traduzione isometra di Daniele Ventre
Humana ante oculos foede cum uita iaceret in terris oppressa graui sub religione, quae caput a coeli regionibus ostendebat terribili super aspectu mortalibus instans, primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra, quem nec fama deum nec fulmina, nec minitanti murmure compressit coelum, sed eo magis acrem inritat animi uirtutem, effringere ut arta naturae primum portarum claustra cupiret. Ergo uiuida uis animi peruicit et extra processit longe flammantia moenia mundi, unde refert nobis uictor quid possit oriri, quid nequeat finita potestas denique cuique quanam sit ratione atque alte terminus haerens. Quare religio, pedibus subiecta, uicissim obteritur, nos exaequat uictoria coelo.ONE BUT UNEQUAL
Alcune considerazioni a partire da La letteratura nell’età globale di Giuliana Benvenuti e Remo Ceserani. 
di Lucia Quaquarelli
In apertura del recente e utilissimo saggio di Benvenuti e Ceserani leggiamo: «In questo libro ricostruiamo il lungo dibattito, iniziato nel Settecento, alle soglie della modernità, sulla possibile dimensione mondiale della letteratura: un dibattito che è ripreso con grande vigore negli ultimi decenni» (p. 7, corsivo mio). Dichiarazione d’intenti e promessa (ampiamente mantenuta), che ha il merito di presentare da subito la riflessione sulla letteratura mondiale in termini di «dimensione», ovvero di ordine di grandezza, di scala. Di scala di progettazione, produzione e diffusione certo, ma soprattutto (e pertanto) di scala di osservazione e analisi.
Siamo cioè tutti più o meno d’accordo nell’ammettere che quando si parla di «letteratura mondiale», oggi, non si intende un oggetto, un corpus o un campo di studio specifico («Salve, io mi occupo di letteratura mondiale, e lei?»), bensì l’elaborazione di una prospettiva di analisi letteraria che metta in conto l’impatto che le recenti trasformazioni « mondializzanti » del mondo (globalizzazione, mondializzazione dell’informazione, flussi migratori, compressioni spazio-temporali, informatizzazione e virtualizzazione dell’esperienza…) hanno avuto sulle lettere e che preveda pertanto il superamento della dimensione strettamente nazionale delle discipline letterarie. Ma non solo.
L’opportunità (l’esigenza, la necessità) di allargare a scala mondiale il campo di osservazione dei fenomeni letterari presuppone anche che si esca, per dirla con Said, dal «labirinto della testualità» (dove testualità si oppone anzitutto a storicità), ci si posizioni nel tempo e nello spazio e si rifletta, inoltre, sulle dinamiche di produzione, traduzione e circolazione dei testi letterari nel mondo, ovvero sulle relazioni (mutevoli nel tempo e nello spazio) tra centri, periferie e semiperiferie della produzione letteraria, insomma sui rapporti di forza entro i quali anche la letteratura viene prodotta e letta. Significa poi provincializzare l’Europa – il che mi pare in generale una buona cosa – e significa anche, spesso, resuscitare l’autore dalle sue ceneri, poiché, alla stregua di opere e lettori, anche gli autori, scrive sempre Said «appartengono in modo specifico a, e si articolano a partire da, circostanze locali».
La letteratura, insomma, dovrebbe essere considerata, leggiamo a pagina 74 del saggio di Benvenuti e Ceserani, come «una forma di globalità incentrata su attori localizzati facenti parti di reti transfrontaliere». Questa definizione, però, per quanto utile ed essenziale, apre su alcune questioni, talune spinose. Cerco di formularne una, che mi sta particolarmente a cuore.
Lo studio della letteratura su «scala mondiale» richiede allo studioso una capriola: mondializzare (universalizzare) la nozione di letteratura (perché si possa comparare il comparabile) per poi situarla. Voglio dire, per quanto l’approssimazione del distant reading faccia problema e per quanto ancora permanga il dubbio sulla nostra capacità di condurre uno studio della letteratura non compromesso con rapporti di forza postcoloniali, il rischio più grande che corre chi tenta di uscire dall’angustia della dimensione nazionale è quello di presupporre che la letteratura sia una nozione condivisa ai quattro angoli del mondo. Meglio, e per dirla tutta, di presupporre che la nostra nozione di letteratura valga anche per il resto del mondo.
Odissea X 28-79
trad. in esametri di Daniele Ventre
Per nove giorni continui viaggiammo, di notte e di giorno,
e finalmente nel decimo apparvero l’aie paterne,
giunti ormai presso, vedemmo degli uomini accendere fuochi.
Sonno soave su me sopraggiunse, tanto ero stanco;
sempre un timone di nave reggevo, né ad altri compagni
mai lo lasciai, perché presto toccassimo terra di padri;
Non la rivoluzione, ma forse qualcosa di rivoluzionario…
di Andrea Inglese
Non so se in questa campagna Bersani, Vendola o addirittura Ingroia abbiano detto qualcosa di sinistra. Mi sono reso conto, però, anche se tardi, che Grillo ha fatto qualcosa di rivoluzionario. Ognuno ha il suo dio delle giustificazioni, in ogni caso il 2,2% di Ingroia la dice lunga sulla stagione della politica fatta dai magistrati, e la dice lunga anche su quel che resta di Rifondazione Comunista e sulla sua attuale capacità di aggregazione dei movimenti.
Voci dall’oltrepolitica
http://www.youtube.com/watch?v=MXYK7VT6Umk
(Michele Monina ha pubblicato oggi, su El Pais, un articolo che qui ripropongo nella versione italiana. Un grazie all’autore. G.B.)
di Michele Monina
Alla fine l’ondata nuova, il tanto temuto (da alcuni) Tsunami ha travolto la politica italiana. O meglio, come uno tsunami che si rispetti, ha cominciato a travolgerla, e nelle prossime settimane, finirà di compiere la sua implacabile opera. Se questa tornata elettorale ha detto qualcosa di concreto è la vittoria del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E già il chiamarlo così, il movimento di Beppe Grillo, suona decisamente ingeneroso nei confronti dei tanti, tantissimi attivisti che lo animano, e dei milioni di elettori che hanno deciso di dare un segnale molto deciso alla classe politica italiana.
In realtà, questa tornata elettorale di cose ne ha dette anche altre, altrettanto decise. Ha detto che la nostra classe politica, invece di cogliere segnali di malcontento tanto evidenti, non ha saputo fare di meglio che dar vita a quella che verrà ricordata come la più brutta campagna elettorale dalla nascita della Repubblica. Una campagna elettorale che non si è svolta tra la gente, fisicamente, ma in televisione, e dove i programmi elettorali sono stati sostituiti dagli insulti, o da trovate di marketing al limite dell’imbarazzo. Bersani che imita il suo imitatore, finendo per parlare più che altro di giaguari da smacchiare, Monti che si ritrova a bere birra e accarezzare cuccioli di cane in televisione per sembrare più umano di quanto non sia, Berlusconi che gioca l’ultima carta da imbonitore, smentito dal Governo Svizzero rispetto alla possibilità di un accordo che avrebbe dovuto coprire la restituzione dell’Imu, Giannino che, da noto notista economico, si scopre ciarlatano cum laude, e nel mentre, loro, i cosiddetti grillini lì, a riempire le piazze, a muoversi, atti a cambiare le cose. Che il MoVimento 5 Stelle non fosse una sciocchezza, ma la vera incarnazione italiana di una voglia di cambiamento, loro, i partiti tradizionali, l’hanno capito alla fine, troppo tardi, e l’ultimo giorno di campagna elettorale ne è la prova provata. Bersani a parlare a qualche centinaio di militanti in teatro, Berlusconi colpito da improvvisa e salvifica congiuntivite e loro, con Grillo, a riempire la roccaforte della sinistra e dei sindacati, Piazza San Giovanni a Roma.
Parlare di Rivoluzione, in Italia, è sempre difficile. Non ne abbiamo mai fatte, noi, di rivoluzioni. E quando qualcuno ha protestato, levato la testa, è sempre stato per mimesi con le altre nazioni europei, mai per spinta interna. Anche recentemente, niente Indignados, qui, niente Occupy. Stavolta sembra che qualcosa possa essere cambiata.
Preso atto che un quarto degli italiani aventi diritto di voto non ha esercitato questa funzione, grande segno di scontento, quel quarto dei votanti che ha scelto questa nuova forza politica, partita dal basso, autofinanziatasi e libera da parentele e coalizioni, è il vero dato importante, anche più del ritorno, fatuo, del Cavaliere. Con questi numeri anche solo pensare a un voto di protesta è ingenuo quanto supponente.
Chi oggi dichiara di aver vinto, che sia il Pd, alla Camera, o il PDL al Senato, sa in realtà di aver racimolato molti meno voti che in precedenza. Per quel che riguarda Monti, beh, è scomparso all’orizzonte, probabilmente con il suo nuovo amico, il cane Empatia. Hanno perso tutti quanti. Chi era inseguito e chi inseguiva.
Chi dice il contrario mente, sapendo di mentire.
Chiaro, ora potrebbe regnare il caos, ma tant’è, sono inconvenienti di una fase di transizione. Probabilmente si dovrà tornare a votare entro l’anno, ma, si spera, con facce diverse da quelle che ci hanno accompagnato negli ultimi vent’anni. Da uomo di sinistra, poi, mi auguro che da questa parte si smetta di guardare con supponenza e superiorità un movimento che quantomeno ha regalato un’idea di futuro una generazione fantasma. Basta parlare di populismo, citare Gramsci a sproposito per dimostrare che Grillo è il nuovo Mussolini. Siamo nel 2013 e certi paragoni offendono il presente e anche la memoria.
La sinistra torni a guardare alle piazze, invece che ai palazzi e ai giaguari. Berlusconi, invece, è auspicabile cominci a godersi la sua vecchiaia. Noi, sicuramente, ce la godremmo fino in fondo.
Una poesia per la crudele maggioranza
di Jerome Rothenberg
Emerge la crudele maggioranza!
Ave alla crudele maggioranza!
Puniranno i poveri perché sono poveri.
Puniranno i morti perché non sono più.
Niente volge la notte in alba
per la crudele maggioranza.
Niente lascia che senta il terrore o la fame.
Facesse giumella delle mani, la crudele maggioranza, sulle orecchie,
la avvolgerebbe il mare.
Il mare la aiuterebbe a scordare i suoi figli perversi.
A intessere ninna nanne per i giovani ed i vecchi.
(Ecco la crudele maggioranza con la mani sulle orecchie,
un piede è nell’acqua, l’altro piede è tra le nuvole.)
Un uomo dei suoi è grosso, abbastanza da tenere una nuvola
tra il pollice e il medio,
da spremerne una goccia di sudore prima di dormire.
Un piccolo dio, ma non un poeta.
(Guarda come oscilla il suo corpo.)
La crudele maggioranza ama le folle e i pic-nic.
La crudele maggioranza riempie di bandierine i parchi pubblici.
La crudele maggioranza festeggia i compleanni.
Ave alla crudele maggioranza, dunque!
La crudele maggioranza piange per i suoi bambini non nati,
piange per i bambini che non aspetterà.
La crudele maggioranza è sconvolta dal dolore.
(Perchè allora la crudele maggioranza ride tutto il tempo?
È perché la notte ha ricoperto le mura delle città?
O perché i poveri se ne stanno da una parte al buio?
O i mutilati non mostrano le piaghe?)
Oggi la crudele maggioranza vota per allargare il buio.
Votano perché le ombre prendano il posto degli stagni
Perché diventi vera qualunque cosa vogliano votare.
I monti corrono a nascondersi come agnelli per la crudele maggioranza.
Ave alla crudele maggioranza!
Ave! Ave! Alla crudele maggioranza!
I monti corrono come gli agnelli, colline scappano come montoni.
La crudele maggioranza lacera la terra per la crudele maggioranza.
Quindi la crudele maggioranza si dispone in riga per essere sepolta.
Coloro che amano la morte l’ameranno, la crudele maggioranza.
Coloro che conoscono se stessi conosceranno la paura
che prova la crudele maggioranza quando guarda nello specchio.
La crudele maggioranza ordina ai poveri di restare poveri.
Ordina al sole di brillare solo nei giorni di lavoro.
Il dio della crudele maggioranza pende giù da un albero.
La voce del suo dio è l’albero che urla mentre piega.
La voce dell’albero è veloce come un lampo quando frusta il cielo.
(Se la crudele maggioranza si addormenta tra le sue stesse ombre,
troverà letti pieni di vetro.)
Ave al dio della crudele maggioranza!
Ave agli occhi nella testa del dio urlante!
Ave alla sua faccia nello specchio!
Ave alle facce che gli flottano d’intorno!
Ave al loro sangue e al suo!
Ave al sangue dei poveri, ne hanno bisogno e nutrimento!
Ave al loro mondo e al loro dio!
Ave e addio!
Ave e addio!
Ave e addio!
*
[L’originale è all’indirizzo http://www.poetryfoundation.org/poem/180417]
video arte #18 – christian marclay
http://www.youtube.com/watch?v=yH5HTPjPvyE&feature=related
Christian Marclay, Telephones, 1995.
Politica e filosofia
di Antonio Sparzani

Platone (Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C) aveva 24 anni quando Atene venne definitivamente sconfitta dagli Spartani nella guerra del Peloponneso, e quando il generale spartano Lisandro impose ad Atene il regime terroristico dei trenta tiranni. Regime che non durò che otto mesi, ma che fu sufficiente a produrre ulteriori lacerazioni nel tessuto, già dilaniato dalla lunga guerra, della società ateniese.
Col nome di Platone ci sono pervenute un certo numero di lettere, la maggior parte delle quali viene oggi ritenuta apocrifa. La settima è delle poche che si ritiene possa essere autentica. Ne riporto qui uno stralcio
Giambo
* di Daniele Ventre*
La nostra agenda delle idee: partecipa!
Lavoro a mezzogiorno e calo drastico
di tasse casse erbatici e pontatici
che non le confermò nemmeno Rotari
con quel suo editto -ne parliamo al Rotary:
sì quello di Ginevra esclusivissimo
che cambia sede, il club del gruppo Bilderberg:
vedrete a mezzogiorno il calo drastico
di zuccheri -così per fame schiantano
e alleggeriamo il welfare State d’un subito.
Supporteremo l’export e gli introiti
con l’export bank di Goldman Sachs e all’estero
proventi e investimenti andranno a crescere
-all’estero ma non da noi -capitemi,
non siate schizzinosi, andiamo, giovani,
la crisi la dovremo pur risolvere
per il buon uomo che ha investito e specula.
La nostra agenda delle idee: partecipa!
E avremo la speciale linea credito
del sud: vedrete come avremo credito
-l’avremo noi, non certo voi, quel credito:
l’Italia mica la si salva a credito!
E avremo pure la cabina apposita
per la regia che salva imprese e cavoli
e pomodori -i giovani li colgono,
lavoro stagionale, impieghi a cottimo:
non siate schizzinosi, andiamo, giovani:
per le ragazze i caporali avanzano:
per te, ragazzo, sì, per te s’escogita
la nostra agenda delle idee: partecipa!
E per le imprese che nel sud si strozzano
di credit crunch e nel big crunch implodono,
per voi, amici, è il nostro fondo italico
di investimento, con la private equity
di tutto vi priviamo noi con equity.
Felice te, che lieto e gonzo seguiti
la nostra agenda e in tanta idea partecipi!
E il mezzogiorno sale, ma non salano
di mezzogiorno i pasti a Roma e in Ellade
e i Greci d’occidente ormai s’affamano
con quelli in madrepatria e non s’infiammano,
ché in quest’agenda delle idee s’impegnano
e nel pareggio di bilancio affogano
con la costituzione democratica.
E l’opportuno fondo per i giovani
vi seguirà fin dalle medie, piccoli,
così vi cresceremo schiavi giovani
per guerre e per aziende combustibile
umano d’affamati inesauribile
e tutti i bimbi avranno il loro debito
coi prestiti d’onore giusta il reddito
dall’anno zero fino al diciottesimo:
però non siate schizzinosi, giovani:
gli schizzinosi a tanta idea non seguono.
La nostra agenda per le idee: partecipa!
Per il turismo l’ordine strategico
prevede tanti viaggi nel Nord Africa
Malì, Nigeria, Libia, Egitto, Tunisi
per navi per aerei e sommergibili
per missili se è il caso: quando muoiono
non sono certo schizzinosi i giovani
e il Welfare State si fa leggero subito.
E avrete scuole, voi in Campania, e i siculi
la bella antenna scudo per le atomiche.
La nostra agenda per le idee: credeteci!
Così vi cresceremo, dolci pargoli,
soldati e schiavi, paglia per un attimo.
_________________
* Pubblicato, come ultimo di una serie di otto, qui:
35 €
Trentacinque euro
di
Attilio del Giudice
Ho 36 anni, mi chiamo Felice, come quella fidanzata di Kafka, con la quale finì tutto a carte quarantotto. Mia madre dovette decidere da sola, perché mio padre la lasciò prima che nascessi io.
Mio padre era un cacciatore all’antica e le cartucce se le fabbricava da solo. Infatti disse: ”Vado da Nando – il suo fornitore per le cose venatorie – a comprare un po’ di polvere. E non si vide più. Sembra una barzelletta, ma i fatti andarono proprio così.
Non credo che, nell’incombenza di darmi un nome, volesse ricordare la signorina Bauer, lei, mia madre, scolasticamente, s’era fermata alla quarta elementare. Devo pensare che volesse augurarmi piuttosto una vita felice, tutto qua. In realtà mi ha messo in grande imbarazzo un’infinità di volte, non solo perché questo nome, dalle nostre parti, viene dato quasi esclusivamente ai maschietti, ma anche per circostanze più sostanziali, che mettevano in crisi ora l’identità, ora la mia attitudine a non credere, come una babbea, a una generica felicità, piovutami dal cielo chissà come. Per esempio, è spesso capitato che mi chiedessero chi fossi e io, sconsideratamente, rispondevo: “sono Felice” innescando una serie di equivoci, che non sempre si potevano chiarire subito e, talvolta, con interlocutori a basso quoziente intellettuale, ci voleva la manodidio per far capire che quello ero il mio nome di battesimo e non uno stato di grazia, che, comunque, sarebbe stato una condizione dello spirito mia personale e che non ero obbligata a dichiarare.
Per la verità, anche volendo dichiarare una condizione dello spirito di quella natura (la felicità, appunto), avrei dovuto ricorrere alla mia più naturale tendenza, cioè alla capacità di mentire, clamorosamente. Però non la voglio portare per le lunghe: la felicità non esiste, così dicono tutti e, al massimo, si parla di serenità, di tranquillità, insomma surrogati, tanto per non fare la figura dei piagnoni a oltranza. Va bene, non esiste e siamo tutti nella stessa barca di Caronte, ma io qualche dubbio lo tengo, almeno sulla gradualità dell’infelicità. Per esempio: se non avessi perduto Viviana, mia figlia, all’età di due anni, se Marcello non mi avesse detto: “Ti voglio bene, credimi! ma non ti amo. La nostra spinta sessuale si è ridotta al lumicino ed è meglio per entrambi tagliare la testa al toro e separarci (il toro, praticamente ero io, infatti, in dieci anni, l’ho visto due o tre volte e gli alimenti nemmeno due o tre volte, nonostante le ingiunzioni, l’avvocato, eccetera eccetera). Oppure, sempre per esempio, se mia madre, sul letto di morte, non avesse detto: “ Tu, per me, per la mia vita, sei stata come un cancro”. Poi, dopo un po’, disse che aveva scherzato. Scherzato? Ma si può scherzare così, mentre stai per morire? No, forse la felicità non esiste, ma l’infelicità esiste e come! Ed è assai differenziata tra le persone.
Un’altra cosa: io credo di essere oggettivamente sfortunata, ma non lo voglio sentir dire, mi fa andare su tutte le furie quando qualcuno dice: “poverina, Felice, non hai fortuna”.
Mi offende la considerazione pietistica, anche perché la considero generalmente falsa e ipocrita e so che, sotto sotto, c’è il pensiero di riserva dell’interlocutore, vale a dire: si, sei sfortunata. Ma ognuno è artefice della propria fortuna; quindi io non sarei artefice, anzi sono inderogabilmente una grande artefice della mia personale sfortuna. Naturalmente sarei una stupida, arrogante e fanatica narcisista, se attribuissi solo alla Suerte l’infittirsi dei problemi nella mia esistenza quotidiana (una serie, che manco me ne tiene di elencare), mentre, se non ci fosse stata la malasorte, sarei stata, invece, splendida padrona del campo. No! Molti errori sono stati miei, ne sono decisamente responsabile, questo lo devo ammettere e non hanno quasi mai giustificazioni plausibili. Naturalmente il discorso delle giustificazioni è privato e non ne devo dar conto a nessuno, anche perché i miei errori non hanno arrecato danni né a uomini, né ad animali, a parte un quattro o cinque uccisioni e relativi spennamenti di galline, quando ero ragazza ed ero ospite nella masseria di zio Sergio e mi comandavano di preparare il pranzo. Peraltro, anche adesso, non so dire se questa mia disponibilità a fare il lavoro sporco con il pollame, fosse autenticamente un errore e non una necessità culinaria.
Prendo 450 euro al mese da un istituto magistrale privato, dove insegno Storia dell’Arte e Scienze Umane (Pedagogia e Psicologia). Un abbinamento inconsueto nelle scuole pubbliche, ma l’istituto dove insegno io è uno di quelli in cui certe pignolerie non vengono contemplate e i ragazzi, piuttosto attempatelli, fanno tre anni in uno. L’importante è che le famiglie sgancino un bel po’ di grana, se vogliono arrivare al dunque (al famoso pezzo di cara), datosi che si tratta di persuadere serissime commissioni esterne di docenti integerrimi e poco corruttibili. Almeno così dice il capo, ed è come se dicesse: “ragazze serissime poco incinte…”Mai, almeno una volta, che il boss, dottor Catapane (si ignora il tipo di laurea conseguita, e si sospetta sia un titolo attribuito arbitrariamente dai guardiani di automobili “Venga avanti, dotto’”) esclamasse, anche solo in camera caritatis, non: “poco corruttibili”, ma corruttibili con poco. L’inconfondibile profumo della verità avrebbe inondato l’intero caseggiato, mentre, fatalmente, permane un fetore insopportabile e non solo morale e metaforico. Infatti Orsola Gazzillo, preposta alla pulizia dell’intero edificio, cessi compresi, si può permettere il lusso di non fare una minchia, compensando l’inefficienza dei servizi con l’antica arte dello spionaggio e non risparmiandosi per qualche prestazione sessuale (servizi, per la verità, antichissimi anche questi) richiesta dal boss, nonché gestore, direttore didattico e, naturalmente, direttore amministrativo, richiesta inoltrata, fino a circa un mese fa, perché, negli ultimi giorni, le esigenze erotiche del suddetto pare si siano orientate verso un’allieva, piuttosto in carne, ma, ovviamente, più fresca della Gazzillo, nelle forme e nei contenuti. Fermo restante il gradimento delle attività di spionaggio, che Orsola mantiene sempre intense ed efficaci per il suo tornaconto.
Mandarli a cagare, ovviamente, non è possibile per evidenti ragioni di sostentamento, ma l’esperienza umana e professionale sembra votata al vomito quotidiano, soprattutto perché, tra noi insegnanti, cinque femmine e un prete, vige il coprifuoco e nessuno, anch’io naturalmente, ha il coraggio di uscire allo scoperto e denunciare lo stato delle cose, cioè a dire che nessun docente, in nessuna, anche stronzissima, materia di sudi, può portare avanti, per un alunnato non brillante, anzi, diciamolo francamente, per delle incredibili teste di cazzo, in otto mesi, un programma di tre anni e mettere definitivamente fuori uso una laurea (110 e lode) e quel minimo di dignità, che qualsiasi persona dovrebbe mantenere e proteggere. Niente, non se ne fa niente, si va avanti così, giorno dopo giorno, tristemente, aspettando Godot, con la strizza nel culo di perdere pure questo posticino, visto che l’aver superato l’esame di abilitazione non è stato sufficiente per lo Stato Italiano a farmi avere un lavoro normale nella pubblica istruzione.
Per raggiungere questa scuola, devo prendere una corriera alle sei del mattino. Non sono distanze strepitose (meno di trenta chilometri), ma devo calcolare almeno un’ora e mezza, perché ‘sta corriera, prima di arrivare alla mia meta, raccoglie gente in tre paesini e si ferma anche per la strada per far salire qualche altro disgraziato utente che aspetta e spera.
Ieri faceva un freddo boia, soprattutto un vento sferzante di tramontana mi entrava nelle ossa, benché fossi tutta imbacuccata e avessi messo perfino un giornale sotto la maglia per proteggermi il petto. Aspettavo questa benedetta corriera, che tardava come al solito, battendo i piedi e mi prefiguravo il calduccio accogliente che avrei trovato assieme ad inconfondibili odori di formaggi, che certi contadini portavano nelle ceste di vimini, nella prospettiva di un micro-commercio in città. Insomma un’atmosfera calda, rurale, diciamo demodè, a dispetto sia del gelo esterno, sia delle strabilianti conquiste tecnologiche del nuovo secolo. Devo, poi, confessare, a completamento dell’idillio, che avevo buone probabilità di vedere Mirko, uno studente, che mi piace un sacco, dolce, cortese e bello, forse troppo per me.
Io, generalmente, mi rifiuto di sognare il principe azzurro, ma, stavolta, ogni tanto, mi ritrovo con la mente coinvolta in certi languori cretini. Cretinissimi, non c’è dubbio, perché ‘sto Mirko dagli occhi blu, è fidanzatissimo con una, che, tra l’altro, ho conosciuto e che lui mi presentò con evidente orgoglio, purtroppo non campato in aria, infatti la ragazza tiene tutti i numeri, al contrario di me, che,invece, i numeri li do, come diceva mia madre, tanti anni fa, quando la volevo convincere a scrivere una lettera di perdono a mio padre, avendo saputo che gli era venuto un tumore al fegato.
Il giovanotto con me, è sempre educatissimo e galante, senza mai esagerare, e mi conserva il posto sulla corriera vicino a lui e mi ascolta quando parlo e ha sempre parole di incoraggiamento, insomma è un figlio di puttana, che mi vuole fare innamorare per forza e se questo non lo capisce e si comporta così, spontaneamente, perché è nato gentile, io non ho nemmeno la soddisfazione di dire: “ma guarda che stronzo!”
Allora, mentre aspettavo la corriera e battevo i piedi e me ne andavo per la tangente con questi pensieri agrodolci, è arrivato un tale con la bicicletta, uno massiccio sulla cinquantina. Si è avvicinato a piedi, tenendo la bicicletta dal manubrio. Io pensavo che volesse fare qualche considerazione sul tempo, sul gelo, sul vento, invece ha detto.” Tengo solo trentacinque euro, mi faresti un pompino?”
L’istinto è stato quello di urlare, di dargli una borsata in faccia, di ingiuriarlo, ma mi sono trattenuta. Eravamo soli, nell’incerta luce dell’alba, in piazza non si vedeva anima viva, una mia reazione emotiva poteva essere pericolosissima. Così ho pensato di tenerlo a bada con un atteggiamento diverso: “ Mi dispiace, signore, io non sono una prostituta.”
“Allora, non se ne fa niente?” ha detto lui.
“ No, mi dispiace, non se ne fa niente.”
E’ rimontato sulla bicicletta e se n’è andato, pedalando piano, forse per darsi un contegno o perché aveva il vento contrario.
Tremavo di indignazione, ma forse era il freddo. E’ arrivata la corriera. Appena dentro, ho dato uno sguardo panoramico ai passeggeri. Porca vacca! Mirko non c’era.
Mi sono seduta a fianco di una filippina, che fa la serva in città, una che sorride sempre, ma si fa i fatti suoi, e mi sono messa a riflettere: “Che cosa gli ha fatto pensare che fossi una puttana? Certamente non il mio abbigliamento, più adatto a una spedizione artica, che a un generico adescamento stradale; nemmeno un particolare rilievo del lato b (come dicono quelli che hanno paura di dire la parola culo e vantano, per questo, una sorta di estetica del linguaggio), magari valorizzato e messo in mostra mediante gonne aderenti o jeans in pelle, dato che il piumone nero che indossavo, copriva tutto quasi fino ai piedi. Sarà stato lo sguardo? Non lo so. Certo è che mia madre, tanti anni fa, quando, qualche volta, veniva a cena Marino, il figlio di donna Assunta (una lontana parente) che stava facendo il militare a Caserta, diceva: “non lo guardare con quello sguardo da zoccola”.
A tredici anni non disponevo di gran varietà di sguardi e m’ero fatta l’idea che, se anche le tette tardavano a farsi rispettabili, io, comunque, avevo un arma formidabile per mettere a tappeto il sesso forte: “ lo sguardo da zoccola”. Poi, col tempo, questa bella illusione svanì, mentre le tette restarono piccole e gentili, ed è noto, che le dimensioni circoscritte sono appetibili solamente da pochi intenditori e collezionisti; tanto è vero che, nonostante ci sia la più grande crisi economica dopo quella del 29, i chirurghi plastici non hanno mai smesso di fare soldi a palate.
Eppure, quella proposta, volgare, indecente e offensiva, attribuibile a un uomo di nessun conto, forse a un malato, mi ha fatto più male di quanto, di primo acchitto, m’era sembrato di dover smaltire. Per tutto il viaggio mi sono tormentata con un interrogativo atroce. “Ma chi sono io, se chiunque può, impunemente, oltraggiarmi? Valgo proprio meno di niente? Posso essere calpestata come un insetto schifoso?” Insomma, esageravo col masochismo, che è una mia specialità. A poco a poco, però, m’è venuto incontro un pensiero più razionale e abbastanza consolatorio: la mia pochezza c’entrava poco, lì, al posto mio, ci poteva stare anche un premio nobel; benché, devo ammettere che difficilmente un premio nobel si potesse trovare in quella piazzetta alle sei del mattino col freddo e col vento. Però dipende, magari chissà…
Si, perché capita sovente che le associazioni libere si sentano libere di condizionarci e non possiamo farci niente. Del resto non è la prima volta che mi accorgo del trucco: la libertà di scelta, kantiana e cristiana, deve essere una presa per i fondelli, una “sola” colossale che ci hanno fatto credere, per darci addosso con le responsabilità. Infatti, senza che potessi decidere di censurarmi ed evitare la mancanza di rispetto, mi è venuto in mente Madre Teresa di Calcutta, premio nobel, appunto. Una che ci poteva pure stare col gelo e col vento lì, in quella piazzetta, presso la fermata della corriera e, naturalmente mi è venuto in mente, nel controcampo, quel signore massiccio con la bicicletta, che le dice: Madre Tere’, tengo trentacinque euro…. Eccetera.
Maledette associazioni libere, andatevene a fare in culo, voi e Karl Gustav Jung!
Lettera aperta alla mia editrice mancata (Une pisseuse de copie)
di Gian Balsamo
Gentile Emilia,
Collaboro da vent’anni con Claudio Maria Messina, che considero degno di figurare nella schiera degli illustri editori italiani del passato: Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori, Garzanti, e Bompiani: settimo tra cotanto senno. Però due anni fa contattai Lei, invece di Messina, a proposito di un mio lungo saggio di contenuto analogo al bestseller recente d’una sua autrice, che chiamerò col nome fantasioso di Fiorenza. Intendevo pubblicare questo libro dietro il solito pseudonimo che uso in Italia, Luigi Ferdinando Dagnese. E così ho fatto nel 2012: Alla ricerca del tempo sprecato è apparso per i tipi di Robin Edizioni, la casa editrice di Messina, dopo che Lei ed io abbiamo preso strade diverse.
Le scrivo una lettera aperta nello spirito dei lettori di queste pagine. I conti con la grande industria editoriale italiana, figlia degenere dei suddetti fondatori, ibernata nella bara di ghiaccio che Dante riservava ai traditori, li fanno tutti i giorni. Ma che dire della schiatta di certi nuovi agenti letterari, nuovi editori, e nuovi, sedicenti maestri di scrittura a pagamento? Non sto parlando di tutti gli editori indipendenti, come dimostra il mio incipit, né di tutti gli editors o curatori d’edizione, perché io stesso appartengo saltuariamente a questa categoria. Parlo di quelli che confondono lo stream o flusso di coscienza con una certa loro funzione escretiva: quanto più fumante è il getto delle parole con cui ci ammaliano, tanto più salata la gabella che richiedono in cambio dei loro inutili servizi.
Lei ricevette il mio scritto il 23 novembre 2010 e si immerse immediatamente nella lettura, concedendosi poche ore di sonno e tempestandomi di email entusiastici; li ricevevo di giorno qui in California, ma a Roma, di dove li scriveva, era notte fonda. Avvezzo a trattare con publishers di tutte le salse, come faccio da trent’anni a questa parte in Italia e soprattutto negli States, i suoi complimenti, tanto generosi quanto repentini, mi stupirono pur senza meravigliarmi, così come mi sembrò generosa ma inevitabile, per un saggio che considero assai originale, la sua dichiarata intenzione di “farne un libro di successo.” La prima nota stonata arrivò il giorno dopo, quando Lei, evidentemente ignara della mia lunga carriera di scrittore italiano e della mia competenza di editor californiano, mi scrisse: “Purtroppo il suo stile risente della lunga permanenza all’estero, anche se le confesso che la qualità della scrittura è di molto superiore al manoscritto [di Fiorenza], a cui ho personalmente lavorato correggendo, sopprimendo e riscrivendo interi passaggi.” So bene quanto il mestiere di editor o curatore d’edizione si associ talora ad una vocazione artistica frustrata, quindi non ho rimostrato contro questa sua osservazione ingiusta nei confronti della mia scrittura. Ma mi ha ferito, diciamo in maniera vicaria, la mancanza di discrezione con cui Lei liquidava la prosa di Fiorenza, l’unica autrice che ha portato fortuna alla sua casa editrice; mi hanno ricordato Bernard Grasset, l’editore del primo volume della Recherche di Proust, il quale confidò imperdonabilmente ad un amico, la vigilia dell’uscita di questo capolavoro, che si trattava di un libro “illeggibile.” Imperdonabili o no, Emilia, trovo che certi sgarbi ai propri autori manchino innanzitutto di professionalità. Sebbene io abbia personalmente contribuito a modificare di sana pianta certi manoscritti eccellenti nel contenuto ma carenti sul piano espositivo, non mi permetterei mai di certe indiscrezioni. Decisi comunque di stare a vedere, anche perché era pur vero che in questo mio nuovo saggio avevo sperimentato un italiano colloquiale e un critero di riferimento bibliografico che erano del tutto nuovi per me; mi si prospettava, magari con il suo aiuto, un lavoro attento di correzione e riformulazione. (Quanto alla punteggiatura all’americana, come vede, sono recidivo.)
Il bello doveva ancora venire. Il 26 novembre Lei reiterò che la mia prosa “soffr[iva] della lunga permanenza all’estero del suo autore, nonché delle sue (immagino numerose) letture in lingua francese.” E a mo’ di esempio dei contributi vitali che Lei avrebbe apportato al mio testo, mi rivelava che avrei potuto sostituite il verbo “apprendere” con la perifrasi “venire a sapere,” o anche con “venire a conoscenza del fatto che.” In questo devo smentirla dandole tre volte ragione. È vero che ai francesi il verbo “apprendre” piace un sacco, ed è anche vero che a qualsiasi verbo corrispondono sempre diverse perifrasi. Ma il verbo “apprendere” è canonico nella lingua italiana. Se lo preferisco alle sue perifrasi, è proprio a causa del motivo che Lei cita, la mia lunga permanenza all’estero. Negli States, il training nell’arte della scrittura non è meno spietato di quello nella danza o nella musica. Ho sofferto e patito per diventare professore di scrittura creativa. E ho imparato a mie spese la regola della parsimonia nell’uso delle parole: un singolo verbo ne vale mille delle sue perifrasi.
Il 15 dicembre, con mia enorme sorpresa, apprendevo—ops, scusi—venivo a conoscenza del fatto che la sua casa editrice aveva già formattato il mio scritto in bozze per la stampa!
Il 22 dicembre ricevevo via email la sua riscrittura delle prima quattro pagine del mio scritto—già inserita nelle bozze al posto del testo originale. È stato quel giorno che ci siamo parlati per la prima volta al telefono. Lei ha fatto in modo che ricevessi il file delle nuove bozze via email immediatamente prima di ricevere la sua telefonata. Mi ha chiesto subito di aprirlo e leggerle il testo della sua riscrittura ad alta voce nella cornetta. Il che ho consentito a fare, per quanto la trovassi bizzarra, come richiesta. Alla fine delle sue quattro pagine, voleva sapere cosa ne pensavo. Quel che avevo appena letto ad alta voce ripeteva in gran parte, effettivamente, i contenuti introduttivi del mio saggio; ma non mi sentivo in grado, così su due piedi, di valutarne i vantaggi e gli svantaggi rispetto all’originale. Lei ci tenne comunque a precisare che avrei dovuto pagare la sua parcella, che quelle sue gemme stilistiche mica potevo ottenerle gratis; e aggiunse che per il momento, per evitarmi l’imbarazzo d’un rifiuto, si era astenuta dal presentare il mio scritto alla casa editrice (la stessa che aveva appena preparato le mie bozze di stampa).
A questo punto della conversazione, avendo io un po’ la vocazione dell’attore, mi sono immedesimato nel suo ruolo, Emilia. Quella dello scampato imbarazzo dev’essere stata la mossa vincente, pregna di tolleranza comprensiva, che le ha permesso di strappare un bel gruzzolo a qualche scrittore esordiente, promettendogli di schermare la sua scrittura stentata dal meritato biasimo—magari dopo essersi cucinata detto esordiente, come aveva fatto con me nei giorni precedenti, al fuoco vivo di una lettura notturna entusiasta e instancabile, di una promessa allettante di farne un autore di successo, e di una repetina trasformazione del frutto delle sue fatiche in bozze pronte per la stampa. Mentre una parte di me faceva questa riflessione e un’altra colloquiava al telefono con Lei, mi sono, per così dire, diviso per tre (proprio come fa la zucca di Satana al fondo dell’inferno, dove sventaglia con ali di ghiaccio la cella frigorifera dei traditori editoriali). Mi sono anche messo a meditare sul fatto che la casa editrice in questione, a cui Lei non si proponeva di presentare il mio scritto che dopo averlo mondato dei difetti deplorevoli della mia scrittura, è stata fondata da Lei stessa. Quella casa editrice è Lei stessa, direi, se mi concede un momento ontologico alla Tommaso d’Aquino. Comunque, non ho condiviso con Lei nessuna delle considerazioni sgorgate in quel momento dalla mia mente tripartita; non perché io sia più satanico di Satana, ma semplicemente in quanto ritengo sempre valido un principio che ho appreso tramite—oh, ecco che ci ricasco! Qui finisce che la irrito! Dicevo: per me resta valido il principio, di cui sono venuto a conoscenza tramite lo studio della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che nessuno è malvagio o stupido prima di venire dimostrato tale. Ho preferito pazientare; come prima cosa, volevo eseguire con calma un confronto minuzioso della sua riscrittura con le mie prime quattro pagine. Il che ho fatto quel giorno stesso e l’indomani.
Le elenco qualche risultato.
Ho trovato interessante la sua scelta di non menzionare nessuno dei nomi degli amici di Proust, come faccio invece io fin dalla prima pagina. Cercava di snellire l’esordio? Siccome più tardi Proust passa dalla infatuazione per i compagni di liceo a quella per le loro mamme, le sarebbe poi toccato menzionare questi ex-compagni di scuola al momento opportuno e senza dare l’impressione di una intromissione indebita nel flusso della narrazione. Se l’era presa un appuntino su questa omissione? Aveva individuato la parte più opportuna del testo per rimediarvi? Qualcosa mi dice che non l’ha fatto. Ho pure trovato originale la sua soppressione dei due dettagli che Proust era imparentato per parte di madre con la borghesia finanziaria ebrea, e che i banchieri ebrei esercitavano una specie di monopolio sulla finanza francese. Se cercava di semplificare l’argomento, direi che c’è riuscita appieno. Anzi, s’è superata: ha espulso dal mio testo parecchie delle informazioni da cui ero partito per scriverlo, estraendone invece alcuni puri frammenti di copy, tanto semplici nel significato quanto sconnessi da tutto il resto. Ma siccome il mio libro tratta principalmente dei rapporti di Proust con l’alta finanza, e della maniera in cui questo rapporto determina i contenuti del suo capolavoro letterario, al momento opportuno le sarebbe toccato reinserire proprio le informazioni appena sacrificate, in modo da riconnettere i frammenti l’uno all’altro. Se l’era presa l’appuntino, stavolta?
Potrei continuare la lista, gentile editrice ratée, ma a qual uopo. Avendo risolto il dilemma costituzionale dello stupido e del malvagio (nessuna con-artist è interamente stupida), le ho inviato una lettera che diceva pressapoco così: “La Sua maniera di scrivere scorre liscia e aderisce bene al tema centrale, meglio di un rullo compressore sull’asfalto; soprattutto, non flirta mai con l’intelligenza del lettore. Non ho dubbio che Lei sia una splendida écrivaine de copie, in quanto vedo bene, dal Suo editing come dal rapporto che ha instaurato con me, che si vieta rigorosamente il lusso di presumere una qualche vivacità mentale in chi La legge o La ascolta.”
Come avrà capito, Emilia, in quella lettera, datata Venerdì 24 Dicembre 2010, non la chiamavo “écrivaine de copie” per farle un complimento. Ma temo le sia sfuggito che alludevo alla designazione lapidaria che intitola la versione francese di un romanzo di Muriel Spark, la stessa designazione che compare nel titolo di questa lettera aperta; ho fatto implicito riferimento a quella designazione poco fa, nel misurare il costo della sua parcella sul metro della termoidraulica delle minzioni. Dunque non sto a ripeterla. Fa pensare a un titolo di rango, non trova?
Mi creda, Sinceramente,
Gian Balsamo
Palo Alto, 17 febbraio 2013
Ipocondria da Ciao
‘l motorin par mi no, mai, costa schei,
intanto xe da comprarlo e sa lì xe schei
e poi asicurasion e manutension
e se se rompe i tochi compra i tochi novi e xe schei
e poi te ga da tignirlo da conto, netarlo, starghe drio,
no te son bon gnanca a starte drio a ti, figurite,
e poi a cos che te serve, no te ga sa i pie par moverte?
‘l Signor te ga fato i pie, usa i pie,
e poi te ga da butarghe dentro roba parchè ‘l vada avanti
miscela, do par sento oio, ‘l resto benzina
a benzina costa schei, te pensi per caso
che i schei vegna su ta l’orto?
mi go visto patate, carote, sevòle, brocoeti,
radisee, ravanei, peveroni, suche, sucheti,
schei mai, go visto pomi, pomidori, limoni, naranse,
biete, coste, costine che a magnarle me vien mal de pansa
go visto anca bissi longhi e curti, s-ciosi, slacài
ma schei, te giuro, ta l’orto, no li go visti mai
e poi mi go paura, me fa impresion
no te senti tute e disgrassie che i dise in teevision?
quante robe brute che te senti, tuto che i copa,
no i fa gnanca più bei film, tute s-ciopetae, quanta reclàme
se te vol vardar ‘na roba te ga da star su do ore in più
par vardar tuto, pora Italia come che te ga ridoto,
co’ te va fora no te son più sicuro, ti col motorin
va a finir che te te fa mal, sa me vedo
te finissi dentro i fossi, dentro i canai
te te spachi i ossi te te russi i senoci
passa ‘na machina te tira soto, sa me vedo,
un pulman, passa un pulman e te tira soto,
un camion, che i core come i mati,
i sorpassa sempre in meso aa strada
i se buta in meso e no i mete mai a frecia
quando che i passa, passa un camion
e sa me imagino, sa me vedo, te tira soto,
un tren, passa un tren, i treni xe veoci,
me fa paura anca i treni, sa me vedo
e sbare no se sbassa ti te passi in motorin
in quel momento ‘riva ‘l tren e bam!
te tira soto, o se no
e sbare le xe so, ti te rivi in motorin
no te te acorsi e bam!
te ciapi a sbara drita in muso e te va in tera
te bati a testa e te mori, o se no
e sbare le xe so, ti te rivi in motorin
te passi soto e sbare, sa me vedo, che ti
sempre premura, sempre, mai ‘spetar un fià,
te passi soto e sbare, te passi i binari e trac!
te se incastra un pedal ta i binari, sa me vedo,
‘l cavaeto, te casca ‘l cavaeto, mi so, no sta mai su,
te casca ‘l cavaeto e se incastra ta i binari,
o se no te sbrissi, che xe sempre piere, pierute
sporchess ta i binari, te ghe meti i pie de sora,
te sbrissi, te va in tera, te bati a testa, te vien ‘l motorin in torno
in quel momento ‘riva ‘l tren e bam!
te tira soto e se te tira soto un tren
te s-ciopi bam!
tuti tochi tochini tocheti te diventi
tuti tochi tochini tocheti e noi altri
tuti tochi tochini tocheti a rincurarli
un par un, no te ga cuor, mi ‘l motorin, te digo,
par mi no, me fa paura, te va a farte mal
meti caso te vien fora un in bicicleta dal stop
che quei in bicicleta no i se ferma mai ai stop
i va via per strada come i singari, dapartuto,
gnanca fussi lori i paroni, gnanca a pagarli oro i se ferma,
meti caso te vien fora un in bicicleta dal stop
te vien intorno, te va par tera e te bati a testa,
anca a zia Gigia ‘na volta iera drio tornar dal mercà
in bicicleta, se ga rebaltà, ga batuo a testa, come niente,
xe tornà a casa, dopo do giorni a xe morta,
o se no anca quei a pie i va in giro no i varda mai
co’ i traversa a strada i xe insiminii,
un te traversa a strada, te ghe va intorno,
te va par tera, te bati a testa, lu ‘l se fa mal
te ghe spachi ‘na gamba, un brasso, deventa un rudinasso
ne toca pagarghe ‘l dotor, l’asicurasion, e so schei
e mi, varda, son stufa, no ghe ne posso più
‘l motorin te te o scordi, se te vol andar in giro
te va a pie, ‘l Signor te ga fato i pie, usa i pie,
te camini, che te fa ben, te ciapi aria, te te vardi intorno,
te va via pian, che chi va pian va san e va lontan
o se no te sta a casa, te lesi un libro, te meti a posto
camera tua che xe un bordel che no te digo
xe da far lavori, svangar ‘l giardin, spacar a legna,
lavar i piatti, stirar, ciapar su co’ l’aspirapolvere
e se te va ben cussì, benon, altrimenti
quea xe la porta e ciao!
Letteratura e lavoro. L’eredità di Paolo Volponi

di Angelo Ferracuti
Il tema del lavoro, il suo immaginario e i suoi conflitti, quella vita della nostra vita che s’innerva nel nostro destino di individui sociali, non ha prodotto nella letteratura italiana, a parte qualche eccezione, grandi capolavori. Noi non abbiamo Tempi difficili di Dickens, Uomini e topi o Furore di John Steinbeck, e neanche La cittadella di Cronin, Martin Eden di Jack London, tanto per citare uno dei suoi titoli, non abbiamo avuto un reporter di grande classe e temperamento come Orwell che in La strada di Wigan Pier va a raccontare i minatori di una contea inglese, li descrive nella condizione di isolamento esistenziale e fatica fisica, e vive nei loro stessi suburbi. Non ci sono stati libri come La condizione operaia di Simon Weil, la filosofa che per capire i lavoratori va come loro ogni mattina a lavorare alla Renault, e annota nei suoi diari quello che vive a ogni turno.
Da “Settesette. Una rivoluzione. La vita”
di Pino Tripodi
Dal capitolo Freak Army. La violenza sulle cose contro la violenza delle cose
Non sono i soggetti che impazziscono. È la realtà che impazzisce. Non mi chiedere perché. Non lo so perché. Dopo il settantasette è la realtà che è impazzita. È certo. E in una realtà impazzita non si può evitare di vivere la follia. Sopravvivere è impazzire. Continuare a fare il savio come pretendi tu è la follia vera. Solo uno già pazzo come te può pensare di rimanere savio. Io ero un freak. Ma un freak comunista. Non lo scordare. Un freak comunista non è un freak e basta. Né un comunista e basta. È un freak comunista.
¡Muera la Vida, Viva la Muerte!
La Santa proibita
di
Valerio Evangelisti
prefazione al bel libro di Fabrizio Lorusso, Santa Muerte,patrona dell’Umanità, Stampa Alternativa
Gli studi affidabili sul culto messicano della Santa Morte, insediatosi anche negli Stati Uniti per via dell’emigrazione, non sono numerosi, e sono molto recenti. Fino a pochi anni fa, e ancora oggi nella stampa occidentale, quella strana forma di religione era liquidata come una specie di superstizione coltivata da narcotrafficanti, carcerati e prostitute, e collegata ad attività criminali (inclusi “sacrifici umani” mai provati).
Da ciò è derivato un intenso sfruttamento massmediatico, con film, telefilm e documentari di dubbia scientificità che insistevano sul risvolto delinquenziale, ignorando tutto il resto: dalle origini del culto alle ragioni del suo rapido propagarsi fra strati popolari poverissimi, da un lato e dall’altro del Rio Grande, non sempre dediti ad attività illecite.
A quest’ultimo proposito, noto che il primo opuscolo prodotto dai santamuerteros stessi in cui mi imbattei, esempio di una vasta produzione non più plausibile di quella degli osservatori esterni, recava preghiere per i taxisti e i meccanici (Sagrada Biblia de la Santísima Muerte, Ediciones Aigam, Chimalhuacán 2007).
Cosa che bastava a suggerire un’espansione che si spingeva ben oltre l’ambito della malavita organizzata. Acquistai l’opuscolo citato, assieme ad altri materiali, in un negozio di articoli religiosi sito nei pressi del mercato di Puerto Escondido, nello Stato di Oaxaca (cioè ben lontano da Città del Messico); dove conviveva con Vangeli e Bibbie del tutto ortodossi, e montagne di rosari e crocifissi. Contendeva il primato di presenza della Santa Morte solo il settore dedicato alla santería, un derivato della religione africana degli Yoruba (come il Vodou, come il Condomblé, come il Palo Mayombe) che credo sia oggi assolutamente minoritario. Cosa che non si può dire per la Santa e i suoi fedeli. Questi ultimi attribuiscono al culto origini antichissime, preispaniche.
Sarebbe una trasformazione moderna delle due divinità Mexica, una maschile e un’altra femminile, che presidiavano l’ingresso del Mictlán, l’Aldilà. La venerazione di questi dei delle tenebre si sarebbe preservata durante e dopo la Conquista, coperta dal segreto, fino a riemergere di recente, nelle forme attuali e incentrata su un’unica figura.
Una leggenda, pur non smentendo la versione ancestrale, attribuisce invece l’avvento della Santa Morte in forme moderne a un curandero (guaritore) dello Stato di Veracruz. Ai primi del XIX secolo costui avrebbe sognato la Santa, e poi ne avrebbe trovato l’immagine – di scheletro vestito con gli abiti tradizionalmente attribuiti alla Madonna – sul tetto della propria casa. Fu l’inizio di una serie di rivelazioni, già duramente condannate dalla Chiesa cattolica dell’epoca.
Si tratta di genealogie non documentate e che lasciano il tempo che trovano. Certo, in Messico convivono stratificazioni religiose che danno luogo a curiosi sincretismi, come omaggi prosaici (lattine di Coca-Cola, dolcetti, ecc.) a santi cattolici, fanatismi per la Vergine di Guadalupe o altre icone sacre che rasentano l’invasamento, una vera mania per gli altarini e le statuette ormai sparita in Occidente. L’anima indigena si sente, eccome. Un pastore protestante americano mi disse, esagerando, che doveva ancora trovare, in Messico, un cristiano vero e proprio. In certa misura, sarei portato a dargli ragione.
La “chiesa” della Santa Morte non può però essere ridotta a una sopravvivenza delle religioni preispaniche sotto falsi veli, come è invece molto palese nei credi di origine Yoruba. Qui non vengono nascosti gli dei perduti sotto nomi di santi (caso tipico: Santa Barbara per Changó o Xangó, dio dei metalli). Le liturgie cattoliche sono a prima vista quelle tradizionali, e così le preghiere. Anche le più eccentriche iniziano con l’invocare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Solo, si aggiunge a tutto un’entità sacra in più, che veste come la Vergine e porta la falce.
Più che divinità antiche, l’iconografia della Santa Morte ricorda l’ossessione per teschi, scheletri e tibie propria del soffocante cattolicesimo spagnolo, dovunque si sia manifestato (si vedano tante chiese di Napoli). Senz’altro su una base molto più remota, ma con tracce salienti della malinconia e dell’indole drammatica che, sotto parvenze apparentemente contrastanti, sono spesso attribuite agli iberici (e anche agli indios messicani: cfr. Octavio Paz, Il labirinto della solitudine). Il discorso è però impegnativo, e non possiedo gli strumenti per affrontarlo.
Quanto alle similitudini col cattolicesimo ortodosso, si limitano alla superficie. Né buona né cattiva, la Santa Morte può essere invocata anche per scagliare maledizioni contro i propri nemici, e per operare azioni di magia tanto bianca che nera. Certi manuali “pratici” (come Los poderes magicos de la Santa Muerte, Ediciones S.M., s.l. ma Città del Messico, s.d.) sono simili ai grimoires medievali e rinascimentali, con ricette per procurarsi amore o denaro, per proteggere il proprio negozio, per confondere chi ci vuol male, per assicurarsi la salute.
Corredati da istruzioni per allestire altari (qui una certa parentela con il Vodou è sensibile, soprattutto nel rito di espirare fumo di sigaretta o di sigaro sul volto dell’immagine sacra), fabbricare talismani, scegliere pietre preziose, attuare fumigazioni. La natura di grimorio è confermata dalla presenza, in alcune orazioni, di termini ebraici mutuati dalla Cabala e transitati nel Medio Evo nei trattati di magia (a loro volta spesso redatti da preti cattolici).
Non ci troviamo dunque in presenza di una teologia articolata e coerente, bensì di una serie di suggestioni di provenienze disparate, unificate dalla potenza della figura misteriosa, ipnotica, temuta e amata, della Santa. Come è stato possibile che una “religione” così approssimativa, che è poco definire sincretica, abbia conquistato il cuore di milioni di messicani poveri e poverissimi, onesti o disonesti, comunque marginali?
Evidentemente forniva risposte a domande, di ordine sia sociale che morale, del tutto ignorate dalla religiosità tradizionale. Per capire quali fossero, occorreva immergersi nei meandri del quartiere di Tepito, labirintico ricettacolo di traffici e luogo caldamente sconsigliato, dalla guida “Lonely Planet” e da altre simili, a ogni turista. Fabrizio Lorusso l’ha fatto, senza lasciarsi intimidire e con un alto grado di partecipazione (critica, è ovvio). Lasciamoci dunque condurre da lui nei labirinti della Santa Morte, ben pochi occidentali conoscono meglio l’argomento. Se non scopriremo la verità ultima, almeno la toccheremo da vicino.
Tre cerchi. Critica e teoria
di Daniele Giglioli
Spiegare la crisi del rapporto tra critica e teoria letteraria non è difficile, ma è sbagliato. Un vero e proprio errore categoriale. Quando la crisi è crisi vera, è lei che spiega te, non viceversa. Chi pretende di spiegare una crisi o ne è già fuori (la nottola di Minerva che si leva sul fare del tramonto) o si inganna o è in malafede.
Tanto più che bisogna mettersi d’accordo su cosa si intende per crisi. Remo Ceserani ha mostrato di recente quanto lessico e procedimenti della teoria letteraria siano entrati a far parte dell’ossatura epistemologica di discipline che non hanno direttamente a che fare con la letteratura (antropologia e sociologia, psicologia e diritto, e perfino certi aspetti delle scienze naturali). In certi dipartimenti dell’accademia americana non si mette piede se non si snocciolano come un rosario i nomi di Foucault, Deleuze, Derrida, Althusser, e Said e Spivak e tanti altri. E gli studi culturali? Non si occupano solo di letteratura, ma dalle tecniche dello studio della letteratura hanno in gran parte ricavato le loro. E così gli studi postcoloniali, in Inghilterra e in America, e più ancora nei paesi ex colonizzati: mentre stiamo scrivendo ci sarà di certo più di una matricola, a Mumbai come a Hong Kong, a Kinshasa come a Rabat, che apre per la prima volta il suo The Foucault Reader. Se si sta all’indicatore della mera diffusione, altro che crisi: è piuttosto un successo at large, su scala planetaria. Tutto sta a chiedersi, semmai, come sempre, quale sia il rapporto tra la quantità e la qualità. Dove per qualità non si deve intendere la brillantezza o il rigore delle singole riuscite, ma la pregnanza, l’impatto complessivo che la teoria, nata dalla letteratura e poi infeudatasi altri territori, esercita sull’insieme del senso comune.
È qui che la crisi si fa patente. Egemonia nell’accademia (anglofona) non significa influenza. La teoria non è in affanno a causa della perdita di prestigio del suo oggetto primario (la letteratura, non più veicolo privilegiato di formazione per i dominanti, e di acculturazione per i dominati): lo ha barattato con la cultura, e di fronte alla parola cultura annuiscono rispettosamente un po’ tutti. È in affanno perché è venuta meno la speranza che per suo tramite si possa accedere a un’agency, a un empowerment sul proprio destino. Non presso le istituzioni (o almeno non dappertutto; ma a giudicare le cose dall’Italia o da un’Europa sempre più provincializzata si rischia di avere una visione sghemba): accademie, think tank e centri di ricerca. Ma agli occhi di coloro che la teoria stessa ha designato come i suoi destinatari veri: i subalterni, (una volta si sarebbe detto il popolo, poi il proletariato, oggi magari la moltitudine), coloro che si trovano a operare nella realtà sulla base di una mappa ideologica di cui non sono gli estensori ma i destinatari più o meno passivi. La teoria letteraria, ha ricordato Antoine Compagnon, nasce sempre come critica dell’ideologia, letteraria e non solo. Ma di questo c’è ogni giorno minor richiesta. Come ha notato Bruno Latour, alla tipica profferta del teorico: ti raccontano favole, ora ti spiego come stanno veramente le cose, si sente sempre più spesso rispondere: grazie, preferirei di no.
Le ragioni di questo “no” sono le ragioni della crisi. E per verificare quanto è vero che sono quelle ragioni a spiegare noi più che il contrario, proviamo a tracciare per contrasto i contorni dell’oggetto rifiutato. C’è una definizione di teoria coniata in tempi recenti da Fredric Jameson che ha il pregio (nonché i difetti, va da sé) della sintesi. Suona così. Teoria, nel senso storicamente situato che qui ci interessa, è una disposizione del discorso che ha avuto l’ambizione di sostituirsi alla filosofia e ad altri saperi partendo dal presupposto che il pensiero, i concetti e perfino gli oggetti di studio non possono prescindere dalla loro espressione linguistica. Teoria è sostituzione del discorso sul mondo con un discorso su come il discorso rappresenta il mondo. Teoria è critica del linguaggio in quanto il linguaggio non è una finestra sul mondo, ma la condizione stessa di possibilità attraverso cui il discorso umano non solo rappresenta ma modella, trasforma – crea, in un certo senso – il proprio mondo. Il che richiede una costante procedura di controllo, un’autoriflessione senza sosta che censisca puntualmente le implicazioni ideologiche e le conseguenze pragmatiche di ogni descrizione: quasi una sorta di, scrive Jameson, polizia del linguaggio. Ivi compreso del suo, perché, non esistendo davvero per l’essere umano la possibilità di attingere direttamente a qualcosa come un “fuori” dal linguaggio, la teoria stessa non può ambire a configurarsi come una sorta di zona aletica, di spazio esonerato dall’errore, di fissazione definitiva dei concetti e delle rappresentazioni – definitiva in quanto più adeguata, aderente, trasparente alla realtà che designa. Tu parli di fatti, ma in realtà le tue sono parole. Io controllo le parole, e dunque ho più presa di te anche sui fatti. Sospetto generalizzato. Instabilità categoriale. Sfiducia negli statements. Critica come habitus. Ogni discorso come discorso situato, parziale, implicato alle preoccupazioni (agli interessi) di chi parla. Senza per questo di necessità cadere nello scetticismo o nel relativismo nichilista. Diciamo piuttosto una sfiducia costruttiva. Ci costruiamo il mondo col linguaggio e questo è un fatto. Da qui la conclusione che il nemico mortale della teoria è la reificazione, il feticismo del significato ultimo, la metastasi dell’enunciato da procedura di costruzione di verità a ideologia, falsa coscienza, rappresentazione rovesciata.
Fin qui Jameson. Ma non è difficile scorgere dietro le sue parole una galleria di profili familiari. Ognuno riconoscerà i suoi: chi Derrida e la decostruzione; chi Althusser, perennemente crocefisso al dilemma di come la teoria possa porsi a termine medio tra la scienza (il reale è un processo senza soggetto e senza telos) e l’ideologia (ciò che ti interpella e ti istituisce nella pratica come soggetto; la rappresentazione necessariamente immaginaria che individui e classi si fanno, per potervi operare, della loro posizione rispetto a quel reale); chi uno dei padri dell’ermeneutica del sospetto, il giovane Nietzsche (e anche il vecchio) quando avverte che la verità è un «mobile esercito di metafore» perché ogni concetto è una metafora che ha dimenticato di esser tale.
I nomi si potrebbero moltiplicare. Ma ciò che conta qui è che la crisi di questa disposizione non nasce dal suo fallimento ma dal suo trionfo. Quale delle discipline che ne sono state investite non se ne è appropriata? L’antropologia? Pensiamo a Geertz e dopo di lui a Clifford, Marcus, Fischer, Crapanzano. La sociologia? C’è stato Bourdieu, e poi il revisionismo dei suoi allievi come Boltanski, se possibile ancora più attenti alla provenienza e al risvolto immediatamente pragmatico e soggettivo di ogni affermazione scientifica. Per non parlare della psicoanalisi, e della storiografia, dove Hayden White appare come un moderato e quasi un codino rispetto al nominalismo scettico di un Frank R. Ankersmit. Non senza reazioni, di distinguo o di rigetto, come è normale; ma l’idea è penetrata.
Più a fondo ancora sembrerebbe essere penetrata nel senso comune. Chi più dell’uomo della strada è oggi un costruttivista radicale? Vai a capire come stanno veramente le cose, ognuno parla per il suo interesse, bisogna capire cosa c’è dietro… E i politici, i potenti, una volta così preoccupati di trincerarsi dietro all’adorazione feticistica del puro fatto: «Lei mi sembra far parte di quella che noi chiamiamo – ha dichiarato nel 2004 lo spin doctor di Bush, Karl Rove, a un allibito editorialista del “Wall Street Journal” – di quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà (realitybased community)», e cioè coloro che pensano che le soluzioni politiche emergano da una valutazione coscienziosa della realtà osservabile. In effetti, farfuglia il giornalista: l’illuminismo, l’empirismo… Ma non è più così che funziona, lo interrompe Rove: «Oggi noi siamo un impero, e creiamo la nostra propria realtà nel momento in cui agiamo. E mentre voi studiate questa realtà, nel modo ragionevole che ritenete auspicabile, noi ci muoviamo di nuovo, creando altre nuove realtà, che voi studierete alla stessa maniera, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia, e a voi, a voi tutti, non resta che studiare quello che facciamo». Non si sa se disperarsi e applaudire questa franca confessione, che presumibilmente doveva rimanere off records. Siamo ben oltre il tradizionale pragmatismo americano: è come se Bush si fosse scelto per consigliere Friedrich Nietzsche in persona, o meglio ancora un Nietzsche senza follia, senza più scandalo, senza più orrore per aver osato pensare che la verità è solo un sottoprodotto della volontà di potenza. Nulla di più lontano dal grande internamento dei folli (di coloro cioè che si creano da soli la loro realtà, che vivono, come si dice, “nel loro mondo”) che ha presieduto secondo Foucault alla genesi della ragione moderna. La follia è migrata al cuore dell’impero – che non è poi la Casa Bianca ma il rizoma in perenne movimento delle agenzie di comunicazione.
Si potrebbe continuare: per esempio i generali israeliani che citano Deleuze e Guattari per spiegare ai loro soldati le nuove tecniche di rastrellamento nei territori occupati… Ma è meglio fermarsi. Anche perché nulla è più inutile che chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Lo fanno in molti: Eco che prende le distanze, dopo aver lanciato l’opera aperta e la semiosi illimitata, dal nichilismo ermeneutico; Carlo Ginzburg che dopo aver imposto all’onore del mondo le spie e il paradigma indiziario se la prende con Hayden White e la svolta linguistica; Arthur Danto che scomunica i teorici dell’Artworld che a lui si rifanno… Troppo tardi. Non è colpa loro, né nostra. Rimproverarsi di aver creato mostri è una consolazione da Frankenstein. Non sono le idee o le parole a far essere le cose, e credere il contrario è sintomo di un idealismo ingenuo che al di là delle apparenze non ha nulla a che fare con la teoria.
Dobbiamo invece accettare come veri tre assunti, e su questi prendere partito:
1) che la spinta da cui ha preso le mosse la teoria (o la critica tout court, e almeno dall’esortazione a camminare eretti di Kant, 1784) era giusta e lo è tuttora;
2) che le cose del mondo sono mutate al punto che i suoi nemici (non i suoi oppositori, accademici o en artiste: filologi scandalizzati, anime belle, cultori del quieto vivere e del business as usual come ce ne saranno sempre) hanno potuto appropriarsene per i loro fini;
3) che si tratta di comprendere cosa è mutato per vedere se una pratica come la teoria (sì, una pratica) è ancora possibile in un contesto tanto differente.
Per farlo, proviamo a individuare tre linee di forza nella struttura del nostro presente. Linee di forza che potrebbero rivelarsi anche linee di rottura (altrimenti che teoria sarebbe?), e che devono essere pensate, più che come delle rette, nella forma di tre cerchi intersecanti. Cerchi nei quali, più che sforzarsi frettolosamente di uscirne, conviene imparare a stare nel modo giusto.
Il primo cerchio è quello della crisi del paradigma linguistico. Soppiantata dalle scienze della cognizione, la linguistica non è più da tempo la guida delle altre discipline. Non che la ricerca non prosegua. Ma non fornisce più modelli paragonabili per successo e capacità di contagio a quello della linguistica strutturale. Quel modello ha mostrato da tempo la sua corda, è stato criticato dall’interno e dall’esterno, e fin dagli anni settanta anche in Italia c’è stato chi come Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo poteva sostenere che gli sprofondamenti abissali del post-strutturalismo erano il rovescio speculare dell’eccesso di pretese del suo antonimo.
Non ci interessa qui riprendere il discorso, né insistere su errori, sviste, forzature, interpretazioni errate di Saussure o Hjelmslev, semplificazioni come quella della coppia metafora/metonimia proposta da Jakobson o altro ancora. Anche perché credere che un paradigma ceda per collasso interno (o per cattiva alimentazione: se avessimo letto meglio Bachtin, o Benjamin qualche anno prima…), e non per l’attrito col mondo in cui si va a impattare, è di un’ingenuità nemmeno commovente. Di ben altro momento è invece chiedersi cosa ci fosse dietro al successo di quel paradigma: di quale desiderio fosse sintomo, di quale speranza fosse indice, di quale richiesta di verità si facesse portatore.
Il mondo intero come testo: non solo la letteratura (dimenticando autore e lettore, storia e contesto) ma anche la società e la psiche umana. Questo hanno rimproverato agli strutturalisti tanto i loro oppositori old fashioned quanto i culturalisti che ne hanno ereditato lo scettro. Questo e la pretesa di possedere un metodo scientifico esatto in grado di descriverlo, quando invece la critica e le scienze umane in generale sono modalità di conoscenza per loro natura dialogiche, discorsive, interpretative. Ma il sogno (o l’incubo) di una critica trasformata in scienza della letteratura è stato l’estremo rifugio di quell’aspirazione all’universale che la modernità ha inscritto nel suo programma fondativo. A fronte della moltiplicazione all’infinito della produzione culturale, alla fungibilità dei suoi prodotti e alla loro sussunzione sotto il dominio della merce, la critica “scientifica” ha tentato di svolgere la stessa funzione di cattura e addomesticamento che le scienze fisiche esercitano nei confronti dell’infinito naturale. Uno strumento di controllo, e anche un regolatore omeostatico d’angoscia, non dissimile da quel «pensiero selvaggio» che secondo Lévi-Strauss non serve solo a designare gli scambi e servizi in cui si articola la divisione del lavoro sociale, ma a situare la presenza dell’uomo nel cosmo nel momento in cui non ha la possibilità di farlo come soggetto.
Alla critica come scienza si è aspirato fin dal positivismo. Formalismo e strutturalismo praghese hanno dato il loro contributo. Ma non è un caso che quel desiderio sia divenuto egemone negli anni sessanta, al tempo della definitiva trasformazione delle società moderne in società opulente, fondate sul consumo di massa: una accolita di merci (e di comportamenti sociali a esse ordinati) tanto più sconfinata di quella che aveva di fronte a sé Karl Marx.
Innumerevoli, scriveva Barthes in un testo-manifesto come l’Introduzione all’analisi strutturale del racconto, sono i racconti del mondo. Per parlarne, la critica deve compiere lo stesso gesto che ha inaugurato la linguistica moderna: diventare deduttiva, ipotizzare una struttura soggiacente, un modello di tutti i modelli, da cui poi ridiscendere alla molteplicità dei fenomeni concreti altrimenti non intellegibili.
Che si trattasse di un programma irrealizzabile, Barthes è stato tra i primi a capirlo, e lo ha detto in S/Z. Ma a noi interessa qui intenderne l’intima necessità storica. Si apre davanti al critico lo spazio sterminato della letteratura-mondo, orale e scritta, intessuta di una miriade di imprestiti, interscambi, ibridazioni tra il centro e la periferia. E poi le altre arti, gli altri media. E poi la semiotica, che ravvisa segni e codici in ogni recesso della produzione sociale. Aggiungiamoci l’alfabetizzazione di massa, l’aumento vertiginoso della produzione e del consumo, il tramonto di quelle confraternite di gusto che sono le élites, le classi superiori. Troppa grazia. Se però la cultura è un sistema di sistemi, una rete di strutture riconducibili tutte a un’unica struttura sovraordinata (la quale, una volta individuata, avrebbe dovuto coincidere con la natura umana, anche se non lo si ammetteva volentieri, Chomsky a parte) allora abbiamo una chiave universale per accedervi, dominarla, metterla in comunicazione con se stessa. Se tutti i sonetti, da Dante a Baudelaire, sono analizzabili con la stessa procedura, se addirittura oggetto della teoria, come ha scritto Gérard Genette, non è solo il reale ma l’intero «possibile letterario», i testi scritti e quelli ancora non scritti, allora non solo abbiamo una bussola, ma possiamo argomentare i nostri giudizi, e comunicarli, capire e farci capire da chiunque, Ottentotti e Parigini, una volta diffusa la buona novella del metodo. Un metodo si può insegnare, condividere, mettere a punto collettivamente in quel processo di continua aspirazione all’universalità senza la quale della modernità non è più nulla.
Era un errore: ma un errore generoso, non un peccato d’orgoglio.Un errore, semmai, tragico, risultato di un accecamento, ovvero dell’incapacità di vedere quanto l’universalità si stesse sempre più implacabilmente realizzando come dominio del valore di scambio, cioè come trionfo della merce. La struttura vagheggiata dai teorici del Novecento è il nome d’arte sotto cui esercita la realtà della merce, nella sua totale requisizione dell’universo sensibile e intellegibile, lavoro umano compreso, creatività inclusa. Potranno mutare le risposte; ma ogni teoria e ogni critica a venire non potranno, anche in ricordo di quel sacrificio, mai fare a meno della consapevolezza di avere presto o tardi un appuntamento obbligato con quel Moloch. Hic Rodhus, hic salta.
Nel secondo cerchio si contempla la fine del paradigma ermeneutico Discende dallo stesso stato di cose appena ricordato. L’interpretazione si è sempre configurata come una pratica da applicare a oggetti di valore già garantito. Prima il testo sacro, poi quello giuridico, e solo dalla fine del Settecento quello letterario, quando la letteratura è stata elevata a oggetto di valore sapienziale come reazione a quella fine del sistema dei generi (alti e bassi, con i loro corrispettivi pubblici) in cui consiste, come ha mostrato Jacques Rancière, il passaggio dal regime delle belle arti e delle belle lettere a quello dell’estetica moderna, soggettiva e proprio perciò impossibilitata a stabilire con certezza i propri confini. Al disorientamento per la perdita di distinzione tra ciò che è costitutivamente (e non condizionalmente, per rifarsi a una nota distinzione di Genette) artistico e ciò che non lo è, si è risposto con la sacralizzazione del letterario, le sacre de l’écrivain di cui ha parlato Paul Bénichou, il poeta che scende alle Madri o che si fa veggente. Un veggente bisogna interpretarlo. Perché solo testi privilegiati (fondativi, decisivi, complessi, difficili) hanno diritto all’interpretazione. In claris non fit interpretatio. Per questo l’interpretazione letteraria ha potuto per un paio di secoli diventare un mestiere, forte di un’alleanza nel segno dell’autorità che teneva insieme sapere e potere, cultura e istituzione, prestigio e cariche, metodo e carriera. Ci sono oggetti più importanti di altri ed io, l’interprete, sono l’unico accreditato a parlarne in ragione della mia competenza, della mia accuratezza, del rigore dei miei procedimenti: lo riconosce anche lo Stato, che per questo ha istituito delle cattedre apposite.
L’idea stessa che la critica sia interpretazione – e implicitamente o esplicitamente teoria dell’interpretazione – è un evento databile. Voltaire non l’avrebbe capita. Chi avesse chiesto a Racine perché scriveva si sarebbe sentito rispondere che lo faceva per la ricreazione dell’honnête homme, non certo per farsi veggente. Ma è databile anche la sua morte. Il dominio della merce, nato insieme al regime dell’estetica per parto gemellare, doveva portare sempre di più ad affiancare ed equiparare ai testi “alti” un universo di produzione simbolica fatta di oggetti che, se così si può dire, non desiderano affatto essere interpretati. Cultura di massa, industria culturale, mainstream, poco importano i nomi. Un videoclip, uno spot, una produzione blockbuster non li si interpreta con gli stessi strumenti di un film di Antonioni.
Più ancora, non li si interpreta proprio. Davanti a questo tipo di prodotti (che sono in schiacciante maggioranza; che rappresentano il principale mezzo di acculturazione delle nuove generazioni; che generano valore, perché si vendono e perché impongono modelli; che stanno unificando in un gigantesco mediascape l’intera superficie planetaria) l’atteggiamento interpretativo è fallace per definizione. Nulla di più ridicolo di un docente di scienza delle comunicazioni intento a spiegare a un diciottenne “come è fatto” un clip che quello capisce meglio di lui, a colpo d’occhio, mentre con una mano invia SMS e con l’altra chatta su Facebook. Velocità, superficie, surfing, fruizione distratta (quella già messa a fuoco da Benjamin per il cinema), presa d’atto senza più rovelli abissali che il mondo vero è diventato favola, sono le attitudini richieste: l’esatto contrario dell’atteggiamento interpretativo.
Né morde più di tanto sopra questa galassia testuale l’altro tradizionale ramo dell’attività ermeneutica: lo smontaggio dell’errore, il debunking, la critica dell’ideologia implicita tanto nel codice quanto nel messaggio. Tu vedi questo, ma in realtà (dove “in realtà” sta per “in profondità”) le cose sono ben diverse. Intanto perché la dimensione della profondità è bandita. E poi perché nessuno è veramente ingannato da uno spot: la partita non è questa. La Willing Subspension of Disbelief è uscita dai suoi cardini, si è fatta habitus forma di vita, attitudine antropologica che addestra il destinatario alle prestazioni necessarie a sopravvivere nella società del capitalismo cognitivo: opportunismo, disincanto, molteplicità senza sintesi, reazione immediata agli stimoli, quel tanto di piacere che è necessario a svolgere volontariamente una prestazione comunque dovuta. E infatti, perché mai governi e capitali privati dovrebbero pagare dei professionisti del debunking? Il limite di quei dipartimenti di Studi Culturali in cui è andata a rifugiarsi (pardon: a trionfare) la teoria non consiste proprio nella loro pretesa di allevare ex cathedra dei sovversivi? A fine Ottocento si deridevano i Kathedersozialisten. A inizio Duemila l’impressione è talvolta la stessa.
Da questo circolo non si esce facendolo girare all’indietro. Il prestigio e il carisma della critica non ritorneranno. E bisogna avere il coraggio di affermare: per fortuna. Erano le vestigia di un mondo gerarchico. Solo assentendo a questo tramonto le tecniche dell’interpretazione potranno essere volte a un compito inedito e migliore, qualcosa che, come il «sogno di una cosa» di cui parlò una volta Marx, abbiamo sempre desiderato senza mai averlo davvero. Perché ciò accada bisogna fare un esercizio di quella che Foucault chiamava l’ontologia del presente: bisogna cogliere l’emergenza di una possibilità che, insieme, era da sempre lì, e, nello stesso tempo, solo ora emerge come effettivamente possibile. Più che fornire altre interpretazioni (indagando al tempo stesso le condizioni di possibilità dell’interpretazione), la critica e la teoria devono avventurarsi in un terreno già da sempre alla loro portata, ma mai esplicitamente rivendicato come proprio. Devono farsi, da interpretazione, esemplificazione, imparare a pensarsi, più che come pensiero e comunicazione, come un gesto, una performance, un evento, un processo costituente che si dà le regole nell’atto del suo stesso accadere. Devono farsi paradigma, modello, esempio di una politica delle verità (per parafrasare Badiou) che non è possibile addurre se non attraverso quell’esempio medesimo. Devono sostenere davanti a chi le ascolta: non conta tanto cosa dico e nemmeno il metodo con cui lo dico, ma piuttosto il fatto stesso che attraverso le mie tecniche io possa prendere efficacemente la parola Non: guardate cosa c’è in questo testo, ma piuttosto: guardate cosa è possibile fare leggendo, guardando e ascoltando questo testo. Un fare, dunque, che aspira al rango dell’agire: praxis, non poiesis, per riprendere una distinzione che struttura il lessico della polis antica. Un processo che ha il proprio fine in se stesso, e non nel fatto di mettere capo a un oggetto esterno a sé, come accade invece nella poiesis, nella produzione. Un atto radicalmente, costitutivamente politico, tanto più tale quanto più i risultati dell’attività critica e teorica diventano di giorno in giorno meno spendibili nel circuito della produzione. Un atto sovrano, e una promessa di felicità, perché soltanto ciò che non ha altro fine cui tendere oltre se stesso può generare qualcosa come una felicità terrena. Solo passando da enunciato a gesto, da simbolo a esempio, da discorso ad atto, la teoria e la critica possono ancora pretendere a un destino. Non a caso i filosofi antichi collocavano al cuore della polis il bios theoretikos.
Il terzo cerchio, infine, citato da ultimo ma primo per genealogia e importanza: la crisi della secolarizzazione. Torniamo per un attimo alla definizione di Jameson: l’inimicizia radicale tra teoria e reificazione, il linguaggio come perpetuo flusso, come energheia e non come ergon, la critica dell’ideologia, non la rinuncia alla verità ma la sfida alla menzogna. Un gesto, ancora una volta, più che un insieme di concetti e tecniche.
Da dove trae origine? Non è difficile rispondere. Da quella sfida all’autorità della religione che era implicita, moderata o estremistica che fosse, nel processo che porta il nome generico di illuminismo. Teoria e critica come sintomo e insieme come fattore di secolarizzazione. Come contesa per la verità con le religioni rivelate, quand’anche si accettasse di concedere loro, come faceva per esempio Voltaire, un’utilità pratica (per tenere a freno le masse: non tutti possono essere illuminati) e un nocciolo di ragione (un qualche dio dovrà pur esserci); ma pur sempre, appunto, per graziosa concessione della ragione. Le cose ultime sottratte dalle mani dei teologi (e poi, non senza un lungo e tortuoso andirivieni, anche da quelle degli scienziati, che pretendevano di averle ereditate). Solo arbitro la critica, e la teoria che ne è il risvolto autocosciente.Ma che questo atteggiamento abbia oggi perso pregnanze e legittimità è di un’evidenza che acceca. Nelle società secolarizzate il sacro rispunta da ogni dove, il mistero è quotidiano, il numinoso si trova in pieno rigoglio: basti pensare alla fortuna di produzioni librarie e cinematografiche come Il Signore degli anelli, Harry Potter, X-files, Il codice da Vinci; alla proliferazione incontrollata e antiecologica di vampiri e lupi mannari; alla stucchevole simpatia di cui gode il Dalai Lama, con grande scorno di Slavoj Zizek. Uno strano sacro, certo: consumabile, domestico, tascabile; ma straordinariamente efficace, complice anche quella generalizzata sospensione dell’incredulità che ha dalla sua, come si è visto, ragioni niente affatto frivole, prima fra tutte quella di garantire il nesso tra piacere e prestazione. Il sacro, diceva Durkheim, garantisce il passaggio dal necessario al desiderabile. In un mondo profano, Dio parla per spot: ovvero, il sacro è ovunque. Lo aveva già intuito (però denegandolo) l’estetica moderna, col suo perpetuo centramento tematico e formale sul dispositivo dello choc. Ma basta allargare lo sguardo oltre i confini del cosiddetto Occidente per accorgersi che la questione è assai più seria. La religione (e con essa la tradizione) è al centro del dibattito sul destino di molti paesi ex coloniali: arabi e indiani, africani e asiatici. Nella galassia degli studi postcoloniali sta facendo versare molto inchiostro la formula celebre di Edward Said secondo cui la critica è intrinsecamente «secolare»: penso in particolare al dibattito fiorito intorno alle riflessioni di un teorico eminente come Talal Asad. Ma cosa significa “secolare” presso popoli per i quali l’illuminismo era il sapere degli invasori? Non a caso c’è chi ha parlato di «coscritti della modernità». Come dobbiamo interpretare i loro linguaggi e i modi della loro politica? Non è lo stesso concetto di emancipazione troppo compromesso, ha osservato Dipesh Chakrabarty, con il nostro linguaggio, la nostra storia, il nostro angolo visuale? Una folla di contadini indiani si solleva in sciopero sostenendo che al momento buono apparirà un loro dio a guidarli. È perché non hanno ancora chiaro il concetto di lotta di classe? Dobbiamo chieder loro di applicare il nostro imperativo di debunking? La nostra teoria può veramente aspirare a essere universale? Se sì, come? E se no, se quel nesso con l’universalità in cui consiste il suo primo titolo di nobiltà viene rescisso, che ne resta? Non rischiamo di continuo di sentirci rivolgere da loro, come anche dai consumatori coatti ma tutt’altro che inconsapevoli delle nostre madrepatrie, il già citato no grazie, non ci demistificate niente, siamo a posto così?
Tanto più che, come va ripetendo da tempo Bruno Latour, nel nostro apparato critico è implicita una sorta di mossa segreta in due tempi che permette a chi la adotta di vincere sempre: a chi crede di vedere un fatto si insinua che in realtà ciò che vede è una proiezione del suo linguaggio su una realtà che non può mai conoscere direttamente; ma a chi ne deducesse di stare con ciò compiendo almeno un atto libero e sovrano (alla Karl Rove, per intenderci) si ribatte che in realtà in quella proiezione non c’è nulla di libero, in quanto condizionata dalle soverchianti e impensate forze dell’economia e della cultura, della struttura e della sovrastruttura. L’altro, non noi, si trova sempre nella posizione dell’idolatra: «it feels so good to be a critical mind». È bello sentirsi parte di una minoranza eroica. Basta poi non stupirsi se le maggioranze ti chiedono di toglierti dai piedi.
Minoranza, minorità, uscita dallo stato di minorità… Era il motto di Kant che abbiamo già citato. Élites, per quanto rivoluzionarie, coscienze dall’esterno di una massa desiderosa (e non solo bisognosa che sarebbe paternalistico e insultante) di credere più che di criticare. Pessima situazione. La radice vera della crisi. Il terzo cerchio è il più terribile di tutti. Quello in cui per la teoria ne va davvero, come diceva Don Abbondio, della vita. Come può rivendicare la dignità della sua genealogia – che è quella e non un’altra, non si scappa – in un mondo globalizzato che ha tutte le ragioni per diffidarne?
Una domanda cui sarebbe ridicolo rispondere in un saggio: non è un lavoro che si fa da soli né tutto in una volta. Da più di trent’anni vi si applicano non a caso tanto Spivak quanto il gruppo dei Subaltern Studies fiorito intorno a Ranajit Guha. Ma cerchiamo almeno una indicazione di percorso valida anche per chi non proviene dal Bengala e non insegna negli Stati Uniti (è il guaio della teoria voler essere sempre e nello stesso tempo universale e situata). Indicazione, d’altra parte, che dovrebbe risultare implicita da quanto siamo venuti dicendo fin qui.
Si è detto che quello strano oggetto che chiamiamo teoria può essere – da sempre e insieme solo ora – davvero possibile unicamente a patto che si pensi, in apparente contraddizione coi suoi termini, come esemplificazione di una prassi. Ma perché ci sia prassi è necessario che ci sia un soggetto. Non un Io – che, come insegna la psicoanalisi, è essenzialmente un meccanismo di difesa. Né meno che mai una cultura, espressione ambigua, scivolosa e temibile. Non per nulla è stata tanto facilmente scippata ai teorici (secondo i quali è un processo performativo sempre in costruzione ecc. ecc. ecc.) per mano di un’accolita di ideologi grossolani intenzionati a servirsene come di una clava verbale che più sostanzialista non si può: la nostra cultura, la loro cultura, lo scontro tra culture… È implicita anche nel concetto di cultura – comunque la si definisca: Bildung o Kultur, autopoiesis o retaggio ancestrale dei lari e dei penati – una dinamica di offesa e di difesa, un’immaginazione del confine. Vuoi, per i reazionari, come territorio in cui non far penetrare gli altri. Vuoi invece, in un senso più profondo, come continua espansione al di là dell’ambiente naturale da parte di una specie umana povera di istinti e ricca di pulsioni, incapace di distinguere come altre specie tra segnale (pertinente alla sopravvivenza) e rumore (trascurabile): poiché non abbiamo un ambiente ci inventiamo mondi. Ma non è mai la specie nel suo insieme che lo fa. Perché ciò avvenga è necessaria appunto l’entrata in scena di un’istanza cui sia possibile imputare la domanda: chi? Chi fa, chi ha fatto, chi ha intenzione per il futuro di far questo? Questa istanza è il soggetto.
Ma il soggetto è stato il grande assente, il capro espiatorio, il fulcro archimedico denegato di tutta la migliore teoria novecentesca: respinto come «fallacia intenzionale» dal New Criticism; degradato a mero esecutore di matrici nella semiotica e nello strutturalismo; decostruito dal post-strutturalismo; indebolito o sociologizzato dalla neoermeneutica e dall’estetica della ricezione; barattato con dubbio profitto con la sua reificazione in “identità” nella vasta galassia degli studi culturali. Con la parziale eccezione, lo si è visto, degli studi postcoloniali e subalterni, dove però per il momento è più un interrogativo che una soluzione. Se è dalla prassi che la teoria muove, e se è alla prassi che ambisce ritornare, il soggetto deve ricominciare a essere la sua preoccupazione principale.
Ed è proprio qui, seppelliti tutti i morti che c’erano da seppellire, che possiamo ritrovare un ruolo efficace anche alla pratica oramai spettrale della critica letteraria. Perché quale migliore addestramento al formarsi e al disfarsi del soggetto di quello che può fornirci l’uso esemplare che facciamo dei testi letterari?
L’esemplificazione è la madre, la matrice e la genealogia di ogni possibile soggettività a venire. Non c’è bisogno di essere un formalista fuori tempo massimo per sostenere che i testi letterari non hanno nulla a che vedere con la trasmissione di un qualsivoglia tipo di sapere. Non è così che funzionano, non è per questo che li scriviamo e li leggiamo. La letteratura non rappresenta mai un «che cosa» dice «chi»: mette in scena un agente, una coscienza, una ragnatela di rapporti possibili tra coscienze possibili: «tutto il conosciuto – diceva Bachtin – deve essere correlato al mondo in cui si compie l’atto umano e sostanzialmente legato alla coscienza agente, e solo per questa via esso può entrare nell’opera d’arte». Presuppone un soggetto perché lo finge. Familiarizza all’uso di sé attraverso l’altro. Mostra come si possa fare un’esperienza che è sempre in situazione e nello stesso tempo fuori dal recinto immediato del nostro angolo visuale. Al di là della cattiva infinità insita nell’opposizione tra individuale e collettivo, istituisce, come dicevano Benjamin e Adorno, il testo e chi lo legge a monade in cui si rispecchia l’universo. Singolarità, in potentia, universale, che è l’esatto analogo linguistico del soggetto materiale della prassi: perché solo nella prassi – necessariamente collettiva, se praxis è partecipazione nella polis – ci si incontra e ci si trasforma come singoli. Coi contadini indiani in rivolta ci confronteremo solo quando avremo la consapevolezza che le loro lotte concrete (e le nostre eventuali) hanno bisogno, per essere davvero efficaci in un mondo globalizzato, di sapersi immaginare a vicenda. Questo può insegnarci a fare la letteratura.
Ma sarebbe feticistico pensare che ciò accada in forza di una sua virtus intrinseca. La letteratura non fa nulla da sola. La letteratura è l’uso che ne facciamo, appunto, come soggetti. Per questo è necessaria la critica, e alla critica è necessaria la teoria, e alla teoria la prassi – e alla prassi la letteratura: in un circolo non più vizioso ma virtuoso. A chi obbiettasse in conclusione che in questo saggio di letteratura abbiamo parlato ben poco, si può in buona coscienza rispondere che non abbiamo parlato d’altro.
Daniele Giglioli
[Da “il verri” n. 45, In teoria, in pratica, Febbraio 2011. Immagine: Richard Serra.]
Nota.
La diffusione di concetti e metodi della teoria letteraria è illustrata da Remo Ceserani in Convergenze, Bruno Mondadori, Milano 2010. Teoria letteraria come critica dell’ideologia è il punto di partenza di Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000. Di Bruno Latour si fa riferimento qui a Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in “Critical inquiry” 30: 2 Winter 2004, oltre che al suo classico Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 1995. La definizione di teoria di Fredric Jameson deriva da un suo intervento al simposio sul “Futuro della critica” organizzato sempre da “Critical inquiry” nel 2003; la si legge nello stesso numero che ospita il saggio di Latour. Un buon bilancio delle difficoltà in cui versa la teoria è quello non più recentissimo ma molto accurato proposto dalla rivista “Moderna” nel 2005, con singoli saggi dedicati alla situazione italiana, inglese, francese ecc. Segnalo in particolare il saggio di Franco Marenco sulla critica inglese, in quanto contiene un elenco esilarante di titoli tutti costruiti in forma di variazione sul tema “contro la teoria/dopo la teoria”.
Chi scrive ha discusso la paura per il contagio del costruzionismo nelle scienze umane in un saggio su Umberto Eco, Carlo Ginzburg e la genesi del nuovo romanzo storico italiano, in un saggio di prossima pubblicazione nell’Atlante della letteratura italiana Einaudi, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà. La notizia che l’esercito israeliano si serve di Deleuze e Guattari (macchine da guerra flussi, rizomi…) si legge in Eyal Weizman, Architettura dell’occupazione, Bruno Mondadori, Milano 2009. Di Nietzsche si cita da Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Frammenti postumi III, Estate 1872 – Autunno 1873, Adelphi, Milano 2005. Il saggio di Kant Che cos’è l’illuminismo, risposta alla domanda posta da una rivista dell’epoca, cui si fa più volte riferimento nel testo, si può leggere insieme alle altre risposte e a saggi coevi (di Mendelssonn, Hamann, Herder tra gli altri) nell’antologia curata da Nicolao Merker, Che cos’è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 1987.
Franco Brioschi e Costanzo di Girolamo hanno smontato pazientemente il paradigma strutturalista in libri come La mappa dell’impero, il Saggiatore, Milano 1983, e Critica della ragione poetica, Bollati Boringhieri, Torino 2002 (Brioschi), o come Critica della letterarietà, il Saggiatore, Milano 1977 (Di Girolamo). Di Barthes si cita da Introduzione all’analisi strutturale del racconto, in AAVV, L’analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969; e da S/Z, Einaudi, Torino 1970. Di Gérard Genette, da Figure III, Einaudi, Torino 1973, e da Finzione e dizione, Pratiche, Parma 1994. Di Paul Bénichou è da tener presente La consacrazione dello scrittore. L’avvento dello spirito laico nella Francia moderna (1750-1830), il Mulino, Bologna 1993. Di Jacques Rancière, che ha molto influenzato questo scritto, rimando almeno a Il disagio dell’estetica, ETS, Pisa 2007, e Politica della letteratura, Sellerio, Palermo 2010. Una buona introduzione al pensiero di Badiou è il suo Etica. Saggio sulla coscienza del male, Cronopio, Napoli 2006. L’antipatia di Zizek per il ruolo ideologico del Dalai Lama si legge per esempio in Difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Ponte alle Grazie, Milano 2008. Sul sacro popular-postmoderno fa osservazioni acute Em McAvan, The Postmodern sacred, “Journal of Religion and Popular Culture”, 22: 1 Spring 2010.
Sulla parola d’ordine della critica come procedura secolare il testo di riferimento per gli studi postcoloniali è Edward Said, The World the Text and the Critic, Harvard University Press, Cambridge (Mass) 1983. Un fecondo dibattito su secolarismo e critica è fiorito intorno alle opere di Talal Asad (tra le quali in particolare Formation of the Secularity: Christianity, Islam, Modernity, Stanford University Press, Stanford (CA) 2003, e Is Critique Secular? Blasphemy, Injury and Free Speech, Townsend Century for the Umanities, University of California Press, Berkeley 2009, che contiene anche scritti di Judith Butler, Wendy Brown e Sana Mahmood). Qualche esempio: Michael W. Kaufmann, The Religious, the Secular, and Literary Studies: Rethinking the Secularization Narrative in Histories of the Profession, “New Literay History”, Volume 38: 4, Autumn 2007; Donald E. Pease, The Crisis of Critique in Postcolonial Modernity, “boundary 2”, 37: 3 (2010); la splendida formula sui colonizzati come coscritti della modernità è copyright di David Scott, The Conscripts of Modernity: The Tragedy of Colonial Enlightenment, Duke University Press, Durham (NC) 2004. Mentre vanno sempre tenuti sullo sfondo di queste discussioni Ranajit Guha (iniziatore dei Subaltern Studies), La storia ai limiti della storia del mondo, Sansoni, Firenze 2003; Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004; e Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004. La cultura come tensione tra ambiente e mondo, istinto e pulsione, è uno dei temi dominanti dell’antropologia filosofica del Novecento (Gehlen, Plessner, ma anche un biologo come von Uexküll e un filosofo come Heidegger), ripreso di recente con grande vigore speculativo da Paolo Virno e Massimo De Carolis. La citazione finale di Michail Bachtin è tratta da L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1979.
Aspetta primavera, stronzo – Un corso di sopravvivenza editoriale
(Ricevo questa segnalazione da Tommaso Giagni, e volentieri la ripubblico qui. gz)
“Aspetta primavera, stronzo” è un corso di sopravvivenza editoriale, organizzato dall’Agenzia letteraria Vicolo Cannery.
Trentadue ore, divise in quattro weekend, dal 23 febbraio al 23 marzo 2013.
Un corso libero perché, se ti devi formare, non puoi già avere un curriculum. Gratuito perché i saperi, come le storie, sono di tutti. Dissuasivo perché l’editoria è un deserto con troppi miraggi. Un corso tenuto da professionisti ma non professionalizzante.
Dicono che, dopo un corso di formazione a pagamento, avrai il tuo stage. Che devi appropriarti degli strumenti per imparare il mestiere, e che in primavera quello stage diventerà un lavoro. Dicono che quel lavoro è affascinante e ha il profumo dei libri. Dicono che quel lavoro è una missione anche se costa più di un sacrificio. Allora ti dicono che sei come un figlio e condividi il progetto.
Invece.
Avrai uno stage con un corso di formazione a pagamento solo nel migliore dei casi. Non è formazione, ma lavoro non retribuito. Andrai a sostituire uno stagista precedente e poi a tua volta da uno stagista sarai sostituito. Il ciclo continuerà a ripetersi, fornendo manodopera gratuita all’infinito.
Può anche andar meglio e il lavoro lo trovi davvero, ma sarà sottopagato, intermittente, senza diritti, alienante, in una competizione al ribasso ogni anno inflazionata da nuovi corsisti poi stagisti poi precari. E un giorno qualsiasi di questo inverno senza fine ti faranno aprire una partita Iva, e sarai diventato un “imprenditore”.
Questo corso è per quelli che aspirano a trovare refusi a 0,22 centesimi a cartella; a scoprire che i libri non si sono mai venduti; a sorridere anche se non hanno voglia per una recensione in più; a vedere una prova di traduzione pubblicata in volume; a cedere i diritti sulle proprie opere a condizioni capestro; a cercare visi di donna per una copertina «d’impatto»; a editare libri in cui non credono.
Aspetta. Aspetta primavera, stronzo.
Tutti i sabati e le domeniche dal 23 febbraio al 23 marzo 2013
Orario: 15.30 – 19.30
Kino, via Perugia 34, Roma (zona Pigneto)
Ingresso gratuito soci Arci
REDAZIONE (sabato 23 febbraio 2013):
Alessia Ballinari, Redattori precari, redattrice (ultimo libro lavorato: E. Carrère, Limonov, Adelphi 2012)
Margherita Bianchini, Redattori precari, redattrice (ultimo libro lavorato: A. Forte, La Londra degli italiani, Aliberti 2012)
Luisa Capelli, docente di Economia e gestione delle imprese editoriali presso l’università di Tor Vergata.
EDITING (primo giorno, sabato 2 marzo 2013):
Vincenzo Ostuni, Ponte alle Grazie
COMMERCIALE E LIBRERIA (domenica 3 marzo 2013):
Gianluca Catalano, direttore commerciale Edizioni e/o
Davide Manni, Libreria minimum fax
TRADUZIONE E REVISIONI (sabato 9 marzo 2013):
Gaja Cenciarelli, traduttrice (ultimo libro tradotto: T. O’Neill, City, Playground 2012)
Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai, consulente editoriale e traduttore (ultimo libro tradotto: B. Stoker, Il mistero del mare, Nutrimenti 2012)
UFFICIO STAMPA E GIORNALISMO CULTURALE (domenica 10 marzo 2013):
Chiara Di Domenico, responsabile ufficio stampa L’Orma Editore
Loredana Lipperini, giornalista e conduttrice di “Fahrenheit”
L’EDITORIA SECONDO GLI AUTORI (sabato 16 marzo 2013):
Carolina Cutolo
Wu Ming 2
EDITING (secondo giorno, domenica 17 marzo 2013):
Marco Di Marco, Marsilio
GRAFICA (sabato 23 marzo 2013):
Maurizio Ceccato, grafico








