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Nuove prose brevi

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di Jacopo Ramonda

 

CUT UP N. 101

Ora che trascorro la maggior parte del mio tempo lontano da casa, dormendo per più di centottanta notti l’anno in hotel, mi sento spesso come se stessi rincorrendo qualcuno. I ricordi degli aeroporti, dei ristoranti, delle sale d’attesa, delle stanze d’albergo si mescolano e si confondono tra loro. Fatico ad associare i volti degli sconosciuti con cui ho scambiato stringate considerazioni impersonali alla città e alla lingua nelle quali quelle brevi conversazioni hanno avuto luogo. Per qualche motivo ho invece l’impressione di non dimenticare mai una faccia, di non dimenticare nessuno di loro, almeno non completamente.

Régime élémentaire

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10 luglio 2012
Albergo dei Poveri (piazza Carlo III, 3 – Napoli) Forum dei bisognimangiare, bere, abitare
La fame non aspetta: con Enzo Moscato e Marco Revelli
Il Paese della fame: così storici e antropologi hanno descritto l’Italia del passato. Dalla dieta a base di polenta del Settentrione padano al pane e cipolle del contadino calabrese; dalle bacche alpine del pastore alle minestre di cicoria delle campagne romane, lungo tutto lo Stivale la lotta per restare in vita è stata per secoli innanzitutto lotta contro la fame.
Quel medesimo spettro sembra oggi tornato ad abitare le nostre città, semmai assumendo il volto ancora esotico di un homeless africano o di una bag lady pachistana o cinese, ma sempre più spesso facendo spossata e macilenta la fisionomia nostrana di chi non riesce più ad “arrivare a fine mese”.
Sul modello della cattedra Saperi contro povertà, istituita da qualche anno presso il Collège de France di Parigi, anche a Napoli si costruisce una rete di saperi e di pratiche per affrontare la terna dei bisogni primari (mangiare, bere, abitare), coinvolgendo le scuole, le associazioni, la cittadinanza – ma anche l’imprenditoria e il mondo della finanza – in un progetto che attraversa, a maglie strette, la città, la regione, il Paese nel suo complesso.

Come dire il bisogno? Come evitare che i discorsi culturali ricoprano con la patina dell’intelligenza la sconvolgente apparizione della povertà radicale? Il Forum dei bisogni si propone come un luogo di apertura e contaminazione in cui i saperi dell’economia e della politica siano animati dalle forme del pensiero e dell’immaginazione, in un’epoca in cui quei fenomeni che sembravano la piaga esclusiva di un sottosviluppato Terzo Mondo si stanno invece affermando anche nel Primo.
La Fondazione Premio Napoli, la cui missione è la diffusione della cultura letteraria e umanistica in generale, promuove l’interazione di percorsi formali e modelli conoscitivi differenti, validi su scala mondiale, che permettano di comprendere il bisogno e sfidarlo, di riconoscerne la singolarità e insieme assumerne il tratto universale, per poi tornare al reale, ciascuno identificando con più chiarezza il proprio compito in una nuova, necessaria lotta per l’eguaglianza.
Per questo primo anno l’iniziativa sarà scandita su cinque appuntamenti.

10 luglio 2012 (Sede: Albergo dei Poveri) – La fame non aspetta
ottobre 2012 – Pane selvaggio
novembre 2012 – La scala della fame
novembre 2012 – Un campo che non è quello di grano
dicembre 2012 – Il nuovo abolizionismo. Sradicare la fame

Fondazione Premio Napoli

Sostiene Tabucchi

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Oggi ho partecipato a una tavola rotonda organizzata da ReteAltra a cui siamo stati invitati come Nazione Indiana. Abbiamo discusso di Creazione e distribuzione: scrittura tra proprietà intellettuale e libera fruizione con
Julio Monteiro Martins – scrittore, avvocato dei diritti umani e Giulio Milani – responsabile editoriale Transeuropa. Julio Monteiro è una persona fantastica che dal ’99 dirige la rivista Sagarana . Pubblico qui una conferenza di Antonio Tabucchi da loro organizzata qualche tempo fa, preceduta da una bella nota di Julio . Buona lettura. effeffe

Qualche settimana fa abbiamo perso un grande scrittore europeo, mio amico da tanti anni Antonio Tabucchi. Lui è stato per me e per tanti altri scrittori italiani, portoghesi e brasiliani un esempio di creatore di alta narrativa ma soprattutto di spirito civile. Antonio era un intellettuale sempre impegnato nelle cause migliori, un uomo libero e senza paura, un imprescindibile, una coscienza critica che ci mancherà tantissimo, un’assenza che ci rende più fragili e più distanti dalla verità.
Nel 2003 Tabucchi era venuto a Lucca per incontrare gli allievi del Laboratorio di Narrativa della scuola Sagarana. Con loro ha avuto un intenso e brillante colloquio, aperto, franco, pieno di preziosi ragionamenti sulla scrittura oggi, sulla società, sullo spazio onirico e sullo spazio politico, farcito da citazioni preziose e da questo suo sguardo che attraversa tutti i veli delle convenzione per rivelare il centro nevralgico di ogni cosa. L’ho registrato, e ora lo offro ai lettori della nostra rivista, quasi un decennio dopo che queste conversazioni lucchesi hanno avuto luogo, ed è la prima volta che questo testo è reso pubblico.
Questa edizione di Sagarana è un omaggio allo straordinario autore di Notturno indiano, di Sostiene Pereira e di La testa perduta di Damasceno Monteiro.
Con grande saudade,

Julio Monteiro Martins

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L’intervento di Antonio Tabucchi alla Scuola Sagarana, a Lucca, il 18 Ottobre 2003:

Julio Monteiro Martins – Innanzitutto vorrei ringraziare lo scrittore Antonio Tabucchi per questa sua visita al Master della scuola Sagarana. E vorrei ringraziare anche a voi per esser venuti qua numerosi in un pomeriggio di forte pioggia. Da molto volevo avere Antonio Tabucchi tra di noi, perché si tratta di uno scrittore che secondo me rappresenta il meglio della letteratura italiana oggi, da tutti i punti di vista. Gli raccontavo poco fa in macchina che la Sagarana è diversa da gran parte delle altre scuole di scrittura, nel senso che oggigiorno c’è questa attenzione eccessiva sul “come scrivere” – alla forma, alla tecnica –, mentre noi qua ci occupiamo anche, e forse soprattutto, del “cosa” scrivere, del contenuto, della visione-di-mondo. E, appunto, Antonio Tabucchi in Italia oggi riesce a trovare questa sintesi tra la forma più adeguata e più giusta e la visione-di-mondo più ampia e più opportuna nel momento storico in cui stiamo vivendo. Inoltre, l’ultimo libro di Antonio Tabucchi, “Autobiografie altrui”, è un libro sul processo dello scrivere, sul rapporto dello scrittore con l’inconscio e col linguaggio, insomma, sugli eventi soggettivi, psicologici, che lo hanno portato alla scrittura dei suoi libri più importanti, “Sostiene Pereira”, “Il gioco del rovescio”, e altri. Questo concetto di “autobiografie altrui” è molto interessante perché fa riferimento al fatto che alcuni lettori, leggendo i suoi libri, si sentono così identificati con il personaggio al punto di chiedergli come mai ha scritto nel suo libro la loro propria storia. E così Tabucchi dice di esser arrivato alla conclusione che la sua scrittura è anche un insieme di “autobiografie altrui”, e siccome noi siamo un gruppo di professori e studenti di narratologia, questo argomento, il processo della creazione, ci tocca direttamente. Ora lascio la parola allo scrittore Antonio Tabucchi.

Antonio Tabucchi – Buona serata a tutti e molte grazie a Julio Monteiro Martins per le sue parole, per quello che ha detto, presentandomi. Io dirò inizialmente alcune cose e semmai potrò continuare a dirle. Sostanzialmente credo che sarebbe più interessante se voi mi stimolate, se mi chiedete quello che volete, sono venuto per uno scambio di posizioni, non sono tanto venuto per fare una lezione ex catedra, anche perché non si fa letteratura a scapito della letteratura, si insegna la storia della letteratura. La insegno anch’io all’università. Ma non si insegna poi il “mistero”, se posso così dire, di quella che è l’origine della scrittura letteraria. Anche perché probabilmente è molteplice, credo. Forse si scrive per tutta una serie di ragioni, e premesse. In questo libro ho cercato di fare alcune piccole riflessioni che riguardavano, appunto, sostanzialmente ed essenzialmente la mia scrittura, i libri che ho scritto. Però in realtà è anche un pretesto per parlare dei libri altrui.

È evidente che se parlo di una specie di “romanzo epistolare”, come “Si sta facendo sempre più tardi” inevitabilmente il mio pensiero ha comunque altri esempi di “epistolarità”, se così posso dire, della storia letteraria, quindi ci sono considerazioni in questo ambito, in questo senso. È ovvio che uno pensa poi a… che ne so… il mio non vorrebbe essere un paragone di qualità o di merito, ma dico semplicemente di modello. Penso allo Jacopo Ortis piuttosto che al Werther piuttosto che a Eloisa e Abelardo, piuttosto che a “Les liasons dangereuses”, quindi, uno può riflettere su cosa significa fare lettere in letteratura, scrivere lettere che non siano una missiva, e quindi una comunicazione personale, ma che abbiano una dimensione letteraria, cioè una dimensione creativa, cioè una dimensione d’invenzione, cioè una dimensione di finzione, ecco. E allora a questo punto la finzione entra nella lettera che invece di solito è un mezzo che noi reputiamo essere il più sincero possibile, perché se io scrivo una lettera a qualcuno è per dirgli una verità che deve essere detta soltanto fra di noi, non deve essere pubblica.

Questo mezzo che gli uomini hanno inventato per comunicare, che consiste in un foglio di carta che si mette in una busta che si invia è, diciamo così, il più privato che possiamo avere, messaggio, appunto, che uno presuppone di essere il più sincero possibile. Però, a quel punto lì, è ovvio che a uno scrittore viene in mente: mah, sarà poi proprio vero che quando scrivo una lettera a qualcuno io dico tutta la verità o soltanto la verità che voglio dire io – e allora naturalmente il discorso diventa infinito. Ecco che poi ci si accorge che parlare di letteratura significa parlare della vita, sostanzialmente, perché la letteratura è una forma di conoscenza, è una forma di confronto, con tutto ciò che ci circonda, è un nostro giudizio, è uno specchio, insomma, è una stratificazione di cose che non può essere messa in una cornice molto determinata, deve essere molto allargata, ecco, quando si parla di letteratura. In questo senso vi dicevo che proprio per questo potete farmi le domande che desiderate. In realtà io credo che la letteratura, o meglio, la scrittura, mantiene un suo “perché” al fondo del quale non riusciamo mai ad arrivare. Appunto perché, come dicevo nel mio discorso, probabilmente questo “perché” è molteplice, di una molteplicità quasi infinita.

Allorché i mezzi di comunicazione moderna, con una certa superficialità forse, e molte volte anche banalità, hanno tentato di fare delle “inchieste”, come si dice oggi, ed esse sono risultati quasi divertenti, o comicamente inutili, se si vuole. Mi ricordo di un’inchiesta che fece un giornale francese, “Libération”, una decina di anni fa, forse un po’ di più, ponendo a molti scrittori di tutto il mondo, quelli più noti, la domanda “perché lei scrive?”. Le risposte erano delle più incredibili, insolite, e certamente non coinvolgenti. Un grande scrittore come Beckett rispose “perché non so fare altro”, un altro rispose “perché mi annoio”, un altro rispose “perché mi manca l’infanzia”, e nessuno rispose una risposta che molti scrittori potrebbero dare ma che non darebbero mai, “per far soldi”, ma non c’erano, fra l’altro, scrittori di best-seller tra quelli intervistati. Ecco, questo è per dire che in realtà è una domanda così semplice, ma nello stesso tempo così sorprendente, che sorprende anche lo scrittore. Perché uno scrive? Effettivamente… Io personalmente non lo saprei proprio dire da cosa viene questa “necessità”, chiamiamola così, o voglia, o desiderio, ma certo probabilmente appartiene a una sfera di quelle molto profonde, sarebbe a dire, perché appartiene alla sfera erotica, alla sfera del desiderio, e il desiderio appartiene alla sfera dell’eros, se si vuole, in senso molto lato naturalmente.

Ma certo, perché no, insomma. Oppure come rispose Fernando Pessoa: “la letteratura è una dimostrazione che la vita non basta”, anche questa è una bella risposta, “la vita non basta”, anche perché la nostra mano arriva fino a qui, più in là non va. Invece la letteratura va più in là della nostra mano. Cioè, qualcosa che va oltre un nostro fisiologico limite, e poi anche nel desiderio, nella voglia di arrivare più in là della mano, c’è anche un desiderio di evasione. Evasione da cosa poi, sostanzialmente? Ecco che qui mi riattacco brevemente al discorso di “Autobiografie altrui”, anche evasione forse da quello che noi siamo, voglio dire, noi trasportiamo noi stessi dentro una valigia che è il nostro corpo, e siamo quello, ecco. Creare un personaggio significa anche darci l’arbitrio e avere l’illusione di essere un’altra persona. C’è anche una voglia di molteplicità, dentro noi tutti. La limitazione di essere quello che siamo, una persona, è una limitazione molto forte, però gli dei ci hanno dotato fortunatamente dell’illusione, di una capacità che si chiama “immaginazione”, che ci lascia immaginare, in un piccolo miracolo, che noi siamo un’altra persona. Inventiamo un personaggio. Dietro questo personaggio ci siamo noi, però è un “noi” che è noi. Però noi lo viviamo con molta forza, e con molta convinzione, con molta verità. Noi lo viviamo con la stessa verità con cui Shakespeare vive Amleto, e poi Shakespeare non è Amleto, non si sa neanche chi era. Però, certo, in quel momento lì lui è Amleto, è un giovane principe tormentato e pieno di dubbi, e che non sa come risolvere una situazione familiare, come esercitare la sua vendetta, e come far funzionare una sua metodica follia, che mette, appunto, a lavorare per difendersi. Così come noi viviamo con la stessa convinzione quando poi abbiamo Amleto sul palco, e lì c’è la grande forza della finzione: ci porta fuori da noi stessi e ci va vivere un’alterità. Noi sappiamo benissimo che quando l’attore muore sul palco lui non muore, però noi piangiamo. Lui fa una cosa finta e le nostre lacrime sono vere.

Come diceva Puškin “ho pianto tante lacrime sulla finzione”. Ma perché piangiamo tante lacrime sulla finzione, che sono vere, sapendo che noi stiamo assistendo alla finzione? Perché questa finzione è talmente caricata di un fatto simbolico, che non è l’attore che sta morendo, siamo noi, è l’uomo, siamo noi tutti, e lui in quel momento è il simbolo della morte, la sta impersonando. Quindi noi capiamo che c’è qualcosa che va al di là di una semplice finzione. Quindi io ritiro la parola che ho detto all’inizio: non è una finzione, è qualcosa di più.
Bene, tutto questo è letteratura, ma è anche molte altre cose. Secondo me è anche un fare la storia anche degli uomini. Se non ci fosse la letteratura, che storia avrebbero gli uomini, cosa sapremmo noi di noi stessi, eh? Sapremmo ben poco. Se gli storici hanno ricostruito attraverso i documenti certi avvenimenti, gli avvenimenti non bastano per sapere cosa li ha scatenati. Non basta contare i morti dell’Iliade o virtuali documenti per capire la guerra di Troia. Per capire la guerra di Troia in Omero noi dobbiamo capire che c’è stato Paride, Elena e un fatto di gelosia. Se sappiamo quello, capiamo perché si è scatenata la guerra, altrimenti il resto è un documento sordo, che non dice niente, fa della contabilità di quelli che sono gli avvenimenti storici. Ha un senso sapere quante sono state le vittime dei campi di Auschwitz o dei campi nazisti solo se noi sappiamo qual’è l’ideologia che li ha sterminati. Allora sì, capiamo, con raccapriccio, ma con grande chiarezza, che cosa è successo, altrimenti tutto il resto sarebbe sordo, noi avremmo un’enorme contabilità di fatti che sono successi nella storia di cui noi non capiremmo niente, chi ce li racconta è la letteratura. Questo ci racconta la letteratura, che ospita tutto tra l’altro, è un ventre enorme di memorie, della memoria umana. La letteratura non ha mai guardato carte di credito, ha ospitato tutti, da Carlo Magno alla piccola Cosette dei Miserabili, tutti dentro, senza gerarchie. Quindi è proprio un grande ventre dove stiamo tutti; e poi anche per quanto riguarda le conoscenze di noi stessi, io credo che la letteratura sia una profonda conoscenza di noi stessi. Prendiamo uno dei sentimenti che ho messo a funzionare, che ho cercato di osservare in un libro come “Si sta facendo sempre più tardi”: l’amore, che poi ha un perimetro piuttosto vasto, perché nell’amore ci sono le passioni, c’è la gelosia, c’è il rancore… ma dico, noi cosa sapremmo dell’amore, effettivamente, di questo complessissimo e svariatissimo sentimento, se esso dovesse essere limitato alla nostra personale esperienza? beh, saremmo molto più poveri di quello che invece non siamo, grazie al fatto che conosciamo l’amore attraverso la letteratura. Se fosse limitato alla nostra personale esperienza, beh, un grande amore nella vita è già un dono degli dèi, due grandi amori mi sembra proprio una fortuna eccezionale! Ecco, due grandi amori nella vita, e poi? ma se invece noi abbiamo tutta una serie di informazioni sull’amore perché abbiamo letto Madame Bovary, Anna Karenina, Eloisa e Abelardo… l’amore lo conosciamo attraverso queste informazioni a cui affianchiamo certamente la nostra esperienza personale, che resterebbe limitata se noi non avessimo a disposizione la letteratura.

Julio Monteiro Martins – In “Autobiografie altrui” c’è sempre la presenza dell’inconscio, dei sogni, come una forza potente legata alla creatività. Nel tuo processo creativo personale, com’è questa tua forza dell’inconscio e com’è quest’altro io che ci abita?

Antonio Tabucchi – È un universo in sospensione, naturalmente, in cui non si è più tanto con i piedi per terra ma non si è ancora passati al mondo propriamente dei sogni, quello che viene definito lo spazio onirico e che poi eventualmente uno poi racconta la mattina alla propria moglie o allo psicanalista se ci crede. È quella cosa che Eugenio Gozzi chiamava “insognar”, che è proprio un “intersogno”, un trasognare, diremmo in italiano. Si tratta cioè di stare in quello spazio a mezz’aria in cui si sta formando qualcosa che viene dal reale, inteso come realtà fattuale ma anche come qualcosa che è dentro di noi che è ugualmente reale, che è come se si cristallizzasse, se si coagulasse in qualcosa che magari a volte assume anche una forma narrativa – non è detto che in me o in chi esprime questo stato in una formulazione che poi si racconta, diventi poi narrazione – ma può assumere anche altre forme espressive, com’è noto. In questo caso, la trasposizione in parole, può ordinare logicamente, secondo una formulazione narrativa o diegetica, un qualcosa che di per sé sarebbe come una gelatina… anche perché il fatto di raccontare a noi stessi noi stessi, ci fa capire quello che è il caos, perché, a ben vedere, la vita non è formulata in termini narrativi, perché noi la vita la viviamo, e la vita è qualcosa che succede, accade. La vita diventa comprensibile quando noi ce la raccontiamo, altrimenti non la capiamo: per capire noi dobbiamo formulare in termini narrativi, altrimenti non capiamo. Dobbiamo ordinare il caos, e lo ordiniamo raccontando.

Spettatrice 1: Credo che conosciamo tutti il suo impegno politico nell’Italia e nell’Europa di oggi, e vorrei chiederle quanto di questo suo ethos è presente nella sua opera e se sente che influenzi o vada influenzando la sua opera.

Antonio Tabucchi – Credo di avere, nella mia scrittura, soprattutto un libro che ha questo tipo di impegno, e si tratta di “Sostiene Pereira”. Per quanto riguarda il resto della mia produzione narrativa, il quoziente di impegno politico è assai minore. Per la verità credo che lo spazio di quest’espressione, per uno scrittore come me, si eserciti meglio in una funzione intellettuale piuttosto che di scrittore: piuttosto che fare narrativa, preferisco usare la scrittura, certo, ma con interventi saggistici, giornalistici, in quanto spazio che io ritengo più efficace, anche perché credo che la letteratura in sé abbia bisogno di una certa distanza dall’avvenimento, altrimenti rischia di diventare cronaca. Per quanto riguarda questo romanzo che effettivamente riconosco politico, qual è appunto “Sostiene Pereira”, cercherò di fare una riflessione di carattere pratico: l’ho scritto nel 1993, e per la precisione la data che compare in fondo, il 25 agosto, coincide con la fine del romanzo ma anche con il compleanno di mia figlia, ed io ho voluto sottolineare questa cosa. L’ho scritto per necessità, perché credo che la letteratura sia lo spazio della libertà assoluta e uno dunque deve scrivere ciò che vuole. Con tutto ciò, io non mi sognerei mai di dare una grammatica deontologica a qualsiasi scrittore, perché se io domani ho voglia di scrivere sui cavoli dell’orto, è giusto che lo scriva, perché i cavoli esistono, sono creature del mondo, ed è giusto che qualcuno scriva dei cavoli, se ne ha voglia. Se uno si innamora dei cavoli, cavoli suoi! Io avevo voglia di scrivere su quel rovo che stavo cogliendo, su qualcosa che stavo cogliendo e che mi sembrava di avvertire, e che forse la letteratura avverte meglio, o intuisce meglio dell’osservatore politico del giornale o della televisione inviata sul posto. Avevo colto dei venti, diciamo così che stavano di nuovo soffiando sull’Europa – ora mi pare che questi venti siano turbinosi: c’erano dei nazionalismi che stavano tornando in maniera feroce. Non sono d’accordo con quella frase di Marx secondo cui la storia prima si manifesta come tragedia e poi come farsa. Secondo me se la storia si manifesta dapprima come tragedia, poi si manifesta di nuovo come un’altra tragedia, nient’affatto come farsa. Ad ogni modo, io sentivo che era una cosa che assomigliava al vecchio ma che aveva un volto nuovo: era una vecchia novità. Tuttavia, io non avevo modelli in quel momento – il 1993 – su cui modellare schiacciato, diciamo così, il mio romanzo. E allora, siccome avevo in mente un personaggio, cercai di collocare le mie sensazioni in un determinato momento storico – il Portogallo del ’36, della guerra civile spagnola e del salazarismo portoghese – e di affidarlo a questo personaggio, un vecchio giornalista, Pereira, vedovo, cardiopatico, infelice e cattolico, probabilmente quanto più ci può essere di diverso da me. Affidai a lui il compito di raccontare questa storia. Questo avvenne nel ’93. Poi, naturalmente, il libro rimase fermo, e uscì nel ’94. Nel ’94 appena il libro uscì, si era insediato il governo Berlusconi. Io aprii uno dei giornali di Berlusconi, appunto Il Giornale, e c’era scritto a caratteri cubitali che il mio romanzo era un romanzo brezhneviano. Io pensai che se il vecchio povero grasso, timido, impacciato, cattolico Pereira era brezhneviano, beh, io non li avevo riconosciuti loro, ma loro non avevano neppure riconosciuto me! Da quel momento capii chi era il volto nuovo che mi mancava, e da quel momento mi sono messo ad osservare questo nuovo che è arrivato, questa vecchia novità, ma soltanto in interventi saggistici e non letterari.

Julio Monteiro Martins – Prima parlavamo sulla parola “egemonia” insieme all’altra che ora è un po’ in disuso ma che era di moda nella mia adolescenza e che è “alienazione”, che magari dovrebbe essere risuscitata nei nostri tempi. Si dice che l’Italia oggi vive una situazione di regime, anche se i segni esterni sono segni di una democrazia in funzionamento. Fino a che punto queste egemonie possono caratterizzare una forma magari nuova di regime nel ventunesimo secolo?

Antonio Tabucchi – Vorrei mettere la questione in questi termini: ciò che è formale e ciò che è sostanziale. Credo sia importante parlare a questo punto di democrazia formale e democrazia sostanziale, perché è ovvio che in Italia possiamo dire ciò che si vuole. Il problema è dove! Dunque il problema non è il fatto di poter dire qualcosa, bensì di dove poterlo dire. Questa è una forma di egemonia, che comincia a essere preoccupante: è come se qualcuno vi dicesse, “guardi, lei davanti a sé ha tutta una catena di prodotti da scegliere, solo che sono tutti miei”. Questo limita molto la scelta, in fondo, ma limita assai, invece, sostanzialmente. La libertà è un’altra cosa, e si capisce come l’egemonia divenga un fattore di condizionamento molto forte. Noi dobbiamo abituarci ad affrontare delle novità formali che sono poi dei vecchiumi sostanziali.

Julio Monteiro Martins – Vorrei parlare del ruolo dello scrittore. Nel mio Continente d’origine, l’America Latina, negli ultimi venti, trent’anni, gli scrittori hanno avuto addirittura un ruolo importante di riserva etica. Ricordo come è finita la guerra delle Falkland, delle Malvinas, in cui l’unico personaggio considerato all’altezza di presiedere quel tribunale dei crimini contro l’umanità, è stato un vecchio romanziere, Ernesto Sabato, che è stato cercato a casa, in pantofole, per presiedere in tribunale. Gli scrittori dell’Europa di oggi, in particolare in Italia, a me personalmente, che guardo con occhi dall’esterno, mi sembra che facciano troppe chiacchiere su argomenti di importanza minore. Molte cose legate alle politiche editoriali, alla visibilità mediatica, alla moda… cioè, non sarà che nell’Italia di oggi gli scrittori hanno perso quella dimensione di coscienza sociale che avevano invece negli anni Quaranta e Cinquanta, come nei casi di Pavese e Vittorini, ad esempio?

Antonio Tabucchi – Lo scrittore ha certo anche un ruolo di testimonianza, perché possiede un occhio e osserva. Questo è uno dei suoi doveri: che osservi dentro o osservi fuori non ha importanza. Nessuno può togliergli questo diritto/dovere. Ripeto, nell’Italia di oggi si può osservare, poi trovare dove dire quello che si è osservato è più difficile. Per quanto mi concerne, trovo che gli spazi siano molto limitati e hanno una diffusione molto limitata, rispetto soprattutto alla televisione che oggi detta legge. Perciò, per quanto posso, lo dico all’estero, su giornali esteri, perché far sapere alcune cose sull’Italia sui giornali esteri, dà molto fastidio a certi che non vorrebbero che andassero al di là dei confini. Tra l’altro, ha dato molto fastidio il fatto che io scriva sui giornali esteri – mi hanno anche accusato di essere provinciale per questo motivo! Quindi, poter far conoscere di fuori probabilmente fa molto bene, perché il fatto che alcuni scrittori latinoamericani siano stati testimoni ma la loro testimonianza non sia rimasta lì dove sarebbe stata macerata, maciullata, occultata, ma abbiano comunicato con il resto del mondo, beh, questa è una funzione importante della letteratura e dello scrittore.

Spettatrice 2 – Quale rapporto ci può essere oggi tra letteratura e filosofia, e ha senso che ci sia?

Antonio Tabucchi – Naturalmente può sembrare un’insolenza, ma credo che sostanzialmente siano la stessa cosa, tutto sommato non sono poi così lontane. Forse lo sono sempre state, anche se la filosofia, quella detta classica, non usava le forme narrative, o la letteratura non usava le forme più rigorose e scientifiche della filosofia, si veda ad esempio Kant o Hobbes. Ma se noi andiamo alle origini della filosofia, beh, Platone era un grande narratore: è lui che ci racconta Socrate, ma ce lo racconta in modo letterario. Per quanto riguarda i tempi più vicini a noi, io noto che una certa filosofia del Novecento ha scelto molto l’espressione narrativa/letteraria per manifestarsi – Nietzsche è un esempio per tutti. Del resto poi, se leggiamo alcune pagine di alcuni grandi narratori del Novecento, è forse difficile capire se non si tratti anche di filosofia – si veda ad esempio Beckett o il nouveau roman. Ne “L’uomo senza qualità” di Musil, rileggetevi il capitolo 16, intitolato “Una strana malattia dei tempi”: è una pagina socio-politica, di filosofia politica straordinaria, una decifrazione di quelli che sono i cambiamenti epocali dovuti poi non si sa a chi, è andata così.

Julio Monteiro Martins – C’è un’espressione che ho sentito anni fa che mi ha impressionato perché secondo me ha un legame con la realtà attuale. L’espressione è “il sequestro della soggettività collettiva”: è un modo di formazione dei cuori e delle menti in una determinata direzione voluta che finisce per imprigionare questa sensibilità collettiva. E fino a che punto magari la letteratura può servire eventualmente, anche nel suo piccolo, in quanto un libro è letto da diecimila, ventimila persone, quale unico eventuale antidoto a questa omologazione, a questo sequestro della soggettività?

Antonio Tabucchi – Io credo che anche questa sia una delle cose vecchie che ritornano, perché se noi percorriamo la storia dei totalitarismi – chiamiamoli così – intesi come sistemi sociali verticistici in cui chi è all’apice pretende che chi è alla base faccia quello che vuole lui, sia esso il faraone egiziano, l’imperatore romano, sia esso Hitler piuttosto che Stalin, tanto per venire ai nostri tempi. La prima cosa di cui costoro si preoccupano è la parola scritta, ovvio: tutti i regimi, storicamente parlando hanno preso di mira per prima cosa la forma di comunicazione che peraltro, come dice Julio, è la meno controllabile. Voi sapete, controllare, come dire, i nuovi mezzi di comunicazione che sono importantissimi, beh, quello è facile, basta nominare il proprio direttore di rete. Nella letteratura purtroppo c’è una rete che ha un sacco di buchi e scappa da tutte le parti: un libro non si sa quale percorso faccia. Quindi si controlla molto peggio. La parola scritta, a mio avviso, seppur meno efficace in termini immediati di quelli che vengono chiamati mass media, è però più resistente, più testarda, e poi scorre sotterranea, dunque è meno controllabile. Voglio dire, su cento metri vince Bruno Vespa, ma sulla maratona vince la letteratura, non ci sono dubbi. E, siccome questi hanno bisogno di un controllo del tempo – perché non possono mica durare due anni, sono troppo pochi, anche tre, quattro, perché questo apparterrebbe al cosiddetto ricambio democratico, mentre questi vogliono restarsene lì a lungo, finché possono, e allora bisogna controllare nel tempo – la parola dà fastidio. Il libro è un pesce di fondale, galleggia meno…

Spettatrice 3 – (Registrazione dall’audio disturbato)

Antonio Tabucchi – A questo proposito, vorrei aprire una parentesi su un mio libro, perché io posso parlare solo della mia esperienza personale di scrittore. Ho fatto questa riflessione quando mi fecero un questionario a proposito di “Si sta facendo sempre più tardi”, che raccoglie – per chi non l’avesse letto – una serie di lettere, tutte maschili, che degli uomini hanno scritto a delle donne con cui hanno avuto un rapporto amoroso che non è finito molto bene, e serbano molti rancori perché possono anche aver lasciato tracce molto forti nella loro vita. Poiché io non volevo scrivere un libro tradizionale, nel senso che non volevo scrivere un romanzo epistolare, le risposte delle destinatarie non ci sono in questo libro. Questo fa pensare che gli uomini che scrivono e che raccontano la storia, in fondo la raccontano dal loro punto di vista, non è mica detto che sia andata proprio così, anzi, io ne dubiterei fortemente… Non ho scritto le lettere di risposta per due sostanziali motivi che riassumo: il primo è perché, francamente, per uno scrittore uomo è molto difficile, e forse anche un po’ arrogante, mettersi nell’universo femminile e assumerne il punto di vista, anche se io ho tentato perché ho scritto in quanto bambina, ho scritto come una madre a cui viene ucciso un figlio. Ho tentato di assumere un corpo femminile; è raro però che uno scrittore maschile riesca a scrivere da donna, forse i due grandi che ci sono riusciti e per i quali ho una grande stima, sono Flaubert con “Madame Bovary” e Tolstoj con “Anna Karenina”. Prendiamo ad esempio una conversazione in cucina, per dire una piccolezza, tra una vecchia cuoca, un’altra che parla, una ha una nipote che deve sposarsi, l’altra ha appena avuto una bambina e una dice “Ah, poverina, pensa te”…Beh, Scusate il riassunto frettoloso, ma vedete, se uno scrittore riesce a parlare così, da donna, quello è un grande scrittore. Prima difficoltà: mettermi in vesti femminili. Seconda difficoltà: volevo che il mio libro fosse semplicemente una mancanza di comunicazione, un insieme di disincontri, di gente che non si è trovata, perché la vita molto spesso è fatta così. Se invece li mettevo a dialogare, riempivo i vuoti, mentre volevo fare un libro di assenze, perciò le lettere di risposta non le ho scritte. Ma le ho pensate. Posso confessare che a volte, dopo aver scritto una lettera dell’uomo, la sera andavo a letto e inevitabilmente rispondevo. Poi non ho avuto il coraggio di scriverle e non l’ho fatto. Ma il fatto di aver scritto la lettera prima, mi obbligava ad andare a prendere anche l’altro ruolo, e per lo meno mentalmente, tra me e me l’ho fatto, perché dicevo “beh, a questo mascalzone bisognerebbe dargli una risposta” e lo facevo, insomma. Ad alcuni, non tutti sono mascalzoni, altri magari hanno pure ragione, ma ce ne sono due o tre che sono veramente.. a quelli ho risposto, mentalmente. Allora, rispondendo al questionario che poi mi fecero su questo libro, avevo fatto questa riflessione – e premetto che quando uno scrive è un po’ tutti i suoi personaggi, non si può negare. Cervantes ad esempio, nello scrivere il Don Chisciotte, non è solo Don Chisciotte e Sancio Panza, è anche il barbiere, la sua nipote. Uno, quando scrive un romanzo, deve essere tutto, non è solo il capocomico, è tutta la compagnia. Ed io, quando ho scritto Pereira, non ero solo Pereira, ma dovevo anche essere il direttore del suo giornale, ho dovuto pensare come pensava il direttore. Però per quanto riguarda il libro in questione, io ho risposto così: “Per le destinatarie è la stessa cosa. Per quanto possa sembrare paradossale, in un certo modo sono stato anche quelle, perché le lettere che scrivevo mi ferivano come se le ricevessi io”. Scrivendo questo libro ho creduto di capire un verso di Baudelaire che mi era sempre rimasto oscuro: “Sono stato lo schiaffo e la guancia”.

Spettatore 4 – Che cosa ne pensa delle trasposizioni cinematografiche della sua opera?

Antonio Tabucchi – Il cinema ha un altro linguaggio, è un’altra cosa. Io credo che se uno va al cinema pensando di vedere l’illustrazione del suo libro, beh, intanto uno si annoia a sangue perché il libro l’ha già scritto e vede una cosa identica, e inoltre perché c’è veramente una transitività nei linguaggi artistici: se una cosa passa ad un altro linguaggio deve essere un’altra cosa. Quindi io sono sempre andato al cinema, per quanto riguarda i film tratti o ispirati dai miei libri, per vedere un’altra cosa. Poi, mi possono essere piaciuti o meno, ma in relazione a loro stessi, ecco, non in relazione a me stesso.

Spettatore 5 – Nel suo libro “Autobiografie altrui”, lei fa una serie di riflessioni sui personaggi e fa parlare anche persone che hanno avuto dei rapporti con lei. C’è soltanto una parte del libro chiamata “Autopsia” in cui lei lascia questa lettera al lettore ma è l’unica volta in cui lei non fa alcun commento. Tra l’altro questa lettera è molto forte, la persona che scrive fa delle dichiarazioni importanti su di lei. Qual’è la sua opinione al riguardo?

Antonio Tabucchi – Intanto è ovvio che letteratura è anche lo spazio dell’ambiguità. Io non dico se questa lettera sia vera o falsa, ed io non ve lo rivelerò, però in qualche modo è un testo letterario. È un “autocommento” , perché io lo metto qui: anche se è un altro che, come dire, mi ha visto e commentato, il fatto che io me ne appropri e lo metta qui dentro, diventa un autocommento. Il fatto inoltre che io lo metta qui dentro come un’autobiografia altrui, diventa una doppia autobiografia altrui, perché costui, facendo un commento a me, rivela anche se stesso e diventa un personaggio lui stesso. Però siccome lo metto in un mio libro, diventa un mio personaggio. Cioè, diciamo che al di là del fatto che sia più o meno vera, che sia più o meno tradotta esattamente – perché è tradotta dall’inglese – il fatto però che io la utilizzi come materiale e me ne impossessi, significa che colui che mi osserva diventa da me osservato, e ribalto i termini della questione.
Supponiamo che lei nella vita ha qualcuno che si è dato il compito di dare un giudizio su di lei. Lei entra in possesso di questo documento, e lo pubblica: beh, lei dà un giudizio su quella persona. Maria Zambrano, l’allieva di Ortega y Gasset, un giorno ebbe una disputa, ma non si tratta di una disputa, è un riappropriarsi di chi ti guarda, quasi a voler dire “Ah sì, mi guardi? Allora ti guardo anch’io. Ma non ti guardo col mio sguardo, uso il tuo e lo metto lì”. E Maria Zambrano chiese a Ortega come poteva replicare a un filosofo che in qualche modo era entrato in polemica con lei, e Ortega disse: ”È molto semplice, lo citi, si limiti a citarlo”. Praticamente questa è una citazione di cui mi sono appropriato, e quando uno si appropria di una citazione, la trasforma. Naturalmente poi, lo ammetto, nella traduzione della lettera ci ho messo un po’ del mio. Forse l’ha anche un po’ migliorata, non so!! Ma questo è consentito dalla letteratura, è proprio lo spazio apposta per farlo. Ecco, la storia non dovrebbe far questo, se la storia utilizza un documento in maniera impropria, uno modifica e commette una falsificazione: io in questo caso lo faccio diventare semplicemente un testo letterario.

Julio Monteiro Martins – Sembra che lei ci abbia portato anche una sorpresa…

Antonio Tabucchi – Io vorrei chiudere la nostra conversazione con un regalino. Si tratta dell’ultimo libro che sarà pubblicato all’inizio del nuovo anno e vi volevo leggere un paio di pagine.
Chi parla è un uomo molto vecchio, che avrebbe l’età del secolo praticamente che ha vissuto, cioè quello trascorso, e racconta la sua vita come può perché è molto malato, è sul letto di morte, in una lenta agonia. Lui prende morfina e molte volte racconta la sua vita spesso anche sotto forma di delirio, a uno scrittore che ha chiamato al suo capezzale, e che ha la sola funzione di orecchio che ascolta e basta, senza dire una parola. Tutto questo libro è dunque un monologo.
Eccovi due pagine, una per mostrarvi come questo vecchio signore morente si rivolge allo scrittore che ha chiamato – che potrei anche essere io, in fondo sono io che l’ho scritto… – , e una che racchiude un suo ricordo che però è probabilmente modificato dalla condizione di febbre e di sostanze che deve prendere. Il personaggio, la voce, si chiama Tristano.

(Lettura del brano di Tristano muore.)

Julio Monteiro Martins – Grazie infinite.

Antonio Tabucchi – Grazie a te.

Fotografie di Enzo Cei alla Scuola Sagarana, nel 2003.

Se usi i creative commons Amazon ti censura

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Riporto dal sito di Quintadicopertina, il partner di alfabeta2 per l’edizione digitale in ebook. Amazon gli ha chiuso l’account di vendita, con una decisione grottesca e inaccettabile che mi auguro Amazon ritiri immediatamente, rispondendo pubblicamente dell’accaduto –  Jan Reister.

Questa mattina l’account di Quintadicopertina su Amazon è stato bloccato. Una censura decisa unilateralmente da Amazon: non possiamo aggiungere ebook, vedere lo stato delle vendite né altro. Una mail da Amazon ci avverte che il blocco è dovuto a violazioni del copyright che Quintadicopertina avrebbe fatto pubblicando materiale che si trova liberamente in rete. Nello specifico Quintadicopertina avrebbe pubblicato un numero di alfabeta2 all’interno del quale si trovano  contenuti liberamente leggibili in rete.

Dove si trovano questi contenuti “liberamente leggibili in rete”? La mail di Amazon non lo dice, ma noi lo sappiamo. Si trovano nel sito di alfabeta2 che essendo, a differenza di Amazon, un progetto principalmente culturale e non commerciale, spesso e volentieri mette gratuitamente on-line parti della rivista per chi non volesse o potesse comperarla ma volesse comunque partecipare alle discussioni sui temi di cui si parla all’interno della rivista. A questo Amazon non sta bene, con buona pace dell’open content.

Ma c’è un altro punto importante che riguarda l’ennesima censura della major di distribuzione nei confronti degli editori, cito:

“Please be advised that we won’t accept content that is freely available on the web unless you are the exclusive copyright owner of that content. For example, if your content comes from a source that allows you and others to re-distribute it, and that content is freely available on the web, we won’t accept it and make it available for sale in the Kindle store.”

Leggete bene: quella frase significa “niente creative commons”. Un giornalista scrive un articolo e lo mette on-line con CC che permettono il riutilizzo anche commerciale? Scordatevi di poterlo inserire in un vostro ebook assieme ad altri articoli. Quel solo articolo farebbe sì che Amazon censuri il vostro testo, bloccandovi ogni operazione fino alla rimozione dell’ebook. Scordatevi ogni operazione di scrittura collettiva, di traduzione, di lavoro editoriale basata su materiali prodotti in creative commons.

Di fronte al grande entusiasmo per l’arrivo di questo soggetti trasversali a cui gli editori svendono libertà sempre più importanti nella gestione di materiali culturali, dal prezzo di copertina (deciso da Apple per tutti gli editori italiani) alla scelta dei materiali che possono o non possono essere inseriti in un ebook, come avviene oggi con Amazon: lanciamo un allarme.

Originale su Quintadicopertina. Anche su alfabeta2. Immagine di milo

Aggiornamento 10/7/2012: l’account di Quintadicopertina è stato riattivato da Amazon.

Senza appartenenza: un’intervista a Tommaso Giagni su L’estraneo, il suo primo romanzo

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di Giuseppe Zucco



Prima ancora di aprire il romanzo, molto prima di scendere e risalire gli scalini della narrazione, il titolo concede una promessa al lettore: stai per incontrare non un estraneo, ma l’Estraneo, un personaggio minuto e sfuggente quanto assoluto – tanto che il titolo ne richiama già
un altro,famosissimo, di Albert Camus, Lo straniero. Ecco, chi è l’Estraneo, e cosa fa di lui non solo un perfetto protagonista ma anche il riepilogo di una particolare condizione umana?

L’Estraneo è un ventenne, che è nato e cresciuto nella “Roma bene” perché figlio di un portinaio (questi originario dell’Agro e transitato per un quartiere marginale, prima di arrivare al posto di lavoro in una zona prestigiosa), ma che da quella Roma non si è mai sentito accettato. Lasciato dalla ragazza di periferia Alba, che in lui non ha trovato il modello borghese cui rifarsi, l’Estraneo decide di andare a vivere in una borgata (“il Quartiere”), nella speranza che sia quello il suo luogo. Comincia così un percorso, tra palestre e sale scommesse, per apprendere i codici di un mondo lontano da quello “pasoliniano” che immaginava di trovare – e che era poi quello da cui provenivano i suoi genitori. È un inetto, un timido, un incerto. Ed è uno che si ritrova fuori dall’adolescenza, quindi col massimo bisogno di definire sé stesso, in un momento storico che non dà alcun riferimento cui aggrapparsi.

 

L’Estraneo, solcando il mondo – e il mondo qui non è altro che la città di Roma, come se niente altro potesse espandersi oltre i confini del Grande Raccordo Anulare – lo divide in due parti uguali e contrarie: la Roma delle Rovine, il centro storico, e la Roma di Quaresima, la periferia. Come e perché le due città si attraggono e si respingono, entrano in contatto e si sfidano a distanza?

Queste due città sono tra loro ancora lontane, incapaci di dialogare, ed entrano in contatto molto meno di quanto ormai ci si aspetterebbe. La “Roma bene” attrae la Roma marginale, e non è certo una caratteristica locale né una novità nel rapporto, inteso in senso lato, fra Centro e Periferia. L’attrazione inversa si esaurisce essenzialmente nella presenza dei centri commerciali (scrivo a un certo punto: «due giorni a settimana è la città a venire qui – ad aver bisogno di questo»). Un elemento da non trascurare è la natura piccolo-borghese della maggior parte delle periferie di oggi, che spinge a rincorrere il centro – questo sì – borghese.

 

Questa divisione ideologica del mondo fa molto guerra fredda, crea una divisione netta, geometrica, da un certo punto di vista è perfino consolatoria: eppure i personaggi, muovendosi lungo la scacchiera del romanzo, sparigliano i confini, li rendono mobili, (per esempio, quando il gruppo della palestra arriva nella conca del Circo Massimo), come se i confini fossero più qualcosa di molto interiore che una frontiera geografica del tutto solida e materialmente definita. È così?

I concetti di Centro e Periferia, li intendo proprio in questo senso: categorie interiori, prima di tutto. Lo stesso vale per i confini. Questi nel romanzo sono definiti e piuttosto rigidi: per sparigliarli, non bastano delle incursioni come il pellegrinaggio dei body-builders al Circo Massimo o come le snobistiche “gite fuori Porta” che faceva Marianna prima d’incontrare l’Estraneo. Non so quanto dividere il mondo in due sia automaticamente ideologico; di certo è consolatorio e rassicurante sentire di appartenere a un “luogo”, e questa è la chiave per capire la scelta del mio protagonista.

 

In Qualcosa di scritto, Emanuele Trevi tratteggia Prati, uno dei quartieri bene di Roma, in principio terra di ladri e puttane, gente dal coltello facile e bambini abbandonati, come un luogo che ancora risente di questa sua origine. (Ma le cose e le persone non sono sempre state, soprattutto a Roma, così come ci siamo abituati a vederle. Si direbbe anzi che, per raggiungere e godere stabilmente il loro stato abituale, debbono avere attraversato, durante una lontana crisi, il loro esatto contrario). Non è che la divisione del mondo che tu delinei finisce per museificare una parte di Roma altrettanto viva e contraddittoria? A volte ho la sensazione che il centro storico sia diventato un altro non-luogo, come il centro commerciale che descrivi negli ultimi capitoli, un posto che perde o acquista significato secondo le nuove strategie di appropriazione di chi decide di abitarlo. Che ne pensi?

Il fenomeno del filthering-up è del tutto naturale in qualsiasi metropoli: per restare a Roma, il caso di Trastevere è ben più lampante di quello di Prati. Le cose cambiano, ma nel tempo: oggi il centro di Roma è ripiegato su sé stesso, autoreferenziale, incapace di aprirsi; ritrarre quello che è oggi, non significa museificarlo o negargli una potenzialità di trasformazione. Quella che chiamo “Roma delle Rovine” non corrisponde al centro storico, ma a un’area ben più vasta che topograficamente esce spesso dalle Mura. Di non-luoghi io tendo a vederne pochi, in generale, e non ci metto il Centro – in senso lato – di Roma, e sono convinto che questo romanzo faccia tutto meno che appiattire luoghi vivi a meri non-luoghi.

 

Quando scrivi, Intorno non c’è niente della poesia di Pasolini che immaginavo dai tempi della scuola, niente di quella grazia che mi aspettavo di trovare nella città di Quaresima, registri un cambiamento neanche così sottile. Come e in che modo si è evoluto il territorio e soprattutto gli esseri umani che abitano quel territorio?

Qui segnalo una museificazione. L’Estraneo arriva in borgata convinto di trovare un certo romanticismo, “le pipinare che giocano in strada” e cose del genere. Invece quelle dinamiche da cui provenivano i suoi genitori e di cui aveva letto a scuola, non ci sono. Disorientato, capisce che deve adattarsi alla svelta – che neanche nelle aspettative era preparato. Le periferie raccontate da Pasolini hanno cominciato a perdere le proprie caratteristiche negli anni Settanta, e all’inizio dei Novanta erano altro. Il cambiamento è stato economico e culturale, e ha tirato fuori la piccola-borghesia di cui dicevo sopra. Questa nuova marginalità romana è stata ottimamente raccontata sin da allora (penso ad autori come Sandro Onofri, Claudio Camarca, Andrea Carraro) per poi arrivare a Walter Siti.

 

Un’ossessione serpeggia per tutto il romanzo: quella dell’identità. Ma in un’accezione singolare. Non è la propria biografia, quell’insieme di scelte speranze debutti azzardi, a costruire la propria identità, ma in particolare vivere, e vivere quanto più intensamente, il territorio che la tua nascita ti assegna. Addirittura, la propria identità viene fatta risalire alla frequentazione di un Quartiere, nel caso più generoso, se non allo scorrimento forzato di un solo e unico Viale, nel caso più sfortunato. Se è così, è un salto epocale, non credi? Per tutti gli anni ’90 e la prima decade degli anni 2000 molto di ciò che aveva valore lo aveva soprattutto perché veniva da lontano, da un mondo altro che non faceva che amplificare il territorio circoscritto che si squadernava sotto i nostri occhi – a volte, bisogna dirlo, del tutto miopi – e se c’era un gesto ricorrente e generazionale nulla batteva il desiderio di abbandonare la propria casa, la propria regione, la propria tradizione. (L’invenzione della world music è di quegli anni: qui, nel romanzo, i ragazzi ascoltano Battisti, Baglioni…)

Il recupero del legame col territorio lo leggo come una forma di difesa di fronte alla fine delle specificità portata dalla globalizzazione. Gli esotismi, il fascino dell’altrove, in generale il senso di apertura che si poteva avere anni fa, probabilmente stanno lasciando il posto alla chiusura spaventata dalle contraddizioni che tutto ciò apriva. Detto questo, nelle borgate romane anni Novanta non si ascoltava la world music, ma Ramazzotti.

 

Il romanzo, alla fine, sembra un inventario di nuovi riti (Il Sabato del Fuoco: dove i ragazzi, allo scoccare dei diciotto anni, danno fuoco davanti alla popolazione del quartiere a ciò che hanno appena comprato, a ciò che hanno sempre desiderato) e di nuovi miti (il corpo, soprattutto: da oliare, depilare, allenare, tornire, abbronzare). Ed è strano: perché l’atmosfera in cui si situa questa storia appare perfettamente laica e mondana e secolarizzata, mentre invece noi siamo del tutto consapevoli che dall’incontro di miti e riti sorgono nuove religioni oppure grandi o piccole narrazioni totalizzanti. Ecco, qui, cosa è ritenuto sacro, quali sono le nuove forme di sacralità?

Hai ragione: il “Sabato del fuoco”, ma anche la festa degli “Oscar del Visconti” (lo spettacolo in cui il ‘Liceo bene’ che ha frequentato l’Estraneo si autocelebra) e il pellegrinaggio per Luciano Liboni (simbolo di un’opposizione allo Stato decisamente politica ma slegata da qualsiasi discorso partitico) sono momenti rituali che hanno a che fare con il sacro. Il fatto è che la mancanza del riferimento religioso (gli oratori che si svuotano, la perdita di autorevolezza della Chiesa cattolica nella percezione comune, etc.) è dolorosa, e il bisogno di sacro mi pare fortissimo, soprattutto laddove gli strumenti culturali sono meno diffusi.

 

Per tutto il tempo, l’Estraneo, arrivato in una periferia estrema, con l’unico fine di addentrasi nella vita di un quartiere e trovare un proprio specifico irripetibile posto nel mondo, ci comunica che oltre a questo, il suo progetto di vita è quello di andare all’università e frequentare il dipartimento di Storia dell’Arte. A me sembra una contraddizione, e forse è così proprio perché il personaggio in sé è irrisolto e contraddittorio: nel momento in cui inizia a piantare le radici in periferia qualcosa dentro di lui lo spinge a tornare all’università, e quindi irrimediabilmente al centro, non solo della città, ma anche della conoscenza. Anche questo fa parte delle continue oscillazioni che compongono la vita del protagonista?

Le premesse che hai posto, in verità, ti ingannano. La decisione di iscriversi all’università, intanto, precede quella di trasferirsi. Soprattutto, andare nel Quartiere non è solo un trovare il proprio posto nel mondo, ma anche un costruire sé stesso. E una passione come quella per la Storia dell’Arte è un mattone, per uno che si sente inetto e cerca qualcosa di solido da mettersi attorno. Poi, certo: il personaggio dell’Estraneo è tutto una contraddizione, nel senso di quella frase di Walt Whitman: «Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini». L’incertezza intorno al sé, l’esigenza di trovarsi un posto, lo fanno oscillare di continuo.

 

Quasi tutti i personaggi che compongono il romanzo si dicono di destra, o pensano al modo della destra, o fanno e dicono cose di destra: anche il protagonista non sfugge a questo imperativo categorico. A un certo punto dice: Tre mesi dopo il trasloco nel Quartiere, posso dire con forza che buttarmi, invece di restare paralizzato a valutare le possibilità, mi ha migliorato il rapporto con il mondo e l’umore e l’autostima. Cos’è tutto questo, se non Futurismo? È così, anche se prendendola da lontano?

La passione del protagonista per il Futurismo ha a che fare con la sua tensione verso l’azione – lui che è stanco di guardare gli altri agire. Il Quartiere è culturalmente di destra, anche se le celtiche che lo tappezzano rappresentano un segno grafico cui aggrapparsi molto più che una consapevolezza politica. Ultimamente mi è capitato di spiegare come le periferie romane piccolo-borghesi non riescano a canalizzare in una direzione strettamente politica le proprie sensibilità all’intolleranza e al populismo. A conti fatti, insomma, un vero riferimento politico, anche quello, manca. A monte di questa considerazione, ci sono le colpe della Sinistra italiana, che ha dilapidato decenni di lavoro fatto dal Pci in questo senso.

 

Questo romanzo, in un’epoca che ha messo alle corde il postmoderno, ha un che di moderno, di novecentesco, soprattutto nell’immaginario che emana, nelle parole d’ordine che adotta: ci sono i borghesi, i piccolo-borghesi, i fascisti. Il mondo intorno è sostanzialmente cambiato, tu in molte pagine del libro ne dai conferma, eppure questi vecchi relitti di un mondo passato tornano a galla come fantasmi mai svaniti. È questa una caratteristica di Roma? Non riuscire a cancellare il coro di fantasmi che agita le sue fondamenta?

Per me sono categorie ancora buone, quelle, non relitti; d’altronde il mio immaginario è più moderno, novecentesco, che postmoderno. Poi, certo che il mondo intorno è cambiato, ma se questo libro discende da qualcosa e si pone criticamente rispetto a qualcosa, è col Novecento molto più che col Postmoderno. Se questo rapporto col passato abbia a Roma un peso particolare, non mi sento di dirlo.

 

A un certo punto del romanzo, scrivi: “Nuova vita” deve significare anche affrontare le cose, scenderci in profondità – sporcarsi le mani e la faccia, se bisogna. Suona come un’argentina dichiarazione di poetica, no? Quanto lavoro di documentazione e quanta ricerca sul campo c’è dietro la stesura di questa opera prima?

Secondo me devi metterti in gioco, per poterti prendere la responsabilità di scrivere. Devi andare nei posti, metterci il tuo tempo, conoscere a fondo certi ambienti e certe dinamiche, sporcarti le mani con la materia che vuoi raccontare. Se vuoi è una dichiarazione di poetica, sì. Io non ho fatto niente di straordinario perché bazzico certi quartieri da anni, in periferia ho rapporti e ricordi che mi sono cari, insomma non c’è stato un lavoro di documentazione in funzione del romanzo, ma piuttosto ho messo insieme spunti eccetera raccolti nel tempo.

 

Tu prima d’ora sei stato uno scrittore di racconti, la cosa si vede soprattutto in alcuni capitoli autosufficienti che aprono in medias res e chiudono in sospeso, a mio avviso i più efficaci del romanzo: quanto hai dovuto lavorare su te stesso, sulla tua tecnica di scrittura, per arrivare a ideare e dare compiutezza a un romanzo?

La struttura era in effetti l’aspetto che mi preoccupava di più, perché mi trovavo a fare appunto un lavoro diverso da quello cui ero abituato. Ma poi sempre di tecnica stiamo parlando, e come ogni tecnica si può imparare. Di certo, la linearità della narrazione mi ha aiutato non poco.

 

Il libro riporta la partitura di una strana lingua: alta e bassa, preziosa e quotidiana, letteraria e dialettale. L’intreccio è così composito che non sempre riesce: ricorrono imperfezioni, in qualche caso stride – alcune volte immagino sia voluto, proprio per rendere coerente anche la lingua alle continue oscillazioni del protagonista – ma quando va a segno ha una sua segreta musicalità. Ricopio un brano particolarmente lirico, per fare sentire la grana delle voce: Da qui posso immaginarli soltanto, oltre, i fossi limacciosi della marrana, e m’introgolo di fantasie sulle sfumature di verde che la tingeranno e sulla densità del liquame che ci scorrerà a bigonce sotto l’orgia degli insetti di palude. Quanto lavoro c’è dietro questa lingua? Quanto ti ha tenuto occupato? Dove ritieni sia venuta meglio?

Per me la lingua è la prima cosa, l’aspetto su cui mi concentro di più, sia da autore che da lettore. Una prima persona come questa del romanzo, con una storia personale così mista, mi dava la possibilità di giocare di continuo – su quella partitura che dici – combinando alto e basso, per ottenere l’attrito che individui e far leva anche su quello per testimoniare il disorientamento del personaggio. Non mi sento di trovarli io, i momenti linguistici più riusciti. Il brano che citi è in assoluto il più lirico del romanzo, il picco oltre il quale non sono andato; specularmente, ci sono passaggi che scadono in un registro molto più basso di quello cui la voce narrante ci abitua. Intorno, c’è la forte presenza del “romanaccio” (quello che si parla oggi in periferia: un italiano sporco ormai lontano dal dialetto romanesco) che circonda la vita del protagonista nel Quartiere.

una poesia di Rosaria Lo Russo

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per i terremotati dell’Emilia

Le cose di casa sono trappole di dolore.

Giustizia per Aldro

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Un appello:

Il 21 giugno 2012 la Cassazione si è espressa in modo definitivo sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso durante un controllo di Polizia all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara. La Corte ha confermato la condanna dei quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo riprendendo così le sentenze di primo e secondo grado.

Alla luce della sentenza, chiediamo:

– che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;
– che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;
– che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;
– che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

Primi firmatari:

Patrizia Moretti
Lino Aldrovandi
Stefano Aldrovandi
Comitato Verità per Aldro

Qui il sito dove aderire.

La sfida infinita: l’opera di Nobuyuki Fukumoto

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Nobuyuki Fukumoto
Nobuyuki Fukumoto

di Gualtiero Bertoldi

Introduzione

Nobuyuki Fukumoto
Nobuyuki Fukumoto

L’autore di manga Nobuyuki Fukumoto nasce nella prefettura di Kanagawa (Giappone centrale) nel 1958 e vede pubblicare alcune sue opere già all’inizio degli anni ‘80. I primi manga di Fukumoto sono a tema sportivo e sentimentale, ma non ottengono un particolare riscontro né di pubblico né di critica, tanto che nel 1988 l’autore si trova costretto, in parte per caso e in parte per necessità, a creare una storia basata sul mahjong per la rivista Kindai Mahjong, un bisettimanale dedicato al gioco d’azzardo e in particolar modo al gioco del mahjong. Questo periodico è una delle tante riviste tematiche a fumetti pubblicate in Giappone: attivo fin dai primi anni ’70, Kindai Mahjong tratta esclusivamente manga dedicati al gioco d’azzardo, un genere che coniuga la tradizione dei manga sportivi e la nuova ventata estetico-artistica portata dal movimento Gekiga negli anni ‘60. Pur non trattandosi di una rivista dai grandissimi numeri, Kindai Mahjong conta comunque su dei discreti volumi di vendita (la tiratura di un singolo numero è mediamente sulle 180.000 – 200.000 copie) e una storia editoriale di una certa importanza, tanto da configurarsi come un passaggio fondamentale per la carriera di Fukumoto, il quale accetta l’apparente limitazione di una storia di genere così definito e ristretto pur di essere pubblicato dalla rivista in questione.

Materiali per la resa

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Su Resistere non serve a niente di Walter Siti

Ne ho letto un terzo, sinora. Però mi basta per condividere che è un libro importante: per misurare dove va la letteratura e calarci dentro le pieghe e le piaghe più critiche del nostro tempo. Così ho deciso di offrire alcuni materiali pubblicati su altre riviste. La disanima di Andrea Cortellessa, un testo che si prende tutto lo spazio per articolarsi come discorso, sofferto e esplicito, di critica politica. Le riflessioni dello stesso Walter Siti.
A questo si aggiunge la recensione di Marilena Renda pubblicata proprio qui. Ma i cantieri sono aperti alle vostre segnalazioni e, ovviamente, ai vostri commenti. hj

Futile

di Andrea Cortellessa

Please allow me to introduce myself
I’m a man of wealth and taste

Pleased to meet you
Hope you guessed my name,
But what’s puzzling you
Is the nature of my game

Rolling Stones, Sympathy for the Devil

Certo non inventava niente Walter Siti nel teorizzare, e ampiamente praticare, un “io sperimentale” quale narratore, punto di vista focalizzante e protagonista indiscusso dei suoi primi romanzi. Si ricorderà come già Italo Svevo, a proposito del suo Zeno, scrivesse a un ammirato Montale: “pensi ch’è un’autobiografia e non la mia”. Ma, se si avvicina al vero quanto sostiene (esagerando) il Daniele Giglioli di Senza trauma (Quodlibet 2011) – che proprio quella che è invalso definire autofiction, insieme al noir “politico”, sia il genere egemone della narrativa italiana degli ultimi anni – ciò si deve principalmente a lui. All’esemplarità cioè che – presso i narratori più giovani, unico termometro fededegno d’autorevolezza quando i media guardano solo alle classifiche di vendita – s’è conquistato Siti, non tanto con l’esordiale e straripante Scuola di nudo (Einaudi 1994), quanto con la serie in apparenza compatta costituita da Troppi paradisi (ivi 2005), Il contagio (Mondadori 2008) e Autopsia dell’ossessione (ivi 2010; opere, in realtà, fra loro assai diverse e per certi versi l’una in polemica con l’altra; è vero infatti quanto gli viene rimproverato – che Siti scrive tanto, forse troppo – ma altrettanto vero è che gli addendi di questa serie tutt’altro che seriali risultano a una lettura ravvicinata). (continua a leggere qui)

Le maschere del presente

di Walter Siti (a cura di Goffredo Fofi)

C’era una volta Balzac
Il libro di Trollope The way we live now (La vita oggi, pubblicato qualche anno fa da Sellerio) è quello che mi ha colpito di più tra quelli che ho letto sull’argomento che ho voluto affrontare in Resistere non serve a niente (Rizzoli). È una specie di prosecuzione di Melmoth il consigliere di Balzac, che parla della borsa. Il protagonista si chiama Melmoth, è un operatore di borsa che vende azioni di una ferrovia messicana di cui non è stato posato nemmeno un binario. È la storia della carriera di Melmoth nella City di Londra, fino al suo ingresso nel comitato direttivo della City stessa, quando la vicenda esplode e finisce nel disastro.

Mi ha molto impressionato, insieme a un altro libro di Balzac che ho letto mentre stavo preparando il mio libro, La maison Nucingen, la storia bellissima di questo tizio che vende l’anima alla borsa, ma questa anima si svaluta col tempo e l’ultimo che la compra muore carbonizzato davanti a una chiesa nell’indifferenza di tutti. Geniale! è così che sono arrivato a Trollope. (continua qui)

Per l’abolizione della rassegna radiofonica dei giornali

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di Giacomo Sartori

Quando sono in Italia la mattina ascolto la rassegna radiofonica dei quotidiani. Addentando una mela autoctona mi lascio ipnotizzare come moltissime altri italiani dalle frasi monocordi del giornalista di turno che compita il tal articolo del tal giornale. In genere lentamente, come chi non è abituato a leggere in pubblico, e si sforza con più o meno successo di avere una dizione chiara. Come è noto i giornali italiani parlano moltissimo dei politici italiani, anche quelli che non vota quasi nessuno, o che ne hanno combinate di cotte e di crude, quindi nella rassegna stampa è molto questione di dichiarazioni e di ruttini giornalieri di politici italiani. Il giornalista legge le frasi dei colleghi giornalisti che a loro volta citano le frasi e i ruttini quotidiani di politici più o meno presentabili. A tratti la sua respirazione tradisce la riprovazione, l’incredulità, a tratti l’encomio, ma prevale pur sempre il passo rassicurante dell’oggettività, del rispetto per il pluralismo giornalistico. Per scrupolo di pluralismo vengono spulciati anche i deliranti quotidiani finanziati dai partiti politici che non legge proprio nessuno, a parte appunto i giornalisti delle rassegne stampa. I brevi commenti che intramezzano la lettura monocorde sono in genere ponderati, empatici con la grave situazione del paese, pieni di giornalistico buon senso: buon senso di destra se il giornalista lavora in un giornale di destra, buon senso di sinistra se il suo giornale è di sinistra. Nel complesso sorge la netta impressione che i politici cialtroni abbiano gioco facilissimo proprio perché ci sono dei giornalisti che propalano in modo acritico le loro cialtronerie. E nello stesso tempo si ha la riprova di non contare nulla, di essere ineluttabilmente tagliati fuori dal gioco. Io certe volte vorrei spegnere la radio, ma sono avvinto da quella interminabile spirale di autoreferenzialità giornalistica al servizio della cosiddetta politica, come suppongo avvenga a tanti altri italiani. Dopo qualche minuto di pausa, sempre con l’identica pubblicità per un autoctono programma informatico, cominciano le telefonate degli ascoltatori. Finalmente qualcuno che non è giornalista!, mi dico, avvitando la macchinetta del caffè. Con i loro autoctoni accenti regionali la maggior parte degli ascoltatori commentano però anche loro le frasi dei giornalisti commentanti le frasi dei politici, o più spesso tirano fuori ciascuno la propria idea fissa, la propria personale soluzione ai deprimenti malanni del paese. Si vede che hanno le idee un po’ confuse, ma sono pur sempre convinti di avere la soluzione in tasca. Spesso hanno la tendenza a dilungarsi un po’ troppo, e allora il giornalista della rassegna li invita gentilmente ma fermamente a venire al sodo, a formulare la domanda. Il più delle volte il giornalista non sa poi tanto bene come rispondere alla famigerata domanda, ma mette pur sempre lì frasi pregne di giornalistico buon senso di destra o di sinistra. Non si può sapere se l’ascoltatore è pago della risposta, perché la sua voce nel frattempo è stata tagliata, tagliata per sempre. Qualche volta spengo la radio, perché devo uscire, e ne provo sollievo. Poi però in macchina la riaccendo, perché in fondo sono affezionato a quelle voci escluse dal gioco con i loro autoctoni accenti regionali, e io stesso nella mia testa mi invento delle zoppicanti soluzioni ai deprimenti malanni del paese. Un giorno potrei chiamare anch’io, mi dico.

(questo articolo è stato pubblicato sul bimestrale italo-francese “FOCUS IN“, n° 15, mai – juin 2012)

Cronache di Mesagne

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Il convento dei Cappuccini a Mesagne, sede del'ISBEM

di Antonio Sparzani

Ulivi e ulivi e ulivi senza fine corrono sul finestrino del treno che mi porta via da Mesagne e da Brindisi. Sole e ancora sole, benefico e implacabile, che ci schiaccia un po’ tutti verso il basso. Finita è la terza festa indiana, tenuta all’ISBEM di Mesagne e ricca, se non di sterminate masse partecipanti, di contributi di grande livello,

Date

22

Di Andrea Inglese

.

Le stagioni quando arrivano, sicure
del loro rinnovato perdurare,
hanno come un potere, sommuovono,
da un fondo oscuro, come se dentro,
nel nostro fragile componimento
di sonni e veglie, ci fosse una risorsa
che l’economia non controlla, senza dati
e prelievi, senza ragioni condivise.

Polemiche letterarie

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Mercoledì 4 Luglio 2012, ore 21.00

Libreria Popolare, via Tadino 18, Milano

Daniele Giglioli, Paolo Giovannetti, Antonio Loreto e Paolo Zublena

presentano:

Polemiche Letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog

(Carocci, 2012)

di Gilda Policastro

il novantesimo minuto (senza recupero) di Antonio Rezza

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Oggi su Il Venerdì di Repubblica Gianni Mura ha scritto una bella recensione, il campionato di calcio degli scrittori italiani dedicata al libro curato da Carlo D’Amicis per Manni Editori, C’è un grande prato verde , 40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012. Ho chiesto alla splendida, nel senso di solare, Agnese Manni di pubblicare su Nazione Indiana l’anteprima del racconto di Antonio Rezza. Per tre ragioni. La prima è perché Rezza in napoletano significa Rete. La seconda perché è davvero un racconto bello tosto. La terza è perché con Orsola amiamo molto l’artista, ma questo è un altro discorso. Effeffe


La trentaduesima giornata
di
Antonio Rezza
Aprile, ennesima giornata infrasettimanale di calcio. Il controllo sociale è ormai completo, si spostano negli stadi problemi che fuori sarebbero pericolosi per la viabilità, per la vita civile. Lo stadio finisce per essere un contenitore di gente illusa, frustrata, violenta, falsamente politica, strumentalizzata e superficiale. La protesta nei confronti dello stato si camuffa in passione incondizionata. Chi urla il nome della propria squadra urla la sua disperazione, l’insoddisfazione di uomo represso a sua insaputa. Le città si muovono in attesa dell’evento, le sciarpe al collo dei tifosi sono il cappio del condannato. Impiccati a una passione fasulla si suicidano nel giorno del Signore. Che non li ha mai creati a sua immagine e somiglianza: Dio non ha bandiera, Dio, non esistendo, ha permesso all’uomo di scivolare nell’oblio. Dio non è mai stato dalla parte dell’uomo. Dio non tiferebbe mai per esseri inferiori.

Chievo-Milan
Inter-Siena
Fiorentina-Palermo
Parma-Novara
Napoli-Atalanta
Catania-Lecce
Roma-Udinese
Juventus-Lazio
Genoa-Cesena
Bologna-Cagliari

Iniziano le partite, guardo gli spalti gremiti di gente che si esalta per le imprese altrui. Sui volti di chi tifa con la gola squarciata da un amore assurdo scorre la sofferenza di non essere altrove, l’impossibilità di fuggire dalla gloria riflessa, di non poter correre per dimenticare.
Ognuno vorrebbe essere l’oggetto del suo desiderio, ma l’amore del tifo è dimesso come quello dell’uomo. E in più va pagato. Istigazione alla prostituzione in luogo pubblico, ecco l’idea che ho di chi paga. Si ama senza toccare, si ama con gli occhi velati da una malinconia antica. Si ama con gli occhi così poco accecati. Chi non vede tifa in un altro modo, chi ha perso la vista tifa per sentito dire, chi sente dire, se non sentisse, potrebbe evitare di fare da bastone a chi non vede. Chi ha perso la vista tifa come chi ha perso la parola. Emozioni mozze nella gola di chi non parla e negli occhi di chi non vede. Il tifo ideale: nella sciagura di due uomini senza sensi, l’individualismo trionfa involontario: uno non vede le partite e l’altro non le può raccontare. Ecco cosa sarebbe il tifo superiore, quello nobilitato dalla sventura che rende finalmente l’uomo padrone del suo io incompleto, difettoso, anomalo ma diverso da tutti quelli che usano la vista e la bocca come succursali di un culo ormai affittato all’abominio. Chi gioca deve sperare nella buona salute di chi guarda. Chi gioca tifa la sana e robusta costituzione di chi vede. Un pubblico di ammalati non sarebbe così caloroso, lo spettatore deve scoppiare di salute, gli ammalati non sono graditi poiché la sofferenza li rende sovversivi, hanno il dolore a farli inaffidabili. Ma è chi sta bene che sprofonda nel malessere. Ci si riempie gli occhi di poco e si parla di nulla per un’intera settimana. Forse gli spalti rappresentano l’unico momento di libertà di questo gregge prezzolato che affonda nelle paludi della propria inefficacia. Immagino partite cui assistono solo ciechi e sordi, con sensazioni fuori sincronia perché il cieco non vede l’azione e il sordo può gioire solo con vocali strozzate che fanno però da aiuto al cieco che quando sente il grido soffocato del sordo uscire dalla gola gioisce senza verifica. Una gioia condizionata. Vedendo giovani e vecchi con lo sguardo perso di chi dimentica la propria sconfitta provo grande disgusto verso una massa troppo forme, che ha scelto di non ribellarsi al bavaglio spalmato di miele. La ribellione è solo nell’handicap, solo nella sottrazione di pezzi a questo corpo che conduce sugli spalti a morire lentamente. Deportazioni in pieno stile. Deportazioni moderne, con il sorriso a sostituire l’orrore. Ma per questo l’inquietudine è sovrana: vedere la felicità di chi a poco a poco sta perdendo il libero arbitrio mi sembra un crimine contro l’umanità. Ma c’è la falsa credenza che chi ride è contento, che chi ride ha libertà di scelta. Chi non cammina, chi non vede, chi non sente, ha un modo più civile di gioire, non per virtù ma perché costretto a essere infelice. Nell’infelicità una possibilità di salvezza. Nell’handicap la certezza di sfuggire ai meccanismi del consumo. Intanto mentre una squadra segna vedo occhi drogati di niente morire su facce assopite, segnate da una vita esteriore. Si assomigliano tutti questi neo mentecatti, tollerati dalla società civile perché in grado di produrre profitto, di foraggiare le casse di chi paga il gioco infame. E nelle case lo sterminio continua sul divano, famiglie intere sedute tra odori di cucina e puzza di fumo a gioire per una nuova e duratura debacle. Divani affossati dall’assenza di interessi superiori. Case dove per tutta la settimana si è parlato dei culi dei figli da pulire, case involgarite da problemi familiari vengono ora mortificate dal tifo collettivo, a gestione patriarcale, da un padre che si fa dolce di fronte alla sua squadra che mantiene il risultato. Sguardi segnati da una vita di apparenza e di spensieratezza coatta somministrata a dosi sempre più massicce. Ma non è tanto la gioia che rende stupido il tifoso, la gioia è superficie pura, non scava mai nel profondo, si limita allo stretto necessario, è un sentimento falso perché si regge sulle piccole cose. Non è la gioia per un gol segnato che rende il tifoso miserabile. È la sofferenza per un gol subito che lo fa apparire senza dignità, privo di difese, verme tra i vermi a decomporre le intenzioni. Nella gioia spesso sembriamo tutti uguali, ma è nel pianto e nel dolore che emerge l’arroganza: chi soffre crede sempre di essere dalla parte della ragione. Insomma che la Juve e il Milan lottino per un tricolore origine tra l’altro di un’infermità sociale, non mi interessa proprio. E allora concepisco il pubblico ideale, quello che renderebbe disabile chi corre: un pubblico di affamati, di profughi, di non vedenti, di sordi, di muti, di non deambulanti, di battuti, di ingannati, di poveri, di moribondi. Ecco il pubblico ideale e che sia la sciagura collettiva a nobilitare questa massa che affolla stadi enormi, che riempie divani tristi come la vita, che procede domestica come un cane addestrato. Divani con così poca infelicità, senza una tragedia a nobilitare il velluto consunto da anni di militanza forzata.
Questi i risultati:

Chievo-Milan 0-1
Inter-Siena 2-1
Fiorentina-Palermo 0-0
Parma-Novara 2-0
Napoli-Atalanta 1-3
Catania-Lecce 1-2
Roma-Udinese 3-1
Juventus-Lazio 2-1
Genoa-Cesena 1-1
Bologna-Cagliari 1-0

E questo è il risultato, un popolo senza identità, costretto a cercare la felicità nelle gesta di chi neanche lo vede. Un popolo coglione col sorriso sulle labbra. O con la lacrima che scorre. Mentre scorre la vita di ognuno senza che ognuno abbia veramente mai tifato per se stesso.

Quarta di copertina
C’è un grande prato verde
40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012

Il campionato di calcio è un appassionante romanzo.
E allora perché non scriverlo? Perché non trattare Ibrahimovic, Pirlo e gli altri eroi del pallone come personaggi di una fiction a puntate?
Questa la sfida raccolta da 40 scrittori (tanti quanti sono i turni della serie A, con l’aggiunta della prima giornata di sciopero, e con una coppia), che in questa antologia raccontano, domenica dopo domenica, davanti alla tv o su un seggiolino dello stadio, l’edizione 2011-2012 del rito più amato dagli italiani.
Un rito fatto di gol strepitosi e di eccezionali parate, ma anche di radioline accese, pomeriggi in poltrona, chiacchiere da bar: un libro, quindi, che nel ricostruire l’andamento del campionato attualmente in corso, descrive il rapporto – abitudinario e avventuroso al tempo stesso – che ogni italiano, tifoso o no, intrattiene con il grande circo del pallone.

video arte #4 – santiago sierra

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Santiago Sierra, Person obstructs a line of containers, 2009.

“Labour is a hard job” (e altri problemi di traduzione)

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di Renata Morresi 

Per l’esame della prima sessione quelli del terzo traducono la pubblicità di uno studio legale di Milano, dall’italiano all’inglese. Oggi faccio sorveglianza, all’incirca dieci ore, ho tempo per pensare. Non che mi paghino, ma, si sa, fa parte del lavoro.

L’imperfezione del mistero

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(m’è stato chiesto di parlare di questo – inconsistente – tema alla Milanesiana, il 7 luglio p.v. Tento di accennarne qualcosa qui)

di Gianni Biondillo

Provo una autentica ammirazione, direi persino invidia, per chi riesce a scrivere un bel giallo. Uno di quelli veri, intendo: macchine precise, oliate, congegni complessi eppure logici; belli come possono essere gli astrolabi, scientifici, meccanici e al contempo esteticamente affascinanti, misteriosi. Fernando Pessoa amava i classici del giallo anglosassone, li reputava una delle più alte espressioni della letteratura contemporanea. Lo capisco. Il mystery novel è letteratura pura, esente dalla compromissione con la realtà. Non imita il mondo, lo sublima. È arte per l’arte.

Io non ci riesco. Nei miei romanzi la vita irrompe sempre in modo precipitoso, incontenibile, confusionario. Cerco di organizzare una partita a scacchi col lettore ma la realtà mi muove le pedine, scompiglia la disposizione delle cose, crea il caos là dove io cerco l’ordine. Inutili digressioni, psicologismi, ossessioni linguistiche, citazioni colte, trivialità d’accatto… provo a dipanare la matassa ma il gomitolo s’ingarbuglia, s’annoda, inelegante. I miei sono gialli imperfetti; è che non li so scrivere. Faccio, più banalmente, letteratura, come tanti, come tutti.

Il giallo classico – quello non influenzato dalle pulsioni autolesioniste del noir, quello che non conosce il tanfo metropolitano dell’hard boiled – è il mistero nell’era della democrazia: l’evento arcano, la morte violenta, viene presentata agli occhi di tutti, officianti e semplici spettatori. E tutti – questa la peculiarità – possono investigare, tutti possono, alla fine, risolvere l’enigma, tutti, lettori compresi, possono uscire dal labirinto vincitori, basta averne il talento.

Sono invidioso dei giallisti puri, ripeto, e perciò malizioso. Risolvere l’enigma alla fine, mi dico maligno, significa depotenziare il mistero. Questa è la vera contraddizione del giallo. È un problema eminentemente etimologico: Mysterion, in greco antico, significa “cosa da tacere”, che non può essere detta pubblicamente, perché è riservata agli iniziati, ai sacerdoti. Il mystery novel all’apparenza ci mette in contatto con il taciuto ma nei fatti secolarizza il sacro, lo banalizza. È un mistero imperfetto, proprio perché disvelato.

Sono scuole di pensiero: c’è chi di fronte al prestigiatore passa il suo tempo a cercare di capire il trucco, l’inganno. Io m’incanto della meraviglia, senza darmi spiegazioni. Ci sono cose che noi non sapremo mai. Per quanto ci arrabattiamo, non risolveremo tutti gli enigmi, la realtà non sarà mai così logica, così lineare. Ad una causa non avremo sempre un effetto, la rosa delle possibilità è incommensurabile. Gli uomini sono anche passioni, meschinità, noia, ilarità, emozioni. Psiche.

Questo voler disporre le cose nel mondo è profondamente umano, lo so. Ci aiuta a non cadere nel terrore panico dell’esistenza. La letteratura fa questo, mette ordine, cerca il bandolo, il senso delle cose. Ma lo scrittore, ogni scrittore, nel suo intimo sa che la vita è più grande, più misteriosa. È imperfetta, impossibile da descrivere a tutto tondo, è illogica. Ogni scrittore sa che un romanzo, per quanto cerchi di essere un calco del mondo – se non addirittura un mondo a sé – non riuscirà mai davvero a comprenderlo. Fallire è il destino. Perché è la vita, da sempre, il vero mistero. Noi sacerdoti delle parole rinnoviamo il rito, da millenni. Da millenni inseguiamo la perfezione, la comprensione del tutto. Fallendo. Per ricominciare, di nuovo, dato che non abbiamo altra possibilità che cercare di capire il mistero della realtà col mistero delle parole, consci che nella partita perderemo sempre. Soprattutto quando siamo convinti, puerili, di aver finalmente risolto l’enigma.

(pubblicato su Il Corriere della sera, ieri)

La terza festa di Nazione Indiana è a Mesagne (Brindisi): 30 giugno – 1 luglio 2012

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sabato 30 giugno – domenica 1 luglio

all‘ISBEM

c/o Ex Convento dei Cappuccini – Via Reali di Bulgaria – 72023 Mesagne (BR)

(come arrivare)

Programma della festa

Il diritto all’ozio

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di Paul Lafargue

Un dogma disastroso

«Diamoci all’ozio in ogni cosa, fuorché nell’amore e nel bere, fuorché nell’oziare.»
Lessing

Una strana follia possiede le classi operaie delle nazio­ni in cui domina la civiltà capitalistica.

Debito ergo sum

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Estratto da 
La fabbrica dell’uomo indebitato
edizioni Derive approdi
di
Maurizio Lazzarato
Saggio sulla condizione neoliberista


« La Grèce, c’est le mauvais élève de l’Europe. C’est toute sa qualité. Heureusement qu’il y a des mauvais élèves comme la Grèce qui portent la complexité. Qui portent un refus d’une certaine normalisation germano-française, etc. Alors continuez à être des mauvais élèves et nous resterons de bons amis. »

Felix Guattari, intervista alla televisione greca del 1992

In Europa, alla stregua di altre parti del mondo, la lotta di classe oggi si dispiega e concentra intorno al debito. Con una crisi del debito che arriva a toccare gli Stati Uniti e il mondo anglo-sassone, ovvero i paesi che hanno prodotto, oltre all’ultimo disastro finanziario, soprattutto il neoliberismo.
La relazione creditore-debitore, che sarà al centro della nostra argomentazione, intensifica i meccanismi di sfruttamento e di dominio in forma trasversale, senza fare alcuna distinzione tra occupati e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi, pensionati o beneficiari di sussidi. Di fronte al capitale, che si presenta come il Grande Creditore, il Creditore universale, sono tutti «debitori», colpevoli e responsabili. Una delle principali poste in gioco del neoliberismo resta quella della proprietà – com’è chiaramente dimostrato dalla «crisi» attuale –, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (di capitale) e non proprietari (di capitale).
Attraverso il debito pubblico a indebitarsi è l’intera società, cosa che non impedisce, ma esaspera, «le disuguaglianze», che sarebbe venuto il momento di chiamare «differenze di classe».

Le illusioni economiche e politiche di questi ultimi quarant’anni cadono l’una dopo l’altra, rendendo le politiche neoliberiste ancora più brutali. La new economy, la società dell’informazione, la società della conoscenza sono tutte solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno trionfato sul comunismo pochissime persone (qualche funzionario dell’Fmi, dell’Europa e della Banca centrale europea, insieme a qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza. La grandissima maggioranza degli europei viene tre volte deprivata dall’economia del debito: deprivata del già debole potere politico concesso dalla democrazia rappresentativa; deprivata di una quota sempre maggiore della ricchezza che le lotte trascorse avevano strappato all’accumulazione capitalistica; ma soprattutto, deprivata del futuro, ovvero del tempo, come decisione, scelta, come possibile.

La successione delle crisi finanziarie ha fatto violentemente emergere una figura soggettiva che era già presente, ma che oggi ormai investe l’insieme dello spazio pubblico: la figura dell’«uomo indebitato». Le realizzazioni individuali promesse dal neoliberismo («tutti azionisti, tutti proprietari, tutti imprenditori») ci spingono verso la condizione esistenziale di quest’uomo indebitato, responsabile e colpevole del suo stesso destino. Questo saggio vuole proporre una genealogia e un’esplorazione della fabbrica economica e soggettiva dell’uomo indebitato.
Dopo la precedente crisi finanziaria, scoppiata insieme alla bolla di internet, il capitalismo ha messo da parte le narrazioni epiche elaborate intorno ai «personaggi concettuali» dell’imprenditore, dei creativi, del lavoratore indipendente «orgoglioso di essere il padrone di se stesso», i quali, nel perseguire unicamente i loro privati interessi, lavorano per il bene di tutti. L’investimento, la mobilitazione soggettiva e il lavoro su di sé, predicati dal management fin dagli anni Ottanta, si sono trasformati in un imperativo ad assumere su di sé i costi e i rischi della catastrofe economica e finanziaria. La popolazione deve farsi carico di tutto ciò che le imprese e lo Stato sociale «esternalizzano» verso la società, dunque anzitutto del debito.

Per i padroni, i media, gli uomini politici e gli esperti, le cause della situazione non sono da ricercare nelle politiche monetarie e fiscali che scavano il deficit – operando un massiccio trasferimento di ricchezza verso i più ricchi e le imprese –, né nel susseguirsi delle crisi finanziarie che, dopo essere di fatto scomparse durante i «gloriosi trent’anni», continuano a ripetersi e a estorcere strabilianti somme di denaro alla popolazione, nel tentativo di evitare ciò che viene chiamato «crisi sistemica». Per tutti costoro, colpiti da amnesia, le vere cause di queste crisi incessanti risiederebbero nelle eccessive pretese dei governati (in particolare di quelli dell’Europa del Sud), che vogliono vivere come «cicale», e nella corruzione delle classi dirigenti, che in realtà hanno sempre svolto un ruolo nella divisione internazionale del lavoro e del potere.

Il blocco di potere neoliberista non può e non vuole «regolare» gli «eccessi» della finanza, perché il suo programma politico è ancora quello rappresentato dalle scelte e dalle decisioni che ci hanno portato all’ultima crisi finanziaria. Con il ricatto del default del debito sovrano, intende invece portare fino in fondo questo programma, di cui fin dagli anni Settanta fantastica la completa applicazione: ridurre i salari a un livello minimo, tagliare i servizi sociali per mettere il Welfare al servizio dei nuovi «assistiti» (le imprese e i ricchi) e privatizzare qualunque cosa.Per analizzare non solo la finanza, ma anche l’economia del debito, che la ingloba e la supera, nonché la sua politica di assoggettamento, siamo privi di strumenti teorici, di concetti, di enunciati.

In questo libro intendiamo tornare all’analisi del rapporto creditore-debitore compiuta dal Deleuze e Guattari con L’anti-Edipo. Pubblicato nel 1972 – e anticipando teoricamente lo spostamento che il Capitale avrebbe successivamente operato – questo testo ci consente, alla luce di una lettura della Genealogia della morale di Nietzsche e della teoria marxiana della moneta, di riattivare due ipotesi. Anzitutto, l’ipotesi secondo la quale il paradigma sociale non è dato dallo scambio (economico e/o simbolico), ma dal credito. Alla base della relazione sociale non c’è l’uguaglianza (dello scambio), ma l’asimmetria del rapporto debito/credito che precede, storicamente e teoricamente, la relazione tra produzione e lavoro salariato. Poi, l’ipotesi che vede nel debito un rapporto economico indissociabile dalla produzione del soggetto debitore e della sua «moralità». L’economia del debito riveste il lavoro, nel senso classico del termine, di un «lavoro sul sé», così da far funzionare in modo congiunto economia ed «etica». Il concetto contemporaneo di «economia» ricopre sia la produzione economica che la produzione di soggettività. Le categorie classiche della sequenza rivoluzionaria dei secoli XIX e XX – lavoro, sociale e politica – vengono attraversate dal debito e in larga parte da questo ridefinite. Occorre dunque avventurarsi in territorio nemico e analizzare l’economia del debito e della produzione dell’uomo indebitato, nel tentativo di costruire armi utili a combattere le battaglie che si annunciano. Poiché la crisi, lungi dal chiudersi, rischia di estendersi

vedi anche qui

Dettes et contradettes (effeffe)

Les usuriers pèchent contre nature en voulant faire engendrer de l’argent par l’argent comme un cheval par un cheval ou un mulet par un mulet. De plus les usuriers sont des voleurs car ils vendent le temps qui ne leur appartient pas, et vendre un bien étranger, malgré son possesseur, c’est du vol. En outre, comme ils ne vendent rien d’autre que l’attente de l’argent, c’est-à-dire le temps, ils vendent les jours et les nuits. Mais le jour c’est le temps de la clarté et la nuit le temps du repos. Par conséquent ils vendent la lumière et le repos. Il n’est donc pas juste qu’ils aient la lumière et le repos éternel.

J. Le Goff, La Bourse ou la vie.