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La Caduta

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La Caduta (è da pochi giorni in libreria La Caduta il primo romanzo di Giovanni Cocco. Ringraziamo la casa editrice Nutrimenti per averci permesso di pubblicarne un estratto. G.B.)

di Giovanni Cocco

Helladios –
Atene, 20 giugno 2014

Serrava la lingua, mordendola fino a sentirne il sangue, nello spazio di gengiva ricavato tra gli incisivi caduti anni prima, fissando la rete calata in acqua con la perizia di un biologo, e me lo sono immaginato per anni in quel modo, un eroe bislacco dei tempi della guerra, il remo al posto della spada, il collo rubizzo sul retro nel solco scarnificato dei due muscoli sternocleidomastoidei, ed era fiero, Helladios, di quella fierezza tutta speculativa e razionale, un angelo decadente destinato a non piegarsi, uno Psaronikos al contrario che sfidava il mare brandendo una fiocina, gli avambracci bruciati al sole del Mediterraneo, una ferrea volontà di potenza incistita nell’animo che gli avrebbe garantito le forze, lungo i primi sessant’anni, di viaggiare per tutto l’Egeo, solo con le proprie mani, armato di lenza e bastone, tutto muscoli e nervi, braccia magrissime e determinazione feroce, come se quella fame, una fame atavica alimentata a taramosalata e molluschi, fosse stata in grado, da sola, di partorire quel prodigio, quell’ossimoro vivente, un mastino anomalo fatto di pelle e ossa, un uomo che la vita, e la guerra, e le costrizioni, e la miseria, e la malnutrizione, non sarebbero mai state in grado di piegare, un miracolo aspro forgiato a fuoco dalla vita, una santabarbara lavoratrice capace, ogni giorno, verso il calar del sole, quando la campana di P. aveva già chiamato a raccolta gli isolani, di rimettersi al lavoro dopo le dodici ore passate a bordo del peschereccio, negli angoli più remoti attorno al Pireo, giusto il tempo di prendersi un ouzo, di salutare Zoe, di avere accordato una carezza rugosa a uno dei suoi nove figli e via di nuovo, a inventarsi un secondo mestiere, dopo aver infilato goffamente la canottiera tutta bucata nei pantaloni tagliati sopra il ginocchio, e tu lo avresti detto impassibile, a tratti, e forse anche eroico, Helladios, al tempo dei suoi anni migliori, a bordo del suo destriero, l’Eleutheria, un ventuno metri di medio tonnellaggio, con un ampio pozzetto e la carena azzurra, la cabina rovente all’interno della quale aveva condotto, come in un rito d’iniziazione, solo i figli maschi, la fronte imperlata di gocce di sudore, gocce salate a scorrergli dalle sopracciglia alle gote raspose ancora profumate di schiuma da barba e poi giù, di nuovo, fino alle labbra, ad alimentare quello sforzo sovrumano che non conosceva pause, né fatica, né sconfitte. Labbra, le sue, secche di vino e tabacco, capaci di schiumare rabbia e angoscia, determinazione incrollabile e un’indomabile fame di vita.
Adesso il vecchio Helladios è là, seduto in un angolo seminascosto della Papaiannou, la trattoria di famiglia. Una delle tante attività di Atene con il cartello vendesi appeso davanti all’ingresso.
I figli e molti dei suoi nipoti hanno perso il lavoro. Stephane si è messo a impilare cassette e vendere verdura in uno dei tanti mercati rionali che sorgono intorno al porto; Cristophe si mantiene lavorando in un magazzino di conserve; Cosmas è uno di quei cinquemila greci che, tramite una cooperativa sociale, hanno fatto domanda per un posto da raccoglitore di pesche su a Veria, nel nord del paese. Prima, questi lavori erano affidati agli immigrati. Adesso i greci fanno la fila fin dalle prime ore del mattino per una paga giornaliera di ventinove euro lordi.
Suo fratello Manolis ci aveva visto giusto. Era emigrato in Germania all’inizio degli anni Settanta.
Adesso vive a Francoforte. È uno dei numerosi greci che, col passare degli anni, sono diventati cittadini tedeschi. Per anni ha gestito una rivendita di Volkswagen. Si è fatto una posizione. Suo figlio ha potuto studiare. Di tanto in tanto telefona alla cognata. Il tono di voce è sempre più preoccupato.
“Come va, da voi?”, ha chiesto l’ultima volta Manolis alla moglie di Helladios all’indomani degli ennesimi disordini.
“Noi stiamo bene”, ha risposto Zoe. “E tu? Come sta Klaus?”.
“Io tiro avanti. Non mi posso lamentare. Klaus vive ancora a Berlino. Il lavoro va bene. Siamo preoccupati per quello che abbiamo visto in tv”.
“Qui le cose vanno sempre peggio. Il problema, Manolis caro, sono le banche”.
Zoe passa la cornetta alla nipote, che racconta le loro ultime disavventure.
Le cose hanno cominciato a mettersi male quando l’Unione europea ha fatto entrare in vigore la nuova normativa relativa alla pesca nei bacini del Mediterraneo. Il pescato, nel giro di pochi mesi, è diminuito del quaranta per cento. I prezzi sono saliti alle stelle. La concorrenza dei prodotti provenienti dal Baltico e dall’Oceano Indiano si è fatta serrata. In poco tempo intere generazioni di pescatori sono state costrette a chiudere bottega. Noi abbiamo resistito. Dopotutto rimaneva sempre la trattoria. Abbiamo stretto la cinghia. Nonostante le difficoltà la trattoria ha mantenuto per un anno un discreto giro d’affari. Riuscivamo a tirar fuori di che vivere. Non era granché, ma per noi era sufficiente. Poi è subentrata la crisi. Quella vera. Abbiamo iniziato a dilazionare i pagamenti ai pochi fornitori rimasti. L’improvviso crollo di una parte del soffitto nella sala più grande ci ha costretti a chiedere un prestito alla banca. La banca ha impiegato mesi per accordarcelo. Noi intanto perdevamo clienti giorno dopo giorno, un po’ per la crisi e un po’ per le condizioni del locale. Quando alla fine la banca ha erogato il prestito, il tasso era da strozzini. Gli incassi hanno cominciato a diminuire. Allora abbiamo chiesto alla banca una dilazione del pagamento.
La banca non ha voluto sentire ragioni. Non ha concesso proroghe. Le bollette non pagate hanno iniziato ad accumularsi. Avevamo ancora i fornitori da saldare. In pochi mesi siamo passati dal ritardo nel pagamento delle rate del prestito agli insoluti.
A poco più di un anno di distanza dalla concessione del prestito la banca ha fatto partire la procedura per il rimborso totale del finanziamento. L’ufficio legale ha fatto valere le sue credenziali con una ferocia inaudita. Non hanno preso nemmeno in considerazione l’ipotesi della concessione di un fido. Non hanno tenuto conto del fatto che fossimo clienti da oltre quarant’anni.
“Ordini che arrivano dall’alto”, ha detto uno degli impiegati allo sportello. “Dobbiamo assolutamente rientrare”, ha concluso il vicedirettore.
Helladios torna ai suoi pensieri, si concentra sui particolari.
Da tempo non riesce più a muoversi e l’unica compagnia rimastagli è il fascio luminoso e ininterrotto proveniente dalla televisione, che in questi giorni proietta in diretta le immagini di un paese in fiamme.
Uomini, a migliaia.
Intere famiglie.
Una carovana ininterrotta di persone percorre l’Egnatia Odos verso est. La gente è allo stremo. Ripensa al dopoguerra, il vecchio Helladios. Ripensa al tempo in cui ogni cosa sembrava a portata di mano. Adesso è diverso. Le immagini della tv mostrano scene agghiaccianti.
Manca tutto. Non solo i generi di prima necessità. Manca l’elettricità, l’acqua corrente, il gas. Il carburante è terminato da settimane.
La telecamera inquadra le auto rimaste incolonnate lungo il margine della strada, immobili, preda dei disperati. Le carcasse degli automezzi sul ciglio della carreggiata si sono trasformate in alloggi di fortuna destinati alle migliaia di persone che si sono riversate lungo il confine tra Macedonia e Tracia da ogni angolo del paese.
Lo speaker parla dei due nemici da combattere per chi si è messo in marcia: la polvere di giorno e il freddo di notte. L’escursione termica non dà tregua alle popolazioni in cammino. Molti erano pieni di speranza, il giorno della partenza; arrivano da lontano, alcuni da Igoumenitsa. Dopo aver attraversato buona parte del territorio greco, si sono resi conto che non è rimasto più niente.
Solo miseria.
Fame.
Polvere a sferzare gli occhi ad ogni folata di vento. A incollarsi alle scarpe ormai logore, consunte. Helladios rimane immobile, le condizioni di salute non gli permettono una corretta deambulazione. Però sembra intendere ogni parola. La telecamera inquadra il paesaggio circostante.
I pochi campi destinati alla coltivazione sono rimasti abbandonati. Dalla strada asfaltata fino a dove un tempo cominciava il frumento è un susseguirsi ininterrotto di radici, barbe, erbacce. La campagna è una distesa monotona, grigia, brulla, resa ancora più spoglia dal sole che durante le ore diurne sembra voler rimanere incollato allo zenit.
Non è rimasto più nulla da depredare.
I più fortunati riescono a rimediare un passaggio, magari solo per poche miglia, a bordo dei soli automezzi ancora dotati di benzina.
Lo speaker racconta un episodio:
Oggi abbiamo visto transitare un furgone rosso. Il cassone era pieno di persone. Una specie di apparizione: sembrava nuovo, l’autocarro. Appena uscito dalla carrozzeria. Il treno di gomme ancora immacolato. Le modanature cromate scintillanti lungo la fiancata. Alcuni ragazzi hanno provato ad aggrapparvisi. Altri si sono buttati nel mezzo della corsia, nel tentativo di rallentarne la corsa. Il furgone ha accelerato e gli occupanti, dal cassone, hanno respinto a calci il tentativo dei ragazzi di salire.
Lo abbiamo accompagnato con lo sguardo mentre si allontanava sollevando una nuvola di polvere densa, greve, capace di impregnare le narici.
Sullo sfondo, in ogni direzione, decine di cani, smunti e magrissimi, vagano senza meta.
Latrano fino a notte fonda. Una specie di litania che accompagna le notti dei disperati, insieme al crepitare del fuoco acceso grazie agli pneumatici.
La telecamera indugia su un’immagine: una ragazza incinta, mentre tiene per mano un bambino, allatta un vecchio senza denti appoggiato con la schiena ai resti di una roulotte.
Vorrebbe raccontarti, il vecchio Helladios, lui che ne ha viste tante, come tutto è cominciato.
Come si è arrivati fino a qui.

Poesie Inedite

21

di Daniele Ventre

 

1.

Il ricordo che forse frugavi nella caverna del mondo
davanti all’ombra, a un fantasma di cera che cola,
il ricordo che ancora cerchi ti segna, ferisce
nel bagliore che filtra dal giorno fra gli scuri appena accostati
sugli occhi cerchiati di polvere. E forse vorresti
scrutare di nuovo il buio, sondare ancora i veggenti
o il volto dei sogni che ti spieghino il senso dell’ira
che dentro ti cova nel tempo, che sempre ti consuma nascosta
e ti morde polso e respiro.

Necrologio del comico

33

di Marco Mantello

cigbrolly

Certo che lo fu. Il governo di un blog
costruire una rete di relazioni
dove tutti potevano argomentare
i vaffanculo al comico. E chiamarlo re.

“Sono venuto qui per sparire” (Antonio Moresco, La lucina)

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di Laurent Lombardimages

“Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”…

Questo l’incisivo incipit del nuovo romanzo di Antonio Moresco, La lucina (Mondadori), alla cui lettura mi sono chiesto chi potrebbe mai resistere all’incanto della scrittura del suo autore. Il progetto di sparizione del protagonista – di cui l’autore non tratteggia mai l’aspetto fisico né morale né emozionale, come se l’assenza di descrizione fosse già un atto dello sparire – è tutto contenuto nell’avverbio di luogo (qui), il quale rimanda al borgo deserto e abbandonato, isolato su un’altura, ossia a uno spazio privo della presenza umana e che sfugge a ogni possibilità di categorizzazione. Il lettore è preso sin da subito nella tempesta annunciata di questo voler scomparire dall’umano o forse dall’umanità. Ma la tempesta non si manifesta, o meglio è come se fosse sempre rimandata. Ne risulta una tensione incantatrice che produce l’effetto cinetico del testo: dal punto di partenza che è il borgo deserto e abbandonato nasce una serie di digressioni e di descrizioni che finiscono tutte con lo svanire nel meraviglioso della massa delle parole di Moresco che mantengono il lettore in una costante e magica sospensione. È questa sospensione a rendere vana ogni correlazione con il reale, che privato dal suo significato, diventa il luogo di passaggio verso un ailleurs fuori norma, mitico direi in quanto è da scoprire ma che, di fatto, non è scopribile. Ne La Lucina, l’ambiente ci supera, diventa il supporto reale dell’irreale: « Dove mi trovo? Mi chiedo. Cosa sto vedendo? Esiste davvero questo posto fuori dal mondo che i miei occhi stanno vedendo? Anche se nessuno oltre a me, in tutto l’universo, sa che esiste, sa che in questo momento c’è un uomo assolutamente solo che muove il suo corpo tra queste spoglie di pietra su cui non cessa un solo istante, giorno e notte, il tormento vegetale dei rampicanti » (p. 12).

Colpisce anche la stretta interdipendenza tra il paesaggio e il protagonista, cioè tra la solitudine dell’uomo e il brulichio della natura, che riflette, in un certo senso, il contrasto emotivo ed emozionale del testo e del protagonista durante la sua fuga dall’umanità. Il contrasto lascia trasparire delle proiezioni negative, terrificanti, metafore di un combattimento che possiamo dire universale. La rappresentazione della lotta risulta ancor più evidente nei lunghi passaggi dedicati alla natura dove si scatenano gli elementi del paesaggio. Il vegetale, infinito e conquistatore – che sminuisce l’uomo e le sue creazioni (casetta, finestrella…) – si impone in una lotta finalizzata a ritagliare lo spazio necessario alla sua sopravvivenza. La natura tutta si scatena dando vita a uno spettacolo in cui Moresco gioca con la visualizzazione, facendo della natura la sintomatologia dell’isteria umana.

Il trattamento stilistico della natura, sospeso tra realismo e meraviglioso, sembra creare una geometrizzazione del luogo che fa pensare a quella leopardiana dei primi versi dell’Infinito: « E questa siepe/che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, per giungere di là da quella ». Questo découpage dei volumi è importante per un’analisi del luogo delimitato quale è il borgo dove si trova il protagonista e da cui ambedue gli scrittori si allontanano, abbandonando la dimensione concreta, terrena. Tutto il libro è difatti scritto sotto il segno della fantasticheria estatica, come viene sottolineato dalla ricorrenza di numerosi mi è parso/mi è sembrato. Quasi si attuasse ciò che Baudelaire ha poeticamente invocato e descritto come l’“anywhere out of the world”.

Nel romanzo di Moresco questo ultimo orizzonte si concretizza con una lucina che, ogni sera, il protagonista scorge in lontananza nell’oscurità del mondo/territorio nel quale vorrebbe sparire. Incuriosito decide di intraprendere il viaggio verso il punto luminoso che si trova su un tratto pianeggiante del crinale di fronte a casa sua. Si inoltra senza timore nella moltitudine arborea, nella pluralità delle anime della natura, fino a giungere nel misterioso luogo dove, in una casetta, si trova uno sfingeo bambino. Lo spia nel suo quotidiano, fino al giorno in cui riesce a stabilire un dialogo. Si organizza allora nel romanzo una corrispondenza quasi perfetta tra i due personaggi, tra il reale e l’irreale, tra la vita e la morte, e si forma un’interrogazione possibile, in una poetica senza urla sul senso dell’esistenza, sospesa nel dolore, contenuto in questo spazio particolare, estremo e strettissimo, tra la vita e la morte, appunto. Ed è questa corrispondenza che permette all’autore di offrire al lettore un finale inopinato.

Da qualche tempo negli umori e nei giudizi della critica persiste l’evidente convinzione che sia morto il romanzo. Che sia morto il romanzo “italico”, per innumerevoli ragioni. Riposino i critici! Il generoso romanzo di Moresco scevera dal grottesco alito polemico di una certa critica. E se volessimo accettare l’idea del trapasso del romanzo sarebbe solo per gettare un urlo festivo: il romanzo è morto, viva il romanzo!

La Lucina è una dimostrazione palese che il romanzo può essere un lavoro di pura fantasia che si allontana da ogni verità del romanzo o dal romanzo vero. Leggendo La lucina si trova un altro mondo che è appunto il mondo della letteratura, spazio dove è permesso tutto, soprattutto evadere in un mondo distinto. Leggendo La lucina non ci si può esimere dal pensare, dall’intendere, dall’indurre, dal dedurre, dal vedere, dall’immaginare il nostro mondo concreto, astratto e distratto. Leggendo La lucina si passa da un mondo all’altro, come portati dall’interrogativo: “Chissà se la luce non è anche lei dentro un’altra luce? E che luce sarà, se è una luce che non si può vedere? Se neanche la luce si può vedere, che cos’altro si può vedere? Chissà se la materia di cui è composto l’universo, quel poco che riusciamo a percepire nel mare della materia e dell’energia oscura, perlomeno, non è dentro un’altra materia infinitamente più grande, e anche la materia e l’energia oscura non sono dentro un’oscurità infinitamente più grande?” (p. 141).

Allora, chissà se il mondo non è anch’esso dentro un altro mondo (il romanzo?). E che mondo è? Cosa possiamo vedere di lui? Chissà poi se il romanzo non è anch’esso dentro un altro romanzo (il mondo?)?

Dopo la lettura di questo nuovo libro di Moresco, è come se gli occhi si riaprissero e, vedendo l’imbratto, la bruttura del mondo, fossero presi da un impellente desiderio di richiudersi per tornare in quel borgo deserto e abbandonato, in qualità di increato.

Visita a don Giacomo

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Egon Schiele, Doppio autoritratto, 1915
Egon Schiele, Doppio autoritratto, 1915

di Andrea Melone

Lo vidi io per primo, da lontano, un pesce nel fondo dell’acqua nera, in piedi, ma non dissi niente. Non volevo indicarlo a loro, ma soltanto guardarmelo più a lungo e da solo. Camminava senza direzione, acherusio, dietro gli altri. Non andavano a sbattersi contro, neve dentro la neve, io facevo del mio meglio e me lo guardavo senza perderlo, forse loro non potevano proprio vederlo, così adunati al centro. Sui vetri delle stanze l’ottoneria della bufera suonava a fanfara, era così distante e piccolo appena sotto la Madonna di Lourdes alla fine del corridoio, piccolo dagli occhi al mento da afferrarlo dentro la lingua, da morsicarlo, mandarlo giù con un colpo di strozza aperta, capii al volo la situazione, non ci sono calci da sfondare il muro e urla da sgozzato, un poco c’era da meravigliarsene per la verità, non una ghigna da mal caduco, ma pestati dal batticarne, da un giorno di sole feroce. Ho visto un incidente una volta, dalle macchine sbucò un vivo sul ciglio del fosso con le mani in testa e a stropicciarsi le palpebre, il passo da sbronzo non del tutto.

Roberta Durante – Poesie edite e inedite

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Da Girini

(Napoli, Edizioni d’if, 2012)
 
 

poesia a bocca aperta

 

sono passata all’alta voce (chè l’altra

                                         non me la sento)

mi metto un cuore in pace      senza senso

e tuona e sbatte e trema il tono tenta tutto

                                                e tace poco

         ghigno ogni tanto a vuoto

(ma senti mi senti?)  la voce che ho qui dentro

mi è un ordigno

e fuori campo dice che Tartaglio un po’ la corda

che trito le parole senza sosta

e faccio con le rime ciò che voglio qui sul foglio;

di stare zitta così  non se ne parla

non taccio

e in men che non si dica infatti caccio

in mano      la parola

che gesticola mi lega e il gusto sposa

         ma intanto io m’intano in tante tane

e tra le righe canto in questo modo

(per non sentire solamente il suono)

che sai mi butta un poco sottotono

                                               io che sono

così dodecafobica

resto senza  parole e scrivo strabica

le note quelle basse a pie’ di pagina

poi ipotizzo un momentino che poetizzo

         ma ci ripenso un poco      (e spengo i fari)

(ma vedi mi hai vista?) ho scritto tutto tutto senza

mani

Note sul Conflitto di Interessi

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di Mattia Paganelli

Vorrei sollevare un problema. Il bell’articolo di Andrea Inglese di qualche giorno fa si chiede se ci sia davvero qualcosa di rivoluzionario nel fenomeno M5S. Forse. Certamente tra le cose che con queste elezioni sono cambiate, la legge sul conflitto di interessi sembrerebbe non essere più necessaria, in quanto, paradossalmente, è invecchiata pur senza essere mai stata scritta.

Vittorie di Pirro e governi di Leibniz

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di Pino Tripodi
L’esito elettorale italiano – apparente ingovernabilità conclamata – qualora approdasse alla soluzione ritenuta antefatto più sragionevole – governo di minoranza CS al senato più voti del M5S – potrebbe trasformare tante vittorie di Pirro nel migliore dei mondi possibili di Leibniz. Ogni altra opzione pre e post elettorale (autosufficienza del centro sinistra, alleanza col centro, grande coalizione, governo della destra) sarebbe peggiore poiché non potrebbe far altro che realizzare l’agenda Monti approfondendo i danni sociali ed economici dei quali il governo di fatto, quello delle tecnocrazie europee, è divenuto più causa che rimedio.

Due poesie

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di Gilda Policastro

Inattuali

n. 1


La verità è che i quattro salti in padella
non so’ cattivi (all’oasi
della birra i due studenti, biglietto timbrato
proiezione esclusiva),
lo isolavo tra il dire senza dire
di Kircher, dei frammenti di Leopardi
tarantato
(che poi, m’interrogavo verificando la faccia,
di questo si fanno le vite, le cose:
incontri, chiamarsi, chiavare, per dirla con l’ES).
D’altronde sono tre le ipotesi: amicizia, relazione, intimità,
e delle tre nessuna (verificata
la faccia ha troppi denti
o pochi, o non saprei sceverare il teschio,
l’origine, risalire, dei frammenti, i primitivi,
di te, quell’astratto che precede la verifica),
o la prima, a condizione
che sostenga passaggi,
fluttuazioni e sfumature.
Ma se fosse ancora il tempo – la colpa, dice C. –
di sperimentare (edificare no, ch’è tardi, o presto, e
la biologia finisce dove comincia l’evoluzione
dei costumi, o le opinioni,
a ricordarsi del presente stato):
iniziare, consumare, finire
la via che riporta
alla sentenza un pezzo per volta,
senz’alternative.
Astrazioni, distrarsi dal contesto e ricalcare il fare
metaoperativo: un oggetto che serve a qualcosa cui la
forma non rimanda, lo scopo senza la funzione
(verificare la faccia, a invalidare
ciascuna delle tre obbligazioni),
di più disorientarsi, finire senza cominciare, o viceversa: tutto
scorrendo, limando solo le malattie,
proscrivendo la morte,
sconfessando il dolore (superando?),
ch’è fardello che ti accolli da troppo, e la vita,
quella degli altri, è fatta di cose piccole, leggere, buone,
di quattro salti in padella, non per dire

-

n. 2

Quanti aggettivi usano e come costruiscono le frasi:
pensieri lunghi, articolati, complessi o intorcinati
(io ci ho i compiti e tu? no, io non li ho,
eh, ma io sono più grande,
il nonno in mezzo, bambini che guardano la strada,
domande semiautonome, a voce alta).
Nell’argomentazione, usare le stesse
terne aggettivali: necessario, dialogico, sfaccettato,
oppure smontare le retoriche, sfolgorante, il mercato.
Il mercato è il luogo antagonista, confrontarsi, aveva detto Fortini,
con le sue logiche, per opporre una minoranza al dominio,
o per interloquire dalle nicchie con gli spalti
(hai detto che si può scrivere bene parlando male?),
oppure, di quel dominio, contestare la legittimità con la rivoluzione
(chi non ha niente, non si aspetta niente),
la messa in discussione,
il diritto di critica, l’imperativo
(è quando ti hanno tolto qualcosa
che ti rivolti),
il negativo adorniano
(le donne sono fatte così, sono aggressive).
Ma sentiamo cosa ne pensano i nativi digitali,
(“nelle dispute l’inferiore ha sempre ragione,
perché il superiore si è abbassato a disputare”, GD),
loro hanno nuovi strumenti di connessione,
le sinapsi formate sui byte, i giochi di
go-kart elettronici (e tu capisci “le carte”)
nell’internet disease la ps vita
(ho fatto tutto bene, lamentele?),
rapporti zero, contaminazione repressa,
contagio autoimmune
(l’altro è la forma che assumi
dove l’esterno s’incrocia), rin-
tanati dall’evento, benvenuti nel deserto
(ho un vuoto dentro: Serena che perde il compagno
in tivù, senza la tomba).
Aggressioni di default, fendenti in mostra,
(ma secondo te gli ospedali funzionano,
dice Lidia, in Palestina,
e se rispondo che in Italia nemmeno,
che paragoni cretini),
sbandando come attori sul palco
osceni, muoiono i mostri (ma puoi riprenderti le vite, se vuoi,
e ricominci: Maria, al figlio che gioca),
uno spettacolo diverso ogni volta   Fingerti
(non è la wii: quando muori sei morto) è
il solo modo di riaverti
a mente, lì dal deserto,
                         switchando

6 nuovi arcipelaghi

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Roma, giovedì 7 marzo, ore 17:00

presso la Sala Capizucchi del Centro di Studi italo-francesi

(piazza Campitelli 3)

presentazione dei 6 nuovi titoli della collana ChapBook (Ed. Arcipelago),

diretta da Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano

Tra i due contendenti

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riflessioni, contraddizioni e timori postelettorali

di Helena Janeczek

Ho l’ossessione degli ultimi anni di Weimar, gli anni precedenti alla vittoria di Hitler. Ce l’ ho da quando l’Europa mediterranea, un paese dopo l’altro, è piombata in una crisi economica che si avvicina nella sua gravità a quella che, dopo il crollo di Wall Street del ’29, raggiunse il Vecchio Continente. La Grande Depressione si abbatté con la massima durezza sulla Germania, complice le politiche di austerità imposte dal cancelliere Brüning.

Raccomandazioni al principe

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di Antonio Sparzani
niccolo-machiavelli_uffizi
Corre quest’anno il cinquecentesimo anniversario della scrittura del De Principatibus, più noto come Il Principe, opera composta, malgrado il titolo, in volgare italiano da Niccolò Machiavelli (Niccolò di Bernardo dei Machiavelli, Firenze, 1469 –1527) ma pubblicata solo dopo la sua morte, nel 1532. Scrive il Nostro, al capitolo XVIII, capoverso 5:

«Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’ ; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.»

Ognuno può trarne insegnamenti e commenti rispetto all’oggi, e del resto mi sembra che quanto scritto nel Principe a proposito del potere sia stato in ogni epoca di una sconcertante attualità. Voglio solo aggiungere, a mo’ di spiegazione e introduzione, quel notissimo brano della lettera a Francesco Vettori, che Machiavelli scrisse il 10 dicembre 1513.

«Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo de Principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla Magnificenza di Giuliano.»

S’intende Giuliano de’ Medici ― uno dei tre figli maschi di Lorenzo il Magnifico e di Clarice Orsini, con i fratelli Piero e Giovanni (divenuto poi Leone X) ― nominato dal Re di Francia duca di Nemours nel 1515, per intercessione appunto del fratello divenuto papa.

Ulisse Fiolo – Poesie edite e inedite

4

da Brónse e seménse (scàmpoi de diaèto)*

 

Chéa ladra de a miseria!

 
Co passo in càe Nariti, o pa e stradèe
stréte, drio i cavassai che tàja i campi
– quée fora man, co e case picoéte,
basse a do stanse, impiturie de rosa
o rancion che ‘l xe un rosso scoeorio,
o co i matoni a vista, de na volta –

Quali politiche per il museo di arte contemporanea?

2

di Michele Dantini

Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964
Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964

Annus horribilis. Il 2012 è stato funesto per la gran parte dei musei di arte contemporanea italiani, e il 2013, con le roventi polemiche destatesi attorno al Maxxi o il conflitto tra AMACI e CdA sulla conduzione del Castello di Rivoli, è iniziato sotto auspici persino peggiori. La “crisi” non è solo locale: rimanda a una flessione globale di autorevolezza e prestigio del contemporaneo, accompagnata da perplessità crescenti sul ruolo e la qualificazione culturale dei curatori più giovani, oggi precocemente inseriti in un’opaca routine di (auto)promozione e fundraising contraria alle esigenze di una serie formazione.

Dunque, che accade? Le politiche di austerità incidono. Il modello Krens-Guggenheim di museo-corporate è fallito assieme alle narrazioni più entusiastiche sulla globalizzazione, ed esiste un crescente dibattito internazionale sulla ragionevolezza degli investimenti. È  lecito destinare ingenti somme di denaro pubblico a musei che sembrano avere smarrito un ruolo pubblico per diventare concessionarie di gallerie e architetture da noleggio? Colpisce che un numero sempre maggiore di voci insorga. Parliamo di Jhon Berger o Don DeLillo, Orhan Pamuk o Simon Schama: voci non pregiudizialmente avverse, come potremmo considerare quella di Marc Fumaroli o altri funerei detrattori di professione, ma di osservatori attenti e in linea di principio partecipi. Siamo cresciuti nella leggenda (anni Cinquanta, in Europa ancora anni Settanta) dell’artista incurante di convenzioni, giovane, appassionato e ribelle. Non di rado, presso il grande pubblico, ci si attende ancora che l’arte possa restituire senso ai vocaboli eroici della tradizione modernista, rigore e intransigenza in primo luogo. Ma qualcosa sta accadendo, con più evidenza dall’inizio della crisi economico-finanziaria, nel 2007; qualcosa che ricorda il primo movimento di una frana reputazionale. L’(ex) outsider di genio non è più il beniamino popolare. Simile agli artisti-principi di fine Ottocento, al servizio di banchieri, aristocratici e oligarchi, global players come Koons, Hirst o Cattelan gettano una luce che a non pochi appare ormai futile e sinistra.

Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964
Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964

Backstage di una crisi di sistema
Irresponsabilità sociale, mutazione “antropologica” del collezionismo finanziario, conformismo corporate. Tutto questo congiura, inutile negarlo, e induce al disincanto. In breve: la “differenza” etica, culturale, “antropologica” dell’artista, rivendicata ancora dalle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, appare dilapidata. Non è semplice ricostruire un’autorevolezza smarrita. Quale solidità avrebbe peraltro un simile tentativo? Potremmo supporre che sia ormai inevitabile contestare i confini istituzionali di ciò che si riconosce come “artistico”, sull’esempio della 7. Biennale berlinese, la più protestataria tra le manifestazioni recenti. E se cercassimo di definire in modo nuovo l’”arte” collocandola nel punto di intersezione tra attività estetiche e “servizi” alla comunità, addirittura sul piano delle iniziative per la legalità, il lavoro dignitoso, la difesa dell’ambiente, l’economia di relazione? O sul piano della conoscenza e della trasmissione dei saperi? “I mercanti sono dei parassiti, il pubblico non è intelligente e il vero genio, se non vuol farsi contaminare dal denaro, deve entrare in clandestinità”. Impossibile rimproverare reticenza o vaghezza a Duchamp. Abbiamo convinzioni in parte diverse, ma riconosciamo l’acutezza del rinvio alla condizione di “clandestinità”: gli artisti, agli occhi dell’autore del Grande vetro, rimangono fedeli a se stessi solo attraverso tradimenti e dislocazioni periodici. Uccidono l’arte al fine di reinventarla. L’Italia (e l’Europa mediterranea in generale) conosce oggi un momento di emergenza economica, sociale, culturale. Forse tutto il mondo attende, da parte degli artisti, dei ricercatori, degli intellettuali, pronunciamenti radicali e inventività controculturale. La produzione di oggetti luccicanti e dispendiosi non è criterio vincolante per la definizione di ciò che è “arte”. Potremmo persino giungere a concepire un mondo “senza” arte, purché più equilibrato, empatico e retto da principi di cura.

Fotogramma tratto da Bane à part, di Jean-Luc Godard, 1964
Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964

Museo, scuola pubblica, innovazione sociale: il punto di vista dell’outsider
La chiusura di un museo procura sconcerto: un luogo di relazione cessa di esistere e recare beneficio alla comunità. Il rogo di un quadro, sia pure modesto, ferisce (è accaduto al CAM di Casoria questa primavera): vanno in fumo tempo, dedizione, mitezza, pazienza, meticolosità. Ci siamo trovati come dilacerati dalla successione di notizie di impasse istituzionali o crisi rovinose: il MADRE, il Riso, il MAXXI, il Castello di Rivoli e perfino il MART. Non possiamo che deplorare, laddove sia il caso, incuria e impreparazione pubblica, insipienza politico-culturale di vertice, mancanza di investimenti qualificati. Al tempo stesso proviamo a proporre qualcosa come una riflessione distante da mere lagnanze corporative e suggerire spunti di autoriforma. La domanda è: quali politiche culturali per i nostri (migliori) musei di arte contemporanea?

L’opera d’arte (contemporanea), se tale, ha un valore intrinsecamente “politico” e non ha bisogno di accogliere “contenuti” esteriori per giustificare la propria necessità sociale. L’esperienza estetica educa l’osservatore all’interpretazione, a percorsi sperimentali di verifica e autocorrezione, all’interrogazione costante. Per i suoi caratteri di microinfrazione, l’opera d’arte (contemporanea) contribuisce a formare un’opinione pubblica informata, consapevole e indipendente, pronta a considerare criticamente un documento, l’autorità della tradizione o la validità di un enunciato; e a contrastare attivamente, con immaginazione e tenacia, corruzione, nepotismo o (poniamo) cicli recessivi. Di più: l’incontro con l’opera d’arte avvince e spinge a accogliere la complessità come sfida ludica e rituale. Educa al rifiuto del luogo comune, e propaga il gusto per l’osservazione acuta e penetrante. È importante che questo accada, in un paese in cui, sin dai più teneri anni, l’apprendimento non è vissuto dai più come gioco; e dove l’eco ubiquitaria del discorso politico consolida in ciascuno abitudini al ragionamento prudente e conformista.

Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964
Fotogramma tratto da Bande à part, di Jean-Luc Godard, 1964

La tradizione modernista italiana rifugge eccessi di spettacolarizzazione, divismo e gossip. E’ convinzione di Brandi, ad esempio, che “l’artista abbia responsabilità storiche e sociali non diverse da quelle di qualsiasi altro uomo”; e Longhi è pronto, nell’immediato dopoguerra, a elogiare l’attitudine schiva di Morandi, il suo rifiuto dell’istrionico e del “capaneico”. Dobbiamo essere esigenti quanto a arte e cultura: sono davvero importanti, in chiave civile, solo se producono conoscenze situate, o in altre parole competenza autobiografica e cittadinanza. Una politica culturale pubblica è chiamata a potenziare i compiti di agency, cioè di “pieno sviluppo della persona”; e a rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale” richiamati dall’articolo 3 della Costituzione. Stabiliamo un primo punto, che può sembrare paradossale: l’istituzione pubblica (o pubblico-privata) di cui parliamo, il museo appunto, esiste in primo luogo per i cittadini: né per gli artisti o gli sponsor né tantomeno per i politici che intendano fregiarsi del ruolo di protettori delle arti. È chiamata a conferire sostanza culturale specifica a istanze generali di equità, trasparenza, redistribuzione di opportunità. Avete presente il piccolo o la piccola seduti in ultima fila nel banco di scuola, nati da famiglie di umile origine? Bene: abbiamo una disperata necessità che il loro talento non vada disperso e dispieghi invece nel tempo risorse di attenzione e combattività.

Con opprimente scarsità di lessico, cognizione specifica e immaginazione gli economisti della cultura invocano da anni (o piuttosto intimano) strategie di rilancio del “capitale umano”. La locuzione non ci appassiona: come che sia, è evidente che proprio la disseminazione di offerta culturale innovativa, se associata a ampi, durevoli e qualificati processi educativi, può aiutare a trasformare tratti antropologico-culturali ritenuti svantaggiosi (ad esempio la “scarsa propensione al rischio” avversata nelle retoriche pro-startup). Ma non dovremmo restringere il punto di vista alla sfera economica, concentrandoci su “indotto” e impresa. Esistono innovazioni (sociali e istituzionali) che combattono esclusione o privilegio: meritano la nostra più grande attenzione anche se non contribuiscono direttamente alla crescita del PIL. L’offensiva neoliberista contro i saperi umanistici e la tradizione delle arti “liberali” impone a artisti, critici, curatori di ridefinire il museo sotto profili di resistenza culturale, in termini di etica del dono; e di sostituire alla dispendiosa ricerca del “grande evento” virtuose routine di restituzione.

[Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto]

Sulla strada

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DGdi Gianluca Veltri

 

C’è qualcosa di sbalorditivo nella capacità di Francesco De Gregori a mantenere così alto il livello di ispirazione. Paragonato a più o meno buoni lavori recenti di suoi colleghi (Fossati, Battiato, Guccini), “Sulla strada” si posiziona varie spanne sopra. Come qualità, necessità compositiva, intensità poetica, calore, gioiosità. Nove canzoni senza cedimenti. Sebbene De Gregori e il suo produttore – lo storico “capobanda” Guido Guglielminetti – tendano a negarlo, ancora una volta un album del principe della canzone italiana induce un parallelo con Bob Dylan. Non diretto e immediato, stavolta, ma più articolato. Per “Tempest” s’è detto che si tratta di uno dei migliori lavori di Dylan di sempre, inaspettatamente; lo stesso si può affermare per “Sulla strada”, che si pone come uno dei dischi più riusciti del cantautore romano. Al pari di Dylan, De Gregori sembra aver più che mai interiorizzato le musiche antiche della propria tradizione. Musiche diverse da quelle dylaniane, patrimoni rispettivi; quindi il parallelo in questa occasione non è per somiglianza, ma per analogia. Le melodie di serena malinconia, che solcano gli orizzonti di “Sulla strada” come arcobaleni, attingono ai motivi dei padri, alla canzone mediterranea d’ante e immediato dopo-guerra. Almeno quattro canzoni dell’ultimo disco di De Gregori sono in grado di commuoverci (e non che le altre siano da meno). Vi pare poco, per un artista che festeggia i quarant’anni di attività discografica? Vietato tirare i remi in barca.

In mezzo alle altre canzoni, tra le quali una ballata notturna, felina, in chiusura di disco (“Falso movimento”) e un capolavoro romantico come “Showtime”, De Gregori continua quel meta-repertorio dedicato alla riflessione sul mestiere del cantante, regalandoci un tassello prezioso per chi studia il rapporto tra arte e vita. La canzone è “Guarda che non sono io”. Non è un impressionistico susseguirsi di metafore, come era “Per brevità chiamato artista”; piuttosto un approccio metodologico, definitivo. Sopra uno struggente accompagnamento di pianoforte e archi a cura di Nicola Piovani, cosa ci dice De Gregori in “Guarda che non sono io”? Che l’uomo e il cantante sono come due gemelli: si somigliano magari, ma sono due entità del tutto differenti, che non si conoscono, come un Giano Bifronte. E se tu, fan, incontri l’artista per strada in un giorno qualunque (naturalmente un giorno di pioggia) e volessi chiedergli qualcosa di, poniamo, “Pezzi di vetro”, e confidargli quanto sia stata importante per te, lui ti risponderebbe più o meno: “Guarda che chi canta quella canzone è De Gregori, io sono Francesco e sto semplicemente facendo la spesa, io e lui siamo due persone diverse, non perdere tempo con me, non è con me che devi parlare”. L’unica maniera per comunicare è quella di fruire delle sue canzoni, andare ai suoi concerti (nei quali il cantautore blandisce gli spettatori chiedendo loro retoricamente: “Come faccio a non volervi bene?”), goderne e applaudirlo. Non c’è altra via. L’autore di “Alice” e “Bellamore” è una cosa, la persona che vive la sua vita, tutta un’altra. La querelle, del resto molto stucchevole, su quanto vi sia di autobiografico nel lavoro di un artista, qui rimane alquanto indietro: non è questione di autobiografia, in questo caso si registra una vera e propria scissione. Molta distanza con la coincidenza tra arte e vita di un Guccini, per esempio, uno che ha messo in musica se stesso senza schermi. Quando canta in prima persona Guccini, è proprio lui, “io, Francesco Guccini”. De Gregori, al contrario, anche se usa la prima persona singolare, non parla (necessariamente) di sé. Anche se, paradossalmente, un’eccezione è rappresentata proprio dalla canzone in cui viene negata ogni corrispondenza tra cantante e persona, appunto “Guarda che non sono io”: qui, infatti, De Gregori sta parlando di sé. È singolare l’ossimoro che mette in scena “Guarda che non sono io”, il duello tra parole e musica: da una parte un accompagnamento orchestrale avvolgente e caldo, drammaticamente partecipe; dall’altra dichiarazioni quasi ciniche, o in ogni caso distanti, fortemente non inclusive, che stabiliscono l’impossibilità di avvicinamento umano tra chi canta e i suoi ammiratori, quelli che da quattro decenni vedono la propria vita intrisa della sua musica.

“Passo d’uomo” esprime un altro punto di vista forte del disco: “Vivo la mia vita a passo d’uomo, altra misura non conosco”, canta De Gregori. Manifesto dell’andare a piedi “sulla strada”, senza aver fretta di bruciare le tappe e di essere alla moda: “non c’è niente da nascondere, niente da salvare“. Illo tempore non c’era “niente da capire”. Frattanto il generale di tanto tempo fa oggi è un sergente sgangherato, nel rebetiko “Belle Epoque”, un affresco à la Leonard Cohen su un’epoca di mezzo (“fischia il sasso, fischia il vento, sta arrivando il Novecento”); oppure è il soldatino di un altro brano-chiave del disco, “La guerra”, una sceneggiatura che serve a riaffermare, dopo un secolo infinitamente bellico, che alla fine della guerra scoppierà la pace, ci sarà sempre una vedova disponibile a riaccogliere un uomo nuovo; e un reduce sfiorato dalla morte pronto a farsi aprire la porta. Ricomincia la vita, ricomincia l’amore.

Una delle canzoni più belle del disco è “Omero al Cantagiro”, che trasferisce gli aedi del passato classico dentro ai concorsi canori del secondo Novecento, con una di quelle melodie che ci ricordano i nostri nonni, da cantare senza sapere per forza le parole. Puro piacere della musica, un godimento che sa essere insieme disinteressato e necessario. De Gregori è capace di intenerirci persino quando usa espressioni comuni e fin troppo aduse come “volo a basso costo”, o quando descrive i preparativi di viaggio della “Ragazza del ‘95”, che “rimette a posto il cellulare”: lo sa fare con una grazia che è soltanto sua, in un brano di sapore caraibico dedicato alla rosa che sboccia, alla curiosità incontaminata, alla vita che preme e si affaccia. Anche lei è “sulla strada”, la ragazza del ’95: lo è su un “volo a basso costo”. È in cammino, pronta a farsi sorprendere dal domani, fiuta e brama i giorni, le pagine aperte sul futuro con leggerezza e voglia di scoperta.

 

(ascolta  Guarda che non sono io )

ONE BUT UNEQUAL

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Alcune considerazioni a partire da La letteratura nell’età globale di Giuliana Benvenuti e Remo Ceserani. images

di Lucia Quaquarelli

In apertura del recente e utilissimo saggio di Benvenuti e Ceserani leggiamo: «In questo libro ricostruiamo il lungo dibattito, iniziato nel Settecento, alle soglie della modernità, sulla possibile dimensione mondiale della letteratura: un dibattito che è ripreso con grande vigore negli ultimi decenni» (p. 7, corsivo mio). Dichiarazione d’intenti e promessa (ampiamente mantenuta), che ha il merito di presentare da subito la riflessione sulla letteratura mondiale in termini di «dimensione», ovvero di ordine di grandezza, di scala. Di scala di progettazione, produzione e diffusione certo, ma soprattutto (e pertanto) di scala di osservazione e analisi.

Siamo cioè tutti più o meno d’accordo nell’ammettere che quando si parla di «letteratura mondiale», oggi, non si intende un oggetto, un corpus o un campo di studio specifico («Salve, io mi occupo di letteratura mondiale, e lei?»), bensì l’elaborazione di una prospettiva di analisi letteraria che metta in conto l’impatto che le recenti trasformazioni « mondializzanti » del mondo (globalizzazione, mondializzazione dell’informazione, flussi migratori, compressioni spazio-temporali, informatizzazione e virtualizzazione dell’esperienza…) hanno avuto sulle lettere e che preveda pertanto il superamento della dimensione strettamente nazionale delle discipline letterarie. Ma non solo.

L’opportunità (l’esigenza, la necessità) di allargare a scala mondiale il campo di osservazione dei fenomeni letterari presuppone anche che si esca, per dirla con Said, dal «labirinto della testualità» (dove testualità si oppone anzitutto a storicità), ci si posizioni nel tempo e nello spazio e si rifletta, inoltre, sulle dinamiche di produzione, traduzione e circolazione dei testi letterari nel mondo, ovvero sulle relazioni (mutevoli nel tempo e nello spazio) tra centri, periferie e semiperiferie della produzione letteraria, insomma sui rapporti di forza entro i quali anche la letteratura viene prodotta e letta. Significa poi provincializzare l’Europa – il che mi pare in generale una buona cosa –  e significa anche, spesso, resuscitare l’autore dalle sue ceneri, poiché, alla stregua di opere e lettori, anche gli autori, scrive sempre Said «appartengono in modo specifico a, e si articolano a partire da, circostanze locali».

La letteratura, insomma, dovrebbe essere considerata, leggiamo a pagina 74 del saggio di Benvenuti e Ceserani, come «una forma di globalità incentrata su attori localizzati facenti parti di reti transfrontaliere». Questa definizione, però, per quanto utile ed essenziale, apre su alcune questioni, talune spinose. Cerco di formularne una, che mi sta particolarmente a cuore.

Lo studio della letteratura su «scala mondiale» richiede allo studioso una capriola: mondializzare (universalizzare) la nozione di letteratura (perché si possa comparare il comparabile) per poi situarla. Voglio dire, per quanto l’approssimazione del distant reading faccia problema e per quanto ancora permanga il dubbio sulla nostra capacità di condurre uno studio della letteratura non compromesso con rapporti di forza postcoloniali, il rischio più grande che corre chi tenta di uscire dall’angustia della dimensione nazionale è quello di presupporre che la letteratura sia una nozione condivisa ai quattro angoli del mondo. Meglio, e per dirla tutta, di presupporre che la nostra nozione di letteratura valga anche per il resto del mondo.

Anschluss!

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[Questo testo mi è stato inviato prima delle elezioni. Mi scuso di pubblicarlo in ritardo, ma rimane attualissimo.]

di Domenico Lombardini

Ci risiamo! L’egemonia germanica! Tutti dietro al crucco! Ce l’hanno venduta bene l’Europa i nostri politici, i Prodi, il maledettissimo Prodi (che ci dice ora con faccia di tolla che l’Euro moneta unica è soprattutto vantaggiosa per la Germania…), sì, soprattutto i sinistri, ma tutti, anche i destri, che a dirci piùEuropa! piùEuropa! non si sono ancora stancati. E noi dietro al pifferaio… E l’elefante non lo vede ancora nessuno, possibile?

Non la rivoluzione, ma forse qualcosa di rivoluzionario…

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di Andrea Inglese

Non so se in questa campagna Bersani, Vendola o addirittura Ingroia abbiano detto qualcosa di sinistra. Mi sono reso conto, però, anche se tardi, che Grillo ha fatto qualcosa di rivoluzionario. Ognuno ha il suo dio delle giustificazioni, in ogni caso il 2,2% di Ingroia la dice lunga sulla stagione della politica fatta dai magistrati, e la dice lunga anche su quel che resta di Rifondazione Comunista e sulla sua attuale capacità di aggregazione dei movimenti.