un po’ così su Facebook, arriva sempre prima la pelle e a volte solo quella. “Mi piace”, e passo oltre. Dopo due minuti Alessandra mi tagga a una manciata di suoi versi, una poesia agile e stretta, che fa scivolare veloce il cursore, un solo verso più lungo, repentino: “oggi muoiono in tre a Civitanova”. Si vede che una cosa non capìta passa, ma la somma di due cose non capite e uguali smuove. Figuriamoci tre.

Dopo un secondo sono su Google News. Dopo un secondo infilo i jeans e il giubbetto. Dopo un secondo sono in macchina che scendo verso la costa. Sto andando ai funerali, non so bene perché, a che titolo, secondo quale fede, cosa cerco, cosa offro, ma dentro la testa sto già scrivendo questo. Sto guidando, sto guardando, sto scrivendo di queste cose attorno. Eccola la primavera marchigiana, mezzo sole e mezzo freddo, le molte strade che la rigano da est a ovest, quasi tutte lasciate a metà a ridosso dei monti azzurri, riasfaltate quando passa un papa per i santuari qua intorno, di qua e di là i campi a rotazione, scacchi di terra che alternano grano, granturco, barbabietole, girasole, i campi fotovoltaici, i vivai, e più vai verso il mare, le zone industriali, i capannoni abbandonati, le enormi scritte Vendesi sui pacchiani centri commerciali mai finiti, le sale scommesse e le villette a schiera, dove in ogni cucina per decenni le donne cucivano tomaie per le fabbrichette della zona, la miriade di piccole ditte e officine dismesse, la mega-villa di Della Valle qui a due passi. Appena arrivi in una nuova cittadina t’accolgono le rotonde affittate ai grandi marchi, coi loro insulsi logo-monumenti. Una caterva di cartelloni pubblicitari t’annuncia una animazione che vedrai solo nei motorini. Giro a destra, poi a sinistra, sono sul lungomare, con le lunghe file di palme straprotette da giunte comunali di ogni colore, per creare quell’effetto caraibico che pare piaccia tanto alla famiglia-tipo in vacanza. Eccomi qui, in questo ex-borgo marinaro, ex-centro del boom della scarpa, ex-salottino buono dei modaioli, dove all’ultimo giro il movimento 5 stelle ha stravinto. Questa è la riviera Adriatica, coi lounge bar fichetti e a pochi metri le prostitute sulla statale, le vetrine stilose in centro, che cambiano gestione una volta l’anno, i Suv parcheggiati sul marciapiede, i pescatori a rezzaglio alla foce del fiume, i capannelli di badanti ai giardinetti, i pakistani che giocano a cricket al primo spiazzo che riescono a trovare, quelli di Forza Nuova ad attaccare manifesti. Non è né Nord, né Sud, e ha grossomodo i difetti e le virtù di entrambi, con la goffa scontrosità e la grezza vitalità di ogni provincia, con l’improvvisazione e il tira’ a campa’ di tutta Italia.

Sto per arrivare in piazza, alla chiesa dei funerali, non c’è tanto traffico e trovo subito posto e allora mi prende un magone, la paura che la città non sia venuta, che non saremo che quattro gatti, che la solitudine abbia infettato tutti e non importi a nessuno di questa cosa pazzesca: di essere soli anche se non in uno, di essere succubi non solo in coppia, di essere impotenti in così tanti, una famiglia di tre che s’ammazza. Penso e cammino e quasi corro per fare più in fretta e tre mi sembra un numero così enorme, tre persone adulte che si siedono a tavola ogni giorno e il loro tavolo si squaglia, tutto quello che li unisce e separa si squaglia, e si scivolano addosso, l’uno sull’altro fino a essere uno stesso corpo, e poi uno stesso posto vuoto, il corpo affondato nella solitudine nera, nera, nera. Solo lei mangia.

Giro l’angolo finalmente, la città è venuta, la piazza è piena. Adesso rallento, mi sento un po’ storta e ridicola, sono arrivata di corsa, sono arrivata tardi, vado più piano e giro lenta in mezzo alla folla, e non solo perché so che non entrerò nella chiesa che oramai è troppo piena, ma perché voglio sentire, ho la stupida fame di sapere cosa si sta dicendo la gente. E cosa vuoi che si dicano, che è una tragedia, che ogni giorno ne muore un altro, che il comune doveva sapere, doveva intervenire, che è uno schifo, c’è chi dorme col cane nel letto, chi va alla messa ogni giorno, che mio nonno operaio andava a roma a fare le lotte, che nessuno ha mosso un dito, che i delinquenti non si suicidano mai, che il sindaco s’è portato a casa i rom e noi adesso, che i grillini però, che è colpa della banca, è colpa di equitalia, che è perché loro non hanno chiesto, che perché loro si vergognavano, che è una vergogna, che vergogna, vergogna, vergogna, assassini, assassini, assassini – quando escono gli amministratori locali – omicidio di stato, e, alla fine, uccido un politico! uccido un politico!
La cosa più strana che ho sentito è questa: È che non avevano figli – e questa frase mi sembra così assurda, così vera. Mi illumina d’un tratto sul nostro nuovo proletariato, su un’Italia che ha affondato la borghesia senza liberarsi del borghesismo, un paese dove non avere figli non solo è, come volevano i tradizionalisti, contro natura, ma è anche, quando invecchi, fatale.

Adesso sto sulla soglia della chiesa, scivolata su un fianco del portale d’ingresso. I carabinieri si sono girati verso l’interno per la benedizione. La messa è finita, la gente s’addensa per uscire, ma non c’è calca, solo una gran confusione di voci, tra chi parla sommessamente, chi parlotta nervosamente, chi piange. Si fa silenzio quando una signora bionda raggiunge il microfono, a leggere un messaggio che le amiche hanno scritto ad Anna Maria Sopranzi: Ti ricorderemo che leggevi il giornale sul tuo terrazzino, ricorderemo il tuo sorriso buono. Non eri tu a doverti vergognare della tua povertà.

Sono parole semplici, quelle sulla bontà. Sono, dicono i cinici, le parole di rito pronunciate sempre ai funerali. Ma come fai a non credere alla bontà di queste persone, tre che si organizzano insieme per tirare a campare, non sanno chiedere aiuto ai servizi sociali, ma uno si fa un orticello, uno, lasciato a piedi dal fallimento della ditta, s’arrabatta a cercare lavori, a pagare debiti e arretrati, una pensa all’affitto con la pensioncina da artigiana, come fai a non crederci? a questi pensionati indigenti, a questi licenziati dal presente, al loro esodo da ogni diritto? a una coppia di sessantenni che lascia un biglietto ai vicini con su scritto “scusateci”? a un fratello che capisce d’un tratto di essere solo e non ha un’esitazione, va dritto giù al porto? a un uomo che a quelli che accorrono e s’arrampicano sugli scogli e gli gridano “fermati”, “nuota”, con la mano fa cenno di no, che vuole morire? Ah, lo so, lo so, sto scrivendo con tutto questo pathos e mi scordo di dire che così sta facendo l’Italia, un paese che per anni invece di protestare, resistere e pretendere diritti e rispetto, s’è lasciato affondare.

O forse, forse non è anche questa disobbedienza civile?

Sono in mezzo alla folla e non vedo più niente, mi alzo sulle punte e scorgo solo le telecamere alte sulle braccia dritte degli operatori, inquadrano qualcuno là in mezzo, c’è chi dice il sindaco, chi la presidente Boldrini. Che diritto avete di stare qui, urla qualcuno. Escono le bare, tutti applaudono. C’è una signora semplice vicino a me, continua a parlare da sola, perché applaudite, bisogna piangere, perché applaudite, bisogna piangere. Un altro, sottovoce: ci vuole un grande forza, un grande coraggio. Penso che voglia dire che occorre grande forza per tirare avanti, farsi coraggio per vivere, ma ora che lo scrivo non ne sono più così certa. Vorrei dire qualcosa anch’io, ma sarei solo un’altra voce.

 

*

 

Sono tornata a casa, davanti ho una poesia di Massimo Gezzi, “Sul molo di Civitanova”.

A un certo punto dice:

 

Non è mai finita, penso mentre guardo
i tuoi capelli rovistati dal grecale
finché non muore tutto
c’è speranza di risolverlo il dilemma
che mette il segno uguale tra vita
e non vita, in quest’angolo di porto occidentale
che ogni volta è se stesso ma insieme
è anche altrove, e per caso non coincide
con il luogo dove gli uomini
vendono tutto per fame

 

Mentre la leggo mi pare incredibile che questi versi di qualche anno fa traccino così bene la geografia della disperazione di oggi: il salto veloce tra vita e non vita, il caso che gira e fa di questo luogo un altrove, quello degli ultimi. Sono i versi di un giovane uomo, pieno di sentimento del mondo, sì, del suo dolore, ma anche di fede.

Di lì a poco tornerò in rete, riscriverò a Eleonora:

Ciao, sono appena uscita dal funerale, ovvero, non sono mai entrata visto che la chiesa traboccava di gente – gente in lacrime, gente incredula, gente arrabbiata, e tanti hanno urlato, sì, molti urlavano anche contro, e a stare insieme, ho notato, l’urlo, lo sfogo, persino il pianto vengono meglio, liberano veramente – ma come liberarsi dalla solitudine quando sei solo, dalla disperazione quando sei disperata, quella è la cosa difficile davvero, tanto da sembrare, a volte, addirittura eroica. Non so bene cosa mi ha portato qui, di certo non la fede, d’istinto mi viene da dire la fede in questa gente semplice, come dicevi tu, semplicemente perbene.

 

Hipster non avrai il mio scalpo – Viaggio nella nuova San Francisco e nel covo dei pirati di McSweeney’s e 826 Valencia

9

di Silvia Pareschi

Un graffito di Banksy a San Francisco
Un graffito di Banksy a San Francisco

I beat sono preistoria. La libreria City Lights di Ferlinghetti sopravvive, quest’anno compie sessant’anni ed è ancora bella, ma Haight Street (quella che fa angolo con Ashbury) è una strada piena di negozi di narghilè, frequentata soprattutto da tossici e turisti. Niente di tutto questo sarebbe particolarmente degno di nota, se non fosse che la fama di San Francisco come città “letteraria” è ancora fondata su quello che accadde qui negli anni Cinquanta.

Nel frattempo sono cambiate tante cose. Alla fine degli anni Novanta è arrivato il dot-com boom, la bolla speculativa della New Economy che ha attirato in città imprenditori, programmatori e professionisti del marketing, cambiando radicalmente il panorama sociale della città. I quartieri di classe operaia e di classe media sono stati aggrediti da un intenso processo di gentrification, che ha fatto schizzare alle stelle i prezzi delle case e ha cominciato ad allontanare i soggetti economicamente più deboli. Oggi, girando per la città, una delle prime cose che salta agli occhi è la scarsissima diffusione della classe media, presente quasi solo tra la numerosa popolazione asiatica; per il resto, la città è abitata soprattutto da bianchi benestanti, ispanici poveri e neri poverissimi. Scarseggiano anche le famiglie con bambini: in conseguenza del costo proibitivo delle scuole, che spinge le famiglie a trasferirsi nei sobborghi, San Francisco è la città americana con la più bassa percentuale di abitanti al di sotto dei diciotto anni.

Negli ultimi anni la città sta vivendo all’interno di un’altra bolla: il tech-boom. Un colossale afflusso di investimenti tecnologici si è riversato non solo sulla vicina Silicon Valley, ma anche sulla città stessa, che ospita Twitter, Yelp e migliaia di pendolari che la utilizzano come città dormitorio. Rebecca Solnit, nell’articolo Google Invades, descrive gli autobus-navetta dai finestrini oscurati che ogni giorno portano migliaia di persone negli uffici di Silicon Valley. La conseguenza di questo enorme fiume di soldi è che San Francisco è oggi la città con il mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti. Le open houses (le visite collettive in cui tutti i potenziali acquirenti visitano una casa nello stesso giorno) sono affollate di persone molto giovani e molto ricche che cercano di accaparrarsi la casa offrendo più del prezzo richiesto e pagando tutto subito in contanti. Le case vanno a ruba così in fretta che per riuscire a comprarne una molti arrivano a firmare un documento con cui dichiarano di rinunciare all’ispezione. O la va la spacca, e se poi la casa non è solida lo scopriranno al primo terremoto.

Come scrive Solnit, “Tutto questo sta cambiando il carattere di una città che un tempo costituiva un rifugio per dissidenti, eccentrici, pacifisti e sperimentalisti. Come tante altre città che sono fiorite nell’era post-industriale, nel’ultimo quarto di secolo San Francisco è diventata sempre più inaccessibile, eppure ospita ancora una schiera di scrittori, artisti, attivisti, ambientalisti, eccentrici e altri che non lavorano sessanta ore alla settimana per le corporation (anche se forse siamo solo cimeli del passato). Le città in rapida espansione allontanano anche coloro che svolgono servizi essenziali per salari relativamente modesti, come insegnanti, pompieri, meccanici e carpentieri, insieme a quelli che hanno tempo per dedicarsi all’impegno civile.”

Insomma, la città che ha dato vita al concetto di tecnologia come arte del nuovo millennio è diventata troppo ricca per generare un fermento artistico che non sia dipendente dalla tecnologia. La creatività è quella delle start-up, la creazione è quella di prodotti di consumo sempre nuovi e attraenti, e anche i graffiti artist vengono reclutati per fare cartelloni pubblicitari. La Stanford University Press, ossia la casa editrice accademica della quinta università più ricca degli Stati Uniti (oltre che culla del tech-boom) è stata trasferita due volte negli ultimi anni, in sedi sempre più lontane dal campus, perché il suo ruolo di produttrice di libri non viene considerato abbastanza importante da permetterle di occupare una proprietà immobiliare così preziosa.

In questo momento il cuore della gentrification è il Mission District. È il quartiere hipster per eccellenza, quello dove vive la maggior parte di chi lavora nelle tech companies, e dove l’anno scorso, quando Facebook è stata quotata in borsa, sono spuntati all’improvviso un sacco di milionari ventenni che hanno cominciato a comprare case e aprire ristorantini carini e tutti uguali. La gentrification è partita da Valencia Street, fino a pochi anni fa una zona poco raccomandabile e oggi completamente “hipsterizzata”. La parallela Mission Street resiste, ma l’inesorabile processo di imborghesimento non impiegherà molto ad allontanare tutti gli inquilini che ancora vivono negli appartamenti con l’affitto controllato (per una legge cittadina, l’ammontare dell’affitto viene bloccato – a parte l’adeguamento all’inflazione – nel momento in cui l’inquilino firma il contratto. Ma quando l’inquilino se ne va, il padrone può riaffittare la casa al prezzo che vuole). A Mission, un appartamento con affitto controllato può costare 500 dollari al mese. Un bel monolocale soppalcato in una zona ancora un po’ malfamata del quartiere può costarne 5000. Il Mission District, con la sua popolazione prevalentemente ispanica e working class, con i suoi splendidi murales e la sua storia di lotte per i diritti civili, è troppo appetibile per non venire completamente inghiottito.

———————————

Un graffito di Banksy a San Francisco
Un graffito di Banksy a San Francisco

È con tutte queste cose in mente che vado a visitare la sede di “McSweeney’s”, al numero 849 di Valencia Street, nel cuore di hipsterland. Malgrado abbia sempre avuto un rapporto un po’ conflittuale con l’estetica delle riviste fondate da Dave Eggers, e di “McSweeney’s” in particolare, sono molto interessata ai progetti filantropici di Eggers in campo scolastico. Perché quello che potrebbe sembrare uno dei pionieri della gentrification del Mission District è in realtà qualcuno che non solo ha rivitalizzato l’ambiente letterario della città, ma ha anche fatto tantissimo per aiutare negli studi i giovani più disagiati. Mi accompagna Ilaria Varriale, una giovane traduttrice italiana che sta facendo uno stage non retribuito nella casa editrice di Eggers. Prima di entrare, mentre Ilaria finisce il suo caffè, le chiedo come ha fatto ad arrivare lì. “Dopo un Master in traduzione e qualche anno come redattrice freelance ed editor della narrativa straniera per Transeuropa,” mi racconta, “ero curiosa di vedere come funzionassero le cose altrove. Così ho approfittato di un bando pubblico per il finanziamento di esperienze professionali all’estero, ho scritto un progetto di training editoriale, e quando è arrivato il finanziamento sono partita per San Francisco.”

Prima di entrare nella redazione vera e propria si passa dall’ufficio di ScholarMatch, un’organizzazione non-profit fondata da Eggers nel 2010 per aiutare i ragazzi di famiglie disagiate – soprattutto afroamericani, ispanici e figli di immigrati di prima generazione – ad accedere al college. Il giovane direttore di ScholarMatch, Noel Ramírez, mi spiega come funziona il programma, che mette in contatto il singolo donatore con lo studente beneficiario della donazione, permettendogli di seguirlo fino al diploma. Inoltre l’ufficio di Ramírez fornisce consulenza gratuita ai ragazzi sulla scelta del college, e anche un certo sostegno psicologico alle famiglie, che non sempre accettano di buon grado che i figli si allontanino per andare a studiare. Dal 2010 a oggi, ScholarMatch ha fornito consulenza a più di 100 ragazzi e ha distribuito $274000 in 135 borse di studio. E i numeri continuano a crescere. Mentre lo ascolto ammirata, Ramírez mi passa opuscoli in cui i donatori e i beneficiari raccontano entusiasti della loro “collaborazione”, altri con il prospetto finanziario dell’organizzazione, con numeri e percentuali (22 sono i volontari che lavorano con gli studenti; l’88% dei beneficiari sono i primi della loro famiglia a frequentare il college; il 67% appartiene a famiglie che vivono sotto la soglia di povertà; il 63% dei finanziamenti viene da donatori individuali, il 26% da fondazioni e solo il 6% da corporation), e altri ancora con la storia dell’organizzazione e gli orari dei corsi e dei seminari di preparazione al college.

Dopo la chiacchierata con Ramírez vengo introdotta nella stanza successiva, dove si trova la sede della casa editrice. Un grande stanzone open space, con i muri di mattoni rossi e tante scrivanie dove tutti lavorano concentrati e silenziosi sulle loro sedie spaiate. Ma ormai le mie riserve sull’estetica hipster di McSweeney’s hanno perso ogni rilevanza davanti all’impegno, alla bravura e al candore disarmante di queste persone. Ilaria continua la sua presentazione: “Qui sono molto bravi a coniugare divisione organica del lavoro e iniziativa creativa, quest’ultima incoraggiata e valorizzata perché genera ritorno economico. Io mi occupo soprattutto di progetti legati alle primissime fasi del lavoro o alla chiusura di una pubblicazione, come selezione delle proposte, copy editing e fact-checking, e nel contempo posso proporre un titolo, un pezzo, qualsiasi cosa che ritenga valida. Gli standard sono altissimi e le proposte approvate poche, ma tutto viene preso in considerazione; la collana di poesia di McSweeney’s, per esempio, è stata creata a partire dall’idea di un intern. Il fatto che la valutazione delle idee individuali sia un momento come gli altri del flusso di lavoro è uno degli aspetti che apprezzo di più di questo posto.”

Vengo presa in consegna da Chelsea Hogue, l’associate editor che mi porta in giro per la stanza e mi presenta tutti. Si alzano, mi sorridono e mi stringono la mano. Sono giovani, gentili e simpatici. Clara Sankey, la giovane assistente di Eggers, è seduta vicino alla cave di Dave, un specie di cubicolo chiuso da una tenda dove il fondatore ha il suo ufficio. Clara mi informa, premurosa, che se voglio può chiedere a Dave di uscire a incontrarmi, ma io preferisco non rubargli tempo. Sono curiosa di continuare la mia visita. Dopo aver raccolto il bottino di libri e riviste che Chelsea mi ha generosamente elargito, vengo a mia volta raccolta da Clara, che mi fa attraversare la strada per entrare nel magico mondo hipster del Pirate Store.

Nel 2002 Eggers e l’educatrice Nínive Calegari hanno aperto 826 Valencia, con lo scopo di “aiutare gli studenti dai 6 ai 18 anni a migliorare la qualità della loro scrittura, e gli insegnanti a sviluppare nei loro alunni la passione per la letteratura”. Poiché si trattava di uno spazio a uso commerciale, Eggers e Calegari hanno deciso di aprire un “negozio per pirati”. Dietro il negozio c’è il laboratorio di scrittura, un altro stanzone pieno di grandi tavoli, libri e bambini. Arriviamo mentre si sta concludendo uno dei laboratori di scrittura che i volontari dell’organizzazione tengono qui dentro tre volte al giorno. I programmi sono numerosissimi ed esaltanti. Quello a cui assisto io è un field trip, una mattinata in cui un’intera classe di una scuola pubblica cittadina (quelle frequentate dai meno abbienti, perché spesso ingiustamente ritenute di scarsa qualità e quindi scartate dai ricchi in favore delle costosissime scuole private) visita 826 Valencia per discutere con uno scrittore locale o partecipare a un laboratorio di poesia o di giornalismo. I laboratori più popolari sono Storytelling e Bookmaking, durante i quali gli studenti scrivono tutti insieme una storia dal finale sospeso, e poi scrivono individualmente il proprio finale con l’aiuto dei volontari. Infine un disegnatore prepara un libretto illustrato e rilegato per ciascuno studente, che potrà così tornare a casa con la propria creazione. Clara mi mostra alcuni libretti, che sono splendidi, e mi spiega che oggi purtroppo manca “l’editor”, un volontario vestito da pirata che ogni tanto spunta sbraitando da una botola nel soffitto, ma che alla fine approva bonario tutti i progetti. 826 Valencia offre anche aiuto con i compiti, laboratori all’interno delle scuole e sostegno ai giovani scrittori, con progetti come il Young Authors’ Book Project, grazie al quale ogni anno un personaggio famoso (Khaled Hosseini, Amy Tan, Isabel Allende, Robin Williams, l’ex sindaco di San Francisco Gavin Newsom) presta il proprio nome come sponsor per un’antologia di scritti degli studenti di una scuola particolarmente a rischio (le scuole pubbliche, se non raggiungono un determinato punteggio nella valutazione degli studenti, perdono finanziamenti e possono venire chiuse. L’efficacia del sistema di valutazione è al centro di un dibattito che si sta facendo sempre più intenso). Gli studenti lavorano insieme ai tutor di Valencia per perfezionare i loro scritti, e poi il libro esce con l’introduzione dello sponsor.

Tutto questo, e moltissimo altro, viene fornito gratuitamente. 826 Valencia lavora con più di 6000 studenti all’anno e impiega più di 1700 volontari. Nel corso degli anni sono state aperte sette “filiali” in giro per il paese, a New York, Chicago, Ann Arbor, Seattle, Los Angeles, Boston e Washington, D.C. Nel 2010, 22000 studenti hanno usufruito dei programmi degli “826 chapters” in giro per la nazione.

Eggers e Calegari sono arrivati in Valencia Street più di dieci anni fa, quando questa zona era ancora molto malfamata, ben lontana dal boom che sta attraversando adesso. Hanno rappresentato l’avanguardia di una certa estetica hipster in campo letterario, eppure in un certo senso appartengono ancora alla “vecchia” San Francisco, a quella schiera di “scrittori, artisti, attivisti, ambientalisti, eccentrici e altri che non lavorano sessanta ore alla settimana per le corporation” di cui parla Solnit. Appartengono ancora alla gloriosa tradizione della filantropia americana, quella che dona generosamente il proprio denaro e il proprio tempo per sostenere progetti di valore sociale, artistico o ambientale. I giovani milionari di Silicon Valley, al contrario, sono generalmente poco inclini alla filantropia e per nulla interessati a impegnarsi all’interno della comunità in cui vivono, con il risultato di accelerare lo sfaldamento sociale già intensificato dall’abnorme afflusso di denaro proveniente dalle loro tasche. Tra queste due concezioni del “nuovo” nell’arte – una “nuova” estetica per un’arte “tradizionale” che in quanto tale può essere già considerata vecchia, e una nuova idea di tecnologia come arte del nuovo millennio – non ci sono dubbi su quale vincerà, su quale probabilmente ha già vinto. Io, intanto, andrò a fare la volontaria nel negozio di pirati.

[Le foto dei graffiti sono state tratte da qui]

a Cagliari chiunque cerca chiunque

3

LocandinaDefinitiva-472x1024

Spazio Santa Croce – Via Santa Croce, 47/49 – Cagliari

Domenica 7 aprile
ore 18.30
spazio santa croce
presenta
Imprevisti e probabilità di un aperitivo à Paris

Parigi. Un tabellone. Imprevisti e probabilità: scoprirete les rues parisiennes tra un bicchiere di Pastis e del buon cibo.
Giocate con il nostro percorso a tappe e godetevi l’aperitivo alla brasserie.

ore 21.00
Passaggi per il bosco 2013
presenta
Francesco Forlani
in
Parigi, senza passare dal via (Laterza/Contromano)

Uno dopo l’altro i venti arrondissement di Parigi si lasciano esplorare in una contaminazione di stili e di lingue che rendono la partita al Monopoli immaginata dall’autore qualcosa di simile a una battaglia, a una lotta d’amore.

—a seguire: Caucaso Factory Proiezioni–

APPAREIL
di Jerome Walter Gueguen
Video art – France, Février 2012, color, HD – 9’42

GO BURNING ATACAMA GO
di Alberto Gemmi
Ita/Fra, 2012, colore e bn, super8 e 8mm – 5’40”

LES CHAISES DE DIEU – TRAILER di Jerome Walter Gueguen
uscita prevista 2014

*

Spazio Santa Croce
Via Santa Croce, 47
Cagliari

*

Serata Gratuita offerta da:

Spazio Santa Croce (Cagliari) – Gruppo Opìfice (Cagliari) – Malicuvata Casa Lettrice (Bologna) – Circolo dei lettori Mieleamaro (Cagliari) – Caucaso Factory (Bologna) – Libreria Mieleamaro (Cagliari)

A QUESTA NOSTRA, MALEDETTA GENERAZIONE: LA SINISTRA ITALIAN THEORY

3

IT di Giuseppe Allegri

 

Premetto che sono di parte. Il libro di Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Il Mulino, 2012, pp. 246, € 20) è “il” libro che avrei voluto leggere durante la mia prima “formazione”, sotto i banchi nella aule decrepite del mio ginnasio di provincia, in alcune, infinite ore di ozio e immobilismo al quale ci assoggettavano, per fortuna rari e rare, professori e professoresse persi nella loro immobile nevrastenia da compromesso storico.

Perciò, per me, il libro di Gentili è probabilmente il più godibile e formidabile repertorio di libri ed autori del pensiero filosofico-politico italiano di questo ultimo trentennio-quarantennio. Lo confesso: è il libro che avrei voluto scrivere, ad avere una qualche capacità!

Si parte dal “ritorno a Marx”, contro Hegel e tutte le dialettiche totalitarie, dell’eretico Galvano Della Volpe, emarginato a Messina dal PCI del Migliore togliattismo e dei suoi fedelissimi eredi. Si passa quindi al primo e secondo “operaismo”: il soggetto antagonista nel Mario Tronti del seminale Operai e capitale (1966) e il Marx oltre Marx di Antonio Negri, dopo esser passato per la critica luddista dello “Stato dei partiti” (1964: quando la Prima Repubblica era ai suoi, compromissori, albori) e per il celebre Frammento sulle macchine dei Grundrisse marxiani. Quindi Massimo Cacciari e il pensiero negativo, con Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo che insieme aprono sulla crisi dei marxismi e ci conducono al “pensiero debole”. Giacomo Marramao che tenta la deleuziana “sintesi disgiuntiva” dell’universalismo della differenza, soprattutto la centralità del pensiero della differenza sessuale, dallo Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, in poi. Per chiudere con Roberto Esposito e Giorgio Agamben sospesi tra biopotere e biopolitica, oltre l’impolitico.

Questa è solo una carrellata degli spunti, interviste, chiose, analisi, commenti, ricostruzioni che si trovano in questo assai denso libro di Dario Gentili. È uno sguardo profondo e argomentato di un giovane, potente filosofo sull’Italian Difference, quel Radical Thought che conquista pagine di riviste, convegni e dipartimenti in giro per il mondo, mentre viene annacquato nelle salse timorose delle Terze pagine dei nostri ammuffiti quotidiani (La Repubblica e Il Corriere della Sera si rincorrono da anni nel vuoto “moderatume” delle loro un tempo effervescenti e gloriose pagine culturali) e nel chiacchiericcio da retrobottega di parrocchia della nostra, sedicente Accademia, per tacere dell’acquasantiera alla quale si abbevera quel che rimane del pensiero politico italiano di sinistra (leggere le ultime pagine della recente riedizione del volume di Stefano Fassina Il lavoro prima di tutto, Donzelli, 2013, per credere).

Per questo è ancora più prezioso ri-leggere il libro di Dario Gentili oggi, dopo lo Tsunami elettorale 2013, mentre tutti sono alla ricerca delle alchimie di una governabilità impossibile, dentro la permanente crisi italiana, in cui il conflitto sociale sembra perdersi nella solitudine dell’impoverimento economico ed esistenziale. È un’esortazione a cercare le antiche e vicine tracce di una potenza analitica, critica e radicale degli appuntamenti mancati dalla società italiana e dalle sue istituzioni di governo, politiche e sindacali, soprattutto dalla sua parte “sinistra”.

Agli occhi del lettore, probabilmente forzando di molto le intenzioni dell’autore, appare evidente lo scarto tra l’alta capacità del pensiero filosofico-politico italiano di leggere e interpretare il (tardo-)moderno come crisi, scissione, conflitto, lotta, contrapposizione, contraddizione e al contempo le concezioni politiche che ne scaturiscono, incapaci di trasformare fino in fondo la realtà sociale e/o quella istituzionale.

È il fallimento della Sinistra, che parla, sottotraccia e spesso in evidenza. La sinisteritas intesa come “parte maledetta” e al contempo “sconfitta”. E in questa sconfitta entra pienamente quella generazione nata sullo scorcio dei Sessanta e Settanta del Novecento, mentre questo pensiero critico sorgeva, e che ora entra in Parlamento sotto le insegne giustizialiste di quello che potrebbe diventare un peronismo digitale e reale, di lotta e di governo, di destra e di sinistra.

E “a questa mia, maledetta generazione” è l’esergo del libro di Dario Gentili. Riletta oggi sembra un’esortazione a giocare, da maledetti, la chance della sconfitta della sinistra politica: qui e ora. Senza timori reverenziali verso il passato, né uggiose posture verso il futuro, tanto meno opportunistiche esaltazioni del presente marketing del risentimento. Eppure sempre contro la gabbia d’acciaio dell’immobile compromesso storico che aleggia.


Articolo già apparso in La furia dei cervelli, 6 marzo 2013

Roberto Bellarmino, cardinale

0

di Antonio Sparzani
Roberto Bellarmino
Il cardinale Roberto Bellarmino (1542 ― 1621), educato dai gesuiti, era acuto d’ingegno, sapeva e capiva molte cose di scienza, ed era anche, a suo modo, indulgente e incline alla mediazione, per quel che il suo ruolo di inquisitore gli consentiva. Per salvare Giordano Bruno le provò tutte, andò a parlargli ripetutamente in carcere ma quello aveva una schiena dritta come pochi e non ci fu verso di convincerlo a piegarla un tantino per salvare tutta la pelle; Giordano, al secolo Filippo, Bruno da Nola non ne volle in ultima analisi, dopo qualche indecisione, sapere, così che (come raccontavo qui) il non clemente papa Clemente VIII, Ippolito dell’influente famiglia Aldobrandini, decise per la soluzione finale cui un eretico doveva andare incontro.

Ma il Bellarmino era uomo di mediazione e provò anche con Galileo; non naturalmente ai tempi del processo (1633), perché morì un decennio abbondante prima, ma in anni assai precedenti nei quali già la questione della serpeggiante eresia copernicana destava sempre più l’attenzione del sant’Uffizio.
Di tutta l’intricata questione ho molto parlato qui, mentre ora vorrei soltanto aggiungere qualcosa per caratterizzare il personaggio Bellarmino, troppo spesso visto solo come un cattivo persecutore. Questo qualcosa è la celebre lettera al Foscarini dell’aprile 1615.
Il padre carmelitano calabrese Paolo Antonio Foscarini, religioso che aveva sinceramente coltivato un vero interesse per le scienze, e la fisica e l’astronomia in particolare, aveva scritto nel 1615 una Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della terra e stabilità del sole, e del nuovo Pittagorico Sistema del Mondo, nella quale, volendo per l’appunto sostenere il punto di vista copernicano, s’adoperava a mostrare come e qualmente esso potesse essere messo d’accordo con le affermazioni in proposito contenute nelle sacre scritture; così si esprimeva Foscarini:

«se l’ipotesi pitagorica» – ossia eliocentrica – «è vera, poco importa che contraddica a tutti i Filosofi e gli Astrologi del mondo, e che per seguirla e pratticarla s’habbia da fare una nuova Filosofia e Astrologia dependente da i nuovi principij e hipothesi che questa pone. Quello che appartiene alle scritture sacre, ne anco gli nuocerà, perciochè una verità non è contraria all’altra. Se dunque è vera l’opinione Pittagorica, sensa dubbio Iddio havrà talmente dettate le parole della Scrittura Sacra, che possano ricevere senso accomodo a quell’opinione, e conciliamento con essa»

che, come vedete, è un’opinione molto chiara e netta sulla natura delle verità: due verità non possono contraddirsi, dunque ci deve essere un modo per metterle d’accordo.
Foscarini, che era prima di tutto devoto uomo di chiesa, mandò la sua lettera al Bellarmino, per averne un autorevole parere. Questi tacque un mese, ma nell’aprile del 1615 rispose con una lettera che riporto qui per intero perché mi pare sia un capolavoro sia di diplomazia che di consapevolezza scientifica, davvero rare per l’epoca. Eccola (l’abbreviazione P.V. usata da Bellarmino significa “Paternità Vostra” dato che Foscarini era all’epoca padre provinciale del suo ordine nella Calabria):

Molto R.do P.re mio
Ho letto volentieri l’epistola italiana e la scrittura latina che la P.V. m’ha mandato: la ringratio dell’una e dell’altra, e confesso che sono tutte piene d’ingegno e di dottrina. Ma poiché lei dimanda il mio parere, lo farò con molta brevità, perché lei hora ha poco tempo di leggere ed io ho poco tempo di scrivere.
1° Dico che mi pare che V. P. et il Sig.r Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico. Perché il dire che, supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al matematico: ma volere affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si rivolti in se stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la terra stia nel 3° cielo e giri con somma velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante; perché la P.V. ha bene dimostrato molti modi di esporre le Sacre Scritture, ma non li ha applicati in particolare, che senza dubbio havria trovate grandissime difficultà se avesse voluto esporre tutti quei luoghi che lei stessa ha citati.
2° Dico che, come lei sa, il Concilio proibisce esporre le Scritture contra il comune consenso de’ Santi Padri; e se la P.V. vorrà leggere non dico solo li Santi Padri, ma li commentari moderni sopra il Genesi, sopra i Salmi, sopra l’Ecclesiaste, sopra Giosuè, trovarà che tutti convengono in esporre ad literam (sic) c’il sole è nel cielo e gira intorno alla terra con somma velocità, e che la terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si di alle Scritture un senso contrario alli Santi Padri e a tutti gli espositori greci e latini. Né si può rispondere che questa non sia materia di fede, perché se non è materia di fede ex parte obiecti, è materia di fede ex parte dicentis; e così sarebbe heretico chi dicesse che Abramo non habbia avuti due figliuoli e Iacob dodici, come chi dicesse che Cristo non è nato da vergine, perché l’uno e l’altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de’ Profeti et Apostoli.
3° Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel 3° cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisognerà andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della 2° ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa, esposta da’ Santi Padri. Aggiungo che quello che scrisse: Oritur sol et occidit, et ad locum suum revertitur etc., fu Salomone, il quale non solo parlò inspirato da Dio, ma fu huomo sopra tutti gli altri sapientissimo e dottissimo nelle scienze humane e nella cognitione delle cose create, e tutta questa sapienza l’hebbe da Dio; onde non è verisimile che affermasse una cosa che fusse contraria alla verità dimostrata o che si potesse dimostrare. E se mi dirà che Salomone parlò secondo l’apparenza, parendo a noi che il sole giri, mentre la terra gira, come a chi si parte dal litto pare che il litto si parta dalla nave, risponderò che chi si parte dal litto, se bene gli pare che il litto si parta da lui, nondimeno conosce che questo è errore e lo corregge, vedendo chiaramente che la nave si muove e non il litto; ma quanto al sole e la terra, nessuno savio è che habbia bisogno di correggere l’errore, perché chiaramente esperimenta che la terra sta ferma e che l’occhio non si inganna quando giudica che il sole si muove, come anco non s’inganna quando giudica che la luna e le stelle si muovano. E questo basti per ora.
Con che saluto charamente V.P., e gli prego da Dio ogni contento.
Di casa, li 12 di aprile 1615.
Di V. P. molto R. come fratello.
Il Card. Bellarmino

VISIONI in TRALICE [VII] di metafore [e altro]

0
test

[ *scherzo&rondò ]


JOHN CAGE I “Suite For Toy Piano” [1948]

 

di Orsola Puecher

 

Amavo [et amo] rane e rospi e salamandre, [lucide regine del fuoco]
chiocciole [chiuse in un guscio rotante a spire] umbratili e miti lumache,
ramarri
[sulla rama] verdi e lucertole [fragili code a lacerti] grigie;

 

raganelle [Hyla arborea Linnaeus, 1758] nei cespi di crescione,
che ho difeso da lacci
[*de-licio: traggo nell’agguato] e torture
di certi maschi
[*mas, maris] cruenti [voce dello stile alto] e crudeli;

 

rospi smeraldini [Sscr. मरकत marakata] dagli occhi assenti
nascosti nel muschio
[Bryophyta Schimp.] del sottobosco,
popolo schivo padrone dell’ombra;
[nube gravida d’acqua]

 

placidi specchi a rugiade [lacrime dell’Aurora piangente] e gocce,
nel quieto
[non inquïèto] palpitare delle gole,
nel gracidio
[il cantar de’ ranocchi] notturno per le rogge.

 
Amavo [et amo] anche le invise senza guscio, quelle limacce sguisce color minio lustro, terrore degli orti lombardi, che solo dopo le piogge lasciano i loro nascondigli in mollicce ondate d’invasione a divorare lattughe e radicchi. E prima non lo si sa, dove se ne stiano quiescenti. E a cui far ritrarre, al solo sfiorarle, le vigili piccole corna.
 

Lümaga lümaghin
cascia foeura il to curnin.
Lümaga, lümagun
cascia foeura il to curnun,
che’l to pa’ l’è andà in prisun
per na grana de formentun.

 
Ma esse, lo si sa, come la Lumaca Portinaia della Fata Turchina di Pinocchio, son bestiole tutta pace e tutta flemma, sorde a ogni fretta e logica temporale e per questo metafora abusata di lentezze, seppure, per loro natura genetica e intrinseca fisiologia, incolpevoli di otium&accidie etiche di qualsiasi genere.
 

1lumaca  2lumaca
3lumaca  4lumaca

FIORENZO CARPI “La Fata Turchina” SONATINA
da PINOCCHIO di Luigi Comencini [1972]

Lumachina Portinaia
 
    – Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.
    – Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo.
    – Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.

 
Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.
 
– Lumachina bella, – gridò Pinocchio dalla strada, – sono due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
– Ragazzo mio
– gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, – ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.

da Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
Cap. XXIX di Carlo Collodi [Firenze 1881]

 
 
Rane e rospi, ciambotti e bufi sia in acqua che in terra così perfetti sono di regola, in senso figurato, inghiottiti e sputati e ingiustamente considerati sinonimi di bruttezze e viscidezze per antonomasia, mentre invece sono in vivo la rappresentazione accelerata di tappe lontane dell’Evoluzione: da gelatina trasparente con uova a occhietti di caviale si trasformano prima in vibratili girini e poi metton su pinne palmate e, persa la spermatozoiforme appendice caudale, saltan via in ranocchiettini minuscoli ma già ben compiuti. Fossi stato uno studioso ottocentesco, un positivista etologo fantasioso, al posto dei primati avrei pensato, con sollievo, come antenati degli umani di certo ai nobili batraci. E fra gli animali personificati delle favole, tralasciando il ben noto Re Ranocchio, il sussiegoso Valletto Rana di Alice spicca per quella sua farfuglievole logica anfibia, irremovibile all’ostinarsi della noiosa, curiosa e perennemente meravigliata ragazzetta a non voler stabilire una gerarchia di valore e di priorità fra il dentro e il fuori.
 

  
  
alice

 
Di rane se ne fece gran sacrificio, a opera del Galvani e dei suoi aguzzini in redingote a larghe falde e parrucca incipriata e scarpini di coppale: le povere vittime furon squartate da dissezioni dissennate per le elettriche umane sorti progressive, in macabri ponti di coscette tirate fra i due poli più&meno delle future pile.

da ⇨ Opere edite ed inedite del Professore Luigi Galvani [1841]

E un secolo dopo, nel progressivo ‘800 certi altri vari scienziati, facendo certi altri vari trucidi esperimenti sul sistema nervosi dei poveri anfibi, forse ingenerarono questo curioso paradosso:
 

METAFORA DELLA RANA NELLA PENTOLA
Se si immerge una rana in una pentola d’acqua bollente, essa ne schizzerà fuori immediatamente. Ma se la mettete delicatamente in una pentola d’acqua tiepida e abbassate il fuoco al minimo, se ne starà là tranquilla. Mentre l’acqua si riscalda gradualmente, la rana piomberà in uno stupore tranquillo, esattamente come uno di noi in un bagno caldo, e lascerà che la bollano fino alla morte.

 
La fittizia storiella è comunemente usata dagli attuali ecologi progressisti, come fa il Vice Presidente Al Gore nel documentario didattico An Inconvenient Truth del 2006 di Davis Guggenheim, per spiegare il problema del riscaldamento globale.
 


 
Niente di più falso e illusorio: il Professor Doug Melton del Dipartimento di Biologia, dell’Università di Harvard, si spera senza aver rifatto il crudele esperimento, ché basta un minimo di logica ad arrivarci, invece afferma:
 

Se si immerge una rana nell’acqua bollente, ella non scapperà affatto: morirà. Se la si mette nell’acqua fredda, salterà fuori prima che diventi calda: le rane non se ne staranno là tranquillamente sedute per voi!

 
C’è un solo caso, che io sappia e ricordi, in cui alcune metafore d’assillo&abuso comune si incarnano perfettamente, senza alcuna finzione e pretesa letteraria…
 

JOHN CAGE II “Suite For Toy Piano” [1948]

E la fama?
Carlo Goldoni
E la fame?
Carlo Gozzi


 
E questo Sindbad, che assai poco aveva a che fare con il tapestre-volante marinaio della favola, batteva con i suoi numeri le fiere ed era l’attrazione massima delle serate domenicali degli alberghetti con palme di certe [anche mie] tristi ma fondanti vacanze lacustri. E come dimenticare le sue involontarie lezioni di ontologia letteraria, mentre zampette palmate agitate, pelle viscida e maculata gli scomparivano in bocca, per poi riemergerne sputate in un ruttare roco? Altri non era, s’indagò, che tal DIOTALLEVI FORTUNATO: nome, questo suo vero, concepito augurale da una suorona cappello a vele bianche, ma dall’esito fausto promesso&sperato tutt’allora assai incerto. Figlio di NN, era stato poi allevato decorosamente, nei limiti di un decoro freddo e minimale, all’orfanatrofio dei MARTINITT, benemerita istituzione filantropica meneghina cha dal remoto 1528 raccoglieva i sans famille, avviandoli a un dignitoso lavoro. Ancora innominato era stato deposto in fasce nel Chiostro della Chiesa di Santa Maria delle Grazie: per la precisione dentro un cesto di vimini in precario equilibrio sul bordo della Fontana delle Rane: locus dal nome che per lui sarà, in un certo qual senso, profetico.
 

 
[ dove se con un dito tappi la bocca a una – o più – delle bronzine batraci – le rimanenti schizzano – in proporzione – un fortissimo getto ad arco perfetto che travalica i confini deputati della vasca – provare per credere – anche se – ora – un’odiosa catenella – vietando l’accesso al chiostro – lo impedirebbe – teoricamente ]
 
Avviato alla degnissima professione di ⇨ magütt [che sarebbe apprendista muratore] non trovò di meglio che fuggirsene dal cantiere, zona Bovisa, per seguire un piccolo circo a conduzione familiare attendato nei prati limitrofi. Nella fattispecie per amore della Iris, trapezista, contorsionista e cassiera, anche [all’occorrenza – cioè sempre], che non se lo filò mai punto, però. Scioltosi per stenti e fame il circo [e lui pure quasi] si mise in proprio da artista girovago di quella sua arte delle punte e lame, in cui si era specializzato per una vocazione, o forse per un sottile contrappasso, una catarsi, un’inconscia oggettivazione di figurate perforazioni del destino suo acuto, e che lo trafiggeva, fuor d’ogni metafora, peggio di un San Sebastiano.

Per DIOTALLEVI FORTUNATO, dunque, esser trafitto, inghiottire il rospo e sputare il rospo erano SIC et HIC et NUNC e non immagini astratte da arruolarsi fra le più mere, troppe e troppo mere, enfatiche espressioni metaforiche che, troppe e troppo, assillano indistintamente prosa&poesia.
 

[…] se si scrive in prosa, la bellezza a cui si dovrebbe tendere è appunto prosaica. La bellezza prosaica non è la bellezza lirica; non sopporta la stessa quantità di pathos né lo stesso grado di enfasi; necessita di una dose minima di ironia; non fa uso dello stesso tipo di metafore.

Massimo Rizzante
NON SIAMO GLI ULTIMI
la letteratura
tra la fine dell’opera e la rigenerazione umana

pag. 48
effigie edizioni 2009

 

___________ ,\\’ ___________

 

 
VISIONI in TRALICE [I] I can’t hide you the rock cried out
VISIONI in TRALICE [II] But doth suffer a sea-change…
VISIONI in TRALICE [III] … e abito sempre nel mio sogno…
VISIONI in TRALICE [IV] Cum dederit dilectis suis somnum
VISIONI in TRALICE [V] Lascia ch’io pianga

VISIONI in TRALICE [VI] di perle e rospi
 

Una storia

10

P1010254

di  Andrea Inglese

 

– Raccontami una storia.

– Io non ho storie, non ho nessuna cosa che sia una storia.

– Raccontamela lo stesso, è solo una storia.

– Ti posso dire solo che c’è la foresta. Tutto quello che riesco a mettere in una storia è una foresta. Foresta, foresta. Foresta a perdita d’occhio. Grande foresta intrecciata con grande foresta.

La cultura si mangia!

6

Arpaia-Greco_La cultura si mangia (Oggi esce per Guanda un libro su un tema che dovrebbe interessare tutti, non solo chi “opera nel settore”. Per chi crede, insomma, che con la cultura si mangi, alla faccia di Tremonti. Vi anticipo un breve estratto dalle pag 23-26 e ringrazio qui gli autori. G.B.)

di Bruno Arpaia e Pietro Greco

Ora, finalmente, dopo averlo negato con ostinazione per anni, lo dicono in tanti: l’Italia è in declino. Ma, si badi, è un declino non soltanto economico. Il regresso in termini culturali, di coesione sociale, di partecipazione politica, di qualità ambientale è ancora più grande. È ancora più grave. Siamo un Paese che cerca di sopravvivere in un eterno presente e non riesce più nemmeno a immaginare un futuro. Tanto meno un futuro migliore.

Oggi, purtroppo, l’Italia è tra i Paesi più statici, con meno mobilità sociale, con più inefficienza, con più disuguaglianza, con meno idee su se stessa e su quello che potrà e dovrà essere. Già, le idee. Perché poi, gratta gratta, sono le idee a essere importanti, a orientare perfino la direzione della crescita economica o la politica industriale. Perché, con tutti i cambiamenti degli ultimi decenni, sarebbe imperativo cercare di capire dove va il mondo e reagire, adattarsi, riconquistare pezzi di futuro.

Non ci vuole poi molto a dimostrare che è proprio la cultura a generare, spesso in forme nuove legate alle tecnologie emergenti, valore economico e sociale. Anzi, sembrerebbe addirittura ovvio, eppure in giro non si trova molta gente disposta a capirlo, e ancora meno ad agire di conseguenza. Tanto è vero che, negli ultimi dieci anni (destra, sinistra o «tecnici» al governo), i sovvenzionamenti alla cultura sono passati dal 2,1 per cento dell’intera spesa pubblica del 2000, all’1 per cento del 2008, allo 0,2 per cento o poco più dell’ultimo anno, laddove Francia e Germania, che pure stanno facendo i conti con la grande crisi, vi hanno investito, rispettivamente, l’1 e l’1,5 per cento. Ma non basta: secondo l’ultimo rapporto di Federculture, con i nuovi tagli agli enti locali dal 2012 i comuni dovranno ridurre la spesa per la cultura di 7,2 miliardi l’anno. Tra il 2005 e il 2009 il settore ha perso il 15 per cento delle risorse e negli ultimi dieci anni lo Stato ha ridotto il proprio impegno nella cultura del 32,5 per cento.

L’idea di base, insomma, largamente presente in tutto il mondo battuto dalla «tempesta perfetta», ma estremizzata dal nostro Paese, è che « la cultura è un lusso » che non ci possiamo più permettere, un «vuoto a perdere» che ingoia risorse più utili altrove. Eppure, come ha scritto Christian Caliandro, autore con Pier Luigi Sacco del libro Italia Reloaded. Ripartire con la cultura, «non ci potrebbe essere quasi nulla di più sbagliato e controintuitivo, proprio in un momento del genere. Ridurre, comprimere, soffocare, eliminare la produzione e la fruizione culturale vuol dire, molto semplicemente, segare il ramo su cui si è seduti. Cancellare le proprie chance presenti e future; condannarsi all’impermanenza».

 

Del resto, la Storia dovrebbe insegnarcelo (ma ci vorrebbe cultura anche per quello…) Come ci hanno recentemente spiegato il premio Nobel per l’economia Paul Krugman e tanti altri, avremmo già la strada spianata da chi aveva affrontato la Grande Depressione ed era riuscito a uscirne. Tanto per dire: Franklin Delano Roosevelt. Invece di seguire il programma di austerità del suo predecessore Hoover, il presidente del New Deal, come ha notato Barbara Spinelli su «la Repubblica», «aumentò ancor più le spese federali. Investì enormemente sulla cultura, la scuola, la lotta alla povertà». Purtroppo, aggiunge la Spinelli, «non c’è leader in Europa che possegga, oggi, quella volontà di guardare nelle pieghe del proprio continente e correggersi. Non sapere che la storia è tragica, oggi, è privare di catarsi e l’Italia, e l’Europa».

Già: addirittura una «catarsi». Ma è proprio quello che ci vorrebbe. Roosevelt, infatti, non mise solo i disoccupati a scavare buche e a riempirle, come tanto spesso si dice. Tre dei più importanti progetti della Works Progress Administration, i più singolari, innovativi e duraturi, furono quelli compresi nel cosiddetto Progetto Federale numero 1, altrimenti noto come Federal One, che sponsorizzò per la prima volta piani di lavoro per insegnanti, scrittori, artisti, musicisti e attori disoccupati. Il Federal Writers’ Project, il Federal Theatre Project e il Federal Art Project misero al lavoro per qualche anno più di ventimila knowledge workers (come li chiameremmo oggi), tra i quali c’erano Richard Wright, Ralph Ellison, Nelson Algren, Frank Yerby, Saul Bellow, John A. Lomax, Arthur Miller, Orson Welles, Sinclair Lewis, Clifford Odets, Lillian Hellman, Lee Strasberg (il fondatore del mitico Actors Studio) ed Elia Kazan.

Non si trattò di elemosina: checché. Oltre a produrre opere d’arte (migliaia di manifesti, disegni, murales, sculture, pitture, incisioni…), gli artisti plastici e figurativi vennero impiegati nella formazione artistica e nella catalogazione dei beni culturali, e crearono e resero vivi anche un centinaio di community art centres e di gallerie in luoghi e regioni in cui l’arte era completamente sconosciuta. In tre anni, nella sola New York, più di dodici milioni (12.000.000!) di persone assistettero agli spettacoli teatrali incentivati dal Federal Theatre Project. Quanto al Writers’ Project, che costò ventisette milioni di dollari in quattro anni, produsse centinaia di libri e opuscoli, registrò storie di vita di migliaia di persone che non avevano voce e le classificò in raccolte etnografiche regionali, ma soprattutto, con le American Guide Series, contribuì a ridare forma all’identità nazionale degli Stati Uniti, che la Grande Depressione aveva profondamente minato, fondandola su ideali più inclusivi, democratici ed egualitari. E scusate se è poco.