fotografia di Francesco Dal Bosco
Resistere, fuori dall’umano
di Marilena Renda
Si può credere alle schede librai? E alle quarte di copertina? Ma soprattutto, si può credere a un narratore che palesemente si compiace di essere inattendibile e in apertura di romanzo dichiara, chiamando in causa il suo ex-editore, di essersi stancato del sesso omosessuale, dei culturisti e dei loro muscoli, e che finalmente vuole convertirsi al romanzo “tradizionale” e affrontare da una prospettiva diversa (terza persona, narratore onnisciente) i nodi più intricati che agitano questi anni?
Menomale che ho un tumore.
di Domenico Maione (un cronista napoletano).
La seguente è una storia liberamente ispirata a quella di Carmen Abbazia. Cassintegrata Fiat da tre anni a questa parte, separata, tre figli a carico (di cui due costretti a lasciare gli studi), è una tesserata Fiom e pertanto non è stata ancora reintegrata nell’opificio automobilistico di Pomigliano. I luoghi, i fatti e alcuni dei personaggi sono grossomodo corrispondenti alla realtà. Il finale è (paradossalmente) lieto, ergo inventato.
Celerità ed ordine. Misura e cadenza. Un pezzo qui, uno là, ognuno combacia con l’altro. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un’auto. Eppoi un’altra. E un’altra ancora. E ancora, e ancora. Decine, centinaia, migliaia. E ancora, e ancora. Sempre gli stessi movimenti. Reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. “Pure gli amanti più affamati, a forza di baciarsi sulle labbra in eterno, si frantumerebbero gli zebedei”. Una risata, fugace. E poi ancora… reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un altro e un altro ancora. I non rumori, i non colori, i non pensieri. Il non. Lo snervamento, la fatica. L’eden.
Antonio Pascale, l’agricoltura biologica, gli OGM
di Giacomo Sartori
In “Pane e Pace” (Chiarelettere, 7,5 €) Antonio Pascale dipinge gli agricoltori biologici come esaltati che negano il progresso, dei nostalgici del passato. Ebbene, chiunque li frequenti anche solo occasionalmente sa che essi sono invece in genere più preparati, più aperti, più curiosi, dei loro omologhi “convenzionali”. Per il semplice motivo che per fare agricoltura biologica ci vogliono più attenzioni, più cognizioni, più intelligenza, più lavoro. Si usano armi meno “efficaci” (ma meno nocive), per sopravvivere bisogna compensare con il raziocinio e le conoscenze. Per questo l’agricoltura biologica – lo testimoniano i suoi manuali – è per definizione intimamente legata a quei progressi sperimentali, in particolare dell’agrobiologia, che Pascale stesso auspica. Ne fa anzi il suo cavallo di battaglia. Del resto l’agricoltura biologica industriale, da molti criticata (soprattutto per i suoi risvolti sociali), è ormai una realtà in molti paesi del Mediterraneo. E in Italia ci sono esempi di impianti di frutticoltura biologica estremamente automatizzati. Davvero Pascale, che lavora al Ministero della Politiche Agricole, lo ignora?
L’agricoltura biologica ha certo delle pecche (il rame impiegato come fungicida si accumula nel terreno, ci ricorda l’autore), per carità, ma ha gli immensi vantaggi complessivi, questo viene taciuto, di non danneggiare l’ambiente, di utilizzare poca energia fossile, di essere sostenibile nel tempo, di non insidiare la salute umana. Quando purtroppo la maggior parte delle nostre colture, anche purtroppo in Italia, portano a una grave diminuzione della fertilità del suolo, all’inquinamento delle falde (nella metà del territorio francese l’acqua delle falde non è potabile), e sono voraci di energia. Si può non essere d’accordo, si possono enfatizzarne i limiti e i difetti, si può essere ferocemente contrari, ma non si può negare, come fa Pascale, che essa sia una realtà seria, spesso molto interessante anche per le rese quantitative e per i redditi che assicura (essendo i prezzi maggiori). E perché prendersela con tale astio con i suoi sostenitori? Tra loro ci sarà certo qualche infatuato, ma la maggior parte sono persone sensate, che studiano e si informano, che reputano importante impegnarsi di persona. Sappiamo bene che senza l’impegno di tutti la battaglia per l’ambiente è persa.
Secondo Pascale, questa è la sua seconda filippica, l’agricoltura italiana sarebbe frenata da una posizione oscurantista, a suo dire dovuta alla sinistra (lui stesso però ci dice che anche i ministri di destra hanno avuto le stesse posizioni), nei confronti degli organismi geneticamente modificati. Secondo lui, fa molti esempi, i singoli gravi problemi che incontrano tante colture italiane, potrebbero essere risolti utilizzando piante modificate, se non ci fosse appunto questa medioevale opposizione. Sembra ignorare che le magagne che esemplifica sono purtroppo una costante delle attuali forme superintensive di coltivazione in frutticoltura e orticoltura (come anche nell’allevamento): risoltane una con moltissima fatica (e spesa), ne salta subito fuori un’altra, in genere più grave. E certo sarebbe bello poter venircene fuori solo con l’ingegneria genetica. Ma è un mito. Nella maggior parte dei casi le piante geneticamente modificate hanno dimostrato di parare parzialmente il problema per il quale sono state concepite, poi in genere gli svantaggi cominciano a superare i vantaggi. In molti casi lo scacco è stato totale. Questi sono i fatti ad oggi, anche se certo in futuro ci saranno dei risultati migliori, che tutti noi auspichiamo. E il loro impiego implica rischi di vario tipo e gravità, che purtroppo non sono ubbie della sinistra italiana (ma quale?), sono purtroppo realissimi, come dimostrano tanti studi. Non per niente l’Unione Europea, che Pascale non cita mai, e che condiziona le nostre scelte, ha optato una linea molto prudente, il cosiddetto “principio di precauzione”.
A dispetto del condivisibilissimo appello alla ragione contenuto nel capitoletto conclusivo, il testo di Pascale è un concentrato di pregiudizi, imprecisioni (spesso imbarazzanti), storture e omissioni. Certo, nell’introduzione mette le mani davanti, ci avvisa che lui non è uno specialista, parla da scrittore. Ma appunto questa sua posizione distanziata dovrebbe permettergli di aprirci a prospettive più ampie e più profonde. E invece le sue argomentazioni si servono della retorica stucchevole di chi solo contro tutti declama il vero, e sfruttano l’analoga emotiva parzialità, la stessa tendenziosità, che depreca nei suoi avversari. Conscio forse della propria debolezza, lancia a più riprese un appello a fidarsi “di chi ne sa più di me”. L’impresentabile bibliografia, composta di sette misere e disparate voci, non rappresenta certo un aiuto per chi volesse approfondire l’argomento.
[questo testo è apparso – in forma decurtata – su “Alias” del 10.06.2012]
Cacciatori allegri: Francesco Pecoraro

La preziosa edizione del libro di Francesco Pecoraro, Primordio Vertebrale, delle Edizioni Ponte Sisto, per la sobria veste grafica mi ha richiamato alla mente o forse è stato un amico a suggerirmelo, quelle altrettanto eleganti della Quodlibet o della Pequod. Pequod, come molti sanno, è il nome della più famosa baleniera del mondo. L’immenso Melville ne immagina a bordo tre ramponieri, Queequeg cannibale del Pacifico, Daggoo l’africano e Tashtego un indiano originario del “Capo Allegro”. « Chiamatemi Tashtego. » Così ha scritto di sé Francesco Pecoraro ai primordi della rete e con il nickname Tash lo conoscono i naviganti. Francesco Pecoraro, se dovessi definirlo a parole mie, è un cacciatore allegro. Il suo è un cabaret filosofico, però, dove senso tragico dell’esistere incrocia il proprio cammino con quello comico del vivere. Vivere è una cosa, esistere la stessa però vista da molto in basso. In Tashtego/Pecoraro l’unico elemento metafisico è lo spazio e infatti la sua “visione del mondo” è laica come davvero poche in circolazione, secondo me. Che scrivesse poesie potevamo immaginarlo, dalle prose poetiche con cui ha raccontato in questi anni ogni possibile variazione dello spazio, sia nei suoi elementi costitutivi, diciamo naturali, che in quelli artificiali, ora un cavalcavia alla deriva di una periferia, ora una semplice piazza. Che scrivesse delle belle poesie l’ho scoperto con questo libro. A seguire, degli estratti che rispettano la successione delle sezioni secondo una mia selezione assolutamente arbitraria e soggettiva. effeffe
da Prime notti
Sarà fatale l’inverno di quest’anno,
giungendovi così,
come fuggendo
da una macchia in fiamme.
Il fiato grosso,
il corpo solo esteriormente
intatto.
*
Migrano uccelli,
appunto migratori,
le penne remiganti
aperte all’aria
e pensieri leggeri
evanescenti in testa.
*
Ed ecco l’aeroporto,
immobile, sospeso
tra l’aria respirabile
e quella adatta al volo.
Bisogna attraversarlo
in senso trasversale.
L’iter procedurale
che mi sospinge avanti
mi toglie ad una ad una
le ragioni del viaggio.
Il pavido trasogno
nella sala d’imbarco,
da dove s’intravede
un grande trapezio
sagomato
un cilindro imbutito
un’apice ogivale rivettato.
Ecco l’era del fuoco,
le tracce degli eccessi
di potenza aeronautica.
Porzioni di velivolo
tenute su con viti a testa piatta
sporche di bave d’olio
brunite da selvagge combustioni.
Da umano,
ridotto a passeggero,
coinvolto in un decollo,
trascinato in cielo.
da Madre acqua
Creste marine in movimento.
Lucide scaglie d’acqua.
Dorsi di leviatani in emersione.
Schiaffi di duri refoli ritorti,
come corde d’aria.
Strati concentrici di rocce,
come sezioni
di tonni giganteschi.
E cuspidi di mare
intorno ai promontori,
dove s’avvolge la corrente.
Questi i residui estremi
dei giorni miei
scaduti nell’Egeo
*
L’acqua la vedo gelida
e sento i sassi caldi.
La luce è inaccettabile
anche per gli occhi chiusi.
Il corpo mi si arrossa
e indolenzisce presto
dove tra pietre e ossa
non c’è che pelle e tela.
E pelle sente a brividi
i brividi dell’aria.
Il mondo non è fatto
per essere abitato
da Ultime notti
Quando stavo bene
dormivo pancia–sotto
restando a collo torto
per una notte intera.
Quando stavo bene
(in quell’aria inaudita)
sedevo su una sedia
di plastica, fissavo
l’orizzonte come
un’idea assoluta.
Quando stavo bene
spandevo nello spazio
fumo dalle labbra,
credevo si potesse
parlare all’infinito.
Quando stavo bene
mi amavo come corpo
mi carezzavo il petto
d’estate, i muscoli
plastici, contratti.
Quando stavo bene
leggevo ancora Conrad,
mi arredavo un futuro
che adesso se lo cerco
non lo trovo.
Quando stavo bene
non era come adesso.
Anche adesso sto bene
ma di meno.
da Sette rebus
Rebus sette
Mano a schermo sulla fronte.
Sole a scaglie all’orizzonte.
Il calore e questa luce
L’ombra (piano) si riduce
Una donna nuota a dorso
Sulla pèsca vedo un morso.
Sdraio poste sulla riva
La medusa ancora viva.
Tra le labbra c’è un capello.
Muore il granchio nel secchiello.
L’aria è piena di richiami.
Poi ti guardo: forse m’ami.
Correre lungo il bordo del precipizio: Bolaño selvaggio
di Enrico Macioci
È uscito per Senzapatria editore Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldàn e Gustavo Faveròn Patriau e tradotto egregiamente da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni. Si tratta d’una raccolta di venticinque saggi suddivisi in quattro sezioni (la percezione del mondo, la politica, l’estetica, le genealogie letterarie del cileno), più un’introduzione e due interviste inedite. È un libro che definirei necessario, perché mette a fuoco un narratore complesso e cruciale della contemporaneità, in Italia non ancora studiato a dovere.
La decifrazione di Roberto Bolaño si rivela ardua per almeno due motivi: 1) egli giunge a una pubblicazione costante e visibile tardivamente, intorno ai quarant’anni, ma da allora in avanti pubblica un libro l’anno, lasciando deflagrare l’energia letteraria accumulata nel tempo e accorciando le fasi d’un ordinario sviluppo; 2) si situa, da un punto di vista stilistico e formale, in un territorio di confine, a metà fra poesia e prosa e fra racconto e romanzo.
Il volume di Senzapatria, attraverso un caleidoscopio di voci che suonano però armoniche e coerenti, mette ordine all’interno dell’abbondante produzione di Bolaño, sgranando i nodi estetici che essa impone a ogni lettore accorto. Per esempio appare chiaro che certi libri sono emblematici della parabola di Bolaño, e si susseguono con regolarità passandosi il testimone d’una ispirazione in costante ascesa; sono La letteratura nazista in America (1996), I detective selvaggi (1998), Amuleto (1999), Stella distante (2000) e 2666 (2003, postumo, il capolavoro assoluto e la summa poetica). Come sottolinea Ignacio Echevarrìa nel magnifico pezzo dal titolo Bolaño extraterritoriale, le opere del cileno posseggono quella che, appoggiandoci alle nozioni della fisica, potremmo definire frattalità; sono cioè, a prescindere dalle dimensioni, schegge appartenenti allo stesso meteorite, parti d’un insieme enorme riprodotto ogni volta più o meno in piccolo ma con eguale efficacia e pregnanza; sono insomma opere sia autonome sia funzionali a un grandioso progetto collettivo – e in ciò Bolaño somiglia a tanti autori davvero padroni del proprio cosmo immaginativo, autori che lavorano sempre al medesimo progetto, che hanno una “missione”. Così Stella distante si riallaccia – riprendendo l’inquietante figura del poeta/aviatore/torturatore Carlos Wieder – all’ultima parte de La letteratura nazista in America, mentre Amuleto amplia un episodio de I detective selvaggi e lo stesso I detective selvaggi riecheggia in 2666, specie per quanto concerne i luoghi decisivi (in entrambi i casi il lembo oscuro del Messico dove sorge la città dei femminicidi Ciudad Juarez, nella finzione bolañana Santa Teresa).
Ma il volume di Senzapatria è esaustivo pure nell’analisi dell’originalità strutturale introdotta da Bolaño. Grande scrittore di racconti, romanzi brevi e romanzi-fiume, Bolaño giunge a mescolare i generi e le forme fino ad abolirne i confini e disperderne le tracce, creando un’ambiguità fertilissima, inedita e avvincente, e traversando un territorio dai molti angoli inesplorati. In tale audace procedere è aiutato dai trascorsi di poeta; per lui ciò che davvero conta è un ritmo interiore, una lingua che risuona nella lingua, nascosta eppure luminosa, irresistibile e rivelatrice; e la sua abilità tecnica non gl’impedisce mai di mollare le briglie, la sua scaltrezza non diventa mai una gabbia, la sua sterminata cultura è sempre al servizio dell’ispirazione – un’ispirazione capace di mantenersi fresca per centinaia di pagine.
Un altro punto/chiave di Bolaño selvaggio è la centralità di 2666, l’immenso romanzo postumo; un romanzo che getta sulla produzione antecedente, pur già vasta e profonda, una luce nuova ed enigmatica, come una torcia d’un tratto accesa in un crepaccio, fissando in via definitiva i temi che ossessionarono lo scrittore: la figura (esistenziale prim’ancora che letteraria) del poeta, la nozione di fuga o rinuncia o sparizione (non dimentichiamo che Bolaño ama e ammira Rimbaud, il primo grande autore “assente” della modernità), l’amore, l’esilio, la violenza, il Male puro (incarnato nel romanziere invisibile Benno Von Arcimboldi, che in gioventù partecipa alla seconda guerra mondiale e in vecchiaia risiede nella città maledetta di Santa Teresa, costituendo un trait d’union fra nazismo e femminicidio, i due buchi neri della vicenda, il doppio satanico, il doppio 666 del titolo, c’è da supporre).
Segnalo infine, oltre a quello già citato di Echevarrìa, alcuni saggi davvero brillanti (ma tutti hanno qualcosa da dire): quello di Peter Elmore, che analizza la componente escatologica e quasi mistica presente in 2666; quello di Rodrigo Fresàn che sottolinea l’approccio “eroico” e mai patetico di Bolaño nei confronti dell’arte – o dolce condanna – di scrivere; quello di Ròdenas che istituisce un parallelo fra le due opere-mostro di Bolaño, e cioè I detective selvaggi e 2666; oppure quello di Carmen Boullosa che con splendida, malinconica poesia rievoca gli anni settanta di Bolaño e degli infrarealisti a Città del Messico, in un clima culturale eccezionalmente fertile, fra Octavio Paz e Efraìn Huerta, Garcìa Ponce ed Elizondo, De la Colina e Verònica Volkow, Tomàs Segovia e molti altri ancora.
Vorrei concludere citando le parole che Bolaño pronunciò in occasione del discorso di Caracas, dove ritirò il premio Ròmulo Gallegos, riportato all’inizio del volume. Egli, scrittore senza fissa dimora per eccellenza, nomade per necessità e vocazione, sradicato, esule e vagabondo dall’infanzia alla maturità, sta parlando della patria dello scrittore finché sterza e afferma brusco: “Le patrie possono essere tante, ma il passaporto può essere uno solo, e quel passaporto è evidentemente la qualità della scrittura. Il che non significa scrivere bene, perché chiunque può farlo, ma scrivere meravigliosamente bene, e nemmeno quello, perché chiunque può scrivere anche meravigliosamente bene. Cos’è, allora, la scrittura di qualità? Be’, quello che è sempre stata: saper infilare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre lungo il bordo del precipizio: da una parte l’abisso senza fondo e dall’altra i volti amati, i volti amati sorridenti, e i libri, e gli amici, e il cibo.” Ecco, Roberto Bolaño è tutto qua – specie nell’accenno agli amici e al cibo; il resto è letteratura.
Incontinental jazz : Franco Bergoglio

Lamento per l’Emilia colpita: Capannoneide.
di
Franco Bergoglio
Due parole. Il testo Capannoneide, ode a una fabbrica vuota è stato scritto nel gennaio di quest’anno e recitato il 29 marzo scorso, in occasione dello spettacolo della Enten Eller Orchestra E(x)stinzione . L’anniversario dei 25 anni di attività di Enten Eller, uno dei più importanti ensemble dell’avanguardia italiana, è servito per tracciare un bilancio del nostro tempo non esclusivamente musicale.
LEGGI QUI ARTICOLI, FOTOGRAFIE E VIDEO TRATTI DA “E(X)STINZIONE
Sono passati meno di due mesi da quella serata di musica e riflessione collettiva e il drammatico presente con il terremoto in Emilia Romagna, i crolli di strutture semi-nuove che dovrebbero ALMENO ospitare in sicurezza chi lavora e non solamente violentare l’ambiente del nostro martoriato paese..segnano il ritorno alla realtà. Alcuni si riempiono la bocca col termine industria, ma qui abbiamo contenitori di una produzione che ricatta e spesso fugge dalle responsabilità sociali per inseguire la massimizzazione di un profitto senza regole. Non voglio che Capannoneide diventi un testo tristemente profetico. Lo desidero utile a cambiare le regole e le cose. Migliorare -come peggiorare, del resto- è nella natura umana. Sta a noi fare qualche passo in una direzione o nell’altra.
CAPANNONEIDE. ODE ALLA FABBRICA VUOTA
Gli egizi avevano le piramidi, i greci i templi. I romani -che erano pragmatici- ponti e acquedotti.
E noi cosa lasciamo? Falli di vetrocemento, monumenti al valore per metro quadro e capannoni vuoti. Pericolanti quinte teatrali di siderurgia urbana, vecchie tigri dalle viscere rugginose, ciminiere di denti rotti.
Una volta c’erano le industrie: tronfie della ricchezza che producevano. Grandi macchine, grandi numeri; capacità manuali e intellettuali.
Oggi abbiamo i capannoni. Poveracci. Il capannone è un grasso incapace, figlio di un Brambilla minore che abita con la famiglia nella villetta adiacente, sperando che la Guardia di Finanza non arrivi o addio nero. Capannoni abbandonati, che non possono delocalizzarsi, emigrare dove si pagano meno tasse, cercare paesi con tanti operai e nessun sindacalista.
Capannoni innamorati di un padrone che non ricambia e li tradisce in Corea, Tunisia, Messico, Polonia, Cina.
Cuori crepati di cemento e spine in attesa di un nuovo piano regolatore. In coda per diventare centri fitness o supermercati. Loft per architetti. Covi per spacciatori, casa per clandestini disperati. Scheletri spolpati di macchinari emigrati a Oriente in cerca di fortuna, location per musei.
Pavimenti impregnati di oli esausti, orchi di fuliggine, pance di scorie, muri cotti dagli altiforni, nervi elettrici saltati.
Capannoni ex tutto, suolo sterile di frigorifero vuoto.
Diventano mercatini dell’usato, mobilifici, spazi per stoccaggio di merci, magazzini per la frutta e verdura. Altri, fortunati, si trasformano in cinema multisala. Dalla catena di montaggio alla macchina per il pop corn! Se proprio va male si spiana tutto e si fa un parcheggio.
Nei labirinti di autostrade si intravedono gli outlet: oasi di capannoni addirittura belli, miraggi per viandanti consumisti. Fruscio di vestiti, tazzine, tasti, telefoni, cassiere sorridenti, carte di credito svolazzanti, sottofondo musicale. La gente vi compie sacrifici costosi, nel nome del prodotto interno lordo.
E a nessun bambino viene spiegato che stiamo imparando a vivere respirando veleni e che la terra è finita, prima dell’ossigeno.
Autori e parassiti: il videogioco oltre le major
di Paolo Pedercini
Ripubblico l’intervento che Paolo Pedercini di Molleindustria ha tenuto il 29/4/2012 a Game Bang! Gamerz Talk, una due giorni di dibattiti sulla cultura videoludica alla Triennale di Milano. L’originale è qui. JR
Oggi voglio parlare di una duplice tendenza, di una biforcazione che sta avvenendo nel mondo dei videogiochi.
Ci siamo abituati a considerare quella dei videogiochi come un industria culturale. Un’industria che negli ultimi 10-15 anni si è consolidata con un modello simile ad hollywood: poche compagnie di produzione, budget sempre più elevati e tematiche e generi abbastanza prevedibili.
Ma questo compatto blocco industriale è da qualche tempo eroso da due versanti, o meglio, dilaniato da forze diametralmente opposte che in mancanza di termini migliori chiamo Autori e Parassiti.
Gli Autori (o Artigiani se il termine è troppo pretenzioso) è il fronte degli sviluppatori indipendenti. E’ in corso un’emorragia di menti creative, di persone che decidono di non scendere a patti col suddetto modello industriale e preferiscono mettersi in proprio.
Gli Autori tendono a considerare il videogioco come una forma culturale e non un mero oggetto tecnologico; adottano un modello dell’impresa di tipo artigianale e considerano il game design come una forma d’arte badate bene, parlo di design, non di semplice sviluppo.
Ciò che muove l’autore è il desiderio di espressione personale, il desiderio di raccontare una storia o un sistema, di creare un mondo attraverso una forma giocabile. (Questi sono i presupposti del mio progetto Molleindustria che racconterò il 22 Maggio, quando sarò a Milano di persona).
L’altro fronte di trasformazione è quello che per comodità chiamo i Parassiti.
Mi riferisco agli sviluppatori di Social games come Zynga, i creatori di Farmville e dei giochi su facebook più popolari.
In soli quattro anni, Zynga è diventata una delle compagnie più quotate nell’industria, con qualcosa tipo 200 milioni di utenti attivi (almeno così dicono) e col pressochè monopolio del gaming su Facebook.
Ora voglio chiarire subito che non uso il termine parassita nel senso più comune, come ad indicare qualcuno che non lavora, che sta a carico di qualcun altro eccetera.
La mia metafora è più vicina alla realtà biologica del parassitismo. I parassiti sono specie estremamente dinamiche che co-evolvono assieme agli organismi ospite. La relazione fra parassita e ospite è una continua competizione fatta di sotterfugi e manovre difensive.
Inoltre i parassiti sono maestri nel condizionamento dei comportamenti.
Prendete ad esempio questa specie di verme chiamato Leucochloridium paradoxum che vive nelle feci di animali. Certe specie di lumaca si nutrono delle feci e ingeriscono il parassita, il quale si espande al loro interno provocando il rigonfiamento delle antenne che vedete. Le antenne diventano queste estremità pulsanti molto visibili che assomigliano a bruchi o a larve che sono le prede favorite degli uccelli. Come se non bastasse, il verme in qualche modo riesce a controllare il comportamento della lumaca spingendola ad arrampicarsi sulla sommità delle piante dove diventa facile preda degli uccelli.
Nel caso non fosse chiaro, l’organismo ospite principale è proprio l’uccello, dove il parassita cresce e si riproduce e la lumaca è solo un intermediario. E’ un strategia di sopravvivenza geniale, ed è il frutto di evoluzione più o meno graduale e più o meno automatica, senza libero arbitrio, senza intenzionalità.
Tornando a noi, è con questa forma di perversa ammirazione che mi permetto di definire Zynga un parassita.
Zynga è la cosa più diametralmente opposta alla concezione autoriale ed artigianale del gioco a cui ho accennato prima. Il suo modello di businness è più simile alle startup della silicon valley – e finanziato dagli stessi capitali. Dipende in buona parte sui media sociali come Facebook (questo è il primo livello di parassitismo).
Il design di questi prodotti è incentrato sull’analisi e la manipolazione del comportamento dei giocatori è un processo scientifico che rimuove l’intenzionalità autoriale a favore della metrica.
Ogni interazione all’interno di questi giochi viene misurata e ciò che funziona, ciò che cattura l’utente viene espanso, potenziato e generalizzato.
E’ un modello iterativo di sviluppo, flessibile come le piattaforme di web 2.0. I giochi vengono raffinati in continuazione, non sono mai completi.
E’ un modello che rifiuta l’innovazione e l’originalità. Il C.E.O. di Zynga è negli annali per aver dichiarato “I don’t fucking want innovation” (non voglio la fottuta innovazione). Infatti più o meno tutti i giochi di Zynga sono copiati da altre compagnie. E questo è un altro livello di parassitismo.
Ma il successo commerciale di Zynga non è solo una questione di misurazione, flessibilità e mancanza di scrupoli. Alla base del social games c’è un modo relativamente nuovo di concepire l’attività ludica in generale.
Fin dalla notte dei tempi gli ingredienti principali del gioco competitivo sono due:
Il primo è la fortuna (o il caso, o il caos). I giochi di dadi, il gioco dell’oca o la slot machine sono giochi di pura fortuna.
L’altro è l’abilità, la destrezza (lo skill). I giochi di strategia come gli scacchi sono puramente basati sull’abilità.
Il primo trattato sui giochi, Libro de los Juegos (1283), si occupava proprio di questa tensione fra caso e abilità esaminando scacchi e una variante del backgammon.
Ancora oggi nella maggior parte dei giochi di carte, dei giochi in scatola e dei giochi elettronici queste componenti sono presenti in varie misure. In certi casi come negli sport, la componente aleatoria è meno formalizzata e consiste nell’imprevedibilità del campo di gioco, il rimbalzo della palla eccetera.
I social games come Farmville sono incentrati su un’altra componente che è il tempo, o il denaro, investiti nel gioco.
Tempo e denaro sono di solito sono presentati come quantità intercambiabili – come del resto lo sono nella vita di tutti i giorni sotto il dominio capitalistico.
Ovvero sei un giocatore migliore non se acquisisci una superiore abilità e padronanza del sistema, non sei sei più fortunato, ma semplicemente se investi più tempo o denaro nell’attività ludica.
Non è una cosa del tutto originale.
Anche nei giochi di carte collezionabili come Magic sei più potente se acquisti più carte. Non è l’unico fattore, ovviamente, ma è cruciale. è un hobby costoso.
Anche nei giochi online come World of Warcraft acquisisci un vantaggio se spendi più tempo a migliorare il tuo personaggio, a uccidere più mostri o ad eseguire altre attività triviali.
Come sappiamo queste meccaniche basate sul tempo hanno creato distorsioni come i gold farmer cinesi.
Certi giocatori benestanti occidentali non hanno tempo o voglia di spendere ore a “migliorarsi” e quindi pagano altre persone, che si prestano a fare questi attività poco entusiasmanti. La transazione avviene acquistanto denaro virtuale o oggeti virtuali guadagnati da questi lavoratori a basso costo. E’ uno scambio di denaro per tempo: lo stesso principio della donna delle pulizie.
In World of Warcraft è una pratica illegale ed è malvista dalla maggior parte dei giocatori e dalla Blizzard, la proprietaria di WoW.
Ora, l’intuizione di Zynga, o quantomeno l’intuizione copiata e perfezionata da Zynga è quella di sfruttare questa dinamica come modello di business.
Prima viene creato un sistema che premia esclusivamente l’investimento di tempo in attività triviali. Poi vengono fornite scorciatoie attraverso il pagamento di denaro.
In parole povere, se vuoi comprare un granaio virtuale, puoi lavorare il campo o spendere soldi veri. E il granaio non è altro che un’immaginetta associata al tuo utente. è una merce virtuale che a Zynga non costa praticamente nulla.
I giochi “sociali” sono estremamente accessibili, di solito basati sull’accumulazione, e forniscono ricompense sicure, deterministiche: lavori un tot, guadagni un tot.
Ora, per un giocatore competitivo non è una prospettiva particolarmente allettante, ma il sistema di gioco è attraente per un utente in cerca di un passatempo e soddisfazioni facili, in cerca di una giustizia, di sicurezza, di una fantasia di consumo che non non può inverarsi nel mondo reale.
A questo punto il game design consiste nell’analizzare questo principio del piacere, massimizzare la dipendenza del giocatore ed imparare ad indirizzare i comportamenti del giocatore verso il consumo di merci senza alcun valore d’uso. Così come in natura i parassiti più avanzati hanno imparato a controllare le menti degli organismi ospiti e spingerli a comportamenti autodistruttivi.

La componente “sociale” di questi social games, ha poco a che vedere con la socialità e la ritualità dei giochi folkloristici o delle attività sportive che sono legate ad un’idea di condivisione e di festività.
Al contrario, le relazioni umane sono mercificate su vari livelli.
Chiaramente anche i social network come Facebook estraggono profitto dalle relazioni e sono una forma di parassitismo che si nutre di relazioni reali; ma quantomeno facilitano o creano nuove forme di socialità. Il tipo di legami deboli che avvengono attraverso Twitter non sarebbero possibile senza Twitter.
Ma i social games (quelli contemporanei quantomeno) non creano nuove relazioni e non rinforzano quelle esistenti, piuttosto le costringono in una logica di scambio, spingendo il giocatore a considerare amici e altri utenti come risorse.
Creando meccanismi di interdipendenza fra giocatori.
Utilizzando i legami sociali esistenti per far circolare il prodotto ed espandere l’utenza.
O, ancora, sfruttando il desiderio di validazione reciproca.
Questo è un tipico esempio creatività ed espressione all’interno di Farmville. Ogni tile, ogni pixel che compone questa immagine è il residuo di una certa quantità di tempo o denaro assorbita da Zynga.
In altri casi i social games trasferiscono attività ludiche esistenti in una sfera digitale controllata dalla queste compagnie. Il Poker online per esempio e il gioco più popolare fra quelli offerti su Facebook.
O nel caso di Draw Something, che altro non è che una versione di Pictionary, per gente che non ha tempo o voglia di spendere una serata con amici dal vivo.
In Draw Something per essere un buon giocatore e rendere i tuoi disegni più riconoscibili devi acquistare pennarelli virtuali, pagando con una moneta virtuale che si ottiene vincendo un match o pagando denaro reale. è un altro esempio di manipolazione tramite validazione sociale, i designer ti mettono in una posizione di imbarazzo di default e ti danno la possibilità di redimerti attraverso il consumo.
Questa scienza della dipendenza e del controllo dei comportamenti sta riscuotendo tanto successo che in tanti stanno cercando di applicarla in ambiti non ludici. è ciò che viene chiamata gamification.
Nel marketing altro non è che una forma più avanzata e sistematica di strategie di fidelizzazione come le raccolte di punti o le carte di fedeltà.
Ma sistemi di incentivi, di interdipendenza e validazione sociale, possono in teoria essere applicati ad altri obbiettivi come smettere di fumare, fare esercizio fisico, o fare buone azioni.
La promessa è quella di estendere il dominio di quello che è quantificabile e controllabile tramite algoritmo. Prendere questa abbondanza di dati dell’era digitale, e “metterla a sistema”, attraverso sistemi calati dall’alto, progettati da direttori del marketing o da esperti di socialità online.
Ed è precisamente questo aspetto di essere progettati dall’alto ad essere problematico.
Gli apparati di controllo ideologico si aggiornano continuamente.
La generazione del dopoguerra era portata a credere che la televisione fosse una finestra sul mondo
e tutto quanto accadesse sullo schermo fosse vero perchè c’era un flusso di immagini a dimostrarlo.
La generazione precedente era ipnotizzata da cinegiornali e dalla nuova tecnologia del tempo, la radio, che in sia in Italia che in Germania era uno strumento chiave della propaganda di regime.
Abbiamo dovuto sviluppare degli anticorpi per disinnescare questi flussi di parole ed immagini. Abbiamo dovuto alfabetizzazarci per decostruire questi linguaggi, per leggerci gli intenti potere.
Abbiamo imparato a farlo attraverso immagini e parole altre.
C’è la possibilità che i giochi o che questi sistemi di condizionamento derivati dai giochi diventino la nuova radio, la nuova televisione, la nuova propaganda di regime o il nuovo modo per venderci quello di cui non abbiamo bisogno.
La maggior parte di noi non è pronta perchè non pensa in termini di sistemi complessi, non progetta meccanismi di incentivi, di penalità o rischio. Giochiamo perchè ci da piacere e non sappiamo esattamente perchè.
Per questo ora piu che mai è importante creare altri tipi di sistemi e fare in modo che più gente possibile abbia gli strumenti tecnici e concettuali per creare i propri giochi e per demistificare quelli altrui.
04/29/12 | | #
La riscoperta dei diritti civili nell’era digitale: e-privacy 2012 a Milano
Il Progetto Winston Smith coadiuvato dal supporto delle Cattedre di Informatica Giuridica e Informatica Giuridica Avanzata dell’Università degli Studi di Milano propone il convegno “e-privacy 2012”.
Tema dell’edizione 2012 è : Privacy + Trasparenza = Libertà. La riscoperta dei diritti civili nell’era digitale
Il convegno si terrà presso l’Università Statale di Milano, via Festa del Perdono 7, aula 400, giovedì 21 e venerdì 22 giugno 2012, dalle ore 09.00 alle ore 19.00 (indicazioni per raggiungere la sede).
Sono disponibili on-line il flyer dell’evento ed il programma.
In occasione di e-privacy si celebrerà anche l’edizione italiana del Big Brother Awards, nella giornata di venerdì 22 alle 11:30. Il BBA è un premio internazionale di demerito e disonore, “in negativo”, che viene assegnato ogni anno a chi risulta “nemico” della privacy e della tutela dei dati nelle seguenti categorie “peggiore ente pubblico”, “peggiore azienda privata”, “tecnologia più invasiva”. Infine il premio “lamento del popolo” verrà assegnato a chi avrà ricevuto il maggior numero di nomine. Un’apposita categoria “in positivo”, è invece prevista per la persona o l’ente che ha meglio tutelato la privacy, che ha compiuto un singolo fatto, scoperta od azione particolare di rilevanza per la difesa della privacy (categoria “eroe della privacy”). Il BBA è assegnato in sei diverse nazioni oltre all’Italia.
Il convegno è ad accesso libero e gratuito, ma i posti sono limitati. Si consiglia di effettuare un’iscrizione nominativa inviando una mail a segreteria@winstonsmith.org.
Programma
21 giugno 2012
9:30 – 11:00
La privacy nella gestione delle fonti d’informazione critiche: whistleblowing, anonimato, Tor, GlobaLeaks
Chairman Marco Calamari
Claudio Agosti
Il whistleblowing non e’ un fenomeno nuovo. In passato si lasciava una lettera dentro ad una cassetta delle lettere con su scritta la “soffiata”. Negli anni questa pratica è cambiata, taluni nazioni la incentivano in quanto meccanismo di contrasto alle malversazioni, altre nazioni non hanno neppure una traduzione adeguata nella loro lingua: è il nostro caso. GlobaLeaks e’ una tecnologia che permette di fare la cosiddetta “technologically driven whistleblowing”, poiché garantisce la sicurezza di chi ha dati da segnalare, proteggendolo da eventuali ripercussioni. Questa tecnologia, che ha già raggiunto la fase di prototipo avanzato, ha suscitato interesse nel giornalismo investigativo, nelle aziende che si promuovono come trasparenti, nella vita cittadina e nella politica locale. L’intervento consiste in una panoramica del fenomeno, nella spiegazione del progetto software, nelle garanzie tecnologiche che mette a disposizione
Arturo Filastò
Tor e’ un progetto che nasce con lo scopo di garantire comunicazioni anonime. Il diritto all’anonimato, però, e’ qualcosa che spaventa molto i regimi, per questa ragioni molti hanno deciso di bloccarlo. A quel punto il progetto Tor ha iniziato a cercare di trovare modi per evitare di essere bloccato da un lato (i bridge) e altri per aggirare i sistemi di censura (obfsproxy). Verrà raccontata la storia di Tor ed il rapporto con il mondo della censura dal 2005 ad oggi. La presentazione si concluderà con una spiegazione di OONI, un progetto nato con l’intento di disegnare una mappa mondiale della censura di internet.
Fabio Pietrosanti
I Tor hidden service sono una tecnologia molto flessibile e con un grande potenziale, ma purtroppo non sono usati quanti dovrebbero. Danno la possibilità ad una persona di offrire un servizio TCP (HTTP, FTP, etc.) senza rivelare la sua identità o posizione fisica. Questo significa, in pratica, che posso mettere su un sito web senza dover registrare un dominio, un indirizzo IP o acquistare un virtual machine. Può persino funzionare su una DSL di casa perché non richiede che l’IP sia statico. La comunicazione tra client e server e’ cifrata end-to-end e l’indirizzo che inserisco nel browser funge da autenticazione per la chiave pubblica dell’HS. Con servizi quali tor2web un HS può persino essere raggiungibile da persone che non utilizzano un client Tor. Tor2web sacrifica sicurezza e anonimato del client in cambio di usabilità.
Stefano Mele
La penetrazione sempre maggiore degli strumenti informatici all’interno del tessuto sociale, nonché la crescente delocalizzazione e concentrazione delle informazioni attraverso tecnologie distribuite e virtualizzate in Rete, rischiano di concedere inedite opportunità di controllo e spionaggio ben oltre i limiti imposti dalle normative nazionali e internazionali. La tutela dei diritti fondamentali e della privacy nelle attività investigative e di difesa nazionale nel cyber- spazio è divenuta pertanto un’esigenza imprescindibile, chiesta oggi a gran voce anche nei documenti strategici dei principali Paesi occidentali
Leonardo Maccari
La prossima “arab spring” verrà streammata su reti wireless mesh distribuite, finanziata in Bitcoin e condivisa su Diaspora. O forse no. E’ possibile rendere distribuito qualsiasi servizio? ed è veramente più sicuro e più democratico? Partiamo dal sogno di una rete di accesso wireless distribuita per capire se è possibile “distribuire” tutto!
11:30 – 13:00
La privacy nelle città e nelle amministrazioni del futuro: smart cities, smart grids
Chairman Valerio E. Vertua
Yvette Agostini
La sinergia tra tecnologie dell’energia e quelle dell’informazione ha dato impulso al movimento smart: Smart cities, smart grid, smart appliance. Attraverso la disamina degli schemi tecnologici salienti attuali e prevedibili, si individuano i possibili rischi per la privacy connessi con la progressiva adozione a livello globale di queste tecnologie.
Valerio E. Vertua
Smart grid e smart appliance pongono delle problematiche per la privacy e per il trattamento dei dati di tutte le parti in causa: cittadini e fornitori di servizi. L’intervento ha quindi l’obiettivo di fare il punto della situazione sulla disciplina normativa vigente in Italia con uno sguardo a quella europea, cercando di individuare, se possibile, anche le possibili prospettive legislative future.
Roberto Leone
La rete di distribuzione elettrica del 21° secolo sta migrando verso il modello denominato Smart Grid. Queste nuove infrastrutture sono progettate per gestire in modo dinamico differenti tipi di centrali, fra cui quelle ad energie rinnovabili, che richiedono alla rete capacità di adattamento impossibili ai sistemi di distribuzione odierni.
Giulio Beltrami, Andrea Rudelli
Con la sperimentazione di un innovativo centro-contatti digitale, multimedia e multicanale, per l’ecosistema lombardo di Informatici Senza Frontiere, stiamo concependo un nuovo approccio “condominiale” alla e-privacy, in grado di prevenire gli abusi nelle telecomunicazioni, favorendo la collaborazione intra e inter associativa
14:00- 15:30
Privacy, e-government, open data e trasparenza
Chairman Nicola Lopane
Nicola Lopane, Pasquale Lopriore
L’importanza di utilizzare sistemi telematici per gestire gare d’appalto “e-procurement” è stata riconosciuta nel Piano d’Azione europeo di eGovernment 2011-2015 e nell’Agenda digitale italiana, in quanto l’e-procurement garantisce segretezza, trasparenza e affidabilità del procedimento, comportando un evidente risparmio di risorse sia economiche che umane. Per ottenere questi vantaggi occorre creare una piattaforma telematica che tenga conto di più aspetti di natura legale e informatica oltre a seguire i rigidi dettami propri delle procedure di gara d’appalto. Uno degli aspetti più delicati da curare è la gestione dei dati personali, poiché la piattaforma deve garantire alla stazione appaltante e alle ditte partecipanti adeguati livelli di segretezza e inviolabilità delle offerte. A tal proposito, per la gestione dei dati personali, il legislatore ha individuato come Responsabile del trattamento dei dati la figura “Gestore del sistema informatico” incaricata dalla stazione appaltante di gestire il funzionamento delle procedure telematiche assumendone la relativa responsabilità. Il Gestore del sistema, pertanto, deve adottare una apposita policy sulla privacy che analizzi tutti gli aspetti tipici di una procedura di gara, prevedendo piani di disaster recovery. Per la realizzazione della piattaforma di e- procurement della Regione Puglia “EmPULIA” sono state prese in considerazione tutte queste problematiche redigendo una apposita disciplina di utilizzo, approvata dagli utenti, nella quale si regolamenta le procedure telematiche utilizzate e il ruolo dei soggetti coinvolti.
Morena Ragone
Quali sono gli strumenti che le amministrazioni possono utilizzare per favorire la costruzione del governo aperto? L’esame si sofferma sulla ‘rivoluzione open data’, nonché sull’uso e funzione dei social network nel rapporto tra amministrazione e cittadino. Non si mancherà di evidenziare alcuni profili di criticità della trasparenza in rapporto alla privacy, ma, anche e soprattutto, della necessaria alfabetizzazione da cui nessuno può prescindere.
Alessandro Rodolfi
Partendo da un interessante studio di Barbara Coccagna, dottore di ricerca presso Università degli Studi di Teramo, dal titolo “Monitoraggio collaborativo e democratizzazione dell’informazione di fonte pubblica” saranno approfonditi gli aspetti relativi alla riservatezza dei soggetti che segnalano brogli elettorali, corruzione, reati e illeciti a qualsiasi livello (locale, nazionale, sovranazionale) evidenziando inoltre le possibili connessioni con l’Open Data e l’Open Government.
16:00 – 19:00
Privacy, e-government, open data e trasparenza Privacy, Computer Forensics e Crimini Informatici
Chairman Marco Calamari
Corrado Giustozzi
I recenti casi di attacchi alle Certification Authorities hanno messo in luce la fragilità della catena di fiducia in Rete. Le infrastrutture critiche non sono solo quelle da cui dipende il funzionamento della Rete: il vero punto debole sono i servizi da cui dipende la Rete stessa.
Roberto Flor, Stefano Marcolini, Eleonora Colombo
Dall’evoluzione della giurisprudenza costituzionale di molti Stati europei, della Corte di Giustizia dell’Unione europea e, seppur in modo minore, della giurisprudenza italiana, in casi aventi ad oggetto misure di contrasto, anche tecnologiche, alla criminalità, si può ricavare la nascita di nuove forme di manifestazione del diritto generale della personalità in Internet: il diritto all’autodeterminazione informativa ed il diritto alla riservatezza, all’integrità ed alla sicurezza di dati e sistemi informatici. L’esigenza di tutela di questi “nuovi” diritti fondamentali deve confrontarsi con la necessità di contrastare forme gravi e transnazionali di fenomeni criminosi. Il bilanciamento di questi interessi contrapposti deve avvenire tenendo conto nelle nuove competenze penali dell’Unione europea dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Mattia Epifani
Il costante aumento nell’utilizzo dei sistemi di cloud computing ha introdotto nuove questioni e problemi in relazione all’analisi forense dei dati. Le tradizionali tecniche di acquisizione non sono più utilizzabili in questi contesti ed è quindi necessario definire metodi alternativi e dedicati. Tra i servizi di Cloud Computing particolare diffusione e successo sta riscuotendo iCloud di Apple, per la possibilità di condividere le informazioni in automatico su strumenti di diverso tipo (Mac o PC, iPhone, iPod, ecc.).
Ulrico Bardari
Premessi i principali reati commessi in Internet e l’inadeguatezza degli strumenti messi a disposizione degli organi preposti al contrasto del cibercrimine, si intende argomentare l’importanza di un data retention adeguatamente disciplinato al fine di tutelare la proprietà del dato trattato e allo stesso tempo consentire un margine d’intervento puntuale all’autorità giudiziaria in caso di incidente informatico. Si prendono in considerazione le divergenze che scaturiscono tra la necessità di tutelare la riservatezza delle comunicazioni e l’obbligo dell’azione penale per la tutela delle vittime di reati informatici o perpetrati a mezzo informatico.
Nicla Diomede, Donato la Muscatella, Marco Spada
L’intervento analizza gli aspetti tecnici della raccolta dei dati sul traffico e le implicazioni giuridiche relative alle protezione dei dati personali di utenti e lavoratori che utilizzano l’infrastruttura dei poli Universitari, anche in relazione alle richieste investigative provenienti dall’Autorità Giudiziaria
Federica Mingotti
Nel 2008 gli adempimenti nell’ambito della compliance aziendale sono stati estesi all’area dei reati informatici. All’art. 24 bis del D.lgs. 231/01 sono previsti quali reati presupposto, inter alia, il falso in documenti informatici, l’accesso abusivo al sistema informatico, l’intercettazione, impedimento, interruzione di comunicazioni informatiche, il danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici, la frode informatica del soggetto che presta servizi di certificazione di firma elettronica. L’ inserimento del pacchetto “reati informatici” richiede la creazione di sistemi di controllo di prevenzione in tutte le aree di rischio, dalla direzione, alle HR passando per il marketing, le vendite, gli acquisti e la sicurezza informatica. Si tratterà quindi innanzitutto di procedere all’esecuzione di mappature delle aree a rischio e, in secondo luogo, sarà necessario stendere dei protocolli di prevenzione quali la definizione di deleghe responsabilità e poteri connessi, rendere procedurali le attività informatiche e ancora identificare l’Organismo di Vigilanza a cui è demandato il compito di rapportarsi periodicamente per i test di verifica e controllo. In terza analisi tra le best practice si annovera l’opportunità di prevedere un codice etico ove dichiarare i valori e principi per l’uso dell’informatica aziendale, la gestione delle credenziali d’accesso, l’accessibilità stessa ai sistemi clienti, fornitori, oltre alla gestione dei dati riservati e sensibili. Si tratta di interventi che per altro richiedono uno stretto coordinamento con la compliance relativa alla privacy (D.lgs. 196/2003 ), con la quale collimano e si intersecano. Non a caso si registra spesso la richiesta ai professionisti lato privacy di curare anche l’aspetto della 231/ 01 inerente ai reati informatici. Richiesta che testimonia ancora una volta il peso specifico e il ruolo centrale riconosciuto al diritto acclamato a gran voce da ogni angolo nell’epoca dell’informatizzazione: il diritto alla privacy. Tanto invocato nella sua immanenza quanto sfuggente nell’elefantiasi procedurale che gli fa da strascico e che sembra volerci tutti quanti più di ogni altra cosa … “proceduristi”!!!
22 giugno 2012
09:30 – 11:00
Privacy, poteri di controllo e nuove frontiere
Chairman Giovanni Ziccardi
Italo Cerno
Le informazioni attinenti la propria sfera privata vengono sempre più frequentemente barattate con le “utilità” fornite dai prestatori dei «servizi della società dell’informazione». I dati attinenti il comportamento tenuto in Rete vengono da questi ultimi raccolti ed elaborati non solo e non tanto al fine di migliorare i servizi offerti, ma anche per proporre pubblicità “mirata” ovvero vicina ai gusti, alle preferenze ed alle necessità degli utenti (c.d. on-line behavioural advertising). A partire dal marzo di quest’anno, la società Google ha reso unica la propria informativa privacy ed integrato i propri servizi: questi sono strettamente collegati tra loro in ragione dell’uso che l’utente fa anche solo di uno di essi. L’obiettivo dichiarato è quello di “personalizzare” i risultati, ma i profili degli utenti vengono adoperati anche allo scopo di propinare pubblicità mirata. Emergono, pertanto, criticità in ordine alla trasparenza dell’attività di raccolta dati, alla consapevolezza del soggetto interessato ed alle modalità con cui viene espresso il consenso. Il sistema adoperato è quello dell’opt-out, ovvero, è il singolo utente a dover manifestare la propria volontà di non essere monitorato e non il contrario come, invece, imporrebbe la normativa, europea ed italiana, in materia di protezione dei dati personali. Scopo dell’intervento è quello di evidenziare le principali problematicità dell’attività posta in essere dalla società Google alla luce delle norme applicabili alla pubblicità “comportamentale” e dei pareri espressi al riguardo dal Gruppo di lavoro ex art. 29 sulla protezione dei dati personali.
Alessio Pennasilico
Cercheremo di affrontare il tema della sicurezza del cloud computing partendo da alcuni casi di cronaca recente. Analizzeremo in particolare il caso delle chiusura di MegaUpload e di tutti i fatti correlati, per raccontare cosa è accaduto davvero la notte del 19 gennaio 2012, partendo dal Governo degli Stati Uniti D’America, per arrivare in Europa, passando da Anonymous, 2600, il CCC, l’FBI e la sicurezza dei nostri dati.
Alberto Cammozzo
Il riconoscimento facciale automatico è una tecnologia matura e in ampia diffusione. La faccia è qualcosa che non possiamo cambiare e che difficilmente si nasconde in pubblico: perciò l’impiego di queste tecnologie solleva molti problemi etici legati alla privacy e ai diritti umani. Nel 2011 si è parlato delle tecnologie di Face Recognition nei social networks, ma il 2012 ne vede il silenzioso ed ubiquitario consolidamento: come tecnologie di sicurezza (autenticazione utenti, borders processing, identificazione di sospetti, lotta alle frodi, sorveglianza “face in the crowd”, controllo presenze ed accessi), in ambito commerciale (digital out-of-home advertising, fidelizzazione,controllo dell’età), fino ai motivi più frivoli (smile-activated vending machines, identificazione dei personaggi ritratti in quadri antichi) ma anche militari (target identification, anche nei droni). Nei prossimi anni le migliori implementazioni di queste tecnologie si consolideranno e diverranno interoperabili: dalla webcam, al videocitofono, al televisore fino alla telecamera di sorveglianza. In aggiunta recenti ricerche hanno messo in evidenza la fattibilità delle re-identificazione massiccia attraverso i volti (Accorsi 2011). Quali sono le risposte pubbliche, tecnologiche e sociali al dilagare di queste tecnologie invasive e potenzialmente pericolose? Il dibattito pubblico sull’eticità dell’impiego di queste tecnologie, sulla loro responsabilità alle dittature e sul rispetto della privacy è quasi assente. Le istituzioni appena cominciano a prendere in considerazione il problema: in UE il WP Art29 (opinione 2/2012) e la FTC in USA (Dec 2011). La ricerca tecnologica su implementazioni di riconoscimento facciale che rispondano a criteri di privacy-by-design non abbonda, tuttavia vi sono risposte “dal basso” che propongono svariate Privacy Enhancing Techniques (di efficacia non sempre testata) per ripristinare la visual privacy
11.30-12.00
Premiazione Big Brother Award
12:00 – 13:00
Il delicato rapporto tra privacy e diritto
Chairman Simone Onofri
Simone Bonavita
Conoscere a che fine sono destinati i propri dati è fulcro della libertà di autodeterminazione informativa, in un’ottima di totale trasparenza e tutela delle libertà digitali. A tal riguardo il Codice della Privacy ha previsto che, prima della prestazione del consenso, debba essere resa una informativa contenente informazioni idonee a fondare la consapevolezza del consenso stesso. Detta disposizione trova tuttavia limiti nel territorio delle nuove tecnologie. Nel Web accade così, nella migliore delle ipotesi, di impattare in lunghe e dettagliate informative conformi alla Legge, ma non alle regole non codificate della Rete, che stabiliscono immediatezza nella trasmissione dell’informazione. Ma, ancora prima, i titolari del trattamento sono effettivamente edotti dei dati che trattano nel Web, anche mediante l’utilizzo di cookie e di nuove tecnologie? E le informative che questi rendono, prevedono indicazioni in merito? In quest’ottica diviene interessante procedere ad una analisi di questi aspetti, anche alla luce della direttiva 2009/136/CE e delle modifiche recentemente proposte in tema di cookie ed altre analoghe tecnologie.
Giovanni Battista Gallus, Ernesto Belisario, Francesco Paolo Micozzi
Il right to be forgotten ha assunto una dimensione nuova e centrale nel corretto trattamento dei dati personali. Le problematiche connesse al diritto all’oblio hanno già avuto modo di essere più volte affrontate nelle aule giudiziarie e nella “giurisprudenza” del Garante: la tensione tra le pretese dell’individuo e la ricostruzione storica e la libertà d’informazione dovrà trovare un nuovo equilibrio, anche alla luce del Regolamento comunitario di prossima approvazione. In questo quadro, già complesso, sono intervenute le plurime novità legislative che hanno reso obbligatoria la pubblicazione di atti online da parte delle Pubbliche Amministrazioni, con una non sempre facile fare sintesi tra esigenze di trasparenza e diritti dei singoli. L’intervento cercherà di affrontare l’argomento nella triplice chiave di lettura, civilistica (e delle libertà costituzionali), penalistica e amministrativistica.
14.30-15.00
Corso “Cittadinanza digitale e Tecnocivismo”
Andrea Trentini
Quest’anno per la prima volta abbiamo provato a somministrare contenuti di “awareness digitale” nel contesto “essere cittadini”. Abbiamo trattato tutte le implicazioni (a volte positive e a volte negative) della tecnologia informatica nella relazione cittadino-istituzioni. A fine corso gli studenti hanno approfondito alcuni temi come prova d’esame.
15:00 – 19:00
Privacy, diritti umani e diritto all’oblio
Chairman Pierluigi Perri
Marco Bettoni
Le imprese tecnologiche americane ed europee riforniscono i regimi autoritari di tutto il mondo degli strumenti e delle tecnologie utilizzate per attività di controllo, sorveglianza e repressione dei diritti umani nei propri paesi. Criticità del fenomeno, in continua espansione, dal punto di vista del diritto e della politica.
Cesare Maioli, Elisa Sanguedolce
Partendo da alcune problematiche della governance di Internet, si evidenzia la opportunità di includere nel tema gli aspetti etici che valorizzano la ricostruzione dei diritti civili con riferimento alla privacy. Si considerano le raccomandazione internazionali e si fornisce un contributo alla definizione di un nuovo quadro di riferimento.
Monica Senor, Carlo Blengino
Dove si colloca il diritto all’oblio, tra diritto alla privacy, diritto alla protezione dei dati e diritto all’identità? Esiste un diritto di sequela sui dati personali, una specie di copyright, o meglio di diritto morale d’autore sulle informazioni che ci riguardano?
Alessandro Mantelero
Il tema dei dati aperti, ove concerna informazioni di carattere personale, implica il necessario contemperamento delle esigenze di divulgazione e ri- uso dei dati con quelle di autodeterminazione informativa dei singoli. Il tale prospettiva si sono orientati tanto il legislatore comunitario che quello nazionale. Alla luce della recente proposta di riforma della disciplina europea sui dati personali occorre dunque valutare quali spazi siano lasciati dalle nuove norme alla divulgazione dei dati ed al ri-uso degli stessi. Con riguardo al primo profilo (accessibilità e divulgazione dei dati) bisogna porre attenzione alle modalità di rilascio, onde evitare che si traducano nella pubblicazione di grandi quantità di dati personali in maniera non conforme alle finalità che autorizzano le amministrazioni pubbliche al trattamento. In merito al ri-uso bisogna invece focalizzare l’attenzione sulla compatibilità fra le finalità iniziali della raccolta e le eventuali modalità di ri-uso, valutando sia i profili inerenti la pertinenza, che l’informativa, che la gestione del ri-uso mediante le licenze.
Nicola Gargano
L’avvento del processo telematico ha sicuramente rivoluzionato il rapporto tra gli operatori del mondo giustizia, tanto nell’approvvigionamento di informazioni quanto nella comunicazione tra avvocato e ufficio. Tuttavia, solo in alcuni casi, la quantità di informazioni disponibili nella rete giustizia veniva resa accessibile al cittadino che, fino ad oggi, non può prescindere dall’interfacciarsi con il proprio legale per conoscere, ad esempio, lo stato di un procedimento. Dal 18 maggio 2012, invece, l’enorme quantità di dati giudiziari finora accessibili tramite i punti di accesso solo alle parti del processo regolarmente costituite e dotate di sistemi di autenticazione forte, diviene disponibile in forma anonima per tutti grazie al portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del DM 44/2011. Il processo telematico dunque, non sarà più riservato agli addetti ai lavori ma sarà una realtà con la quale dovrà fare i conti anche il cittadino che, provvisto di un indirizzo PEC, potrà ricevere notifiche di atti giudiziari in forma elettronica e, prima di rivolgersi al proprio legale potrà acquisire informazioni mediante un portale accessibile non solo agli addetti ai lavori. Una rivoluzione tuttavia non esente da problematiche. Quanto è tutelata la privacy del cittadino? L’avvocato sarà costantemente sottoposto al controllo da parte del cliente che potrà controllare da solo le vicende della causa di cui è parte e non?
Monica Gobbato
L’intervento avrà ad oggetto le dinamiche dei principali social network come Facebook, Twitter, Badoo e Foursquare con particolare riferimento al fenomeno della geolocalizzazione, evidenziandone le possibili insidie. Verranno esaminate le modalità con cui i Titolari di questi siti (?) informano l’interessato riguardo ai propri servizi e se e in che modo gli stessi adempiono o meno agli obblighi privacy in tema di geolocalizzazione. Si esamineranno anche i recenti casi portati innanzi all’Autorità Garante della Protezione dei dati Personali. Si descriveranno poi i rischi effettivi che un interessato corre nel momento in cui si affida a tali tecnologie, soprattutto quando utilizza smartphone, tablet o PC di ultima generazione. Si tenterà infine di offrire qualche spunto di riflessione a quei titolari che comprendono l’importanza di mettersi in regola alla luce dei Pareri e degli Studi forniti sull’argomento dai Garanti europei in tema di geolocalizzazione. Potrà il riconoscimento del diritto all’oblio ostacolare l’era dei big data?
Su “Teoria del romanzo” di Guido Mazzoni
di Daniela Brogi
«Nel rumore di tutti il tempo che si perde / per essere solo ciò che siamo adesso, / per diventare solo solitudine». I mondi, libro di poesia pubblicato da Guido Mazzoni nel 2010 (Donzelli), si congeda con questi tre versi – tratti da Pure Morning – e con l’indicazione di una durata: 1997-2007. Sono dieci inverni, dunque: per scrivere I mondi; ma sono anche un tempo dentro un altro tempo: quello dei quindici anni (1995-2010) dedicati, come segnala la riga finale, a Teoria del romanzo.
Parliamo di gatti
di Monica Flores Fernandez
“L’imbecille non dice che il gatto abbaia, ma parla del gatto mentre gli altri parlano del cane.”
Umberto Eco.
Questa frase di Umberto Eco che si trova nel Pendolo di Foucault, mi è sempre piaciuta molto. In questi giorni economicamente bui ma calcisticamente brillanti, le parole di Eco sono tornate alla mia mente con una forza nuova.
I canali di Sigmund Freud
di Giuseppe Zucco
Se sono stanco, e metaforicamente accartocciato e spento, e ho atteso in trance che l’autobus materializzasse la sua stazza grigio-arancione tra gli ottani di benzina fluttuanti nell’aria, e non sono riuscito a fare spesa, né a intercettare nessuno di veramente amichevole o familiare sulla via di casa, e la giornata è andata com’è andata, consegnandomi la tipica pallida espressione di pecora nel gregge, dopo che per estenuanti otto ore e trentacinque minuti più eventuale straordinario l’attività lavorativa mi ha disciolto tra i circuiti cerebrali la desolata complessità della ruggine, per recuperare me in quanto persona, e ripristinare la singolarità della condizione umana che questa epoca elargisce con estrema disinvoltura e ineluttabilità, non leggo alcuna raccolta di racconti, né pesco a caso nella variegata filmografia di Stanley Kubrick, tantomeno sgrano nelle cuffiette i trentadue brani delle Variazioni Goldberg che Johann Sebastian Bach compose e Glenn Gould eseguì, semplicemente mi sbraco sul divano, stendo le gambe sulla sedia, incrocio i piedi, cerco il telecomando tra i cuscini, e con calma e sangue freddo e una iniziale moderazione che verrà via via tradita, comincio a spaziare tra i canali nazionali, i pianeti definitivamente esplorati dell’intrattenimento di massa, Rai Mediaset La7, piccoli paesaggi bidimensionali in sedici noni su cui camminano e volteggiano e gesticolano creature in carne ossa pixel tanto vive quanto inesistenti, il colore rossastro della pelle chiarificatore dell’eventualità che il pianeta Marte è qui, realizzato su/tra di noi, per spingermi subito dopo verso nuovi confini, lontane galassie, aperture siderali comprese tra le frequenze che il decoder del digitale terrestre prova a captare, i canali regionali o provinciali o cittadini, comunque sia con una copertura di territorio e popolazione molto circoscritta, e nel buio più assoluto, a mezzanotte, senza possibilità di distrazione, se non per l’impercettibile refresh meccanico delle palpebre sulle iridi sempre più dilatate, io guardo, guardo la cotonatura biondocenere di una signora avanti negli anni che ordina sul tavolino con due mani paffutamente piccole ma dalle unghie laccate di un rosso a tratti scintillante tutta una serie di tarocchi e di possibilità sentimentali di cui l’ascoltatrice Carmela non è ancora consapevole, guardo la minacciosità implicita di uno schiacciapatate, guardo la riproduzione tridimensionale di una modella americana uscire dal Codice Internazionale Del Cardiofitness e salire e scendere da uno scalino in plastica gialla mentre le oscilla la coda e neanche una minuscola chiazza di sudore le si allunga sulla tutina viola aderente e in un italiano doppiato da una voce incomprensibilmente maschile elenca quali vantaggi comporta la salita e la discesa dal suddetto scalino, guardo la solitudine smerigliata di un orecchino, guardo due conduttori giovani e truccati e suadenti spiegare e fare vedere con l’ausilio di una modella sufficientemente svestita che solleva il piede a favore di camera quanto possa essere antisociale e non contemporaneo e per nulla etico lasciare lo strato indurito di cellule morte sul calcagno, guardo la punta affilata di un coltello da cucina e il modo brutale in cui tale coltello affronta la spinosa questione della presenza se non vicinanza di altri simili, guardo un uomo l’esatto contrario di Siddharta di un’età indefinibilmente compresa tra i trenta e i cinquanta seduto sotto le lenzuola nudo e molto peloso illuminarsi come Siddharta quando apprende da una voce fuori campo l’esistenza di una lozione capace di risvegliare l’impero dei sensi e attirare sciami di ninfomani della porta accanto sempre eternamente strizzate in un bikini nero, guardo l’avanzare bianco e nero di insetti sui pavimenti di una villetta prima che si avveri la soluzione finale di uno spray sterminatore, guardo un uomo in giacca e cravatta attingere con estasi alla parola capolavoro mentre indica un quadro di ridotte dimensioni raffigurante una specie di margherita disegnata con la mano destra da un bambino mancino, guardo il cd di un cantante neomelodico il cui cantante nonostante tutti possibili ritocchi sembra avere i capelli finti o posticci, guardo una ragazza dai capelli ossigenati sedere sul divano e rispondere al telefono e passare la cornetta del telefono nei più intimi umidi recessi mentre il tanga più che una presenza filiforme è appena una possibilità, cioè guardo e ritrovo anche qui in maniera grossolana quanto diceva Sigmund Freud tanto tempo fa, i canali nazionali e istituzionali sono la nostra parte cosciente e razionale, i canali regionali o provinciali o cittadini sono l’inconscio, uno spazio in cui si agita tutto ciò che pensiamo di non pensare, soprattutto adesso, mentre sono stanco, e prendo sonno sul divano, e precipito da qualche parte, e uno schiacciapatate impugnato da un bambino mancino infilato in una tutina viola aderente mi si fa minacciosamente contro.
Pubblicato su Vicolo Cannery (http://www.vicolocannery.it/). La ricerca iconografica è di Martina Giorgi.
Pre-postumi: intervista a Matteo Galiazzo

a cura di Francesco Forlani
per il libro di Matteo vd qui.
effeffe Come ti dicevo al telefono, è da qualche anno che vorrei curare un’antologia degli scrittori pre-postumi. Il fatto è che ogni volta che sono sul punto di partire con l’invito à paraître alla fortunatissima compagine che ho in mente, lascio stare. Perché sarebbe come decidere di curare un libro sull’Ozio, un’apologia dell’ être oisif. Troppa fatica, troppo negozio per l’ozio e così non se ne fa nulla. Fatta questa premessa sono da sempre affascinato dalla condizione fisica e psicologica degli scrittori pre-postumi. Nella mia fenomenologia ne ho individuati tre tipi. Il pre-postumo malgrè soi, ovvero colui che da vivo e con grande vitalità partecipa alla kermesse letteraria senza però superare il muro del “Sono”, senza accedere al lettore con una grande Elle insomma quello che i francesi chiamano Grand Public. Questo accade indipendentemente dal fatto che abbia avuto accesso o meno a buoni dispositivi editoriali – una buona, grande casa editrice- e nonostante la totale adesione della critica. Del secondo tipo invece è l’autore, autrice che al grande pubblico ci è arrivato, con le proprie o altrui forze ma la cui opera non appare degna di considerazione da parte della critica critica. Tu invece sei il tipo pre-postumo più pericoloso di tutti. Sei tra i rarissimi autori che io conosca, che farebbe la felicità degli uni, dei lettori, e degli altri, dei critici, e hai deciso di non pubblicare più nulla. Saranno sicuramente cazzi tuoi sul perché, però magari una pista ce la puoi indicare.
emmegi Dunque, ho imparato che è buona norma cominciare sempre le risposte con un mah… così si riproporziona tutto.
Mah. Qualche giorno fa mi è tornato in mente un racconto che avevo scritto e di cui mi ero totalmente scordato, si initolava Seduta spiritica e c’era Rimbaud che raccontava robe di sè. Il concetto centrale era una cosa tipo ho vissuto l’infanzia circondato dai borghesi e per disprezzo verso di loro ho scritto poesie, poi ho vissuto la giovinezza circondato dai poeti e per disprezzo verso di loro ho venduto armi.
Questo ovviamente non c’entra niente con me. Quando ho smesso di scrivere non è stata una decisione, è stata più una constatazione. Tò, non sto più scrivendo. Chissenefrega. Come una di quelle abitudini che durano una fase della tua vita e che poi non riesci più a mantenere. Come quando invecchiando ti cresce la pancia. I motivi ci sono stati, più di uno. Fondamentalmente ho trovato un lavoro che mi piaceva molto, era una cosa nuova, e mi prendeva tempo. Quando tornavo a casa la sera non avevo voglia di mettermi a fare una cosa che ormai mi interessava meno di quello che facevo durante il giorno per vivere. Siccome sono sempre stato un edonista la mia natura edonista ha scelto il lavoro.
Per essere precisi non ho nemmeno deciso di non pubblicare più, ho solo smesso di sforzarmi di continuare a scrivere. Pubblicare lo farei ancora: non ho niente contro il pubblicare, perché è una cosa piacevole: la gente ti fa dei complimenti, oppure comunque parla di quello che hai scritto, ed è sempre una cosa gratificante (non scordiamoci che io sono un edonista). Tanto è vero che è uscito Sinapsi. Matteo B Bianchi mi ha chiamato e mi ha detto: ci stai per una cosa? Io: non dovrò mica scrivere qualcosa, vero? Lui: No. Io: Allora ok.
Sulla pericolosità della mia condizione prepostuma: quello che è certo è che non ho eroicamente rinunciato a una fonte di reddito che mi avrebbe consentito di scrivere e basta per il resto dei miei giorni. Fosse stato così ci sarebbe forse di che vantarsi.
Ma io ho solo rinunciato coraggiosamente a non avere i soldi per l’affitto, a non avere tempo libero,
ho rinunciato a sbattermi per collaborare gratis con questo e con quello, ho evitato di costruire una rete di relazioni utili (trad. leccare il culo) che mi consentisse di poter collaborare sempre gratis con quello e quell’altro ancora, ho audacemente svicolato l’invito a collaborare gratis con varie riviste e associazioni, ho piantato di leggere solo narrativa contemporanea per sapere che succedeva nel giro e avere qualcosa di cui parlare per entrare in contatto con quegli altri che mi avrebbero permesso di scrivere sempre gratis qua e là, e poi l’ho smessa di andare a Milano, di andare a Torino, di essere socievole con quelli mi avrebbero potuto procurare altre collaborazioni precarie per fare un lavoro che siccome non è un lavoro è arbitrariamente soggetto all’andamento delle relazioni umane. Le relazioni umane per me sono più faticose che lavorare. E io, mi spiace, sono un edonista. E’ come il kite surf, impari, fai fatica, è una figata, ti sollevi da terra, voli per duecento metri. Ma se l’intenzione è quella di arrivare in Sardegna è più realistico prendere un traghetto.

effeffe Nella tua scrittura accade però qualcosa di simile all’invenzione di un concetto in filosofia, sinapsi come critica, cogito, rizoma, oltreuomo. Ho come l’impressione che tutta la tua scrittura finora sia permeata da questa ricerca della verità, sia che passi per delle ossessioni, dei tic, dei balbettamenti sia attraverso una vera e propria visione del mondo. E ti avventuri nel mondo delle relazioni con la stessa attenzione al minimo, di un un entomologo, ora una formichina, ora un coleottero rarissimo, uno scarafone. Come se non te ne fregasse un cazzo della “normalizzazione” dello sguardo, della “mise à feu”. Anzi, direi che la tua scrittura (e la lingua che l’anima) rifugge lo standard, lo stravolge, lo fa balbettare, ed è per questo che ti considero tra i migliori scrittori che ci siano in giro. Per la tua matrice edonista lasciami però ripeterti quello che mi disse Louis Sclavis, grande jazzista francese, qualche tempo fa: ” Non capisco chi deve farsi pregare per salire sul palco per suonare. La gioia, il piacere la felicità che ti da il suonare dovrebbe bastarti a farti andare, ad accettare. “Ecco a me sembra che la scrittura sia per te come la musica per Louis, insomma qualcosa di giubilatorio.
emmegi Um, mah, nel mio manuale di statistica dell’università c’era scritto: lo stile non è altro che uno scarto dalla media, qualcosa del genere. Secondo me uno scrive in un certo modo perché è capace a scrivere così e non come invece vorrebbe essere capace. D’altra parte se tutti sapessimo scrivere come vorremmo scrivere mi sa che tutta la narrativa sarebbe illeggibile.
Io non credo di essere mai stato granché come scrittore. Sono partito da una fase in cui ero decisamente incapace però mi venivano delle idee divertenti. Poi ho raggiunto una fase in cui avevo più o meno capito come scrivere alcune cose a un livello accettabile, però non avevo più idee.
Nel modo in cui scrivevo c’era di sicuro la cosa che ho fatto sempre studi che non avevano niente a che fare con la letteratura: ragioneria e poi economia e commercio. E che ho sempre evitato di studiare letteratura, anche da autodidatta. Non era una cosa che mi interessasse molto, cioè, non mi interessava imparare un ordine, o uno schema, o una mappa che guidasse quello che dovevo leggere.
Economia e commercio è una facoltà molto varia: si studiano matematica, economia, diritto, psicologia, sociologia, marketing, storia. Si imparano un sacco di gerghi tecnici. Un sacco di punti di vista e un sacco di sistemi di pensiero, un sacco di idee. A ragioneria ad esempio ai miei tempi si imparava dattilografia, e allora quando poi ti ritrovavi La ragazza Carla la leggevi in tutt’altro modo.
L’entomologo, certo, una volta ho scritto un coso in cui un bambino viene allevato dalle formiche, e loro lo usano come una specie di trattore immenso per spostare la roba pesante. E lui pensa di essere una formica. Poi è uscita la gabbianella e il gatto e non sembrava più così originale.
Quando ho cominciato a scrivere tra i modelli avevo soprattuto Vonnegut, e quindi l’idea centrale era sempre una cosa, come dire, spiegare gli umani agli alieni, o viceversa. Il relativismo cosmico, insomma. Lo spostamento dell’umano dal centro della scena (noi provinciali dell’orsa minore). Una volta ho scritto un racconto con un titolo orrendo: Disantropocentrismo. Non ricordo di che parlava (forse Marco Drago se lo ricorda), ma il concetto era quello non empatizzare mai con il genere umano, soprattutto con le sovrastrutture di cui l’umanità andava più orgogliosa: le patrie, le religioni, le squadre di calcio, le letterature. Molte cose che ho scritto all’inizio erano così: ignora gli umani. Credo che la cosa sia stata potenziata notevolmente anche dalla mia mancanza di senso ideologico, dall’alienazione a qualunque sistema di impegno, dall’orticaria per robe tipo il messaggio, o la morale della favola.
Il piacere della scrittura, ovvio che è un piacere, siamo tutti qua perché ci piace scrivere, e nessuno di solito ci deve chiedere di scrivere per farci scrivere. Ho scritto per anni, un sacco di roba. Ho cominciato a scrivere senza nemmeno pensare di poter essere pubblicato, mi piaceva scrivere e far leggere le cose così, porta a porta, consegnandole a mano. Voglio dire, lo so che è bello, io sono un edonista.
Poi mi hanno pubblicato pressoché subito e quindi ho avuto anche la fortuna di non dover maturare nessuna sindrome paranoica da incomprensione. Anzi, a quanto pare sono stato capito anche al di là di quanto non ci avessi capito io.
Però non ho mai pensato che la scrittura sarebbe bastata a rendere la mia vita sufficiente, tutto lì. La vita è un’altra cosa, sta su un piano diverso, per me la vita comincia a essere sufficiente quando riesci a pagare l’affitto di un bilocale, quando vai a vivere con la tua ragazza, quando si va ad amsterdam.
Forse il problema è stato questo: che non sono mai riuscito ad restringere il tempo della scrittura nel tempo che mi rimaneva. E’ un po’ come quando devi pisciare, non è che puoi dire vabè, piscio per dieci secondi e il resto lo faccio la prossima volta. Quando inizi a pisciare è doloroso smettere. Insomma, non sono uno che ha dieci minuti liberi e si mette a scrivere. Se avessi dieci minuti liberi e pensassi di usarli per scrivere qualcosa , ecco, dopo dieci minuti sarei lì davanti al monitor senza aver scritto ancora niente, in compenso per tutto il resto della giornata continuerei a pensare a cosa potrei scrivere e a come dovrei scriverlo, facendo tutte le prove mentali con i pupazzetti mentali e le loro vocette. Poi arriverei alla sera senza aver scritto ancora niente ma troppo stanco per scriverlo davvero. La mattina dopo mi sarei scordato tutto.
effeffe Ti ho conosciuto qualche anno fa a Genova come fotografo con Fabrizio Venerandi e Donald Datti. Quando ci siamo rivisti, sempre a Genova ero insieme ad Enrico Remmert ed è stato lui a dirmi: è il migliore scrittore della nostra generazione. Solo in un secondo momento ho realizzato che l’autore del testo più bello dell’antologia dei Cannibali avesse la tua faccia. Mi interessava allora capire, e far capire, spiegare ai marziani. il tuo rapporto con la fotografia. Ho come l’impressione che la tua camera oscura tu l’abbia allestita nel tuo vecchio atelier di scrittore. Le tue immagini sembrano il prodotto della stessa matrice narrativa dei tuoi racconti. Sembri una zingara, di quelle che ti prendono la mano e ti dicono cos’è stato, della vita. I tuoi ritratti dicono sempre qualcosa di nuovo ai fortunati soggetti. Come fai a “prenderci” sempre?
emmegi Eh sì mo’ pure con foto… No, i fotografi sono cose serie, davvero. Io sono solo uno dei tanti che ora può fare moltissime foto a costo zero grazie al digitale. I fotografi le foto le sanno fare, in qualche modo la foto esiste già nella loro testa prima ancora di esistere sulla pellicola. E’ gente che sa far uscire dalla macchina e dalla scena e dal soggetto una certa immagine.
Io di fotografia non so niente. So solo che schiacciando il tasto dentro la macchina rimane una roba che figurativamente non riesco bene a prevedere (parte del piacere è proprio la sorpresa). Schiacciando il tasto milioni di volte statisticamente qualche foto bella viene a tutti. E io faccio così: schiaccio il tasto milioni di volte. E’ un approccio autistico che in informatica si chiama di forza bruta. Anche nell’era della pellicola facevo foto, ma ovviamente molte meno, che ne so, due rullini da 36 in dieci giorni? Ora in dieci giorni faccio 5000 foto. Ne faccio talmente tante che se le si guarda una dietro l’altra velocemente spesso viene fuori una specie di filmato a scatti.
Non ci vedo grossi legami con la scrittura. Fare foto è meno faticoso di scrivere. Scrivere è una roba che comunque implica l’esistenza di un altro essere umano che è il lettore. E’ come avere in casa qualcuno che devi ospitare e intrattenere, fargli vedere la città, portarlo a mangiare. Le foto invece io le faccio sostanzialmente per me. Non vuol dire che siano immagini ermetiche e incomprensibili, alla fine sono foto banali, ma non sono concepite come comunicazione. Forse sono un ausilio alla memoria, o forse boh. Sono una cosa che mi piace fare e riguardare. Poi certo, le metto su flickr, mi fa piacere che anche qualcunaltro le guardi (e a me fa piacere guardare le foto degli altri) ma, ecco, mentre non avrebbe senso per me scrivere una cosa se sapessi che non la leggerà mai nessuno, mi sta benissimo fare foto che guarderò solo io.
Se vai su flickr vedi che il 96% delle foto che faccio non contiene esseri umani. Io tendo a escluderli dall’immagine perché è raro che io li trovi in armonia con lo sfondo. Li ho sempre considerati una specie di inquinamento visivo. Ecco, se uno vede la maggior parte delle mie foto si potrebbe dire che sono sfondi senza soggetto. Sono per lo più scorci urbani senza persone. Posti che mi rilassano, piazzette. Zone pedonali vuote soprattutto. Scalinate. Zone che fanno venire voglia di camminarci dentro. Prati. Cose così. Non fotografo felicemente esseri umani, anche se ultimamente mi sto lentamente avvicinando ai viventi. Ma ancora mi frenano le implicazioni del fotografare una persona, in qualche modo mi sento sempre colpevole. Dovrei fotografare di nascosto. Allora la cosa migliore sono le presentazioni e le letture: lì fotografo quelli che parlano e il pubblico di sbieco. Però sono foto difficili: di solito si è sempre in ambienti bui, e poi gli scrittori si agitano parlando, e io non voglio mai usare il flash e così vengono sempre mosse.
Studenti, avanti!

Un avvenire per le umanità
Intervista a Yves Citton
di
Isabella Mattazzi
pubblicata sul n°20-Giugno- Alfabeta2
Figura di spicco nel panorama culturale europeo, Yves Citton è il teorico della letteratura che più oggi in Francia si è interessato a una radicale revisione del concetto di “sapere” e delle sue diverse articolazioni. Filosofo politico oltre che Professore di Letteratura francese del XVIII secolo e ricercatore del CNRS, Citton sembra porsi nei suoi ultimi libri il problema di un sistema di studi letterari che possa in qualche modo fare da modello a una “società ermeneutica” in cui autonomia critica del soggetto e necessità di un tessuto relazionale, dialogico possano trovare nuovi spazi di mediazione. In occasione dell’uscita del suo Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (:duepunti, pp.220, 20 euro), ho chiesto a Yves Citton di parlarci di alcuni tra gli snodi più significativi del suo discorso.
I.M. Vorrei iniziare sottolineando come il titolo originale del tuo libro sia L’Avenir des Humanités. Nella traduzione italiana, purtroppo, non è stato possibile mantenere il valore polisemico della parola “Humanités” – che in francese può riferirsi tanto alle “Discipline umanistiche” quanto a un’ipotetica declinazione plurale del termine “Umanità” – su cui mi sembra ruotare, di fatto, la costruzione di tutto il testo.
Y.C. In effetti la tesi principale del mio libro non consiste altro che nella coniugazione di due realtà estremamente lontane tra loro, rappresentate linguisticamente da un unico termine. Da una parte l’Umanità, ovvero l’insieme degli individui che si riconoscono come appartenenti alla specie umana. Dall’altra un campo di discipline – gli Studi umanistici – dall’estensione e dalla definizione abbastanza problematica. Ovviamente in francese, come in italiano credo, l’umanità si declina sempre al singolare. Per la vulgata comune l’umanità è una, è sempre stata una, e in futuro non ce ne sarà che una e una sola. Utilizzare il termine Umanità (Humanités) al plurale ha quindi per me un preciso valore programmatico.
Nei suoi scritti Édouard Glissant parla di due grandi direttrici che coesistono e si oppongono all’interno della nostra società contemporanea: la tendenza alla standardizzazione (usiamo tutti lo stesso tipo di telefono, lo stesso tipo di macchina in tutto il mondo) e la sua spinta contraria, ovvero quella che lui chiama la “creolizzazione”, quel contatto tra le culture che si nutre delle loro differenze, preservandole, esacerbandole addirittura per far sì che nasca, da questo scontro, l’imprevedibile. Ogni dinamica di creolizzazione, secondo Glissant, riposa sul concetto di una necessaria pluralità delle culture umane, sul fatto che l’umanità appunto non sia una, ma che si presenti come un’umanità complessa, “molteplice”. Interrogarsi sull’avvenire delle Humanités, significa quindi istituire un elemento di comunanza tra un insieme di “umanità” articolate nella pluralità composita dei loro mondi e un insieme di discipline caratterizzate da una particolare attività intellettiva che potremmo definire interpretazione. Ogni uomo, a ben guardare, è un interprete. Tutti gli esseri umani “interpretano” nel momento in cui cercano di dare un senso agli avvenimenti che accadono intorno a loro. Chi si dedica agli studi umanistici non fa altro quindi che riflettere su un’attività comune all’intera specie umana. Attraverso l’interpretazione di un testo letterario o di una serie di dati storici, le discipline umanistiche ripetono e affinano gesti fondativi e caratteristici di quella che risulta come la componente più radicale della nostra identità.
Tu ti occupi nei tuoi studi di teoria della letteratura e in Università insegni Letteratura francese del XVIII secolo; il tuo modello di discorso, all’interno della costellazione denominata “Studi umanistici”, sembrerebbe quindi essere orientato verso l’esperienza letteraria come mezzo privilegiato di approccio critico. Nel tuo libro, però, più che di letteratura in quanto tale, tu parli di pratiche discorsive “indisciplinari”, che a tuo avviso sarebbero da porre alla base del lavoro interpretativo.
La teorizzazione del concetto di “indisciplina” deriva da una mia forte insoddisfazione verso la rigida suddivisione settoriale delle pratiche di insegnamento, e nello stesso tempo da un’insoddisfazione altrettanto forte verso il tentativo di superare questa suddivisione attraverso l’interdisciplinarietà, pratica tanto amata dalle nostre istituzioni accademiche. Da una parte, io non credo affatto alla necessità di barriere rigide tra le discipline; i cineasti che amo di più in assoluto sono tutti imbevuti, intrisi di cultura letteraria. Personalmente, ho scoperto Pavese attraverso i film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Dall’altra, però, trovo che l’interdisciplinarità da sola sia del tutto insufficiente per superare il pericolo di una incomunicabilità istituzionale tra i diversi ambiti del sapere. L’interdisciplinarità funziona in modo del tutto orizzontale: un esperto di cinema, un esperto di letteratura guardano un oggetto comune e la cosa finisce lì. Il concetto di indisciplina richiede invece un’interazione essenzialmente verticale. Mi spiego meglio. Nel mio approccio a un testo, io non parlo solo in quanto “esperto di materie letterarie”, ma in quanto “essere umano” che cerca di far valere la propria conoscenza tecnica della teoria letteraria nella sua articolazione con tutte le altre dimensioni della vita sociale. Naturalmente io sono un professore di letteratura, ma nello stesso tempo sono anche un elettore, un contribuente, un vicino di casa, un padre, un figlio… La caratteristica principale degli Studi umanistici è la loro strutturale spinta a far interagire i nostri saperi specialistici con la complessità della vita. Un romanzo non ci chiede solo di interrogarci su come è organizzata la sua forma o su che cosa fa o non fa il suo valore letterario, ma anche e soprattutto su che cosa significa vivere una vita “propriamente umana”, su che cosa è l’amore, su che cosa sono la colpa, la Storia… L’indisciplina consiste appunto nell’essere coscienti di tutto questo, nel far sì che non ci si accontenti di proporre ai nostri studenti un metodo di studio o di ricerca, ma che si cerchi di porre loro domande sull’utilizzo di questo stesso metodo nell’integrazione dei differenti aspetti della nostra vita.
Ma è possibile inquadrare l’indisciplina di cui tu parli in un modello istituzionale che sia capace di rendere pienamente l’articolazione complessa di questi scambi?
A livello di insegnamento universitario, direi che la sfida, oggi come oggi, è quella di riuscire a dare agli studenti un “gusto” per le discipline. Ogni disciplina, ogni ambito del sapere utilizza diverse “cassette per gli attrezzi”, metodi che sono stati formalizzati al suo esterno; questi metodi devono venire acquisiti dagli studenti semplicemente attraverso la pratica, nello stesso modo in cui possiamo comprare una cassetta per gli attrezzi, ma questa diventa davvero “nostra” soltanto quando iniziamo a utilizzarla. Nell’Università contemporanea perdiamo una grande quantità di tempo a fornire conoscenze piuttosto che a praticare o esercitare competenze. Oggi l’accesso alle informazioni è molto più libero rispetto a venti o a trent’anni fa. Il ruolo di un professore universitario non è più quello di fornire conoscenze (per questo bastano i libri o Internet), quanto piuttosto quello di mostrare agli studenti la propria ricerca nell’atto del suo stesso farsi. Guardare un ricercatore al lavoro, ci fa arrivare direttamente al cuore della sua disciplina. Nella mia Università ideale tutti gli allievi dovrebbero stare a stretto contatto con chi fa ricerca e discutere con i ricercatori dei problemi molto specifici, molto concreti della loro attività. Gli studenti, più che imparare qualcosa di “già dato”, dovrebbero guardare, appropriarsi dei gesti, delle posture di chi pratica il sapere, dovrebbero frugare nella sua cassetta per gli attrezzi per poi a loro volta iniziare a lavorare con la propria.

A quanto mi sembra di capire, l’interpretazione è una pratica che di fatto pone tutti gli interpreti su uno stesso piano – presupponendo quindi una certa forma di “uguaglianza” – ma nello stesso tempo è una pratica che deve essere insegnata e che ha quindi bisogno di un certo “disequilibrio” all’interno della coppia pedagogica professore-studente.
Sulla questione dell’uguaglianza la prima cosa da dire è che un’interpretazione è interessante nella misura in cui ci permette di sviluppare intuizioni riguardo a un testo, un film, ma soprattutto riguardo alla vita stessa. A priori, le intuizioni di uno studente di sedici anni valgono tanto quanto le mie; anzi, le sue valgono forse anche di più perché la dinamica del presente in cui è immerso risulta con ogni evidenza più “viva” della mia (i suoi neuroni vanno più velocemente dei miei, si confronta con argomenti e problematiche distanti almeno trent’anni dalle mie…). Il futuro sta chiaramente dalla sua parte, in lui il testo è più “vivo”, ovvero ha più possibilità di vivere, letteralmente, perché l’aspettativa di vita di uno studente di sedici anni è circa di sessant’anni, mentre la mia di trenta. Detto questo, perché allora sento il dovere di tenere dei corsi? Perché insegno in università? Perché io posso aiutare questo studente a raffinare, a esprimere, ad approfondire le sue intuizioni (forse più ricche delle mie), mostrandogli come funziona la mia personale cassetta per gli attrezzi. Ed è qui allora che sta la diseguaglianza tra noi, nel disavanzo di abilità tecnica che intercorre tra me e un qualsiasi studente di sedici anni. Esattamente come un artigiano che ha passato quarant’anni anni della sua vita a fare cappelli, io nel tempo ho sviluppato delle competenze che mi permettono di fare del mio cappello, del mio testo, una cosa interessante. Il “sapere artigiano”, la gestualità che io ho imparato tanti anni fa, per imitazione, da Michel Butor e da Michel Jeanneret a Ginevra, è la stessa gestualità che io adesso metto in atto di fronte ai miei studenti, affinché loro domani siano in grado realizzare da soli i propri cappelli.
L’interpretazione, però, da quanto tu scrivi, non è affatto una pratica da chiudere all’interno di un’aula o di una biblioteca, ma è una pratica sociale e civile, in una parola “politica”.
Certamente, la cultura dell’interpretazione di fatto porta con sé un modello alternativo di organizzazione economica. Prendiamo ad esempio il concetto di “sfruttamento”. Per il marxismo classico il termine “sfruttamento” è sempre rivolto al lavoro produttivo. Oggi come oggi lo sfruttamento invece sembra vivere sulla circolazione degli “affetti sociali” almeno quanto sull’estorsione del plusvalore imposta ai produttori: i commercianti di macchine, di film, di cioccolato, di viaggi organizzati, sfruttano la mia capacità di desiderare per ricavare profitto dai miei comportamenti di consumatore, almeno tanto quanto ricavano profitto dal mio lavoro di produttore.
Questa nuova forma di sfruttamento non poggia direttamente sul lavoro produttivo, ma in senso più largo sulla nostra capacità di attenzione. L’esempio emblematico della nostra società non è più l’operaio, ma il telespettatore; la cosa che viene sfruttata oggi non è la mia forza lavoro, ma la mia attenzione, che a sua volta va a orientare la mia capacità di desiderare.
Nei casi più frequenti, il nostro sfruttamento in quanto telespettatori avviene sempre con il nostro consenso; io sono quasi sempre complice del mio sfruttamento culturale. Ed è proprio su questo punto, allora, che la riflessione sulle culture dell’interpretazione può rivelarsi preziosa. Ciò che sperimentiamo e affiniamo quando interpretiamo un testo o un film, è l’“autonomia” della nostra capacità di attenzione (ognuno di noi è sensibile a elementi differenti di un testo) e nello stesso tempo la necessità di un’appropriazione di questa stessa capacità da parte dei diversi dispositivi di captazione che ci circondano (la forza di un testo si definisce dall’ascendente che questo esercita su chi lo legge).
Il principale merito delle culture dell’interpretazione è allora quello di “rendere autonoma” l’attenzione di coloro che vi prendono parte, e questa credo sia una delle risorse più importanti, forse l’unica veramente valida, che abbiamo oggi per lottare contro qualsiasi forma di sfruttamento.
De mortuis nihil nisi bene
di Franco Arminio
Una buona politica comincia da una buona lingua, una lingua semplice, dolce, incantata. Non si sente questa lingua nella politica italiana. Si sentono frasi opache, generiche, senza carne, le frasi di una politica tesa a conservare un potere che non ha o a prendere un potere che non c’è.
Le prossime elezioni rischiano di diventare un gigantesco processo alla casta, un processo che porterà molte facce nuove in parlamento ma poche novità nei meccanismi profondi che muovono la società.
video arte #2 – francesco vezzoli
Francesco Vezzoli, Trailer for a Remake of Gore Vidal’s Caligula, 2005.
Due letture del decennio sicuritario (Fassin e Matelly Mouhanna)
Di Andrea Inglese e Simone Morgagni
L’ossessione per la sicurezza in Francia non data certo della presidenza Sarkozy e nemmeno della sua zelante attività di ministro degli Interni all’epoca della presidenza Chirac, ma è senz’altro durante il decennio appena trascorso che il paese è diventato un vero e proprio laboratorio “sicuritario”. Sul piano della propaganda politica, l’enfasi sul tema della sicurezza ha permesso a Sarkozy non solo di strappare voti all’elettorato di estrema destra, ma anche di accentuare il proprio vantaggio sui socialisti.
TU, SE SAI DIRE, DILLO (incontri allo Spazio Ostrakon Milano)
a cura di Biagio Cepollaro
Tre incontri nel dire
tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno. Giuliano Mesa
A quasi un anno dalla scomparsa del poeta Giuliano Mesa (Salvaterra, 1957-Pozzuoli, 2011), lo Spazio Ostrakon di Milano intitola la sua prima edizione di Tu, se sai dire, dillo con un verso dell’autore del Tiresia. Tu, se sai dire, dillo: la poesia è sia un talento coltivato, come qualsiasi altra arte, sia una necessità. Nel tempo della povertà, come direbbe Hölderlin, talento e necessità reali scarseggiano a fronte della facilità con cui spuntano i facitori di versi. Ostrakon prova ad offrire uno spazio adeguato all’arte della parola poetica avvicinando in tre incontri autori molto diversi tra loro per generazione e formazione ma accomunati dalla sicurezza e dalla forza dello stile.
FIGLI DEI BAUSTELLE
guida supercompressa al pop indipendente italiano a cura di Enrico Veronese
Tagliare subito la testa al topic è uno sporco lavoro ma lo devo pur fare, un indizio “severo ma giusto” di ciò che aspetta nelle prossime righe. Checché possa apparire cool per simpatia o malcompresa sovraesposizione, la musica indipendente italiana è uno stagno profondissimo verso il basso e piuttosto chiuso verso l’alto, poco comunicato e meno ancora cittadino dell’immaginario collettivo, rispetto ai Paesi anglofoni dove il rock e i suoi derivati hanno una tradizione consolidata oppure hanno goduto -Belgio, Islanda, Svezia- di sostegni pubblici e privati. Eppure, senza cercare manco troppo fra le pieghe, in tale esiguo contesto continua ad annoverarsi la speranza verso l’innovazione e la rigenerazione di un patrimonio che sta a cuore a chiunque canti sotto la doccia, in auto, nelle dediche sentimentali o negli inni social-popolari gridati assieme agli Zen Circus. Nelle ultime settimane, 15mila persone in due giorni hanno scaricato “Con due deca”, compilation di tributo agli 883, inopinata fonte (o ascendenza proibita) per non pochi degli attuali sbarbi sugli specchi, portati alla ribalta generale oltre il confine del proprio subgenere: ripartiamo da qui, per un’esposizione che da subito non vuol essere esaustiva delle forze sul campo. Anche se è palese come il 2007, anno di flesso verso un mezzo Eldorado collettivo allora considerato possibile, sia ormai lontano cinque anni. Luce.
È in edicola e in libreria il nuovo numero di “alfabeta2”
Il territorio, spiega il dizionario, è «una estensione definita di terreno»: descrizione tanto ampia che risulta difficile (appunto) perimetrarla, soprattutto in questa fase della nostra storia, così sdrucciolevole dopo anni di – molto apparente – stabilità. Ci prova il numero 20 di «alfabeta2», in arrivo domani nelle edicole e nelle librerie, con una serie di «nodi» tematici che prendono in esame alcuni esempi concreti (come la No Tav o l’Aquila del dopo terremoto), gli spazi urbani analizzati nel loro complesso (ne scrivono Marc Augé, Vittorio Gregotti, David Harvey) e infine il confronto teorico fra dimensione locale e dimensione globale, su cui riflettono, in due interventi assai diversi fra loro, Franco Piperno e Aldo Bonomi. Tra gli altri temi affrontati dalla rivista, che include anche un corposo speciale dedicato alla tredicesima edizione di «dOCUMENTA», la Francia all’indomani del voto e le nuove declinazioni dell’idea di cura.





















