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Ma cosa intendiamo con istruzione, oggi, se già Vladimir Nabokov la sapeva così lunga?

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Fotogramma tratto da Lolita, di Stanley Kubrick, 1962

[I classici sono la miniera che sapete – e in questi giorni, rileggendo Lolita, di Nabokov, mi sono imbattuto in un passaggio folgorante per nitore e attualità. In poche parole, Humbert Humbert, dopo un lunghissimo viaggio in macchina – un viaggio che, in realtà, è sia una fuga d’amore sia una dettagliata mappatura del paesaggio americano – è arrivato a Beardsley, qui cerca una scuola dove iscrivere Lolita, così va a colloquio con la direttrice della Beardsley School, la quale non perde un attimo per spiegare all’uomo davanti cosa sia la scuola, secondo lei. Leggendolo nel suo contesto, sembrerebbe un passaggio molto funzionale al romanzo, e invece Nabokov, con impareggiabile grazia, schierandosi apertamente non solo a fianco di Lolita, ma degli adolescenti in genere, tratteggia la deriva in cui, già nel lontano 1955, anno di pubblicazione del romanzo, sembra scivolare la scuola e il sistema di istruzione. La deriva, a guardare meglio, riguarderebbe la trasformazione degli studenti da compositori – persone che, un giorno, possedendone i mezzi, misurandosi con la tradizione, potrebbero aspirare alla costruzione di un’opera d’ingegno – a più scontati consumatori di prodotti culturali, del resto molto funzionali alla società dello spettacolo che tanto conosciamo. Ovviamente, le cose sono ancora più complesse, questa è solo una parte degli spunti che darà la lettura del passo riprodotto in basso, ma questo è un punto su cui ritornerà anche Roland Barthes, nel 1978, mentre tiene al Collège de France il corso La preparazione del romanzo. Secondo lo studioso, la nostra sarebbe diventata una “cultura di “prodotti” puri in cui il desiderio di produzione è svanito, forcluso (lasciato a dei puri professionisti)”. Insomma, è come se, con la deriva della scuola – semmai fosse una vera e propria deriva, questo è tutto da verificare, e non parte del suo spirito costitutivo – ci fossimo giocati gran parte delle possibilità di far crescere e sviluppare delle persone appassionate al mondo, che aspirino a ricostruirlo e rimodellarlo, piuttosto che alla grandissima quantità di consumatori del mondo, che seguono le volute della realtà con freddo distacco. Anche questa è una divisione di comodo, me ne rendo conto – ma è forse anche il motivo se, a volte, con immancabile senso di colpa, di fronte alla molteplicità degli eventi culturali che le grandi città offrono, io non tragga altro profitto se non quello della mia presenza tra innumerevoli altre presenze, con il bicchiere in mano, soffermandomi solo di tanto in tanto sul decoro di un qualche quadro appeso alla parete. gz]

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Fotogramma tratto da Lolita, di Stanley Kubrick, 1962

di Vladimir Nabokov

Per farla breve, pur adottando determinate tecniche di insegnamento, noi siamo interessati più alla comunicazione che alla composizione, e cioè, con tutto il rispetto di Shakespeare e compagnia, noi vogliamo che le nostre ragazze comunichino liberamente con il mondo vivo intorno a loro, invece che tuffarsi in vecchi libri ammuffiti. Forse brancoliamo ancora nel buio, ma brancoliamo con discernimento, come un ginecologo che tasti un tumore. Noi, dottor Humburg, pensiamo in termini organici e organizzativi. Abbiamo eliminato quella massa di argomenti incongrui che venivano tradizionalmente offerti alle ragazze, e non lasciavano spazio, nei tempi passati, alle conoscenze, alle tecniche e agli indirizzi di cui avranno bisogno nel gestire le proprie vite e – potrebbe aggiungere il cinico – le vite dei mariti. Mr. Humberson, mettiamola così: la posizione di una stella è importante, ma per una massaia in boccio il posto più pratico che in cucina può occupare il frigorifero può essere ancora più importante. Lei dice che dalla scuola si aspetta solo una solida istruzione. Ma cosa intendiamo con istruzione? Una volta si trattava più che altro di un fenomeno verbale; voglio dire, se un bambino avesse imparato a memoria una buona enciclopedia avrebbe appreso tutto quello che può offrire una scuola, e anche di più. Dr. Hummer, si rende conto che per la preadolescente di oggi i programmi scolastici contano meno di quelli cinematografici [occhiolino]? – per ripetere una battuta che si è concessa l’altro giorno la nostra psicoanalista. Viviamo non solo in un mondo di pensieri, ma anche in un mondo di cose. Le parole, se non sono confortate dall’esperienza, non hanno significato. Che cosa può mai importare a Dorothy Hummerson della Grecia e dell’Oriente, con i loro harem e le loro schiave adolescenti?

[Da Lolita, di Vladimir Nabokov, pp. 223-224, Adelphi]

Il racconto preferito di Zadie Smith l’ha scritto Giuseppe Pontiggia

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Il prescelto di Zadie Smith è “Umberto Buti” (“Incontrarsi”) di Giuseppe Pontiggia (dalle “Vite di uomini non illustri”). Il Guardian ha chiesto alla scrittrice inglese (e ad altri autori) di indicare il suo racconto preferito e poi di leggerlo (si veda il podcast sotto).

Le discese ardite e le risalite

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Scendere in campo/ Salire in politica: analisi di due metafore.
di
Gigi Spina

“Talking about music is like dancing about architecture” (Parlare di musica è come danzare di architettura).
Questa brillante e paradossale comparazione, attribuita plausibilmente all’attore Martin Mull, introduce egregiamente l’analisi che intendo offrire come contributo professionale alle/ai mie/miei ex studenti in vista della prossima competizione elettorale, anche per fornire strumenti di lettura dei prevedibili interventi giornalistici che si concentreranno, invece che sui programmi, su questa affascinante contesa retorica.
Scendere vs Salire: la contrapposizione è netta nella prima parte della metafora, con il corollario valutativo di Facile vs Difficile.

Ma passiamo alla seconda parte: cosa contrappone Campo e Politica? Solo il valore metaforico complessivo della prima metafora; i due termini presi in sé non si contrappongono in alcun modo. Scendere in campo è espressione modernamente sportiva, calcistica, agonistica – conosco l’obiezione, il campo è anche il campo di battaglia, si scende in guerra, ma oggi le guerre sono in genere ‘intelligenti’ e non usano più metafore -; il campo da gioco è un campo in cui ci si può anche far male, morire addirittura, ma rimane pur sempre un campo separato dalle attività fondamentali della vita (certo, non da quelle economiche). Però a volte si può anche salire in campo, venendo dagli spogliatoi. Ma tant’è, questa sarebbe pignoleria professorale.

Politica entra in alcune espressioni metaforiche in cui la Salita non è (mi pare) mai stata utilizzata. Buttarsi in Politica, Entrare in Politica, Darsi alla Politica: sono tutte locuzioni che individuano la Politica come un ambiente, un dominio si potrebbe dire (quindi anche un Campo, teoricamente) per raggiungere il quale si possono usare differenti azioni del corpo. Buttarsi, gesto rapido e impetuoso; Entrare, gesto più discreto e gentile; Darsi, gesto generoso e coinvolgente.
Ma Salire? Ecco la novità! Salire è gesto del corpo che (si) porta a un’altezza diversa da quella che lo caratterizza. Si Sale, in genere, SU qualcosa (mezzo di locomozione, struttura fissa, altro) o anche SU qualcuno (ricordate i nani sulle spalle dei giganti? O gli acrobati del circo?).

Ma Salire IN? Salire IN montagna o Salire SULLA montagna? Nel primo caso, si lascia la pianura e ci si sposta in un ambiente ‘altro’; il secondo caso sembrerebbe indicare piuttosto una salita capace di raggiungere il punto più alto, con continuità. E poi: Salire IN ascensore, per raggiungere un piano alto, ma lì l’ascensore è lo strumento.
E allora? La Politica è un dominio, un ambiente, il punto più alto o è uno strumento per raggiungere una particolare altezza?
La risposta dovrebbe essere data dall’inventore della metafora, ma vedrete che non accadrà. Per cui continueremo a parlare, superficialmente, del confronto fra due metafore che, se ci pensate bene, mettono anche a confronto un Basso e un Alto (che poi corrispondono a due taglie umane che, guarda caso, identificano i due utilizzatori delle metafore in questione).
Tertia (metaphora) datur? Anche qui la risposta dovrebbe venire dal creatore di metafore per eccellenza, sempre che qualcuno sappia intonare bene ‘Vitti ’na crozza’…..Meditate, allieve/i, meditate!

Les Insomniaques

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Immagine di Albert Dubout

Non dormire
di
Maria Luisa Putti

Questa notte non passa mai. Non riesco a dormire. È tanto tempo che il sonno mi sfugge come un’ombra inafferrabile. Riesco ad addormentarmi appena, ma dopo due ore ho di nuovo gli occhi aperti, per fissare il bianco del soffitto, la luce che filtra dalle finestre, le pareti e le tende immobili, che a forza di guardarle cominciano a ondeggiare, quasi potessero venirmi incontro.
Sul muro mi sembra di scorgere il corpo di un uomo, racchiuso nella geometria perfetta di un quadrato, anzi no, di un cerchio, o di tutt’e due insieme. Mi pare di intuire le proporzioni esatte di un essere umano.
Tutto quello che ho pensato, le cose che ho disegnato, i sogni che ho creduto di avverare fingendoli sulla tela ora sono lì, sulla pietra fredda che mi si stringe addosso. È come se l’intonaco si sgretolasse, e crollasse, un frammento sull’altro. È carta che si strappa, metallo che si scioglie.

Ora il suo sorriso si deforma. Vedo anche quello sul muro adesso. Si sgrana, si slarga, come una bocca che si spalanca, una ferita. Una frase dietro l’altra, me le rigiro tutte le parole che mi ha detto in questi anni.
Come diceva? «Sei il mio amore». Non so se posso crederle. Sorrideva, e cercava qualcosa sul pavimento della mia stanza, frugando con quel suo sguardo da ragazzina, che sembra voler afferrare tutta la bellezza del mondo e catturarla per sempre. Allora si è chinata e ha raccolto una cosa così piccola che la teneva in un pugno. E poi ho visto che infilava la mano nella tasca della gonna. Mi prende in giro, sì. E poi cos’è che nascondeva in quella tasca? Ma io non faccio mai caso a nulla quando lei è così vicina. Dopo però, quando resto solo, ho la sensazione che si sia portata via la stanza intera, qualcosa di me stesso che arriva insieme a lei e con lei se ne va.

Sollevo appena la testa dal cuscino, e mi vedo riflesso nello specchio appeso alla parete di fronte al letto. Non sopporto più l’immagine della mia stanchezza, il viso segnato da anni di rovelli che mi tolgono il sonno. «Come sei bello», mi diceva. Ma forse anche quella era una bugia. Lei è bella, anche se non lo sa. Non sa nulla dei pensieri che mi tormentano, di quanto siano importanti per me tutte le sue parole, le cose che mi dice e quelle che non mi dice, e tutto ciò che immagino poi, quando non c’è, e i sogni che la riguardano, che non potrò mai dirle. Si muove e mi guarda con l’incertezza di una bambina, come se volesse chiedermi ad ogni passo una conferma: «Sei la più bella di tutte».

Si son fatte le tre. Devo cercare di dormire, fino alle sei almeno. Mi angoscia vedere le luci dell’aurora che rendono azzurra tutta la stanza. In quel momento, tra la notte e il giorno, sembra tutto finto, e ho sempre freddo, persino d’estate. Vorrei congelarmi nell’istante preciso in cui le prime luci del mattino filtrano dalla finestra, invece resto sveglio, cercando di afferrare il sonno per qualche ora, e mi abbrutisco avvitandomi sui ricordi, su dettagli insignificanti, perché i momenti che veramente voglio sono così rari che si riducono a pochi spiccioli, che conto e riconto mille volte per moltiplicarmeli dentro, e così li sbrano, li anniento, li perdo.
Questa è la mia prigione; una gabbia d’oro dalla quale non so e non posso evadere. Vorrei tanto essere uno qualunque, partire per un viaggio in cui sentirmi libero, starmene da solo, o con lei. Ricordo da bambino tutti che dicevano: «Il ragazzo ha talento», e io avevo paura di deludere mia madre, mio padre, i miei maestri. Non riesco nemmeno a godermi il lato lieve di quello che chiamano successo, ché già sto pensando a ciò che dovrò fare, ancora e ancora, per continuare a essere me, a non deludere.

Dicono che ho tante donne. Non è vero. Sono fissato nel pensiero di lei, che non si rende conto di nulla. È un pensiero che non mi lascia mai, e che non mi dà pace.
Mi ricordo che a un certo punto le ho fatto una carezza in pieno viso e lei è diventata rossa. «Nessuna donna arrossisce più ormai…». È stata questa la frase che le ho detto subito dopo, e il suo viso si è fatto più rosso ancora. Allora ha nascosto le guance tra le mani. Si vedevano solo gli occhi, e a me sembrava di ritrovare il volto di certe mie compagne di scuola.
Un angelo, ma per me è un incubo, perché non posso mai vederla, e me la immagino continuamente avvinghiata al corpo di qualcun altro, qualcuno che non conosco.

Certe volte, quando sono nel mio studio, mi convinco che in qualche modo lei mi stia guardando, che sia dietro di me, alle mie spalle. Allora mi volto d’un tratto, la cerco, ma lei non c’è.
«Tu sei mia. Tu sei la mia anima». Sono passati anni da quando le dissi questa frase, e ricordo il silenzio attonito del suo respiro. Lei se ne stava lì, incredula, immobile, sorpresa dalle mie parole. In quel momento potevo impazzire, e avrei voluto portarla via.
Di colpo mi sembra di non sapere più niente di lei. Però conosco a memoria i tratti del suo viso, la forma delle sue spalle, il profilo dei fianchi, la linea delle sue gambe, che nella mente ho ritratto mille volte, quando sovrappongo i miei pensieri, e i sogni, ai visi e ai corpi che dipingo. Se chiudo gli occhi sento pure i suoi capelli che mi sfiorano. Il fatto è che quando mi racconta qualcosa di sé, io mi lascio cullare dal suono della sua voce e quasi non l’ascolto. Mi incanto a guardare il riflesso della luce nei suoi occhi.

A me rimangono impresse solo le frasi che svelano i suoi sentimenti. Perché quelle parole nutrono la mia anima, riempiono i miei vuoti e alimentano le paure che mi vengono quando il giorno dopo resto solo e tutto mi sembra falso e non riesco più a crederle. Sono bravissimo a deformare e a distorcere le parole d’amore più belle; a farmi male trasformando la luce nel buio che ho negli occhi, sporcandone il ricordo, l’immagine assente, i pensieri. Certo che lei, con le sue carezze, mi fa del bene, e io fra le sue braccia mi sento al sicuro, e mi addormento. Ma quando poi mi manca, così tanto, mi convinco che il suo amore non esiste, che non è mai esistito; che lei è solo un corpo falso che svanisce.
Nei rari momenti che riesco a vederla, quando si stringe a me, sento che è tutto vero, che lei è mia solamente. Mi sfiora i capelli con le dita e mi guarda, piena d’amore, come se avesse sempre paura di deludermi. Invece sono io che deludo lei perché non riesco a darle niente. E quando resto solo, i pensieri mi scavano dentro, e io deformo la realtà fino a sgranarla, fino a quando tutti i miei demoni prendono forma e diventano vivi, e lei è uno di essi.

Eppure una parte di me lo sa che lei mi vuol bene veramente, per quello che sono, non per quello che rappresento. Un giorno, quando stava per uscire dalla mia stanza, ha provato a dirmelo, e in quel momento mi era sembrato bellissimo. Ma dopo sono riuscito ad abbrutire anche la purezza di quella frase e me la sono rigirata contro, fino a convincermi che in fondo non mi avesse mai capito. Non riesco a crederle, ma lei non c’entra. Sono io che non so più vivere come una persona normale.
Tempo fa l’ho vista che chiacchierava e rideva mentre camminava per strada con suo marito. Non ebbi nemmeno il coraggio di chiamarla, né di farle un cenno da lontano per salutarla come un qualunque conoscente. Lei non mi vide.
Nessuno può capire gli incubi che seguirono quell’incontro. Cominciai a immaginarla con quell’uomo. Credetti quasi di sentire la sua voce pronunciare parole d’amore per quello lì. Quell’estate fu un inferno, e così decisi che non l’avrei cercata più. Smisi di rispondere alle sue lettere e cominciai a farmi negare. Sapevo che le stavo facendo del male, ma era più forte di me. E così lasciai passare le settimane, i mesi, fino a ieri.

Ero andato a trovare certi amici che abitano dall’altra parte del fiume. Pioveva e mi ero fermato per ripararmi sotto un portico. Ho preso a camminare verso il negozio di fiori che sta proprio lì vicino, all’inizio del porticato, tra la tabaccheria e la vetrina del giornalaio, e d’un tratto me la sono trovata davanti. In un attimo i suoi occhi si sono gonfiati di lacrime, mentre cercava di sorridermi. Non ha detto nulla. Io non ho detto nulla. L’ho guardata soltanto, negli occhi, tanto, e poi ancora, negli occhi. E anche lei mi guardava. Era pallida in viso, come se dentro di sé, di nascosto, stesse combattendo una battaglia per sopravvivere, come se stesse cercando, disperatamente, di sconfiggere una malattia. Allora, d’un tratto, il ricordo delle sue guance arrossate mi ha dato una fitta di nostalgia. Mi sento in colpa. Prigioniero della mia insicurezza, intrappolato nei deliri della mia solitudine, ho fatto soffrire l’unica donna che mi abbia mai veramente amato. Ma forse non è tutto perduto. Ieri sera i suoi occhi sembravano volermi dire ancora «Sei il mio amore. Tu sarai sempre il mio amore». Sì, ne sono sicuro. E allora domani tornerò a cercarla. Domani, quando l’azzurro dell’aurora si sarà fatto chiaro, e ci sarà il sole. Sì, lei mi ama ancora ed io la cercherò di nuovo. Allora lei mi sorriderà, mi guarderà e mi stringerà più forte. Domani, lo farò domani.

Ora le pareti della stanza sembrano essersi fermate. Solo la tenda si muove appena. Le immagini che vedevo rincorrersi sul muro fino a un attimo fa lentamente si sbiadiscono. Il mio corpo pesa di una stanchezza antica. Lascio cadere le mani esauste e mi abbandono sul lenzuolo fresco di primavere insonni. Di colpo non penso più a niente, solo al momento in cui la stringerò di nuovo. La mia mente piano piano si svuota. Chiudo gli occhi. Le sue mani sembrano potermi toccare davvero.

Racconti di architettura

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Davide Vargas, Racconti di architettura, tullio pironti editore, 124 pag.

di Gianni Biondillo

Per Michelucci la forma era il modo che gli uomini avevano per comunicare restando in silenzio. Una sorta di letteratura muta, insomma. Viene da sé pensare che la letteratura sia di conseguenza il modo umano di costruire senso. Le due discipline all’apparenza così lontane si assomigliano, si cercano, prendono di continuo la misura del loro campo d’intervento, cercano punti di contatto, sovrapposizioni.

Da studente un amico mi invidiava: “scrivete più voi architetti che noi studenti di lettere”. Gli architetti leggono  e scrivono. Di continuo. Dove non arriva la forma interviene la parola, in un continuo desiderio di fissare il significato del nostro agire. Sono molti gli architetti che negli anni hanno attraversato la letteratura, più di quanti ne ricordiamo, sarebbe anzi il caso di farne una ricerca, uno studio approfondito. Perché l’argomento non è solo curioso, è indicatore di come due attività intellettuali spesso rappresentanti di ruoli sociali differenti (l’architettura è la rappresentazione oggettiva del potere. Anche solo del poter fare, del poter agire, la letteratura di contro è la forma del difforme, della critica al potere, dell’escluso) cerchino nella contiguità di sbaragliare i ruoli stessi.

L’architetto è stato da sempre, ed è sempre meno in questi anni, un intellettuale, un critico del reale, non un semplice giullare di corte, un portatore d’acqua. Se in questi anni è sotto gli occhi di tutti una crisi della qualità del costruito, che ha come corollario una crisi del ruolo della critica, è forse meno evidente come molti architetti (non so se più sensibili o meno) abbiano cercato in altre discipline – il cinema indipendente, la narrazione – altre modalità di formalizzazione della realtà.

Insomma, per chi non trova eticamente tollerabile il compromesso al ribasso preteso dalle logiche economiche e inette della nostra società, per chi crede ancora nel ruolo addirittura taumaturgico, immaginifico, “meraviglioso” della progettazione architettonica, per chi la professione la vive più con frustrazione che risentimento, esistono valvole di sfogo per l’abbattimento della pressione: campi da esplorare. Non per fuggire dall’architettura, ma per completarla in altro modo.

Penso, per dire, a questo Racconti di architettura, di Davide Vargas.

Io, voglio dirlo, non sono oggettivo quando parlo di questo libro. Ho conosciuto Davide anni addietro, sono anzi in qualche misura responsabile (credo di non essere smentibile) della sua carriera di scrittore. Non che gli abbia consigliato alcunché o dato chissà quale dritta. La farine del sacco è tutta sua e altrettanto il merito. Semplicemente ci siamo incrociati in quei momenti liminari, quando un architetto (io) aveva deciso di raccontare il mondo con i romanzi e un altro architetto (lui) stava iniziando a farlo, e forse aveva semplicemente bisogno di qualcuno che lo ascoltasse. Così capita che pure io faccia capolino in alcune pagine di questa raccolta. Attore fra i tanti che la voce narrante incrocia nei suoi percorsi.

Se scrivere è un modo differente di fare architettura – Proust ne era convinto e la sua Recherche doveva a tutti gli effetti essere una cattedrale – Vargas, qui, più che tronfi grattacieli, decide di edificare percorsi, cappelle votive, angoli raccolti. È un architettura che gli somiglia, molto etica, con punte di lirismo non cercate ma trovate quasi involontariamente.

Spesso, in questi racconti, si parte da un punto preciso – il campo santo di Pisa, per dire – e poi si lascia che il flusso della coscienza, le analogie degli spazi, ci portino da altre parti. Nessun luogo è insomma fine a se stesso, indipendente dal mondo. E grazie a questo taccuino di viaggio – incongruo e disordinato come tutti i taccuini autentici devono essere, fatto anche di cancellature o schizzi appena accennati – possiamo ritrovare luoghi e nomi della nostra formazione disciplinare e/o sentimentale: un Paolo Soleri a ritroso dall’America fino a  Vietri sul mare, il Le Corbusier intimo di Maison la Roche e quello pubblico di Marsiglia, la sala della scherma “dimenticata” di Moretti, la Milano colma di affetto da parte di Vargas di Casa Rustici o della chiesa di Baranzate.

Proprio come la sua prima raccolta, anche Racconti di architettura ha una forma ibrida: non sono racconti di finzione, non sono reportage né descrizioni oggettive. La scrittura è veloce, paratattica: annotazioni emotive, levigate senza essere laccate. Ma capita anche che le parole spesso non gli bastino (la dichiarazione di sconfitta di inadeguatezza, è continua nel testo). Vargas cerca così di fissare i suoi turbamenti non solo con le frasi ma anche attraverso segni, graficismi, disegni. Un libro poco furbo, il suo. Ma sono proprio gli oggetti ibridi, meticci, imperfetti, quelli che oggi mi interessano di più.

Vargas dal suo percorso intellettuale, non so quanto consapevolmente, s’è ritrovato nel cuore di una letteratura che in questi anni sta cercando – attraverso la descrizione delle cose tel quel, nel racconto di itinerari, nella raccolta iconografica, nel fotoreportage – di definire il mutamento fisico e antropologico avvenuto nel nostro paese. Il suo background, il suo sguardo d’architetto, lo aiuta, molto più di quello di tanti letterati col lauro in testa. Racconti di architettura non è, perciò, un libro rivolto agli architetti. È un libro rivolto a tutti quelli che hanno voglia di conoscere il mondo attraverso uno sguardo parziale. È, cioè, una piccola, aggraziata, guida sentimentale del mondo.

Mandala

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di Ottavio Fatica

 

La notte è viola. Ai fuochi dei pastori

sul crostone arroccato

di madrepora un bue

un asino, una vergine, un giuseppe

intorno pochi sbaffi di bambagia

mentre lo specchio d’acqua di stagnola

riflette una cometa

che converge sopra la grotta

dove in una greppia tutti aspettano

la Novità. Ci siamo quasi. Affrettati

alla meta. In lontananza

avanzano tre magi.

 

video arte #15 – vladimir nikolic

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Vladimir Nikolic, Rhythm, 2001.

The Betty Davis Variations 2

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(3 carole del solstizio)

Prendete e ascoltatene tutti: questa è la sua voce…

La confusione è ancella della menzogna

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E’ uscita per i tipi digitali di Quintadicopertina una raccolta di saggi di Andrea Inglese, scritti per Nazione Indiana tra il 2005 ed il 2009, con un nuovo saggio introduttivo.

To Elsie/A Elsie

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di William Carlos Williams

I puri prodotti dell’America
impazziscono —
gente di montagna del Kentucky

o dell’estremo nord scanalato del
New Jersey
con i suoi laghi e le sue valli

Dove tornano i mondi immaginari

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Francesca Matteoni

“Ci aiuta a vedere il mondo reale/ visualizzare un mondo fantastico” ha scritto il poeta americano Wallace Stevens. Il mondo fantastico in cui ci spingiamo ha un rapporto di prossimità con il nostro contingente, avviene in quel luogo dove l’altrove, preconizzato più che manifesto, si incontra con la comune quotidianità – il noto si confonde con l’ignoto, in una zona di confine che non separa affatto, ma si lascia più volte attraversare.
Su questi margini nascono, si addensano le storie.

Un’altra logica con cui scegliere i libri da leggere durante le vacanze e lungo tutto l’anno nuovo

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di Roberto Bolaño

Old man reading, Vincent van Gogh, 1882

Una volta Amalfitano gli chiese, tanto per dire qualcosa mentre il giovane cercava sugli scaffali, quali libri gli piacevano e cosa stava leggendo in quel momento. Il farmacista gli rispose, senza voltarsi, che gli piacevano i libri tipo La metamorfosiBarteblyUn cuore sempliceCanto di Natale. E poi gli disse che stava leggendo Colazione da Tiffany, di Capote. Anche trascurando il fatto che Un cuore semplice e Canto di Natale erano racconti e non libri, i gusti di quel giovane farmacista colto, che forse in un’altra vita era stato Trakl o a cui forse in questa era ancora riservato il destino di scrivere poesie disperate come il suo lontano collega austriaco, erano indicativi di una preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore a scapito dell’opera maggiore. Sceglieva La metamorfosi invece del Processo. Sceglieva Bartebly invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o del Circolo Pickwick. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, perfette, torrenziali, in grado di aprire le vie dell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore.

[Da 2666, di Roberto Bolaño, Adelphi, p. 251]

Psicotici e precari a Paperopoli

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Foto di Andrea Marutti, flickr.com/photos/afeman/

di Emanuele Trevi
Bisogna ammetterlo: a differenza dei suoi nipoti e pronipoti, Zio Paperone è un tipo che lavora sodo ogni giorno, festività incluse, fin da giovanissimo. Anche se la leggenda gli attribuisce anche un grande amore giovanile, non ha mai fatto altro che sgobbare e sgobbare, da quando non era più alto di Qui, Quo e Qua. Tutto quello che ha, insomma, se lo è sempre sudato. Nessun paperopolese onesto (e tutti i paperopolesi, a parte i Bassotti, sono onesti) metterebbe in dubbio queste verità di fatto.

Buone dritte (anche per poeti)

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Pippo Delbono

Essere lì, col corpo

Durante certe repliche pomeridiane de “La menzogna”, al Teatro Argentina di Roma, con la platea e i palchetti pieni di abbonati, c’erano spettatori che protestavano, sbraitavano, inveivano, non capivano. E allora un giorno, nell’intervallo che spezza lo spettacolo, ho raccontato la storia di una cantante ebrea, che poco dopo la fine della guerra in Germania, di fronte allo scandalo provocato da un suo nudo sulla scena, disse rivolta al pubblico: “Ma come? È solo da due anni che sono finiti gli orrori dei campi di sterminio e nessuno dice niente, e voi fate tutto questo chiasso perché io mi spoglio nuda in scena?”

Ho anche raccontato la storia dell’africano Abdul Abba, che a Milano venne massacrato a bastonate per aver rubato dei biscotti. Quando andai al suo funerale non c’era nessuno, tutti i politici e gli intellettuali se ne sono infischiati di quel delitto. La cosa è scivolata via come se niente fosse, in modo osceno.

Quando ho riferito al pubblico questa storia è accaduto qualcosa di straordinario: alcuni spettatori si sono messi a piangere. Ma anche in un momento di emotività così forte il mio stare in mezzo alla platea non era psicologico, bensì sempre fisico. Ero dentro il mio ritmo, il mio sguardo, la mia voce. Ero interamente dentro la coscienza del mio corpo.

Danzare l’immobilità

La tua presenza, il tuo stare sulla scena, è sempre qualcosa che ha a che fare con lo stomaco e con il sensibilissimo centro del tuo corpo. Raggiungi quel punto di equilibrio che equivale a esercitarti con la sbarra nella danza classica.

In “Bandoneon”, di Pina Bausch, il danzatore Dominique Mercy sta seduto e fermo a lungo: osserva il pubblico. Il suo corpo è immoto. Eppure in lui c’è tutta l’energia della danza e dei suoi anti anni di lavoro sul corpo, senza alcuna psicologia. Io, tramite un altro percorso, sono approdato allo stesso risultato arrivando alla forza dello stare in piedi senza pensare. In quel momento esisto stando lì col corpo, con una presenza concretissima che corrisponde a uno stato di coscienza.

[…]

La voce

Una volta a Parigi ho lavorato con alcuni giovani cantanti d’opera. Ho chiesto loro di cantare brani e di usare il corpo in modo totalmente opposto a quello derivato dal loro naturalismo. Il seminario durò una settimana. Poteva accadere che una cantante intonasse un brano anche conosciuto seduta su una seggiola, scoprendo una posizione diversa del corpo, con la testa bassa e le spalle rilassate, quindi con un corpo in qualche modo fragile, ferito. Ne risultava una voce incredibile. Diventava emozionante.

Lei è seduta, e tu vedi il corpo riconoscibile di una donna fragile, e a questo punto la sua voce urla la sua rabbia. È un’emozione, e l’emozione è sempre una contraddizione, al contrario della pateticità dell’emozione televisiva. L’emozione vera nasce sempre dal conflitto: sento una voce e voglio vedere un corpo che nega quella voce. So che si tratta di un lavoro difficile. Io capisco la difficoltà che ha la cantante, perché deve andare contro la propria emotività.

Per ogni attore tradizionale l’equazione è quasi sempre la seguente: voce violenta uguale corpo violento, oppure, se deve dire qualcosa di amoroso, la voce è amorosa e il corpo è amoroso. E l’attore pensa, in quel momento, di interpretare un personaggio amoroso.

[…]

Teatro anti-borghese

Il teatro deve sollecitare qualcosa che ha a che fare con l’inconscio e con l’andare oltre le convenzioni della mente. Questo, secondo me, significa fare un teatro anti-borghese: andare nel profondo delle cose. Quando la tipica abbonata da teatro stabile mi chiede di “capire che cosa significa lo spettacolo”, credo che stia chiedendo all’arte le stesse convenzioni della più banale narrazione televisiva, nel senso che vuole essere garantita e rassicurata nel suo livello di comprensione più superficiale.

Quando si va nel corpo, si entra nelle ferite del corpo in una comprensione autentica del corpo, il risultato è radicalmente diverso: lo spettatore mette in gioco le sue emozioni, anche le più oscure. Questo, per me, è l’effetto politico che il corpo senza menzogna può produrre sulla scena.

Un giorno, facendo una lezione alla Scuola d’Arte, dissi ai ragazzi: quando andate a vedere un grande museo, mettiamo il Louvre, cinquanta o cinquecento sale, magari vorreste averle viste tutte, però non ce la fate, per voi è troppo. Provate una specie di senso di colpa culturale, sentite che manca qualcosa. Non esistono musei che espongono un solo quadro, e invece potrebbe essere meraviglioso. L’arte ha senso solo se la percepisci in profondità, se ti cambia qualcosa dentro. E allora sì che basta solo un quadro.

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Estratti da Pippo Delbono. Corpi senza mezogna. A cura di Leonetta Bentivoglio. Barbès: Firenze, 2009.

Immagini tratte dagli spettacoli della Compagnia Pippo Delbono: Dopo la battaglia (2011),  Gente di plastica (2002), Menzogna (2008).

5 poesie

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di Andrea Inglese

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In questa poesia
c’è un lago ghiacciato
alcuni metri campione
una forma di vaselina solida
cibo da specialisti
i resti di un’operazione finanziaria

da Il Diario di Nanda Woodman

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di Fernanda Woodman

I RAGNI

sono una rara specie di conchiglia
incastonata tra ere di lenzuola
e se poggi l’orecchio sul mio ventre
tra le cabine di una Rimini spettrale
comparirà, in abito da tennis, l’estate 1965.

lo senti il tempo?
questo grosso soriano che si ostina a farsi le unghie
sulla tappezzeria di una camera d’albergo?

dalla finestra scricchiola un po’ di polvere
e i ragni?

i ragni fanno merenda
con i sette nei che mi piantonano lo sterno

Più armi, per essere felici

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di Gianni Biondillo

Seguo il telegiornale con gli occhi sbarrati. Mia figlia Sara, otto anni, mi chiede cosa sia successo. Le parlo, con tutto il tatto possibile, di una scuola in America, di bambini più piccoli di lei uccisi da un ragazzo di vent’anni. “Non ho capito” mi ripete, “Cos’è successo?” Ed è giusto che non capisca, perché questa strage non significa nulla, non ha senso, è un paesaggio assurdo che sovverte le leggi del quotidiano. È qualcosa che mina la ragionevolezza, che frustra la mia capacità di spiegarle il mondo, di renderglielo domestico, assennato, socievole.

Dovrei parlarle dell’ossessione tutta statunitense per la ricerca della felicità, vero e proprio diritto costituzionale. Costi quel che costi. E del suo naturale corollario, quello all’autodifesa, al diritto (il più inviolabile di quelli della carta costituzionale) a girare armato. Cercare la felicità restando vivi, difendendosi. Ma anche cercare la felicità a costo della vita degli altri. Già nelle ore successive alla strage la soluzione della lobby delle armi era chiara: la colpa è di una legislazione che proibisce agli insegnanti di essere armati. Ci vogliono più armi, non meno armi. Per difendersi. Per essere felici.

Psicologi d’accatto, che tempesteranno gli show televisivi nei mesi a venire – in America come qui da noi – già giustificano l’assurdo: il killer era autistico, malato, psicopatico. Certamente il rapporto con la madre era irrisolto. E poi, diciamocelo, che ci faceva la madre con quelle armi in casa? Cercare un senso a questa strage, con malcelate giustificazioni misogine che nauseano, è parte della cortina di fumo che nasconde l’evidenza: di ragazzi fragili, di psicopatici, di repressi o di chi diavolo volete voi, ne è pieno il mondo. Ma fingere di dimenticare che la psicologia di un uomo armato di un coltello è assai differente da quella di un uomo armato di un fucile mitragliatore è connivenza. Gli oggetti non sono innocenti, un’arma meno che mai. Se c’è una pistola, prima o poi sparerà. È stata creata per quello, non ha altre funzioni.

Quei bambini morti stanno sulla coscienza di una nazione che non vuole superare il suo mito fondativo, che non vuole riconoscere quanto sia necessario perdere qualche diritto individuale per difendere quello collettivo. Fa specie che queste stragi – esaltazioni della individualità – vengano perpetrate proprio in luoghi che celebrano la collettività: scuole, asili, centri commerciali, cinema. Queste vittime, questi inespressi postini, barbieri, operai, parrucchieri, premi nobel, sportivi, questi talenti che non conosceranno mai la felicità, sono un tributo all’egoismo e, peggio, la più cinica campagna pubblicitaria per l’acquisto di nuove armi. Per difendersi, ovviamente. Per essere felici, nel nome della paura.

Da noi questo non succederà mai, mi viene detto. Se non è ancora accaduto, però, è perché esiste un sistema sanitario nazionale che cerca di aiutare i ragazzi fragili, quello che molti vorrebbero smantellare. Se non è accaduto ancora è perché Cesare Beccaria ci ha spiegato l’insensatezza della pena di morte, quella che molti vorrebbero ripristinare. Se ancora non accade è perché resiste ancora una cultura della solidarietà che è sempre più compressa sotto i colpi di un individualismo egoista e becero. E su tutto, inutile girarci attorno, perché resiste una legislazione che difende prima di tutto la collettività dal singolo.

Ma, sia ben chiaro, i nostri figli sappiamo ucciderli lo stesso. Tagliando gli investimenti sulla manutenzione ordinaria delle nostre scuole elementari o costruendo licei e studentati universitari irrispettosi delle norme antisismiche. Poi, al primo terremoto, alla prima strage di innocenti, possiamo sempre prendercela col destino. Felici di non essere americani.

[pubblicato su L’Unità, ieri]

Io ti ricordo, Giuseppe Pinelli

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di Massimo Zucchetti, dal Manifesto di ieri.

Oggi, ben quarantatre anni fa (sembra incredibile), moriva Giuseppe Pinelli, anarchico. Come è morto, tre giorni dopo la strage di Piazza Fontana, tutti lo sanno e nessuno lo può più dire. Una cosa è certa: Pinelli era innocente, ed è morto in Questura, a Milano, dove era trattenuto indebitamente da tre giorni, accusato a torto di aver commesso quella strage.

Zombi come noi. Notizie da un piccolo festival cinematografico di periferia

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di Valerio Cuccaroni

Con un dittico di corti ambientati negli anni del Fascismo, il trentenne regista barese Pierluigi Ferrandini si è guadagnato entrambe le finali del festival “Corto Dorico”, svoltosi dal 4 all’8 dicembre ad Ancona. Nel cortometraggio “Lutto di civiltà” Ferrandini racconta gli ultimi giorni di Peppino Di Vagno, deputato socialista ammazzato dai fascisti a Mola di Bari il 25 settembre 1921.

Mangiare Bere Abitare

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È un detto popolare lancinante quello che il Forum dei bisogni – Mangiare Bere Abitare ha scelto per chiudere le attività del 2012. “Il sazio non crede al digiuno” significa infatti che il bisogno è incomunicabile, che è impossibile per gli esseri umani capirsi quando c’è da condividere la mancanza. Una impossibilità ancor più inquietante quando si pensa che il bisognoso è di solito il “senza-parola”, colui che non può dire da sé la propria condizione. “Il sazio non crede al digiuno” significa pertanto che noi tutti non riusciamo a credere a nessuno dei discorsi che ci vengono proposti a proposito della povertà: nonostante i tempi che corrono, nonostante l’evidenza che è oggi sotto il naso di ognuno.

Dopo aver invitato a discutere economisti, antropologi, operatori sul territorio, filosofi e artisti affinché incrociassero saperi, competenze, modelli e proposte di soluzione, il Forum chiude la prima fase dei suoi lavori facendo il consuntivo di cinque intensi mesi (luglio-dicembre) e rilanciando verso le attività del 2013 con tre brevi interventi di Giancarlo Alfano, Carmelo Colangelo e Gabriele Frasca.

Il ponte tra la fame e l’abitare, tema del prossimo anno, è invece affidato a Enzo Moscato, che per l’occasione propone un suo monologo sullo statuto insidioso del domestico a Napoli: quale fame e quale abitare ci stanno intorno? Quali presenze ribattono sul presente?
A partire da gennaio 2013 si comincerà una sorta di call for paper (o richiesta di contributi), un appello a partecipare alle iniziative del Forum anche per costruirlo insieme. Cos’è oggi il bisogno abitativo? Un tema senza dubbio adatto a chi condivide lo spazio di Nazione indiana.

La terra di Scajola dove scorrazzano i clan

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di Giuseppe Conte

Due elicotteri e 200 carabinieri in azione prima dell’alba, sul cielo e per le strade di Ventimiglia. È un dispiegamento di forze che fa pensare a una azione di guerra. E di guerra ormai si tratta. La’ndrangheta: vi ricordate la smorfia tutta ligure di fastidio con cui Sandro Pertini pronunciava questo termine?
C’era in quella smorfia la riprovazione e l’orrore che dovevano essere riservati a un fenomeno paragonabile a un cancro nell’organismo di una società.
Che smorfia comparirebbe oggi sul volto di Pertini sapendo che l’estremo Ponente della sua Liguria è in mano alle cosche calabresi, che dai tavoli di un ristorante di Marina San Giuseppe, il lungomare di Ventimiglia, un anziano signore di nome Peppino Marcianò tesseva le fila della politica, dell’amministrazione, dell’economia di una ricca fetta della regione, e distribuiva consigli, raccomandazioni, avvertimenti, appalti, secondo il più collaudato stile mafioso?
Quello che preconizzò un magistrato coraggioso come Anna Canepa si è avverato: Ventimiglia è diventata come Gioia Tauro.
E Vallecrosia e Bordighera non sono da meno. Avevo dalle colonne di questo giornale lanciato un grido d’allarme quando i consigli comunali di Ventimiglia e Bordighera furono sciolti per infiltrazioni mafiose.
Invitavo a ribellarsi, perché, al di là dell’aspetto giudiziario della vicenda, c’erano tutti i segni di un degrado etico, culturale e soprattutto politico contro cui bisognava agire. Oggi lo scenario è ancora più vischioso, si sono aperte voragini ancora più profonde, il fango sta schizzando dappertutto.
Due ex sindaci, di Ventimiglia e Bordighera, vengono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, il sindaco in carica di Vallecrosia per voto di scambio. Indagato è anche un ex city manager, espressione pomposa, a un filo dal ridicolo, per chi, secondo le indagini, ha dedicato la sua indubbia intraprendenza a far aggiudicare il grosso degli appalti a ditte di proprietà delle cosche. Non finisce lì: un ex vigile urbano è accusato di fare da cinghia di trasmissione tra cosche e municipio. E dalle intercettazioni si evince che Marcianò era in contatto con un ispettore di polizia, con un finanziere: e che il vecchio boss tirava in ballo con calcolata disinvoltura un generale e un giudice genovese cui doveva passare 10 mila euro per avere un trattamento di favore. È una ragnatela di crimini e sospetti che soffocherebbe qualunque società.
Com’è potuto accadere? Avevo ed ho una sola risposta: la’ndrangheta ha trovato terreno fertile nell’estremo Ponente soprattutto perché qui si è verificato ancor più che altrove un pericolosissimo vuoto morale e politico.
L’onnipotente leader di Imperia, quello che non fa muovere foglia senza che lui voglia, quello che poteva far nominare sindaco del capoluogo,non dimentichiamolo, anche Paperina, quello che oggi dice agli avversari interni (quasi tutti uomini inventati o cooptati da lui) di conoscere i loro peccatucci grazie ai suoi contatti con i servizi segreti, voglio dire Claudio Scajola, si è sempre distinto nel sostenere a muso duro che la mafia qui non c’è.
Punto e basta. Se in queste terre la politica è lui, queste terre sono state abbandonate e indifese.
Se la politica è diventata affarismo, speculazione, favoritismo, arroganza, era quasi naturale che la ’ndrangheta ci si infilasse comodamente. Spesso i mafiosi sono, “purtroppo”, come aggiungeva Leonardo Sciascia, più intelligenti degli altri. Stupisce allora scoprire che il vecchio Peppino Marcianò aveva in mano sindaci, amministratori, imprenditori? Il blitz che ha portato al suo arresto viene chiamato “la svolta”. Ma se una svolta vera deve esserci, il repulisti deve essere completo.
I nodi ambigui tagliati. La politica deve ritrovare con energie nuovissime il suo primato morale e ideale.

(questo pezzo è apparso sul “Secolo XIX” del 06.12.2012)