di
Simon Lane

I sogni non significano niente. Altrimenti potremmo imparare qualcosa. Il valore dei sogni, se esiste, sta nella loro mancanza di significato. I sogni si sottraggono all’interpretazione. Probabilmente questo è il loro unico lato interessante. I sogni ci danno l’opportunità di rilassarci, di non lavorare. Permettono alla nostra mente di vagare alla periferia del nostro subconscio, all’ombra di premurose fronde che ci riparano dal caldo o dal freddo dei pensieri delle ore di veglia. Possono diventare come onde tropicali che ci massaggiano, facendoci sollevare i piedi dal fondo marino per poi riportarli giù con una dolce oscillazione, come se un remoto gigante cullasse il mondo avanti e indietro come i nostri genitori facevano con noi quando eravamo piccoli. O possono offrirci interludi romantici, come fa la vita, in modi fortuiti e imprevisti. I sogni non contengono sintassi, né sillabe. Né simboli. Un letto è un letto. Un libro è un libro. Una galleria è una galleria. Un pene è un pene. Una spada, però, può ricordarci di farci la barba al mattino. I sogni non rappresentano niente. I sogni non hanno logica. La logica viene loro imposta. I sogni invitano alla comprensione quando la comprensione è impossibile. Così esercitano il loro fascino. I sogni ridanno spazio all’intuito. I sogni non sono confusi; possiedono una grande chiarezza, nitidezza. Quando si cerca di riprodurre visivamente un sogno, l’errore più grande è sfuocare l’immagine o farla ballonzolare per lo schermo. Nei sogni non si ballonzola se non accidentalmente. I sogni riescono a essere eccitanti proprio perché sono realistici. Se fossero vaghi, non ci spaventerebbero, non ci stuzzicherebbero. I sogni non sono cinema. Ma il cinema può essere sogno. I sogni non vengono mai soli. Nessuno fa mai un solo sogno, ma diversi sogni. I sogni non hanno numero. Innumerevoli, scombinano l’ordine. Forse è questo il loro scopo. O forse no. Noi ci facciamo il letto ma non ci facciamo i sogni. Possiamo solo attendere il mistero notturno e accettarlo come tale. Accettiamo i sogni come accettiamo la nostra mortalità. Se ne ricaviamo o meno un senso è irrilevante. Così come il fatto che siamo esistiti ed esisteremo ancora.
Simon Lane,
Rio de Janeiro,
14 marzo 2012
Dreams
di Simon Lane
DREAMS do not mean anything. If they did, we might learn something. The value of a dream, if it has a value, lies in its meaninglessness. Dreams defy interpretation. This is probably the only interesting thing about them. Dreams give us a chance to relax, not work. They allow our minds to meander along the periphery of our subconscious within the kindly arboreal shade that protects us from the heat or cold of wakeful thought. They may become the kind of waves from tropical places that massage us, making our feet rise from the seabed and return in sweet undulations as if a distant giant were rocking the world back and forth as our parents did in infancy. Or offer us romantic interludes, just as life does, serendipitously. Dreams contain no syntax, no syllables. No symbols. A bed is a bed. A book is a book. A tunnel is a tunnel. A penis is a penis. A sword, however, may remind one to shave in the morning. Dreams do not represent anything. Dreams have no logic. Logic is something imposed upon them. Dreams invite understanding when understanding is impossible. As such, they are seductive. Dreams restore intuition. Dreams are not blurred; they possess great clarity, sharpness. The greatest error made when portraying a dream visually is to allow the image to lose focus or dance about the screen. No one dances in a dream unless by accident. The reason a dream can be exciting is because it is realistic. If it were blurry, it wouldn’t frighten us, titillate us at all. Dreams are not cinema. But cinema can be dreams. Dreams never come singly. No one ever has one dream but several dreams. Dreams have no number. Numberless, they upset the order. That may be their purpose. Or not. We make our beds but we do not make our dreams. All we can do is await nocturnal mystery and accept it as such. We accept dreams as we accept our own mortality. Whether we make sense of themor not is immaterial. Just as we were and will be once again.
Simon Lane,
Rio de Janeiro,
14 March 2012
Nota
Pubblico questo testo di Simon addolorato da un lutto, non del tutto inaspettato ma comunque devastante.
Il mio fraterno amico Simon Lane è morto. Collaboratore prima di Paso Doble e poi di Sud, se l’è portato via un cancro che per ventanni lo ha attaccato, recedendo e ritornando ogni volta più feroce. Qui i suoi romanzi. L’ho visto l’ultima volta a Parigi lo scorso giugno, alla libreria di Fortunato, la Tour de Babel, dove abbiamo presentato il mio Chiunque cerca chiunque. Lui è arrivato in bicicletta, l’unico dandy che abbia mai incontrato. Viveva ormai da anni in Brasile e con mia grande fortuna era nella capitale in quei giorni. Sempre in prima linea, sempre in coppia con Patrick Chevaleyre, con la rara eleganza degli uomini del novecento.
Bye Simon.
effeffe


di Gianni Biondillo 

G.T.: Da un grado inferiore dell’evoluzione, fino alle sottili emozioni umane, la sonorità è fondamento della mia pittura. Rimango ferma nella stalla di Nonno Celestino a Robella ad aspettare che le mucche caghino o piscino. Mi sposto da una all’altra, nel momento in cui sento il rumore degli escrementi, e immortalo il momento. Corro dietro a galline e anatre. Sono stata ferma immobile di fronte a milletrecento oche schiamazzanti, in Polonia, nel capannone di un contadino, mio vicino di casa. Le faraone sono le più stronze, fanno rumore e si muovono in fibrillazione continua, per questo devo fare continui sforzi di concentrazione. Una volta, un maiale, nonostante gli stessi parlando perché rimanesse fermo, ha addentato il foglio sul quale lo stavo ritraendo. Poco male, l’ho esposto così, con un angolo mancante: il porco mi ha regalato un ready made!
I.F.: Il dentro e il fuori sono aspetti del tuo approccio alla creazione. Un continuo avvicinarsi e scavalcare la linea che ci porta alla sorpresa della scoperta, alla presa di coscienza di un mondo chiuso oppure sterminatamente libero.
G.T.: Ricerco la familiarità come in un’indagine singolare, che mi permette di prendere confidenza, di amare le cose. Allora, ultimamente, ho ritratto mia madre sessantenne, mentre si trucca e si toglie qualche peletto dal viso, tutte le mattine. È il suo momento di dedizione a se stessa, nell’accappatoio rosso, con lo specchietto giallo in mano. Penso che quest’opera sia il modello esemplare di questa mia ricerca. In questo periodo, ritraggo spesso mio figlio Moreno. Tutte cose che si riferiscono ad una quotidianità degli affetti. Un modo per provare compassione e amore verso il mondo è anche avere delle luci accese da contare e da rappresentare sul foglio, a cui appassionarsi per renderle familiari: siano esse candele nel silenzio di un bosco Polacco, stelle sul golfo di Noli, lanterne in un viale, fari di navi al largo o riflessi della luna sul mare notturno.







Davide Vargas, Racconti di architettura, tullio pironti editore, 124 pag.

