Ulisse Fiolo – Poesie edite e inedite
da Brónse e seménse (scàmpoi de diaèto)*
Quali politiche per il museo di arte contemporanea?
di Michele Dantini

Annus horribilis. Il 2012 è stato funesto per la gran parte dei musei di arte contemporanea italiani, e il 2013, con le roventi polemiche destatesi attorno al Maxxi o il conflitto tra AMACI e CdA sulla conduzione del Castello di Rivoli, è iniziato sotto auspici persino peggiori. La “crisi” non è solo locale: rimanda a una flessione globale di autorevolezza e prestigio del contemporaneo, accompagnata da perplessità crescenti sul ruolo e la qualificazione culturale dei curatori più giovani, oggi precocemente inseriti in un’opaca routine di (auto)promozione e fundraising contraria alle esigenze di una serie formazione.
Dunque, che accade? Le politiche di austerità incidono. Il modello Krens-Guggenheim di museo-corporate è fallito assieme alle narrazioni più entusiastiche sulla globalizzazione, ed esiste un crescente dibattito internazionale sulla ragionevolezza degli investimenti. È lecito destinare ingenti somme di denaro pubblico a musei che sembrano avere smarrito un ruolo pubblico per diventare concessionarie di gallerie e architetture da noleggio? Colpisce che un numero sempre maggiore di voci insorga. Parliamo di Jhon Berger o Don DeLillo, Orhan Pamuk o Simon Schama: voci non pregiudizialmente avverse, come potremmo considerare quella di Marc Fumaroli o altri funerei detrattori di professione, ma di osservatori attenti e in linea di principio partecipi. Siamo cresciuti nella leggenda (anni Cinquanta, in Europa ancora anni Settanta) dell’artista incurante di convenzioni, giovane, appassionato e ribelle. Non di rado, presso il grande pubblico, ci si attende ancora che l’arte possa restituire senso ai vocaboli eroici della tradizione modernista, rigore e intransigenza in primo luogo. Ma qualcosa sta accadendo, con più evidenza dall’inizio della crisi economico-finanziaria, nel 2007; qualcosa che ricorda il primo movimento di una frana reputazionale. L’(ex) outsider di genio non è più il beniamino popolare. Simile agli artisti-principi di fine Ottocento, al servizio di banchieri, aristocratici e oligarchi, global players come Koons, Hirst o Cattelan gettano una luce che a non pochi appare ormai futile e sinistra.

Backstage di una crisi di sistema
Irresponsabilità sociale, mutazione “antropologica” del collezionismo finanziario, conformismo corporate. Tutto questo congiura, inutile negarlo, e induce al disincanto. In breve: la “differenza” etica, culturale, “antropologica” dell’artista, rivendicata ancora dalle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, appare dilapidata. Non è semplice ricostruire un’autorevolezza smarrita. Quale solidità avrebbe peraltro un simile tentativo? Potremmo supporre che sia ormai inevitabile contestare i confini istituzionali di ciò che si riconosce come “artistico”, sull’esempio della 7. Biennale berlinese, la più protestataria tra le manifestazioni recenti. E se cercassimo di definire in modo nuovo l’”arte” collocandola nel punto di intersezione tra attività estetiche e “servizi” alla comunità, addirittura sul piano delle iniziative per la legalità, il lavoro dignitoso, la difesa dell’ambiente, l’economia di relazione? O sul piano della conoscenza e della trasmissione dei saperi? “I mercanti sono dei parassiti, il pubblico non è intelligente e il vero genio, se non vuol farsi contaminare dal denaro, deve entrare in clandestinità”. Impossibile rimproverare reticenza o vaghezza a Duchamp. Abbiamo convinzioni in parte diverse, ma riconosciamo l’acutezza del rinvio alla condizione di “clandestinità”: gli artisti, agli occhi dell’autore del Grande vetro, rimangono fedeli a se stessi solo attraverso tradimenti e dislocazioni periodici. Uccidono l’arte al fine di reinventarla. L’Italia (e l’Europa mediterranea in generale) conosce oggi un momento di emergenza economica, sociale, culturale. Forse tutto il mondo attende, da parte degli artisti, dei ricercatori, degli intellettuali, pronunciamenti radicali e inventività controculturale. La produzione di oggetti luccicanti e dispendiosi non è criterio vincolante per la definizione di ciò che è “arte”. Potremmo persino giungere a concepire un mondo “senza” arte, purché più equilibrato, empatico e retto da principi di cura.

Museo, scuola pubblica, innovazione sociale: il punto di vista dell’outsider
La chiusura di un museo procura sconcerto: un luogo di relazione cessa di esistere e recare beneficio alla comunità. Il rogo di un quadro, sia pure modesto, ferisce (è accaduto al CAM di Casoria questa primavera): vanno in fumo tempo, dedizione, mitezza, pazienza, meticolosità. Ci siamo trovati come dilacerati dalla successione di notizie di impasse istituzionali o crisi rovinose: il MADRE, il Riso, il MAXXI, il Castello di Rivoli e perfino il MART. Non possiamo che deplorare, laddove sia il caso, incuria e impreparazione pubblica, insipienza politico-culturale di vertice, mancanza di investimenti qualificati. Al tempo stesso proviamo a proporre qualcosa come una riflessione distante da mere lagnanze corporative e suggerire spunti di autoriforma. La domanda è: quali politiche culturali per i nostri (migliori) musei di arte contemporanea?
L’opera d’arte (contemporanea), se tale, ha un valore intrinsecamente “politico” e non ha bisogno di accogliere “contenuti” esteriori per giustificare la propria necessità sociale. L’esperienza estetica educa l’osservatore all’interpretazione, a percorsi sperimentali di verifica e autocorrezione, all’interrogazione costante. Per i suoi caratteri di microinfrazione, l’opera d’arte (contemporanea) contribuisce a formare un’opinione pubblica informata, consapevole e indipendente, pronta a considerare criticamente un documento, l’autorità della tradizione o la validità di un enunciato; e a contrastare attivamente, con immaginazione e tenacia, corruzione, nepotismo o (poniamo) cicli recessivi. Di più: l’incontro con l’opera d’arte avvince e spinge a accogliere la complessità come sfida ludica e rituale. Educa al rifiuto del luogo comune, e propaga il gusto per l’osservazione acuta e penetrante. È importante che questo accada, in un paese in cui, sin dai più teneri anni, l’apprendimento non è vissuto dai più come gioco; e dove l’eco ubiquitaria del discorso politico consolida in ciascuno abitudini al ragionamento prudente e conformista.

La tradizione modernista italiana rifugge eccessi di spettacolarizzazione, divismo e gossip. E’ convinzione di Brandi, ad esempio, che “l’artista abbia responsabilità storiche e sociali non diverse da quelle di qualsiasi altro uomo”; e Longhi è pronto, nell’immediato dopoguerra, a elogiare l’attitudine schiva di Morandi, il suo rifiuto dell’istrionico e del “capaneico”. Dobbiamo essere esigenti quanto a arte e cultura: sono davvero importanti, in chiave civile, solo se producono conoscenze situate, o in altre parole competenza autobiografica e cittadinanza. Una politica culturale pubblica è chiamata a potenziare i compiti di agency, cioè di “pieno sviluppo della persona”; e a rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale” richiamati dall’articolo 3 della Costituzione. Stabiliamo un primo punto, che può sembrare paradossale: l’istituzione pubblica (o pubblico-privata) di cui parliamo, il museo appunto, esiste in primo luogo per i cittadini: né per gli artisti o gli sponsor né tantomeno per i politici che intendano fregiarsi del ruolo di protettori delle arti. È chiamata a conferire sostanza culturale specifica a istanze generali di equità, trasparenza, redistribuzione di opportunità. Avete presente il piccolo o la piccola seduti in ultima fila nel banco di scuola, nati da famiglie di umile origine? Bene: abbiamo una disperata necessità che il loro talento non vada disperso e dispieghi invece nel tempo risorse di attenzione e combattività.
Con opprimente scarsità di lessico, cognizione specifica e immaginazione gli economisti della cultura invocano da anni (o piuttosto intimano) strategie di rilancio del “capitale umano”. La locuzione non ci appassiona: come che sia, è evidente che proprio la disseminazione di offerta culturale innovativa, se associata a ampi, durevoli e qualificati processi educativi, può aiutare a trasformare tratti antropologico-culturali ritenuti svantaggiosi (ad esempio la “scarsa propensione al rischio” avversata nelle retoriche pro-startup). Ma non dovremmo restringere il punto di vista alla sfera economica, concentrandoci su “indotto” e impresa. Esistono innovazioni (sociali e istituzionali) che combattono esclusione o privilegio: meritano la nostra più grande attenzione anche se non contribuiscono direttamente alla crescita del PIL. L’offensiva neoliberista contro i saperi umanistici e la tradizione delle arti “liberali” impone a artisti, critici, curatori di ridefinire il museo sotto profili di resistenza culturale, in termini di etica del dono; e di sostituire alla dispendiosa ricerca del “grande evento” virtuose routine di restituzione.
[Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto]
Sulla strada
C’è qualcosa di sbalorditivo nella capacità di Francesco De Gregori a mantenere così alto il livello di ispirazione. Paragonato a più o meno buoni lavori recenti di suoi colleghi (Fossati, Battiato, Guccini), “Sulla strada” si posiziona varie spanne sopra. Come qualità, necessità compositiva, intensità poetica, calore, gioiosità. Nove canzoni senza cedimenti. Sebbene De Gregori e il suo produttore – lo storico “capobanda” Guido Guglielminetti – tendano a negarlo, ancora una volta un album del principe della canzone italiana induce un parallelo con Bob Dylan. Non diretto e immediato, stavolta, ma più articolato. Per “Tempest” s’è detto che si tratta di uno dei migliori lavori di Dylan di sempre, inaspettatamente; lo stesso si può affermare per “Sulla strada”, che si pone come uno dei dischi più riusciti del cantautore romano. Al pari di Dylan, De Gregori sembra aver più che mai interiorizzato le musiche antiche della propria tradizione. Musiche diverse da quelle dylaniane, patrimoni rispettivi; quindi il parallelo in questa occasione non è per somiglianza, ma per analogia. Le melodie di serena malinconia, che solcano gli orizzonti di “Sulla strada” come arcobaleni, attingono ai motivi dei padri, alla canzone mediterranea d’ante e immediato dopo-guerra. Almeno quattro canzoni dell’ultimo disco di De Gregori sono in grado di commuoverci (e non che le altre siano da meno). Vi pare poco, per un artista che festeggia i quarant’anni di attività discografica? Vietato tirare i remi in barca.
In mezzo alle altre canzoni, tra le quali una ballata notturna, felina, in chiusura di disco (“Falso movimento”) e un capolavoro romantico come “Showtime”, De Gregori continua quel meta-repertorio dedicato alla riflessione sul mestiere del cantante, regalandoci un tassello prezioso per chi studia il rapporto tra arte e vita. La canzone è “Guarda che non sono io”. Non è un impressionistico susseguirsi di metafore, come era “Per brevità chiamato artista”; piuttosto un approccio metodologico, definitivo. Sopra uno struggente accompagnamento di pianoforte e archi a cura di Nicola Piovani, cosa ci dice De Gregori in “Guarda che non sono io”? Che l’uomo e il cantante sono come due gemelli: si somigliano magari, ma sono due entità del tutto differenti, che non si conoscono, come un Giano Bifronte. E se tu, fan, incontri l’artista per strada in un giorno qualunque (naturalmente un giorno di pioggia) e volessi chiedergli qualcosa di, poniamo, “Pezzi di vetro”, e confidargli quanto sia stata importante per te, lui ti risponderebbe più o meno: “Guarda che chi canta quella canzone è De Gregori, io sono Francesco e sto semplicemente facendo la spesa, io e lui siamo due persone diverse, non perdere tempo con me, non è con me che devi parlare”. L’unica maniera per comunicare è quella di fruire delle sue canzoni, andare ai suoi concerti (nei quali il cantautore blandisce gli spettatori chiedendo loro retoricamente: “Come faccio a non volervi bene?”), goderne e applaudirlo. Non c’è altra via. L’autore di “Alice” e “Bellamore” è una cosa, la persona che vive la sua vita, tutta un’altra. La querelle, del resto molto stucchevole, su quanto vi sia di autobiografico nel lavoro di un artista, qui rimane alquanto indietro: non è questione di autobiografia, in questo caso si registra una vera e propria scissione. Molta distanza con la coincidenza tra arte e vita di un Guccini, per esempio, uno che ha messo in musica se stesso senza schermi. Quando canta in prima persona Guccini, è proprio lui, “io, Francesco Guccini”. De Gregori, al contrario, anche se usa la prima persona singolare, non parla (necessariamente) di sé. Anche se, paradossalmente, un’eccezione è rappresentata proprio dalla canzone in cui viene negata ogni corrispondenza tra cantante e persona, appunto “Guarda che non sono io”: qui, infatti, De Gregori sta parlando di sé. È singolare l’ossimoro che mette in scena “Guarda che non sono io”, il duello tra parole e musica: da una parte un accompagnamento orchestrale avvolgente e caldo, drammaticamente partecipe; dall’altra dichiarazioni quasi ciniche, o in ogni caso distanti, fortemente non inclusive, che stabiliscono l’impossibilità di avvicinamento umano tra chi canta e i suoi ammiratori, quelli che da quattro decenni vedono la propria vita intrisa della sua musica.
“Passo d’uomo” esprime un altro punto di vista forte del disco: “Vivo la mia vita a passo d’uomo, altra misura non conosco”, canta De Gregori. Manifesto dell’andare a piedi “sulla strada”, senza aver fretta di bruciare le tappe e di essere alla moda: “non c’è niente da nascondere, niente da salvare“. Illo tempore non c’era “niente da capire”. Frattanto il generale di tanto tempo fa oggi è un sergente sgangherato, nel rebetiko “Belle Epoque”, un affresco à la Leonard Cohen su un’epoca di mezzo (“fischia il sasso, fischia il vento, sta arrivando il Novecento”); oppure è il soldatino di un altro brano-chiave del disco, “La guerra”, una sceneggiatura che serve a riaffermare, dopo un secolo infinitamente bellico, che alla fine della guerra scoppierà la pace, ci sarà sempre una vedova disponibile a riaccogliere un uomo nuovo; e un reduce sfiorato dalla morte pronto a farsi aprire la porta. Ricomincia la vita, ricomincia l’amore.
Una delle canzoni più belle del disco è “Omero al Cantagiro”, che trasferisce gli aedi del passato classico dentro ai concorsi canori del secondo Novecento, con una di quelle melodie che ci ricordano i nostri nonni, da cantare senza sapere per forza le parole. Puro piacere della musica, un godimento che sa essere insieme disinteressato e necessario. De Gregori è capace di intenerirci persino quando usa espressioni comuni e fin troppo aduse come “volo a basso costo”, o quando descrive i preparativi di viaggio della “Ragazza del ‘95”, che “rimette a posto il cellulare”: lo sa fare con una grazia che è soltanto sua, in un brano di sapore caraibico dedicato alla rosa che sboccia, alla curiosità incontaminata, alla vita che preme e si affaccia. Anche lei è “sulla strada”, la ragazza del ’95: lo è su un “volo a basso costo”. È in cammino, pronta a farsi sorprendere dal domani, fiuta e brama i giorni, le pagine aperte sul futuro con leggerezza e voglia di scoperta.
(ascolta Guarda che non sono io )
Lucrezio – De rerum natura I, 62-101
traduzione isometra di Daniele Ventre
Humana ante oculos foede cum uita iaceret in terris oppressa graui sub religione, quae caput a coeli regionibus ostendebat terribili super aspectu mortalibus instans, primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra, quem nec fama deum nec fulmina, nec minitanti murmure compressit coelum, sed eo magis acrem inritat animi uirtutem, effringere ut arta naturae primum portarum claustra cupiret. Ergo uiuida uis animi peruicit et extra processit longe flammantia moenia mundi, unde refert nobis uictor quid possit oriri, quid nequeat finita potestas denique cuique quanam sit ratione atque alte terminus haerens. Quare religio, pedibus subiecta, uicissim obteritur, nos exaequat uictoria coelo.ONE BUT UNEQUAL
Alcune considerazioni a partire da La letteratura nell’età globale di Giuliana Benvenuti e Remo Ceserani. 
di Lucia Quaquarelli
In apertura del recente e utilissimo saggio di Benvenuti e Ceserani leggiamo: «In questo libro ricostruiamo il lungo dibattito, iniziato nel Settecento, alle soglie della modernità, sulla possibile dimensione mondiale della letteratura: un dibattito che è ripreso con grande vigore negli ultimi decenni» (p. 7, corsivo mio). Dichiarazione d’intenti e promessa (ampiamente mantenuta), che ha il merito di presentare da subito la riflessione sulla letteratura mondiale in termini di «dimensione», ovvero di ordine di grandezza, di scala. Di scala di progettazione, produzione e diffusione certo, ma soprattutto (e pertanto) di scala di osservazione e analisi.
Siamo cioè tutti più o meno d’accordo nell’ammettere che quando si parla di «letteratura mondiale», oggi, non si intende un oggetto, un corpus o un campo di studio specifico («Salve, io mi occupo di letteratura mondiale, e lei?»), bensì l’elaborazione di una prospettiva di analisi letteraria che metta in conto l’impatto che le recenti trasformazioni « mondializzanti » del mondo (globalizzazione, mondializzazione dell’informazione, flussi migratori, compressioni spazio-temporali, informatizzazione e virtualizzazione dell’esperienza…) hanno avuto sulle lettere e che preveda pertanto il superamento della dimensione strettamente nazionale delle discipline letterarie. Ma non solo.
L’opportunità (l’esigenza, la necessità) di allargare a scala mondiale il campo di osservazione dei fenomeni letterari presuppone anche che si esca, per dirla con Said, dal «labirinto della testualità» (dove testualità si oppone anzitutto a storicità), ci si posizioni nel tempo e nello spazio e si rifletta, inoltre, sulle dinamiche di produzione, traduzione e circolazione dei testi letterari nel mondo, ovvero sulle relazioni (mutevoli nel tempo e nello spazio) tra centri, periferie e semiperiferie della produzione letteraria, insomma sui rapporti di forza entro i quali anche la letteratura viene prodotta e letta. Significa poi provincializzare l’Europa – il che mi pare in generale una buona cosa – e significa anche, spesso, resuscitare l’autore dalle sue ceneri, poiché, alla stregua di opere e lettori, anche gli autori, scrive sempre Said «appartengono in modo specifico a, e si articolano a partire da, circostanze locali».
La letteratura, insomma, dovrebbe essere considerata, leggiamo a pagina 74 del saggio di Benvenuti e Ceserani, come «una forma di globalità incentrata su attori localizzati facenti parti di reti transfrontaliere». Questa definizione, però, per quanto utile ed essenziale, apre su alcune questioni, talune spinose. Cerco di formularne una, che mi sta particolarmente a cuore.
Lo studio della letteratura su «scala mondiale» richiede allo studioso una capriola: mondializzare (universalizzare) la nozione di letteratura (perché si possa comparare il comparabile) per poi situarla. Voglio dire, per quanto l’approssimazione del distant reading faccia problema e per quanto ancora permanga il dubbio sulla nostra capacità di condurre uno studio della letteratura non compromesso con rapporti di forza postcoloniali, il rischio più grande che corre chi tenta di uscire dall’angustia della dimensione nazionale è quello di presupporre che la letteratura sia una nozione condivisa ai quattro angoli del mondo. Meglio, e per dirla tutta, di presupporre che la nostra nozione di letteratura valga anche per il resto del mondo.
Odissea X 28-79
trad. in esametri di Daniele Ventre
Per nove giorni continui viaggiammo, di notte e di giorno,
e finalmente nel decimo apparvero l’aie paterne,
giunti ormai presso, vedemmo degli uomini accendere fuochi.
Sonno soave su me sopraggiunse, tanto ero stanco;
sempre un timone di nave reggevo, né ad altri compagni
mai lo lasciai, perché presto toccassimo terra di padri;
Non la rivoluzione, ma forse qualcosa di rivoluzionario…
di Andrea Inglese
Non so se in questa campagna Bersani, Vendola o addirittura Ingroia abbiano detto qualcosa di sinistra. Mi sono reso conto, però, anche se tardi, che Grillo ha fatto qualcosa di rivoluzionario. Ognuno ha il suo dio delle giustificazioni, in ogni caso il 2,2% di Ingroia la dice lunga sulla stagione della politica fatta dai magistrati, e la dice lunga anche su quel che resta di Rifondazione Comunista e sulla sua attuale capacità di aggregazione dei movimenti.
Voci dall’oltrepolitica
http://www.youtube.com/watch?v=MXYK7VT6Umk
(Michele Monina ha pubblicato oggi, su El Pais, un articolo che qui ripropongo nella versione italiana. Un grazie all’autore. G.B.)
di Michele Monina
Alla fine l’ondata nuova, il tanto temuto (da alcuni) Tsunami ha travolto la politica italiana. O meglio, come uno tsunami che si rispetti, ha cominciato a travolgerla, e nelle prossime settimane, finirà di compiere la sua implacabile opera. Se questa tornata elettorale ha detto qualcosa di concreto è la vittoria del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E già il chiamarlo così, il movimento di Beppe Grillo, suona decisamente ingeneroso nei confronti dei tanti, tantissimi attivisti che lo animano, e dei milioni di elettori che hanno deciso di dare un segnale molto deciso alla classe politica italiana.
In realtà, questa tornata elettorale di cose ne ha dette anche altre, altrettanto decise. Ha detto che la nostra classe politica, invece di cogliere segnali di malcontento tanto evidenti, non ha saputo fare di meglio che dar vita a quella che verrà ricordata come la più brutta campagna elettorale dalla nascita della Repubblica. Una campagna elettorale che non si è svolta tra la gente, fisicamente, ma in televisione, e dove i programmi elettorali sono stati sostituiti dagli insulti, o da trovate di marketing al limite dell’imbarazzo. Bersani che imita il suo imitatore, finendo per parlare più che altro di giaguari da smacchiare, Monti che si ritrova a bere birra e accarezzare cuccioli di cane in televisione per sembrare più umano di quanto non sia, Berlusconi che gioca l’ultima carta da imbonitore, smentito dal Governo Svizzero rispetto alla possibilità di un accordo che avrebbe dovuto coprire la restituzione dell’Imu, Giannino che, da noto notista economico, si scopre ciarlatano cum laude, e nel mentre, loro, i cosiddetti grillini lì, a riempire le piazze, a muoversi, atti a cambiare le cose. Che il MoVimento 5 Stelle non fosse una sciocchezza, ma la vera incarnazione italiana di una voglia di cambiamento, loro, i partiti tradizionali, l’hanno capito alla fine, troppo tardi, e l’ultimo giorno di campagna elettorale ne è la prova provata. Bersani a parlare a qualche centinaio di militanti in teatro, Berlusconi colpito da improvvisa e salvifica congiuntivite e loro, con Grillo, a riempire la roccaforte della sinistra e dei sindacati, Piazza San Giovanni a Roma.
Parlare di Rivoluzione, in Italia, è sempre difficile. Non ne abbiamo mai fatte, noi, di rivoluzioni. E quando qualcuno ha protestato, levato la testa, è sempre stato per mimesi con le altre nazioni europei, mai per spinta interna. Anche recentemente, niente Indignados, qui, niente Occupy. Stavolta sembra che qualcosa possa essere cambiata.
Preso atto che un quarto degli italiani aventi diritto di voto non ha esercitato questa funzione, grande segno di scontento, quel quarto dei votanti che ha scelto questa nuova forza politica, partita dal basso, autofinanziatasi e libera da parentele e coalizioni, è il vero dato importante, anche più del ritorno, fatuo, del Cavaliere. Con questi numeri anche solo pensare a un voto di protesta è ingenuo quanto supponente.
Chi oggi dichiara di aver vinto, che sia il Pd, alla Camera, o il PDL al Senato, sa in realtà di aver racimolato molti meno voti che in precedenza. Per quel che riguarda Monti, beh, è scomparso all’orizzonte, probabilmente con il suo nuovo amico, il cane Empatia. Hanno perso tutti quanti. Chi era inseguito e chi inseguiva.
Chi dice il contrario mente, sapendo di mentire.
Chiaro, ora potrebbe regnare il caos, ma tant’è, sono inconvenienti di una fase di transizione. Probabilmente si dovrà tornare a votare entro l’anno, ma, si spera, con facce diverse da quelle che ci hanno accompagnato negli ultimi vent’anni. Da uomo di sinistra, poi, mi auguro che da questa parte si smetta di guardare con supponenza e superiorità un movimento che quantomeno ha regalato un’idea di futuro una generazione fantasma. Basta parlare di populismo, citare Gramsci a sproposito per dimostrare che Grillo è il nuovo Mussolini. Siamo nel 2013 e certi paragoni offendono il presente e anche la memoria.
La sinistra torni a guardare alle piazze, invece che ai palazzi e ai giaguari. Berlusconi, invece, è auspicabile cominci a godersi la sua vecchiaia. Noi, sicuramente, ce la godremmo fino in fondo.
Una poesia per la crudele maggioranza
di Jerome Rothenberg
Emerge la crudele maggioranza!
Ave alla crudele maggioranza!
Puniranno i poveri perché sono poveri.
Puniranno i morti perché non sono più.
Niente volge la notte in alba
per la crudele maggioranza.
Niente lascia che senta il terrore o la fame.
Facesse giumella delle mani, la crudele maggioranza, sulle orecchie,
la avvolgerebbe il mare.
Il mare la aiuterebbe a scordare i suoi figli perversi.
A intessere ninna nanne per i giovani ed i vecchi.
(Ecco la crudele maggioranza con la mani sulle orecchie,
un piede è nell’acqua, l’altro piede è tra le nuvole.)
Un uomo dei suoi è grosso, abbastanza da tenere una nuvola
tra il pollice e il medio,
da spremerne una goccia di sudore prima di dormire.
Un piccolo dio, ma non un poeta.
(Guarda come oscilla il suo corpo.)
La crudele maggioranza ama le folle e i pic-nic.
La crudele maggioranza riempie di bandierine i parchi pubblici.
La crudele maggioranza festeggia i compleanni.
Ave alla crudele maggioranza, dunque!
La crudele maggioranza piange per i suoi bambini non nati,
piange per i bambini che non aspetterà.
La crudele maggioranza è sconvolta dal dolore.
(Perchè allora la crudele maggioranza ride tutto il tempo?
È perché la notte ha ricoperto le mura delle città?
O perché i poveri se ne stanno da una parte al buio?
O i mutilati non mostrano le piaghe?)
Oggi la crudele maggioranza vota per allargare il buio.
Votano perché le ombre prendano il posto degli stagni
Perché diventi vera qualunque cosa vogliano votare.
I monti corrono a nascondersi come agnelli per la crudele maggioranza.
Ave alla crudele maggioranza!
Ave! Ave! Alla crudele maggioranza!
I monti corrono come gli agnelli, colline scappano come montoni.
La crudele maggioranza lacera la terra per la crudele maggioranza.
Quindi la crudele maggioranza si dispone in riga per essere sepolta.
Coloro che amano la morte l’ameranno, la crudele maggioranza.
Coloro che conoscono se stessi conosceranno la paura
che prova la crudele maggioranza quando guarda nello specchio.
La crudele maggioranza ordina ai poveri di restare poveri.
Ordina al sole di brillare solo nei giorni di lavoro.
Il dio della crudele maggioranza pende giù da un albero.
La voce del suo dio è l’albero che urla mentre piega.
La voce dell’albero è veloce come un lampo quando frusta il cielo.
(Se la crudele maggioranza si addormenta tra le sue stesse ombre,
troverà letti pieni di vetro.)
Ave al dio della crudele maggioranza!
Ave agli occhi nella testa del dio urlante!
Ave alla sua faccia nello specchio!
Ave alle facce che gli flottano d’intorno!
Ave al loro sangue e al suo!
Ave al sangue dei poveri, ne hanno bisogno e nutrimento!
Ave al loro mondo e al loro dio!
Ave e addio!
Ave e addio!
Ave e addio!
*
[L’originale è all’indirizzo http://www.poetryfoundation.org/poem/180417]
video arte #18 – christian marclay
http://www.youtube.com/watch?v=yH5HTPjPvyE&feature=related
Christian Marclay, Telephones, 1995.
Politica e filosofia
di Antonio Sparzani

Platone (Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C) aveva 24 anni quando Atene venne definitivamente sconfitta dagli Spartani nella guerra del Peloponneso, e quando il generale spartano Lisandro impose ad Atene il regime terroristico dei trenta tiranni. Regime che non durò che otto mesi, ma che fu sufficiente a produrre ulteriori lacerazioni nel tessuto, già dilaniato dalla lunga guerra, della società ateniese.
Col nome di Platone ci sono pervenute un certo numero di lettere, la maggior parte delle quali viene oggi ritenuta apocrifa. La settima è delle poche che si ritiene possa essere autentica. Ne riporto qui uno stralcio
Giambo
* di Daniele Ventre*
La nostra agenda delle idee: partecipa!
Lavoro a mezzogiorno e calo drastico
di tasse casse erbatici e pontatici
che non le confermò nemmeno Rotari
con quel suo editto -ne parliamo al Rotary:
sì quello di Ginevra esclusivissimo
che cambia sede, il club del gruppo Bilderberg:
vedrete a mezzogiorno il calo drastico
di zuccheri -così per fame schiantano
e alleggeriamo il welfare State d’un subito.
Supporteremo l’export e gli introiti
con l’export bank di Goldman Sachs e all’estero
proventi e investimenti andranno a crescere
-all’estero ma non da noi -capitemi,
non siate schizzinosi, andiamo, giovani,
la crisi la dovremo pur risolvere
per il buon uomo che ha investito e specula.
La nostra agenda delle idee: partecipa!
E avremo la speciale linea credito
del sud: vedrete come avremo credito
-l’avremo noi, non certo voi, quel credito:
l’Italia mica la si salva a credito!
E avremo pure la cabina apposita
per la regia che salva imprese e cavoli
e pomodori -i giovani li colgono,
lavoro stagionale, impieghi a cottimo:
non siate schizzinosi, andiamo, giovani:
per le ragazze i caporali avanzano:
per te, ragazzo, sì, per te s’escogita
la nostra agenda delle idee: partecipa!
E per le imprese che nel sud si strozzano
di credit crunch e nel big crunch implodono,
per voi, amici, è il nostro fondo italico
di investimento, con la private equity
di tutto vi priviamo noi con equity.
Felice te, che lieto e gonzo seguiti
la nostra agenda e in tanta idea partecipi!
E il mezzogiorno sale, ma non salano
di mezzogiorno i pasti a Roma e in Ellade
e i Greci d’occidente ormai s’affamano
con quelli in madrepatria e non s’infiammano,
ché in quest’agenda delle idee s’impegnano
e nel pareggio di bilancio affogano
con la costituzione democratica.
E l’opportuno fondo per i giovani
vi seguirà fin dalle medie, piccoli,
così vi cresceremo schiavi giovani
per guerre e per aziende combustibile
umano d’affamati inesauribile
e tutti i bimbi avranno il loro debito
coi prestiti d’onore giusta il reddito
dall’anno zero fino al diciottesimo:
però non siate schizzinosi, giovani:
gli schizzinosi a tanta idea non seguono.
La nostra agenda per le idee: partecipa!
Per il turismo l’ordine strategico
prevede tanti viaggi nel Nord Africa
Malì, Nigeria, Libia, Egitto, Tunisi
per navi per aerei e sommergibili
per missili se è il caso: quando muoiono
non sono certo schizzinosi i giovani
e il Welfare State si fa leggero subito.
E avrete scuole, voi in Campania, e i siculi
la bella antenna scudo per le atomiche.
La nostra agenda per le idee: credeteci!
Così vi cresceremo, dolci pargoli,
soldati e schiavi, paglia per un attimo.
_________________
* Pubblicato, come ultimo di una serie di otto, qui:
35 €
Trentacinque euro
di
Attilio del Giudice
Ho 36 anni, mi chiamo Felice, come quella fidanzata di Kafka, con la quale finì tutto a carte quarantotto. Mia madre dovette decidere da sola, perché mio padre la lasciò prima che nascessi io.
Mio padre era un cacciatore all’antica e le cartucce se le fabbricava da solo. Infatti disse: ”Vado da Nando – il suo fornitore per le cose venatorie – a comprare un po’ di polvere. E non si vide più. Sembra una barzelletta, ma i fatti andarono proprio così.
Non credo che, nell’incombenza di darmi un nome, volesse ricordare la signorina Bauer, lei, mia madre, scolasticamente, s’era fermata alla quarta elementare. Devo pensare che volesse augurarmi piuttosto una vita felice, tutto qua. In realtà mi ha messo in grande imbarazzo un’infinità di volte, non solo perché questo nome, dalle nostre parti, viene dato quasi esclusivamente ai maschietti, ma anche per circostanze più sostanziali, che mettevano in crisi ora l’identità, ora la mia attitudine a non credere, come una babbea, a una generica felicità, piovutami dal cielo chissà come. Per esempio, è spesso capitato che mi chiedessero chi fossi e io, sconsideratamente, rispondevo: “sono Felice” innescando una serie di equivoci, che non sempre si potevano chiarire subito e, talvolta, con interlocutori a basso quoziente intellettuale, ci voleva la manodidio per far capire che quello ero il mio nome di battesimo e non uno stato di grazia, che, comunque, sarebbe stato una condizione dello spirito mia personale e che non ero obbligata a dichiarare.
Per la verità, anche volendo dichiarare una condizione dello spirito di quella natura (la felicità, appunto), avrei dovuto ricorrere alla mia più naturale tendenza, cioè alla capacità di mentire, clamorosamente. Però non la voglio portare per le lunghe: la felicità non esiste, così dicono tutti e, al massimo, si parla di serenità, di tranquillità, insomma surrogati, tanto per non fare la figura dei piagnoni a oltranza. Va bene, non esiste e siamo tutti nella stessa barca di Caronte, ma io qualche dubbio lo tengo, almeno sulla gradualità dell’infelicità. Per esempio: se non avessi perduto Viviana, mia figlia, all’età di due anni, se Marcello non mi avesse detto: “Ti voglio bene, credimi! ma non ti amo. La nostra spinta sessuale si è ridotta al lumicino ed è meglio per entrambi tagliare la testa al toro e separarci (il toro, praticamente ero io, infatti, in dieci anni, l’ho visto due o tre volte e gli alimenti nemmeno due o tre volte, nonostante le ingiunzioni, l’avvocato, eccetera eccetera). Oppure, sempre per esempio, se mia madre, sul letto di morte, non avesse detto: “ Tu, per me, per la mia vita, sei stata come un cancro”. Poi, dopo un po’, disse che aveva scherzato. Scherzato? Ma si può scherzare così, mentre stai per morire? No, forse la felicità non esiste, ma l’infelicità esiste e come! Ed è assai differenziata tra le persone.
Un’altra cosa: io credo di essere oggettivamente sfortunata, ma non lo voglio sentir dire, mi fa andare su tutte le furie quando qualcuno dice: “poverina, Felice, non hai fortuna”.
Mi offende la considerazione pietistica, anche perché la considero generalmente falsa e ipocrita e so che, sotto sotto, c’è il pensiero di riserva dell’interlocutore, vale a dire: si, sei sfortunata. Ma ognuno è artefice della propria fortuna; quindi io non sarei artefice, anzi sono inderogabilmente una grande artefice della mia personale sfortuna. Naturalmente sarei una stupida, arrogante e fanatica narcisista, se attribuissi solo alla Suerte l’infittirsi dei problemi nella mia esistenza quotidiana (una serie, che manco me ne tiene di elencare), mentre, se non ci fosse stata la malasorte, sarei stata, invece, splendida padrona del campo. No! Molti errori sono stati miei, ne sono decisamente responsabile, questo lo devo ammettere e non hanno quasi mai giustificazioni plausibili. Naturalmente il discorso delle giustificazioni è privato e non ne devo dar conto a nessuno, anche perché i miei errori non hanno arrecato danni né a uomini, né ad animali, a parte un quattro o cinque uccisioni e relativi spennamenti di galline, quando ero ragazza ed ero ospite nella masseria di zio Sergio e mi comandavano di preparare il pranzo. Peraltro, anche adesso, non so dire se questa mia disponibilità a fare il lavoro sporco con il pollame, fosse autenticamente un errore e non una necessità culinaria.
Prendo 450 euro al mese da un istituto magistrale privato, dove insegno Storia dell’Arte e Scienze Umane (Pedagogia e Psicologia). Un abbinamento inconsueto nelle scuole pubbliche, ma l’istituto dove insegno io è uno di quelli in cui certe pignolerie non vengono contemplate e i ragazzi, piuttosto attempatelli, fanno tre anni in uno. L’importante è che le famiglie sgancino un bel po’ di grana, se vogliono arrivare al dunque (al famoso pezzo di cara), datosi che si tratta di persuadere serissime commissioni esterne di docenti integerrimi e poco corruttibili. Almeno così dice il capo, ed è come se dicesse: “ragazze serissime poco incinte…”Mai, almeno una volta, che il boss, dottor Catapane (si ignora il tipo di laurea conseguita, e si sospetta sia un titolo attribuito arbitrariamente dai guardiani di automobili “Venga avanti, dotto’”) esclamasse, anche solo in camera caritatis, non: “poco corruttibili”, ma corruttibili con poco. L’inconfondibile profumo della verità avrebbe inondato l’intero caseggiato, mentre, fatalmente, permane un fetore insopportabile e non solo morale e metaforico. Infatti Orsola Gazzillo, preposta alla pulizia dell’intero edificio, cessi compresi, si può permettere il lusso di non fare una minchia, compensando l’inefficienza dei servizi con l’antica arte dello spionaggio e non risparmiandosi per qualche prestazione sessuale (servizi, per la verità, antichissimi anche questi) richiesta dal boss, nonché gestore, direttore didattico e, naturalmente, direttore amministrativo, richiesta inoltrata, fino a circa un mese fa, perché, negli ultimi giorni, le esigenze erotiche del suddetto pare si siano orientate verso un’allieva, piuttosto in carne, ma, ovviamente, più fresca della Gazzillo, nelle forme e nei contenuti. Fermo restante il gradimento delle attività di spionaggio, che Orsola mantiene sempre intense ed efficaci per il suo tornaconto.
Mandarli a cagare, ovviamente, non è possibile per evidenti ragioni di sostentamento, ma l’esperienza umana e professionale sembra votata al vomito quotidiano, soprattutto perché, tra noi insegnanti, cinque femmine e un prete, vige il coprifuoco e nessuno, anch’io naturalmente, ha il coraggio di uscire allo scoperto e denunciare lo stato delle cose, cioè a dire che nessun docente, in nessuna, anche stronzissima, materia di sudi, può portare avanti, per un alunnato non brillante, anzi, diciamolo francamente, per delle incredibili teste di cazzo, in otto mesi, un programma di tre anni e mettere definitivamente fuori uso una laurea (110 e lode) e quel minimo di dignità, che qualsiasi persona dovrebbe mantenere e proteggere. Niente, non se ne fa niente, si va avanti così, giorno dopo giorno, tristemente, aspettando Godot, con la strizza nel culo di perdere pure questo posticino, visto che l’aver superato l’esame di abilitazione non è stato sufficiente per lo Stato Italiano a farmi avere un lavoro normale nella pubblica istruzione.
Per raggiungere questa scuola, devo prendere una corriera alle sei del mattino. Non sono distanze strepitose (meno di trenta chilometri), ma devo calcolare almeno un’ora e mezza, perché ‘sta corriera, prima di arrivare alla mia meta, raccoglie gente in tre paesini e si ferma anche per la strada per far salire qualche altro disgraziato utente che aspetta e spera.
Ieri faceva un freddo boia, soprattutto un vento sferzante di tramontana mi entrava nelle ossa, benché fossi tutta imbacuccata e avessi messo perfino un giornale sotto la maglia per proteggermi il petto. Aspettavo questa benedetta corriera, che tardava come al solito, battendo i piedi e mi prefiguravo il calduccio accogliente che avrei trovato assieme ad inconfondibili odori di formaggi, che certi contadini portavano nelle ceste di vimini, nella prospettiva di un micro-commercio in città. Insomma un’atmosfera calda, rurale, diciamo demodè, a dispetto sia del gelo esterno, sia delle strabilianti conquiste tecnologiche del nuovo secolo. Devo, poi, confessare, a completamento dell’idillio, che avevo buone probabilità di vedere Mirko, uno studente, che mi piace un sacco, dolce, cortese e bello, forse troppo per me.
Io, generalmente, mi rifiuto di sognare il principe azzurro, ma, stavolta, ogni tanto, mi ritrovo con la mente coinvolta in certi languori cretini. Cretinissimi, non c’è dubbio, perché ‘sto Mirko dagli occhi blu, è fidanzatissimo con una, che, tra l’altro, ho conosciuto e che lui mi presentò con evidente orgoglio, purtroppo non campato in aria, infatti la ragazza tiene tutti i numeri, al contrario di me, che,invece, i numeri li do, come diceva mia madre, tanti anni fa, quando la volevo convincere a scrivere una lettera di perdono a mio padre, avendo saputo che gli era venuto un tumore al fegato.
Il giovanotto con me, è sempre educatissimo e galante, senza mai esagerare, e mi conserva il posto sulla corriera vicino a lui e mi ascolta quando parlo e ha sempre parole di incoraggiamento, insomma è un figlio di puttana, che mi vuole fare innamorare per forza e se questo non lo capisce e si comporta così, spontaneamente, perché è nato gentile, io non ho nemmeno la soddisfazione di dire: “ma guarda che stronzo!”
Allora, mentre aspettavo la corriera e battevo i piedi e me ne andavo per la tangente con questi pensieri agrodolci, è arrivato un tale con la bicicletta, uno massiccio sulla cinquantina. Si è avvicinato a piedi, tenendo la bicicletta dal manubrio. Io pensavo che volesse fare qualche considerazione sul tempo, sul gelo, sul vento, invece ha detto.” Tengo solo trentacinque euro, mi faresti un pompino?”
L’istinto è stato quello di urlare, di dargli una borsata in faccia, di ingiuriarlo, ma mi sono trattenuta. Eravamo soli, nell’incerta luce dell’alba, in piazza non si vedeva anima viva, una mia reazione emotiva poteva essere pericolosissima. Così ho pensato di tenerlo a bada con un atteggiamento diverso: “ Mi dispiace, signore, io non sono una prostituta.”
“Allora, non se ne fa niente?” ha detto lui.
“ No, mi dispiace, non se ne fa niente.”
E’ rimontato sulla bicicletta e se n’è andato, pedalando piano, forse per darsi un contegno o perché aveva il vento contrario.
Tremavo di indignazione, ma forse era il freddo. E’ arrivata la corriera. Appena dentro, ho dato uno sguardo panoramico ai passeggeri. Porca vacca! Mirko non c’era.
Mi sono seduta a fianco di una filippina, che fa la serva in città, una che sorride sempre, ma si fa i fatti suoi, e mi sono messa a riflettere: “Che cosa gli ha fatto pensare che fossi una puttana? Certamente non il mio abbigliamento, più adatto a una spedizione artica, che a un generico adescamento stradale; nemmeno un particolare rilievo del lato b (come dicono quelli che hanno paura di dire la parola culo e vantano, per questo, una sorta di estetica del linguaggio), magari valorizzato e messo in mostra mediante gonne aderenti o jeans in pelle, dato che il piumone nero che indossavo, copriva tutto quasi fino ai piedi. Sarà stato lo sguardo? Non lo so. Certo è che mia madre, tanti anni fa, quando, qualche volta, veniva a cena Marino, il figlio di donna Assunta (una lontana parente) che stava facendo il militare a Caserta, diceva: “non lo guardare con quello sguardo da zoccola”.
A tredici anni non disponevo di gran varietà di sguardi e m’ero fatta l’idea che, se anche le tette tardavano a farsi rispettabili, io, comunque, avevo un arma formidabile per mettere a tappeto il sesso forte: “ lo sguardo da zoccola”. Poi, col tempo, questa bella illusione svanì, mentre le tette restarono piccole e gentili, ed è noto, che le dimensioni circoscritte sono appetibili solamente da pochi intenditori e collezionisti; tanto è vero che, nonostante ci sia la più grande crisi economica dopo quella del 29, i chirurghi plastici non hanno mai smesso di fare soldi a palate.
Eppure, quella proposta, volgare, indecente e offensiva, attribuibile a un uomo di nessun conto, forse a un malato, mi ha fatto più male di quanto, di primo acchitto, m’era sembrato di dover smaltire. Per tutto il viaggio mi sono tormentata con un interrogativo atroce. “Ma chi sono io, se chiunque può, impunemente, oltraggiarmi? Valgo proprio meno di niente? Posso essere calpestata come un insetto schifoso?” Insomma, esageravo col masochismo, che è una mia specialità. A poco a poco, però, m’è venuto incontro un pensiero più razionale e abbastanza consolatorio: la mia pochezza c’entrava poco, lì, al posto mio, ci poteva stare anche un premio nobel; benché, devo ammettere che difficilmente un premio nobel si potesse trovare in quella piazzetta alle sei del mattino col freddo e col vento. Però dipende, magari chissà…
Si, perché capita sovente che le associazioni libere si sentano libere di condizionarci e non possiamo farci niente. Del resto non è la prima volta che mi accorgo del trucco: la libertà di scelta, kantiana e cristiana, deve essere una presa per i fondelli, una “sola” colossale che ci hanno fatto credere, per darci addosso con le responsabilità. Infatti, senza che potessi decidere di censurarmi ed evitare la mancanza di rispetto, mi è venuto in mente Madre Teresa di Calcutta, premio nobel, appunto. Una che ci poteva pure stare col gelo e col vento lì, in quella piazzetta, presso la fermata della corriera e, naturalmente mi è venuto in mente, nel controcampo, quel signore massiccio con la bicicletta, che le dice: Madre Tere’, tengo trentacinque euro…. Eccetera.
Maledette associazioni libere, andatevene a fare in culo, voi e Karl Gustav Jung!
Lettera aperta alla mia editrice mancata (Une pisseuse de copie)
di Gian Balsamo
Gentile Emilia,
Collaboro da vent’anni con Claudio Maria Messina, che considero degno di figurare nella schiera degli illustri editori italiani del passato: Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori, Garzanti, e Bompiani: settimo tra cotanto senno. Però due anni fa contattai Lei, invece di Messina, a proposito di un mio lungo saggio di contenuto analogo al bestseller recente d’una sua autrice, che chiamerò col nome fantasioso di Fiorenza. Intendevo pubblicare questo libro dietro il solito pseudonimo che uso in Italia, Luigi Ferdinando Dagnese. E così ho fatto nel 2012: Alla ricerca del tempo sprecato è apparso per i tipi di Robin Edizioni, la casa editrice di Messina, dopo che Lei ed io abbiamo preso strade diverse.
Le scrivo una lettera aperta nello spirito dei lettori di queste pagine. I conti con la grande industria editoriale italiana, figlia degenere dei suddetti fondatori, ibernata nella bara di ghiaccio che Dante riservava ai traditori, li fanno tutti i giorni. Ma che dire della schiatta di certi nuovi agenti letterari, nuovi editori, e nuovi, sedicenti maestri di scrittura a pagamento? Non sto parlando di tutti gli editori indipendenti, come dimostra il mio incipit, né di tutti gli editors o curatori d’edizione, perché io stesso appartengo saltuariamente a questa categoria. Parlo di quelli che confondono lo stream o flusso di coscienza con una certa loro funzione escretiva: quanto più fumante è il getto delle parole con cui ci ammaliano, tanto più salata la gabella che richiedono in cambio dei loro inutili servizi.
Lei ricevette il mio scritto il 23 novembre 2010 e si immerse immediatamente nella lettura, concedendosi poche ore di sonno e tempestandomi di email entusiastici; li ricevevo di giorno qui in California, ma a Roma, di dove li scriveva, era notte fonda. Avvezzo a trattare con publishers di tutte le salse, come faccio da trent’anni a questa parte in Italia e soprattutto negli States, i suoi complimenti, tanto generosi quanto repentini, mi stupirono pur senza meravigliarmi, così come mi sembrò generosa ma inevitabile, per un saggio che considero assai originale, la sua dichiarata intenzione di “farne un libro di successo.” La prima nota stonata arrivò il giorno dopo, quando Lei, evidentemente ignara della mia lunga carriera di scrittore italiano e della mia competenza di editor californiano, mi scrisse: “Purtroppo il suo stile risente della lunga permanenza all’estero, anche se le confesso che la qualità della scrittura è di molto superiore al manoscritto [di Fiorenza], a cui ho personalmente lavorato correggendo, sopprimendo e riscrivendo interi passaggi.” So bene quanto il mestiere di editor o curatore d’edizione si associ talora ad una vocazione artistica frustrata, quindi non ho rimostrato contro questa sua osservazione ingiusta nei confronti della mia scrittura. Ma mi ha ferito, diciamo in maniera vicaria, la mancanza di discrezione con cui Lei liquidava la prosa di Fiorenza, l’unica autrice che ha portato fortuna alla sua casa editrice; mi hanno ricordato Bernard Grasset, l’editore del primo volume della Recherche di Proust, il quale confidò imperdonabilmente ad un amico, la vigilia dell’uscita di questo capolavoro, che si trattava di un libro “illeggibile.” Imperdonabili o no, Emilia, trovo che certi sgarbi ai propri autori manchino innanzitutto di professionalità. Sebbene io abbia personalmente contribuito a modificare di sana pianta certi manoscritti eccellenti nel contenuto ma carenti sul piano espositivo, non mi permetterei mai di certe indiscrezioni. Decisi comunque di stare a vedere, anche perché era pur vero che in questo mio nuovo saggio avevo sperimentato un italiano colloquiale e un critero di riferimento bibliografico che erano del tutto nuovi per me; mi si prospettava, magari con il suo aiuto, un lavoro attento di correzione e riformulazione. (Quanto alla punteggiatura all’americana, come vede, sono recidivo.)
Il bello doveva ancora venire. Il 26 novembre Lei reiterò che la mia prosa “soffr[iva] della lunga permanenza all’estero del suo autore, nonché delle sue (immagino numerose) letture in lingua francese.” E a mo’ di esempio dei contributi vitali che Lei avrebbe apportato al mio testo, mi rivelava che avrei potuto sostituite il verbo “apprendere” con la perifrasi “venire a sapere,” o anche con “venire a conoscenza del fatto che.” In questo devo smentirla dandole tre volte ragione. È vero che ai francesi il verbo “apprendre” piace un sacco, ed è anche vero che a qualsiasi verbo corrispondono sempre diverse perifrasi. Ma il verbo “apprendere” è canonico nella lingua italiana. Se lo preferisco alle sue perifrasi, è proprio a causa del motivo che Lei cita, la mia lunga permanenza all’estero. Negli States, il training nell’arte della scrittura non è meno spietato di quello nella danza o nella musica. Ho sofferto e patito per diventare professore di scrittura creativa. E ho imparato a mie spese la regola della parsimonia nell’uso delle parole: un singolo verbo ne vale mille delle sue perifrasi.
Il 15 dicembre, con mia enorme sorpresa, apprendevo—ops, scusi—venivo a conoscenza del fatto che la sua casa editrice aveva già formattato il mio scritto in bozze per la stampa!
Il 22 dicembre ricevevo via email la sua riscrittura delle prima quattro pagine del mio scritto—già inserita nelle bozze al posto del testo originale. È stato quel giorno che ci siamo parlati per la prima volta al telefono. Lei ha fatto in modo che ricevessi il file delle nuove bozze via email immediatamente prima di ricevere la sua telefonata. Mi ha chiesto subito di aprirlo e leggerle il testo della sua riscrittura ad alta voce nella cornetta. Il che ho consentito a fare, per quanto la trovassi bizzarra, come richiesta. Alla fine delle sue quattro pagine, voleva sapere cosa ne pensavo. Quel che avevo appena letto ad alta voce ripeteva in gran parte, effettivamente, i contenuti introduttivi del mio saggio; ma non mi sentivo in grado, così su due piedi, di valutarne i vantaggi e gli svantaggi rispetto all’originale. Lei ci tenne comunque a precisare che avrei dovuto pagare la sua parcella, che quelle sue gemme stilistiche mica potevo ottenerle gratis; e aggiunse che per il momento, per evitarmi l’imbarazzo d’un rifiuto, si era astenuta dal presentare il mio scritto alla casa editrice (la stessa che aveva appena preparato le mie bozze di stampa).
A questo punto della conversazione, avendo io un po’ la vocazione dell’attore, mi sono immedesimato nel suo ruolo, Emilia. Quella dello scampato imbarazzo dev’essere stata la mossa vincente, pregna di tolleranza comprensiva, che le ha permesso di strappare un bel gruzzolo a qualche scrittore esordiente, promettendogli di schermare la sua scrittura stentata dal meritato biasimo—magari dopo essersi cucinata detto esordiente, come aveva fatto con me nei giorni precedenti, al fuoco vivo di una lettura notturna entusiasta e instancabile, di una promessa allettante di farne un autore di successo, e di una repetina trasformazione del frutto delle sue fatiche in bozze pronte per la stampa. Mentre una parte di me faceva questa riflessione e un’altra colloquiava al telefono con Lei, mi sono, per così dire, diviso per tre (proprio come fa la zucca di Satana al fondo dell’inferno, dove sventaglia con ali di ghiaccio la cella frigorifera dei traditori editoriali). Mi sono anche messo a meditare sul fatto che la casa editrice in questione, a cui Lei non si proponeva di presentare il mio scritto che dopo averlo mondato dei difetti deplorevoli della mia scrittura, è stata fondata da Lei stessa. Quella casa editrice è Lei stessa, direi, se mi concede un momento ontologico alla Tommaso d’Aquino. Comunque, non ho condiviso con Lei nessuna delle considerazioni sgorgate in quel momento dalla mia mente tripartita; non perché io sia più satanico di Satana, ma semplicemente in quanto ritengo sempre valido un principio che ho appreso tramite—oh, ecco che ci ricasco! Qui finisce che la irrito! Dicevo: per me resta valido il principio, di cui sono venuto a conoscenza tramite lo studio della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che nessuno è malvagio o stupido prima di venire dimostrato tale. Ho preferito pazientare; come prima cosa, volevo eseguire con calma un confronto minuzioso della sua riscrittura con le mie prime quattro pagine. Il che ho fatto quel giorno stesso e l’indomani.
Le elenco qualche risultato.
Ho trovato interessante la sua scelta di non menzionare nessuno dei nomi degli amici di Proust, come faccio invece io fin dalla prima pagina. Cercava di snellire l’esordio? Siccome più tardi Proust passa dalla infatuazione per i compagni di liceo a quella per le loro mamme, le sarebbe poi toccato menzionare questi ex-compagni di scuola al momento opportuno e senza dare l’impressione di una intromissione indebita nel flusso della narrazione. Se l’era presa un appuntino su questa omissione? Aveva individuato la parte più opportuna del testo per rimediarvi? Qualcosa mi dice che non l’ha fatto. Ho pure trovato originale la sua soppressione dei due dettagli che Proust era imparentato per parte di madre con la borghesia finanziaria ebrea, e che i banchieri ebrei esercitavano una specie di monopolio sulla finanza francese. Se cercava di semplificare l’argomento, direi che c’è riuscita appieno. Anzi, s’è superata: ha espulso dal mio testo parecchie delle informazioni da cui ero partito per scriverlo, estraendone invece alcuni puri frammenti di copy, tanto semplici nel significato quanto sconnessi da tutto il resto. Ma siccome il mio libro tratta principalmente dei rapporti di Proust con l’alta finanza, e della maniera in cui questo rapporto determina i contenuti del suo capolavoro letterario, al momento opportuno le sarebbe toccato reinserire proprio le informazioni appena sacrificate, in modo da riconnettere i frammenti l’uno all’altro. Se l’era presa l’appuntino, stavolta?
Potrei continuare la lista, gentile editrice ratée, ma a qual uopo. Avendo risolto il dilemma costituzionale dello stupido e del malvagio (nessuna con-artist è interamente stupida), le ho inviato una lettera che diceva pressapoco così: “La Sua maniera di scrivere scorre liscia e aderisce bene al tema centrale, meglio di un rullo compressore sull’asfalto; soprattutto, non flirta mai con l’intelligenza del lettore. Non ho dubbio che Lei sia una splendida écrivaine de copie, in quanto vedo bene, dal Suo editing come dal rapporto che ha instaurato con me, che si vieta rigorosamente il lusso di presumere una qualche vivacità mentale in chi La legge o La ascolta.”
Come avrà capito, Emilia, in quella lettera, datata Venerdì 24 Dicembre 2010, non la chiamavo “écrivaine de copie” per farle un complimento. Ma temo le sia sfuggito che alludevo alla designazione lapidaria che intitola la versione francese di un romanzo di Muriel Spark, la stessa designazione che compare nel titolo di questa lettera aperta; ho fatto implicito riferimento a quella designazione poco fa, nel misurare il costo della sua parcella sul metro della termoidraulica delle minzioni. Dunque non sto a ripeterla. Fa pensare a un titolo di rango, non trova?
Mi creda, Sinceramente,
Gian Balsamo
Palo Alto, 17 febbraio 2013
Ipocondria da Ciao
‘l motorin par mi no, mai, costa schei,
intanto xe da comprarlo e sa lì xe schei
e poi asicurasion e manutension
e se se rompe i tochi compra i tochi novi e xe schei
e poi te ga da tignirlo da conto, netarlo, starghe drio,
no te son bon gnanca a starte drio a ti, figurite,
e poi a cos che te serve, no te ga sa i pie par moverte?
‘l Signor te ga fato i pie, usa i pie,
e poi te ga da butarghe dentro roba parchè ‘l vada avanti
miscela, do par sento oio, ‘l resto benzina
a benzina costa schei, te pensi per caso
che i schei vegna su ta l’orto?
mi go visto patate, carote, sevòle, brocoeti,
radisee, ravanei, peveroni, suche, sucheti,
schei mai, go visto pomi, pomidori, limoni, naranse,
biete, coste, costine che a magnarle me vien mal de pansa
go visto anca bissi longhi e curti, s-ciosi, slacài
ma schei, te giuro, ta l’orto, no li go visti mai
e poi mi go paura, me fa impresion
no te senti tute e disgrassie che i dise in teevision?
quante robe brute che te senti, tuto che i copa,
no i fa gnanca più bei film, tute s-ciopetae, quanta reclàme
se te vol vardar ‘na roba te ga da star su do ore in più
par vardar tuto, pora Italia come che te ga ridoto,
co’ te va fora no te son più sicuro, ti col motorin
va a finir che te te fa mal, sa me vedo
te finissi dentro i fossi, dentro i canai
te te spachi i ossi te te russi i senoci
passa ‘na machina te tira soto, sa me vedo,
un pulman, passa un pulman e te tira soto,
un camion, che i core come i mati,
i sorpassa sempre in meso aa strada
i se buta in meso e no i mete mai a frecia
quando che i passa, passa un camion
e sa me imagino, sa me vedo, te tira soto,
un tren, passa un tren, i treni xe veoci,
me fa paura anca i treni, sa me vedo
e sbare no se sbassa ti te passi in motorin
in quel momento ‘riva ‘l tren e bam!
te tira soto, o se no
e sbare le xe so, ti te rivi in motorin
no te te acorsi e bam!
te ciapi a sbara drita in muso e te va in tera
te bati a testa e te mori, o se no
e sbare le xe so, ti te rivi in motorin
te passi soto e sbare, sa me vedo, che ti
sempre premura, sempre, mai ‘spetar un fià,
te passi soto e sbare, te passi i binari e trac!
te se incastra un pedal ta i binari, sa me vedo,
‘l cavaeto, te casca ‘l cavaeto, mi so, no sta mai su,
te casca ‘l cavaeto e se incastra ta i binari,
o se no te sbrissi, che xe sempre piere, pierute
sporchess ta i binari, te ghe meti i pie de sora,
te sbrissi, te va in tera, te bati a testa, te vien ‘l motorin in torno
in quel momento ‘riva ‘l tren e bam!
te tira soto e se te tira soto un tren
te s-ciopi bam!
tuti tochi tochini tocheti te diventi
tuti tochi tochini tocheti e noi altri
tuti tochi tochini tocheti a rincurarli
un par un, no te ga cuor, mi ‘l motorin, te digo,
par mi no, me fa paura, te va a farte mal
meti caso te vien fora un in bicicleta dal stop
che quei in bicicleta no i se ferma mai ai stop
i va via per strada come i singari, dapartuto,
gnanca fussi lori i paroni, gnanca a pagarli oro i se ferma,
meti caso te vien fora un in bicicleta dal stop
te vien intorno, te va par tera e te bati a testa,
anca a zia Gigia ‘na volta iera drio tornar dal mercà
in bicicleta, se ga rebaltà, ga batuo a testa, come niente,
xe tornà a casa, dopo do giorni a xe morta,
o se no anca quei a pie i va in giro no i varda mai
co’ i traversa a strada i xe insiminii,
un te traversa a strada, te ghe va intorno,
te va par tera, te bati a testa, lu ‘l se fa mal
te ghe spachi ‘na gamba, un brasso, deventa un rudinasso
ne toca pagarghe ‘l dotor, l’asicurasion, e so schei
e mi, varda, son stufa, no ghe ne posso più
‘l motorin te te o scordi, se te vol andar in giro
te va a pie, ‘l Signor te ga fato i pie, usa i pie,
te camini, che te fa ben, te ciapi aria, te te vardi intorno,
te va via pian, che chi va pian va san e va lontan
o se no te sta a casa, te lesi un libro, te meti a posto
camera tua che xe un bordel che no te digo
xe da far lavori, svangar ‘l giardin, spacar a legna,
lavar i piatti, stirar, ciapar su co’ l’aspirapolvere
e se te va ben cussì, benon, altrimenti
quea xe la porta e ciao!
Letteratura e lavoro. L’eredità di Paolo Volponi

di Angelo Ferracuti
Il tema del lavoro, il suo immaginario e i suoi conflitti, quella vita della nostra vita che s’innerva nel nostro destino di individui sociali, non ha prodotto nella letteratura italiana, a parte qualche eccezione, grandi capolavori. Noi non abbiamo Tempi difficili di Dickens, Uomini e topi o Furore di John Steinbeck, e neanche La cittadella di Cronin, Martin Eden di Jack London, tanto per citare uno dei suoi titoli, non abbiamo avuto un reporter di grande classe e temperamento come Orwell che in La strada di Wigan Pier va a raccontare i minatori di una contea inglese, li descrive nella condizione di isolamento esistenziale e fatica fisica, e vive nei loro stessi suburbi. Non ci sono stati libri come La condizione operaia di Simon Weil, la filosofa che per capire i lavoratori va come loro ogni mattina a lavorare alla Renault, e annota nei suoi diari quello che vive a ogni turno.
Da “Settesette. Una rivoluzione. La vita”
di Pino Tripodi
Dal capitolo Freak Army. La violenza sulle cose contro la violenza delle cose
Non sono i soggetti che impazziscono. È la realtà che impazzisce. Non mi chiedere perché. Non lo so perché. Dopo il settantasette è la realtà che è impazzita. È certo. E in una realtà impazzita non si può evitare di vivere la follia. Sopravvivere è impazzire. Continuare a fare il savio come pretendi tu è la follia vera. Solo uno già pazzo come te può pensare di rimanere savio. Io ero un freak. Ma un freak comunista. Non lo scordare. Un freak comunista non è un freak e basta. Né un comunista e basta. È un freak comunista.







