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Il Processo: Oscurare e Riproporre

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di Mattia Paganelli

 

Alcune domande a proposito dal lavoro di Rossella Biscotti “Il Processo” (2010-2012), installazione sonora che presenta le registrazioni originali dei verbali del processo del 7 Aprile, esibita a Documenta 13 quest’estate. http://d13.documenta.de/#participants/participants/rossella-biscotti/

http://www.rossellabiscotti.com/ctr/site/news.php

Perché gli artisti italiani hanno bisogno di ricordare gli anni 70? E soprattutto perché hanno bisogno di farlo adesso? Tocca all’arte riconsiderare la storia d’Italia che il paese e la cultura ufficiale (o il discorso dell’informazione) hanno dimenticato o messo a tacere per un certo periodo? Tocca all’arte farsi carico di discutere quello che il discorso ufficiale della storia/politica non affronta? La responsabilità della cultura è anche questa, ma quello che mi incuriosisce è lo squilibrio tra l’assenza di questo dibattito in ambiti non culturali, diciamo quotidiani (informazione/media), e la sua migrazione nell’arte.

Dove sono le cose selvagge

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 di Francesca Matteoni

 

C’è un paese dove i libri si aprono e fanno magie. Gli adulti si svestono della loro adultità, i bambini si conoscono tutti per nome. Max, Mickey, Ida, Maurice Sendak, il loro creatore. Le magie non sono buone né cattive. Devi crederci. Indossare il tuo costume di lupo, nuotare nel bricco del latte, suonare nel corno incantato. La tua stanza è ovunque e la Via Lattea un’enorme bottiglia di vetro, colma fino all’orlo. Ci sono viaggi sul vento e per mare. I genitori sono perduti, distratti, addormentati. I bambini si svegliano, non si perdono in pianti e paure. Vanno alla scoperta, alla ricerca.

La smorfia di Gwynplaine

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Antonio Gramsci

Ogni volta che la politica manda a effetto una operazione contro la classe operaia, i primi a gioirne o, “meglio”, i primi a dare manifestazioni esteriori della loro contentezza non sono i “pezzi grossi”, commissari di polizia od ufficiali delle regie guardie o dei carabinieri, ma sono i più umili agenti, i più modesti carabinieri, l’ultima delle guardie regie. Sono cioè gli agenti del governo usciti dalle file del proletariato più arretrato, costretti a questo passo dalla miseria o dalla speranza di trovare, abbandonando il campo o l’officina, una vita migliore, dalla persuasione di divenire qualche cosa di più di un povero contadino relegato in un paesetto sperduto fra i monti, di un manovale abbruttito dal quotidiano lavoro d’officina.

Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate – Una lezione di Peter Brook

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di Giuseppe Zucco

[un reportage teatrale scritto qualche anno fa, ma che ancora conserva istruzioni del tutto attuali]

Di Peter Brook, fino a un paio di settimane fa, non ne sapevo molto. Conoscevo il nome, che era un regista teatrale di fama mondiale, che l’ammirazione e gli applausi non finivano di fioccare dalle sue parti – insomma, è prevedibile che se non vai a vedere con i tuoi occhi, quello che ti arriva addosso è puro marketing e personaggi costruiti ad arte e l’incenso dei comunicati stampa. Così, sono andato a sentire una sua lezione al Piccolo Teatro Studio di Milano.

Arrivo che è già pieno. I posti migliori sono tutti occupati. Gli estimatori tubano, e sussurrano, e ondeggiano, e si dispongono senza creare disordine. Il caldo in sala ha una strana connessione con la loro temperatura emotiva. Non puoi evitare di leggere la parola Maestro sulle loro labbra. Poi, arriva Peter Brook. Se non l’hai mai visto, ti sorprendi a osservare il vecchietto che cammina in mezzo agli applausi, very british nella fisionomia e nel portamento, ma a ottantanni suonati con jeans, sneakers e il giubbotto di pelle nera. Sembra Fonzie, da grande: quando ha perso capelli ciuffo brillantina, e la vita gli ha già regalato tutto, ed è un portatore sano di esperienza. Si siede su una sedia da regista. E sta esattamente al centro della nostra attenzione.

Alla sua sinistra: un uomo con il maglioncino dolcevita da intellettuale anni sessanta più scarpe di vernice nera che brillano mentre fa domande lunghissime a Brook, alcune davvero imbarazzanti, tipo quella sull’apporto dato dagli attori neri al suo teatro. Alla sua destra: la traduttrice, capelli lunghi e stivali, che di tanto in tanto, invece di tradurre quello che sente, sorride e annuisce – come se Peter Brook si rivolgesse direttamente a lei, ignorando la platea – e mentre annuisce e sorride, interpreta, ma delle volte interpreta male e si scusa, torna sui propri passi, e riporta le parole per quello che sono, con il loro significato preciso e nulla più. Comunque, niente di meglio che avere una traduttrice dalla nostra.

Peter Brook, divertito e completamente a suo agio in mezzo agli estimatori ipnotizzati, avverte che la sua lezione subirà la seguente variazione linguistica: l’italiano per i saluti e l’introduzione, l’inglese per gli argomenti terra terra, il francese per le discussioni intellettuali. Il pubblico ride. Gli stereotipi linguistico-culturali sono sani e salvi perfino qui – ma il modo in cui sono presentati è chiaramente ironico, ed è una cosa del tutto fatata godere degli stereotipi nel momento in cui vengono smagnetizzi dall’ironia iniziale.

Non faccio in tempo a ordinare questo pensiero, che Peter Brook, il suo inglese lento e pacifico, riempiono lo spazio vuoto del teatro. L’attenzione è alle stelle. E neanche le domande lunghissime e para-intellettuali dell’uomo con il maglioncino sembrano rompere l’attenzione. Solo Peter Brook a esporre le sue avventure: per esempio quella africana, dove ogni giorno, lui e la sua troupe, entrano in un villaggio diverso, e senza conoscere la lingua, senza afferrare la cultura, con forme teatrali che giocano principalmente sulla gestualità e sul corpo, tentano di comunicare e condividere esperienza e umanità e altri modi di codificare la vita.

E l’idea di Peter Brook è che per arrivare al cuore delle cose, devi creare il vuoto intorno alle cose, scoprirle nude – come il teatro, che non ha bisogno di scenografie grandiose, e abiti di scena griffati, e macchine spettacolari, ma solo di spazio vuoto e di attori che vivono quello spazio, fino in fondo, con tutto il loro corpo – l’energia del corpo, l’esattezza mimetica del corpo. Ovviamente, è in francese che dice queste cose. Le dice prima di spedirmi in testa una frase che non dimenticherò mai più, Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate.

Incasso il colpo. E rimango in bilico su questo pensiero mentre qualcuno chiede qualcosa sul teatro cinese e su come diventare registi – domanda che non ha altra risposta se non: più ci date dentro con la regia, più imparate. Le mode, i maestri, roba con la data di scadenza. Il pubblico in trance. Silenzio e concentrazione che dura fino a quando Peter Brook non si alza, e corre a dirigere le prove prima dello spettacolo, e gli estimatori con la parola Maestro tra i denti e le mani rosse di applausi riaccendono i telefonini.

 *** 

Ok! La teoria è andata. Non resta che misurarsi con la pratica. Così, la settimana dopo la lezione, sono di nuovo al Piccolo Teatro Studio per uno spettacolo diretto da Peter Brook. La pièce che vedo si chiama Sizwe Banzi est mort. È in francese. I sottotitoli che si illuminano di bianco sul nero del display sono lì a proteggere e vegliare su i non-francofoni.

Sono seduto a terra, su un cuscino. In mezzo agli altri, riesco appena a incrociare le gambe. Molti sembrano fare yoga, e si contorcono parecchio, anche se ignoro del tutto i nomi delle posizioni che assumono. I beati stanno sulle gradinate, il loro sguardo è fisso nel nulla. Sto per spegnere il cellulare quando, cordiale e pre-registrata, una voce femminile ci intima in un italiano elegante di fare fuori cellulari e tecnologie varie. La pièce, così, ha inizio. Le luci si abbassano, e la storia è quella di Styles.

Styles è un uomo nero – il colore della pelle dei protagonisti è fondamentale in questa storia, quel nero non ha nulla di casuale nello svolgimento dei fatti, ma è il segno puro della differenza, e il Sistema di Discriminazione che si ritorce contro Styles ha la fobia dell’umanità nascosta sotto quel colore, e Styles lo impara a sue spese. Styles è un uomo nero che lavora in una fabbrica della Ford, e passa tutto il santo giorno alla Ford, e lì alla Ford capisce fino in fondo la parola vessazione, anche se non ha il vocabolario e l’istruzione è quel poco che è. Ovviamente, vessazione, per noi spettatori, è quasi un eufemismo. Ma Styles, che racconta in prima persona, dipana questa storia con leggerezza e ironia – e tu sei lì a ridere, il pubblico si guarda mentre sganascia risate una dopo l’altra, e c’è di che darsi pacche sulle gambe e premiare con risate esplosive e unisone il racconto di quel povero cristo che si fa un culo così alla Ford, mentre dopo la risata è il rinculo del senso di colpa quello che avverti e – anche se ridi con Styles e non di Styles – hai l’amaro in bocca, e non c’è verso di evitare quella medicina.

Dopotutto, Styles, è uno che sa il fatto suo: alla prima occasione lascia la Ford – con i risparmi di anni alla Ford, compra un negozio da fotografo. E i clienti vanno e vengono, Styles vorrebbe incorniciare i loro sogni nelle fotografie, solo quello, quando un giorno è Robert a varcare la porta del suo negozio. Robert è il secondo protagonista della pièce. La storia di Robert è perfino più drammatica ed emotivamente sgradevole da recepire. Il dramma è racchiuso nel fatto che Robert non è Robert, ma Sizwe Banzi: un uomo di colore, senza documenti, che lavora dove può, si nasconde sempre, perché se lo catturano lo rispediscono in Sudafrica, la sua terra, ritrovandosi per strada a elemosinare centesimi con tutta la sua numerosa famiglia.

Sizwe Banzi è grande, grosso, la disperazione lo incupisce – e una notte va a farsi passare la disperazione in un bar, si ubriaca, e quando esce barcollando l’esigenza insopprimibile lo fa pisciare nel primo angolo, e ubriaco, senza accorgersi, piscia su qualcosa che poi si rivelerà un cadavere, un altro uomo di colore steso a terra, (taglio trama e un personaggio sennò sarebbe lungo). Banzi lo vede, fruga le sue tasche, trova i documenti intestati a questo Robert, e seppure tra mille tormenti e dilemmi interiori e dubbi amletici prende quei documenti, li fa suoi, e l’identità più il nome di Sizwe Banzi spariscono definitivamente quando Sizwe Banzi decide di diventare Robert, un uomo di colore con i documenti.

La tragedia, anche qui, affiora tra le risate, e il rinculo da senso di colpa delle risate è la cosa peggiore in assoluto. Però, lo sforzo da fare è: immaginare come Peter Brook abbia messo in scena questa storia. Styles, Robert, i due attori che prestano carne e ossa ai personaggi, sono immersi in uno spazio completamente spoglio. Nel vuoto del teatro, niente dà l’impressione di una scenografia tradizionale. Solo dei cartoni, due sacchi, un bastone, sgabelli ricavati da cassette, cornici di ferro con due rotelle per farle muovere, una scarpa. Tutto qui. Ma l’assenza, la sparizione del mondo, dura appena pochi secondi. Perchè gli attori con le parole, i gesti precisi quanto affilati, e la maestria con cui dispongono del proprio corpo, rimpolpano velocemente la scena, le danno spessore, la rendono viva e vibrante.

È vuoto intorno, ma è un vuoto particolarmente pieno e caoticamente reale. E noi spettatori, nel deserto della sala, con solo due attori davanti e una scenografia sparita, lavoriamo al pari degli attori, con tutto il nostro corpo. L’immaginazione è su di giri: e ripercorrendo i gesti, le parole, il tono di quelle parole, l’esattezza dei movimenti, ricostruiamo – senza averle mai viste – la fabbrica, la città, le strade e, lì in mezzo, (siamo qui proprio per questo), incontriamo Styles e Robert, e non li molliamo più finché gli applausi non spengono l’immedesimazione.

Di sicuro, c’è qualcosa di capitale in questo modo di fare teatro. La prova, è la forza con cui tutto rimane vivido e ben disposto nella memoria. Provo a capire. E, dal deserto del teatro, emergono due figure. Da una parte, Peter Brook: che prova a raccontarti una storia senza dirti tutto di quella storia – ti dà il tempo, la cadenza degli avvenimenti, ma intanto sottrae lo spazio e la concretezza degli avvenimenti. E dall’altra, lo spettatore: che sulla traccia di quel tempo, mettendo in moto una quantità inverosimile di neuroni, ricostruisce lo spazio di quella storia, e lo vede, ne fa esperienza come se ci vivesse in mezzo, provando direttamente l’orrore di quella storia, tutta la disperazione – il momento culminante della pièce è quando Banzi inciampa nel cadavere, ma quello che i due attori chiamano cadavere in realtà è una scarpa, una scarpa marrone e slacciata, e lo spettatore è in disperato tumulto neuronale mentre ricostruisce da quella scarpa fattezze e orrore di un cadavere steso in mezzo alla strada.

Allora osservo in questo modo di fare teatro una doppia responsabilità: la responsabilità di chi decide di raccontare e orchestrare con rigore quella storia (Peter Brook, gli attori), e la responsabilità di chi deve perfettamente ricostruire lo spazio della storia per avvertirne in pieno il dolore e lo sgomento (gli spettatori). C’è ben poco di passivo in questa forma teatrale: scoprire insieme la realtà, i suoi orrori, è un dovere collettivo, e ciò avviene puntualmente ad ogni replica.

Robe da pazzi

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FERMIAMO LA CONTRORIFORMA PSICHIATRICA

NO al disegno di legge Ciccioli
NO alla riapertura dei manicomi

Il disegno di legge presentato alle Camere dal relatore On. Carlo Ciccioli (PdL) va contro uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione democratica: la garanzia per tutti i cittadini di non poter essere privati della libertà personale senza aver commesso reati.

La riduzione delle garanzie per i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) e l’introduzione di trattamenti sanitari di un anno senza consenso del paziente – misure entrambe previste dalla proposta di legge – costituiscono un abuso anticostituzionale che sostituisce alla cura la custodia, umilia gli operatori che scelgono con passione il lavoro in psichiatria, trasformandoli in soggetti che esercitano il potere della custodia e della coercizione. Ripropone l’universo concentrazionario manicomiale.

Il problema della salute mentale, a detta di una fonte autorevole come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, va affrontato come un processo che punta a produrre guarigione, non patologia. La legge 180, che si vorrebbe abolire per tornare alla mentalità coercitiva della legge 36 del 1904, stabilisce comunque l’eventualità del Trattamento Sanitario Obbligatorio limitandone però la durata a sette giorni, rinnovabili a quattordici. Questo provvedimento viene applicato in maniera diversa nelle diverse regioni e nei diversi servizi. Ci sono Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) affollati, con i pazienti nei corridoi, legati ai lettini, altri quasi spopolati. Questi ultimi indicano buone pratiche psichiatriche, così come l’assenza di coercizioni fisiche e di porte chiuse.

Come mai si ripropone oggi il ricovero coatto a oltranza senza avere nominato una commissione d’inchiesta che visitasse gli SPDC per verificare quanto accade? Perché non si vuole dare ascolto agli operatori di settore, agli esperti, ai terapeuti, ai pazienti, chiamati a confrontarsi ogni giorno con la realtà della malattia mentale? Perché non si parla della mancata applicazione della legge 180 in molte parti d’Italia?

Questo appello è rivolto a tutti i cittadini che credono ancora in una società giusta e solidale, una società che non penalizza le minoranze, in particolare una delle minoranze più fragili: i folli. Sosteniamo l’opposizione alla controriforma Ciccioli in nome della civiltà democratica, di una clinica umana e solidale, di un maggiore coinvolgimento e responsabilità della società tutta nel trattamento dei disordini mentali.

I primi firmatari dell’appello:

Pietro Barbetta
Marco Belpoliti
Stefano Chiodi
Roberto Gilodi
Gabriella Caramore
Luciano Genta
Paola Lenarduzzi
Gianni Biondillo
Valeria Paola Babini
Cristina Donà
Antonio Scurati
Alberto Ghidini
Franco Brevini
Paola Giovanna Garbarini
Barbara Grespi
Federico Ferrari
Gabriele Pedullà
Valle Adriana
Riccardo Panattoni
Michele Capararo
Gianluca Bocchi
Chiara Brambilla
Valeria Gennero
Maria Luisa Agostinelli
Ferdinando Camon
Matteo Magrini
Emanuele Zinato
Luigi De Angelis
Franco Arminio
Maria Bagnis
Beatrice Catini
Maurizio Salvetti
Michele Dantini
Clelia Epis
Marisa Fiumanò
Marcelo Pakman
Claudia Adria Gandolfi
Eduardo Villar
Giulia Zoppi
Luigi Benevelli
Iva Ursini
Eva Banchelli
Enzo Catini
Maria Antonietta Schepisi
Eleonora Canali
Adone Brandalise
Alberto Zicchiero
Roberta Naclerio
Manuela Bertocchi
Pierino Muraro
Paolo Catini
Caterina Azzola
Mariadolores Verrascina
Mario Salvetti
Serena Birolini
Ada Piselli
Anna Barracco
Giulio De Nicola
Giacomo Conserva
Ugo Morelli
Michela Benaglia
Peppe Dell’Acqua
Alessandro Carrera
Giulio Iacoli
Roberto Koch
Dalia Oggero
Giovanni Anceschi
Daniele Giglioli
Manlio Brusatin
Gian Carlo Brioschi
Maria Nadotti
Luca Scarlini
Aldo Nove
Roberto Marone
Frediano Sessi
Annalisa Angelini
Giacomo Giossi
Gianni Canova
Matteo Di Gesù
Marco Martinelli
Ermanna Montanari
Beppe Sebaste
Maurizio Sentieri
Francesca Borrelli
Giancarlo M. G. Scoditti
Wlodek Goldkorn
Luca Sossella
Andrea Mosconi
Vincenzo Ostuni
Enrico Manera
Davide S. Sapienza
Francesca Rigotti
Davide Ferrario
Arturo Mazzarella
Francesco Matarrese
Rä di Martino
Stefania Zuliani
Maurizio Ciampa

Per adesioni all’appello lasciate un commento qui o qui.

Le bianche braccia della signora Sorgedhal

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di Gianni Biondillo

Lars Gustafsson, Le bianche braccia della signora Sorgedhal, 231 pag., Iperborea, trad. Carmen Giorgetti Cima

La signora Sorgedahl “veniva da quella parte della Svizzera dove si parla italiano”, aveva la pelle chiara e i capelli rossi. E il doppio degli anni del gruppo di adolescenti che, nei pomeriggi dopo la scuola, andava a trovarla a casa, per ascoltare musica classica e discutere di filosofia. Moglie di un noioso ingegnere svedese, riempiva l’aria di un profumo misterioso.

Era il 1954 e sarebbe sparita per sempre dalla memoria del mondo se il suo ricordo acuto e doloroso non fosse riapparso come una epifania nella memoria di un ormai vecchio professore di Oxford ad un passo dalla pensione. Di uno, cioè, dei ragazzi di oltre cinquant’anni fa, che oggi, incredulo, viene investito dalla potenza dei ricordi. Di lei, il narratore, s’era completamente dimenticato. Ora, sempre più consapevole della sua vita in discesa, verso un baratro incomprensibile, impossibile da decrittare, il ricordo di quella donna, di quella estate dove un giovane studente oltrepassa la sua linea d’ombra, diventa l’occasione per perdersi fra la reviviscenza della memoria (alcuni passaggi del romanzo sono “maledettamente” proustiani) e la digressione dotta e fantastica di ascendenza borgesiana.

Il Narratore, per quanto personaggio di fantasia, assomiglia, per biografia, al suo autore, Lars Gustafsson, filosofo, matematico, poeta e narratore svedese fra i più tradotti al mondo. Le bianche braccia della signora Sorgedhal è un romanzo anomalo, colmo di tensioni erotiche giovanili e di dolenti riflessioni senili, che cerca di ricostruire il mondo di un uomo raggrumando in un preciso punto del tempo e dello spazio – in un paese della Svezia, in un anno particolare – il significato stesso della sua esistenza. Il tempo non ha senso, tutto accade “contemporaneamente”, filosoficamente ognuno di noi, dice Gustafsson, vive dentro una bolla che non ha esterno. Vive un eterno presente, eternamente, impossibilitato a comprendere mai cosa c’è “dopo”, oltre le rapide del fiume, oltre l’orizzonte.

(pubblicato su Cooperazione n. 17 del 24 aprile 2012)

marcello

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di Alessandra Carnaroli

 

marcello hai fatto

un macello incinta

al nono mese

tua moglie

rotta la testa

bruciata i vestiti

solo resti brandelli

i budelli accovacciati al colon

Sonorità flux

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di Giorgia Romagnoli

Ripara il rubinetto. Per quello che vedo, per quello che sento. La perdita continua. Anche di notte. Che sento, che vedo. Chi può sentire, chi può vedere. Sentirai probabilmente lieve fruscio. Continua a perdere, come quando è iniziato. Stesso ritmo. Scandisce piano, scorre lento. Entra ed esce a intervalli regolari. Chi ascolta può sentire. Finché non sarà riparato.

*

Senti di nuovo. Un altro, si sovrappone. Fruscio più intenso. Foglie, vento, lieve brezza. Intanto continua. Si perde ma perde. Anche di notte. Lieve brezza. Si fa più intenso. Rigira se stesso. Turbine, quasi tempesta. Entra e non esce. Continua e si perde.

*

La lingua sconosciuta. Non compresa. Entra e non esce. Continua, non si perde. S’interrompe. Di notte. Dialogo e somma. Non riesci a capire. Irrompono voci. Tutte insieme. Ti convinci, è una lingua incomprensibile. Non la puoi capire. Non la puoi parlare.

*

O’clock. 24 ore. Costante. Anch’esso scandisce. Di due in due. Il tempo. Mentre perde. E soffia e perde. Lentamente, scorre. Per ora non si ferma. Continua. Ticchettio, lancette. Ritmo binario. Che scorre, che passa, che perde e soffia e scandisce ormai da tempo.

*

Martella, materia. Ora il ritmo cambia. Intervalli. Irregolari stavolta. Lavora, materia, pesante. Si è perso. Non perde ma continua a soffiare. Non lo senti più ora. E’ stato riparato. Ancora qualche alito, poi tutto torna quieto.

*

Traccia audio:

http://espoetries.blogspot.it/2012/04/fluxus-sounds.html

Giorgia Romagnoli nasce a Jesi nel 1995 e vive a Monte San Vito (AN).

Sul web cura il blog:

http://espoetries.blogspot.it/

Il Primus Pilus della guerra eterna

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di Mauro Baldrati


Nell’esercito dell’antica Roma il Primus Pilus – o Primipili – era il centurione Prior, il comandante della prima linea e capo di tutti i centurioni. Era un ufficiale molto rispettato, aveva accesso alle riunioni strategiche coi legati, i tribuni, e la sua parola era tenuta in alta considerazione. Salvo qualche eccezione la sua nomina non era calata dall’alto, o dovuta all’appartenenza alla classe equestre, come regolarmente avveniva nella corrotta Roma, ma conquistata sul campo di battaglia. Il Primus Pilus combatteva coi suoi uomini, e se sopravviveva diventava una sorta di super guerriero che nessuno osava contraddire.

ebook: se i critici si fanno da parte

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La mia impressione è che i critici militanti abbiano paura.
Si rendono conto che la scrittura sta uscendo dal libro, sta agguantando altri media, altre griglie di relazione interna ed esterna all’oggetto libro e – sostanzialmente – loro, i critici, queste nuove modalità del raccontare non le sanno gestire. Non le conoscono, le confondono. E allora si tengono a debita distanza.

Nel momento in cui la critica ufficiale si disinteressa dei libri digitali, o peggio ancora li stigmatizza, chi parla dei miei ebook? Chi prende il posto della critica dei contenuti?

Due figure parlano degli ebook oggi in rete: i lettori (Dio li benedica) e coloro che sono più interessati al contenitore che al contenuto: alla forma dell’ebook, alla sua distribuzione, al suo ruolo di prodotto di mercato.

Fabrizio Venerandi, Quintadicopertina editore.

Del disinteresse della critica per le pubblicazioni digitali ho parlato a lungo con Fabrizio a Mesagne: credo nasca in parte dal disagio informatico (xhtml e programmazione, alfabetizzazione di base) e soprattutto dall’assenza di esperienza letteraria non tradizionale: giochi, sceneggiatura, narrativa non lineare, per fare alcuni esempi.

Leggi l’articolo originale, dove Fabrizio Venerandi non risparmia le stoccate ai nuovi editori digitali.

Gli orsi trentini

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di Giacomo Sartori

La più incazzata è la tipa delle asine

l’orso le ha fatto secche due asine

era molto affezionata

(la capisco

alla mia veneranda età

mi sono invaghito di una tigre

di peluche)

milita per il genocidio degli orsi

Surf-publishing: Marcello Capozzi

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Sciopero a parole
di
Marcello Capozzi

Tempo fa avevo l’incubo ricorrente di finire sotto terra con l’ultimo respiro ancora in gola. Paura che qualcosa nel morire si inceppasse, conservandosi intatto. Qualcosa di risparmiato, di non speso, che restasse lì come una specie di rimasuglio di gas tra i fornelli o il getto d’acqua avanzato dai rubinetti chiusi, prima di abbandonare casa. Temevo di attardarmi in una misteriosa forma cocciuta di permanenza incarnata, inconstatabile dall’esterno. Il sogno mi inscenava all’aperto. Attorno a me c’era gente, di cui percepivo chiaramente la presenza malgrado le palpebre serrate. La mente s’allungava, ma nulla del mio stato di coscienza era comunicabile. Qualcuno ricopriva la bara e la chiudeva con un sigillo. Io venivo cautamente calato giù nel pozzetto rettangolare profondo tre metri. Poi, con ritmica graduale, il solco nel terreno si faceva colmo sopra di me. E per gli altri ridiventava suolo.

Un giorno però mi rimisi a suonare. Riaggiustai i miei strumenti musicali e cominciai a mettere del materiale da parte registrando tracce un po’ alla buona. Nel frattempo, portavo a termine il mio percorso universitario in Filosofia alla Federico II di Napoli e sperimentavo qua e là un po’ di quelle forme contrattuali ricorrenti e bislacche, che anche se dette con un lapsus son sempre vere: tirocini o stage con rimorso spese, contratti a rigetto e a.che.pro., o giù di lì. Generalmente tutte occasioni da perdere.

Ma ciò che ti aliena ed offende può anche ricondurti a te stesso. Come tanti altri ho vissuto e vivo situazioni strane, apparentemente senza ordine. E in fin dei conti, non so neanche bene in che modo giudicare questo nostro tempo. Riesco solo a pensare che ora come ora vale la pena suonare. Una congiuntura economica drammatica come quella attuale lascia osservare nitidamente che se si ha la sensazione, anche solo l’impressione sbagliata, di possedere un talento, non vale la pena lasciarlo inutilizzato in nome di una visione realistica delle opportunità sociali. Nutriamo un sogno concepito in un universo povero? Ma qual è la ricchezza contrapposta? Esiste un mo-do più efficace di tirare a campare, la possibilità concreta di costruire condizioni diverse, un lavoro stabile, una sicurezza di rango superiore? Gli operai sulle gru, gli insegnanti sui tetti, le decine di migliaia di persone che si immolano per forme sempre più pericolose, spettacolari e solitarie, di protesta, rivendicando ciò che hanno già perso, dimostrano che la povertà non sta da una parte soltanto. E non si può più temere di rispondere, utilizzare i propri strumenti espressivi, quelli vecchi, quelli che si erano appunto abbandonati. Una persona che di mestiere fa il cantante mi ha detto che a fare questa vita si rischia di finire male. Io spero in qualche modo di riuscirci. Perché, in fondo, mi viene da dire: come altro è che si finisce?

Per questo motivo mi sono chiuso tre giorni in studio di registrazione per incidere un Ep, intitolato SCIOPERO. Sono stati tre giorni estremamente frenetici e pieni di grandine, a cui ho attribuito una profonda carica simbolica. Tempo e budget erano risicati e sui risultati mi sono dovuto in parte accontentare, facendo anche a meno di ave-re una band. Ma va bene lo stesso: a quanto raccontano, c’è chi in tre giorni si è dedicato ad imprese ben più complesse, come la resurrezione. Ed anche per me è un po’ così. A questo SCIOPERO potete attribuire il colore che preferite, in piena libertà… giallo, rosso, arancione, verde, blu… magari bianco e nero assieme. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ho 28 anni e che da questo evento, con questo gesto, la mia biografia oggi riparte.

Il Peso del Ciao

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Così vai

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera, vedi senti
la voce che s’arazza si sbandiera al corpo che l’aria
semina in correnti con un colpo di pioggia un alito di vento
che assottiglia il muro che da noi separa i baci immaginari

da una terra che la vite ha colto nei filari tra le rocce
ai piedi dei monti che già in strada si vedono le cime
al mare che la tua sovrasta vedi senti Chimera questa voce
che ti sussurra vita mia, cuor mio, come da un tempo prima
di te

video arte #5 – erwin olaf

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Erwin Olaf, Dusk, 2009.

La cassaforte del fascismo

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di Davide Orecchio

Estratto dal diario di D.O., Londra, 25 settembre 1925
Arriva da Parigi, mittente anonimo, l’elenco completo dei finanziatori del fascismo dal 1921 al marzo di quest’anno. Un rendiconto di nomi e cifre: industriali, agrari, massoni, aziende pubbliche e private, bottegai, conti, principi, avvocati, notai, cantieri navali, cartiere, geometri e cavalieri, concerie e saponerie, bottonifici, editori, armatori.

Accanto a ogni nome le lire versate. Trascrivo a caso: Acquedotto di Palermo: 2000 lire, Società italiana per la fabbricazione dell’alluminio: 1000 lire, Banca agricola milanese: 1000 lire, Banca Bergamasca: 10.000 lire, Banca nazionale di Credito: molteplici versamenti da 10.000 fino a 45.000 lire. E tante altre banche, troppe.

Rusconi: 500 lire, Piaggio: 2000 lire, Brioschi: 2000 lire, Armatori Riuniti: 1000 lire, Istituto romano beni stabili: 100.000 lire, Calzaturificio Bernina: 500 lire, Industria bottoni Binda, Milano: 500 lire, Birrerie meridionali: 1500 lire.

E ancora: tutti gli alberghi di Bordighera, Società birra Peroni: quasi 10.000 lire, Montecatini (20.000), Gallarati Scotti, Rubinetterie riunite, Unione concimi chimici, Breda, Kupfer, Società metallurgiche toscane, la Compagnia nazionale di navigazione, Max Bondi, Lorenzo Allievi, Giovanni Agnelli….

Mi fermo qui. Boccata d’aria a Charterhouse Square.

***

L’assassino si nasconde tra le righe
(Scena 40, Whitehaven Mansions, appartamento di Poirot, studio. Orecchio e Poirot seduti sul divano. Poirot legge un documento. Completata la lettura, solleva lo sguardo verso il suo ospite)

P. – E’ interessante. Ma non c’è nulla di illegale, mon ami.
O. – Come può sostenerlo? Sa quante persone hanno ucciso i fascisti negli ultimi sei anni?
P. – Non lo metto in dubbio. Ma il finanziamento è forse proibito dalla legge del suo paese?
O. – (ha un gesto d’impazienza) Che incubo!
P. – Mon ami, si calmi!
O. – Non ci riesco. Non riesco a pensare che ai fascisti.
P. – (sconsolato) Bon.

(Poirot si alza e guarda fuori dalla finestra. Inizia a piovere. Squilla il telefono nello studio di Miss Lemon. Dissolvenza)

 ***

L’assassino si nasconde tra le righe
(Scena 7, Whitehaven Mansions. Poirot, di ritorno al suo appartamento, esce dall’ascensore. Trova l’androne occupato da scatole e mobili. Si fa strada con fastidio a passi brevi, nervosi, sincopati e aiutandosi col bastone. Apre la porta di casa, ma una voce lo ferma prima che entri)

– Mister Poirot!
Oui?
(Poirot si volta. Un uomo sui 40 anni gli si avvicina togliendosi il cappello e porgendogli la mano)
– Permetta che mi presenti. Sono Davide Orecchio, il suo nuovo vicino di casa.
– Ah, bon! Può ripetere il suo nome?
– Orecchio, Davide Orecchio.
– Italiano?
– Appena arrivato da Roma. Un lungo viaggio.
– Due stranieri allo stesso piano. Gli altri inquilini sospetteranno che siamo delle spie!
(Ridono entrambi)
– So che lei è un famoso investigatore. Una celebrità.
– Oh, non esageriamo. (Pausa). Una notorietà meritata, ad ogni modo.
(Ridono di nuovo)
– La inviterei a bere una tazza di tè, ma il mio appartamento è ancora impresentabile.
– Allora lasci che sia io a fare gli onori di casa. Gradirebbe una tisana?
– Molto volentieri.
(Entrano nell’appartamento di Poirot)
– Miss Lemon! Abbiamo ospiti!
(La macchina da presa li segue fino al loro ingresso nello studio, dove Poirot invita l’ospite a sedere sul divano, per poi prendere posto in poltrona)
Bon! Mi racconti del suo paese. Cosa l’ha spinta a lasciarlo?

***

Estratti dal diario di D.O.
30 maggio 1925
Prima settimana da esule. Terminati tutti i libri. Guardo il parco dalla finestra nell’appartamento spoglio. (Spero che i mobili arrivino presto). Ogni tanto esco per una passeggiata e in breve voglia di rincasare. Sveglia non prima di mezzogiorno: si dice sia un sintomo di malinconia. Scoperto che accanto a me vive un investigatore privato. L’ho incrociato un paio di volte sulle scale, ma non ci siamo ancora presentati. Ha lo sguardo intelligente, l’accento francese. Forse dovrei frequentarlo. Potrebbe essere un buon modo per rompere il ghiaccio con la città.

5 giugno 1925

Notizie dall’Italia. Puglisi arrestato. Anche per lui Regina Coeli. L’accusa? Non si sa. Ha parlato col giudice? No. Gli hanno consentito un avvocato? Neppure. L’ultimo numero del giornale requisito. La tipografia chiusa, i macchinari sotto sequestro. Nessuna voce dalla donna che ho sposato, troppo presa dalle biblioteche di Parigi per ricordare che c’è un altro destierro, il mio, sul quale potrebbe malinconicamente versare una lacrima di moglie, almeno una.

14 giugno 1925
Ho conosciuto il detective. Non è francese, è belga. Si chiama Poirot. Adora complimenti e lusinghe. Ma è cordiale, aperto, intelligente. Insomma, una buona notizia.

20 agosto 1925
Distrazioni londinesi: ieri a cena fuori con Poirot e il capitano Hastings di ritorno dall’Argentina. Da Frascati a Oxford Street, serviti dal capo chef Jules Matagne, connazionale di Poirot, seguace del Sauternes e dei filetti di sogliola Concorde. Hastings e io abbiamo preferito carne alla griglia e un Malbec della Cordigliera, imbottigliato da qualche bodega tra Mendoza e Tucumán (prolissa spiegazione di Hastings riguardo alle tecniche vinicole del Cono Sud: venti freddi, venti caldi, sistemi di irrigazione, altitudini e sbadigli da parte mia). L’attrice Jane Wilkinson sedeva al tavolo accanto. Una bellezza accecante. Poirot m’ha avvisato: “Tre volte sposata. Tre volte vedova, mon ami”.

8 ottobre 1925
Pomeriggio agitato. Rovistato tra i libri nelle scatole senza sapere cosa cercavo e senza trovarlo. Causa pioggia annullata consueta passeggiata nel parco. Gelo. Il termosifone non riscalda quanto serve ed è atteso. Inventarsi qualcosa. Forse aiutare Poirot? Ieri sera mi ha invitato a bere un bicchiere di porto e in effetti mi è sembrato che (Poirot) avesse bisogno di aiuto. Un caso che (Poirot) non riesce a risolvere. Una donna scomparsa. Nessuna traccia. Solo un romanzo squadernato sul suo (della donna) letto. Quale romanzo? Un libro di Conrad: Nostromo. Non lo conosco, ma Poirot dice che il protagonista è italiano. E questo, dice Poirot, potrebbe essere un buon segno. “Perché?”, gli ho chiesto. “Ma perché ora lei è qui, mon ami! È evidente!”.

***

L’assassino si nasconde tra le righe
(Scena 51, Whitehaven Mansions, appartamento di Poirot, studio. Orecchio e Poirot seduti alla scrivania. La camera da presa alterna i primi piani)

P. – Ha ancora il suo elenco di finanziatori dei fascisti?
O. – Sì. Lo custodisco in un posto sicuro.
P. – E fa bene, mon ami. (Fa una pausa. Sospira. Controlla l’orologio). Se la memoria non m’inganna, conteneva il nome di un nobiluomo italiano…
O. – Più di uno, per la verità.
P. – Mi riferisco al diplomatico che vive qui a Londra…
O. – Intende Acchiardi, il funzionario dell’ambasciata?
P. – Exactement!
O. – Un fascistone della specie peggiore.
P. – Sa che sua moglie è stata rapita?
O. – No!
P. – (annuisce). Due giorni fa. Si sospetta un sequestro a scopo di estorsione. Ho ragione di credere che l’elenco non sia estraneo alla vicenda.
O. – (soprappensiero) Dovremo fare attenzione.
P. – Ha ragione, mon ami. E io avrò bisogno del suo aiuto. Sa che la donna è stata rapita in camera da letto? Leggeva un libro di Joseph Conrad: Nostromo. Lo conosce?

***

Meta post scriptum #1
L’elenco completo dei finanziatori del primo movimento fascista è stato pubblicato da Gerardo Padulo (I finanziatori del fascismo, «Le Carte e la Storia», Quaderno n. 1, 2010). Il tema era già stato affrontato da Renzo De Felice, che tuttavia non pubblicò mai la lista integrale degli oblatori. Ernesto Rossi criticò severamente l’uso della fonte (l’elenco) da parte del biografo di Mussolini, non ritenendola attendibile.

Il lavoro di Padulo – che recupera integralmente le elargizioni documentate nel Fondo “Mostra della Rivoluzione Fascista”, Busta 47, versato presso l’Archivio Centrale dello Stato – consente di riaprire il dibattito su una delle prime forme di finanziamento occulto della politica italiana.

Lo studio, inoltre, di certo non corrobora la tesi di De Felice, che vedeva nel primo fascismo un movimento di ceti medi emergenti, poco o per nulla legato alla grande borghesia agraria e industriale. Tutte quelle lire versate, e documentate, sembrano dirci che la storia andò diversamente, sin dal principio.

Meta post scriptum #2
Tra il 2009 e il 2011, nel punto più basso (ma più sincero) del regime di B., mi venne voglia di ritagliarmi una parte nella serie tv Poirot interpretata da David Suchet. Non come attore. Volevo entrarci come personaggio. Volevo andarci a vivere. Desideravo essere amico di Poirot. Mi sarei accontentato di un tavolino nel suo appartamento di Whitehaven Mansions, tra scaffali liberty e sedie Bauhaus. Non esiste al mondo un posto più accogliente, ed era quello il posto del mondo dove intendevo stare.

La pace britannica degli anni venti e trenta. Le tisane di Miss Lemon. La sensazione che tutto fosse in ordine e che nulla sarebbe andato male, me l’avrebbe data solo una vita accanto a Poirot, dentro la serie tv di Poirot. Dove ogni morte è dolce e inessenziale. Dove ogni caso sarà risolto. Dove le strade di Londra nascondono un solo tipo di agguato, quello al quale si scampa.

Partire con Hastings per qualche missione nella campagna inglese. Indossare abiti di tweed, cappelli di fustagno, guanti di pelle. Inseguire assassini remissivi, già pronti ad arrendersi, tra le brume del Devonshire. In uno splendido albergo della Cornovaglia, e tra le aspre spiagge di laggiù, trovare l’indizio mancante. Cenare nei migliori ristoranti di Londra, frequentare i migliori locali, i teatri, la società. Sazi, rincasare a Whitehaven Mansions. Ascoltare lo squillo del telefono. “E’ l’ispettore Japp. Dobbiamo correre a Scotland Yard!”

Lontano dal regime. Esule in una serie tv. Alla fine, in qualche modo, ci sono andato.

(questo testo è una rielaborazione di altri pubblicati sul mio blog tra il 2009 e il 2011)

La pioggia

11

di Massimo Bonifazio

tutto questo per dire: non funziona, non riesce, non
è questo che intendevo. (la pioggia non aiuta; la pioggia
è un dato di fatto che si interseca con curiose
disposizioni d’animo, di ordine genetico? la pioggia
è il resto, e infatti c’è chi si avvicina a una finestra,
guarda il cielo. l’ultima volta a me è capitato
nella famosa città del sud, con l’elefante, e ho pensato
che cielo è, questo cielo che nell’altro
posto non è lo stesso cielo, stillicidio è l’unica parola

Parliamo de Le Qualità – seconda parte

0

di Antonio Sparzani

Continua la conversazione con Biagio Cepollaro a proposito del suo Le Qualità, iniziata qui. Segnalo nel frattempo che una recensione del volume, ad opera di Giorgio Mascitelli, è già apparsa qui.

Dato che nella prima domanda accenno alla prima produzione di Biagio, riscrivo qui qualche poesia da Le parole di Eliodora, edito nel 1984, del resto completamente leggibile, come le altre opere di Biagio, nel suo sito, dove si può meglio vedere l’impaginazione originaria. Nello stesso sito Biagio mostra anche molte delle sue opere pittoriche, cui accenniamo nella seconda parte della conversazione.

chiuso lo sportello
(ultimi
i capelli a sparire)
eliodora fece larghe
le strade
il dito si aprì al sangue
(venne
si fece strada
il panico)
poi la mano si ricompose (ora
la penna tagliuzza le ciocche

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

eliodora aveva calde
le ascelle
(riposavo le spalle
alla sua ombra
anche l’alfa girava più
leggera
tagliavo le curve, era
con i fari e la luna

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

da una parte mi segue
eliodora
più magra
(più sottili le anche
dallo specchio retro
visore
le braccia non hanno più
mani
eliodora è davanti
(di schiena alla penna

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

dopo l’impazienza delle dita
(e stupirmi
del tuo corpo ancora bianco (e intatto
che si muove)
che il segno non inchioda
(presto
il granchio si dilegua sotto lo scoglio

 

 

 

Al largo di Pontremoli. Divagazioni, tra cronaca scolastica e letteraria, circa l’urgenza di consegnare una lettera 45 anni dopo.

0

di Ugo Fracassa

Ugo Fracassa ha partecipato di recente a un convegno ministeriale sulla «Lettera a una professoressa», in occasione dell’uscita del volume di Adele Corradi, collaboratrice di Don Milani, Non so se Don Lorenzo (Feltrinelli, 2012). Tuttavia non è facile tenere insieme i recenti provvedimenti Profumo sull’eccellenza scolastica con l’insegnamento del Priore di Barbiana. Nel suo breve intervento Ugo Fracassa ha potuto ricordare che la «Lettera» può ancora essere letta come un documento della lotta di classe. In ogni caso, molte delle cose scritte allora per i barbianesi sembrano indirizzate oggi agli immigrati, come ricorda un caso di cronaca scolastica che ha fatto un po’ di rumore in Toscana e poi a livello nazionale (la bocciatura in prima elementare di 5 bambini, di cui uno disabile e tre “stranieri”).

 

I respingimenti dei migranti non avvengono soltanto al largo del canale di Otranto o in vista delle coste di Lampedusa, ma pure nelle acque territoriali del nostro sistema scolastico, nel qual caso vanno sotto il più familiare nome di bocciature. Né si sta da clandestini sul suolo nazionale nei ricoveri di fortuna soltanto, quelli che il nostro paese sa offrire, a chi ne abbia bisogno, tra periferie metropolitane e aree già rurali e oggi postindustriali o dismesse. Anche in una prima classe dell’obbligo scolastico elementare disabili e immigrati possono sostare in democratica promiscuità, con una trentina di compagni, grazie all’indulgenza ministeriale, almeno finché non si giunga a localizzarli ed espellerli.
“Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse”, si legge nelle ultime pagine di quella Lettera a una professoressa spedita giusto 45 anni fa e tuttavia in cerca di lettori. Siccome però la nostra scuola perfetta non è (ancora), obbligatoriamente è tenuta ad accogliere la “gente nuova”: giovani sottoproletari del Mugello, inconsapevolmente esposti all’imminente genocidio culturale, ieri; figli degli immigrati, oggi. Quella lettera perciò – inizialmente destinata ad una professoressa rea di aver negato l’idoneità di III magistrale a tre “barbianesi”, furiosamente allestita a partire da una rovente bozza di mano del priore di Barbiana e poi meticolosamente appuntita, grazie al contributo dell’intera scolaresca, per un tempo approssimativamente coincidente alla gestazione di un feto – non smette di individuare destinatari ulteriori.
Mihai Mircea Butcovan è uno di questi. Arrivato in Italia nel ’91, dopo un dicembre sanguinoso trascorso nelle piazze della Romania (“Morivano studenti / Tu non lo sai / Io c’ero”, Dicembre 1989) per destituire un grottesco conducător giunto a fine corsa, annette rapidamente alla propria biblioteca mobile di lettore bilingue e scrittore migrante il libretto sessantasettino. E pour cause, se nel passo della Lettera che sceglie come esergo per i versi di Dal comunismo al consumismo (“Ogni popolo ha la sua cultura e nessuno ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri”) pare di ascoltare l’eco anticipata di certe dichiarazioni circa le letterature della diaspora (“Mentre noi cerchiamo di distillare conoscenza e sapere da tanti argomenti, essi [i Gastarbeiter] ricavano saggezza pratica e sapienza dai loro racconti, pregni di esperienza”, H. Weinrich). Oggi Butcovan, giunto a Monza poco più che ventenne come seminarista, premiato per il suo romanzo d’esordio Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa, 2006), lavora a Milano, come educatore, al recupero delle diverse forme di disagio sociale.
L’aggressività e la frustrazione, talvolta manifeste, più spesso represse e dissimulate, per la mancata interazione (o la coatta integrazione) nel tessuto sociale ospite non mancano di favorire l’impulso creativo di chi scrive. Nel romanzo più celebre di Amara Lakhous e della nostra narrativa italòfona, lo Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, lo stereotipo del giovane xenofobo romano de Roma – quel “gladiatore” trovato morto nell’ascensore – viene offerto in olocausto per una riflessione sui temi del multiculturalismo in salsa capitolina: “Ho usato il giallo per attirare l’attenzione su quello che sta accadendo, perché quest’ultima si attiva quando c’è l’emergenza. Quindi mi sono detto: qui ci vuole un cadavere” (A. Lakhous). In altri casi l’aggressività creativa, deviata dall’obiettivo primario, può scaricarsi indirettamente sull’elemento simbolico, dall’italiano come individuo all’italiano come lingua: “la lingua italiana […] è una bellezza che si ha il dovere di ferire […] una purezza che ha l’assoluto bisogno di essere contaminata” (Tahar Lamri).
Anche in questo caso, l’insegnamento della Scuola di Barbiana prefigura certe scelte letterarie e pare offrirsi, quasi mezzo secolo dopo, come manifesto poetico prêt-à-porter per una generazione di nuovi (autori) italiani: “Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”.

L’autobiografia di un’idea di Tommaso Pincio

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di Giuseppe Zucco

Ci mette nulla a sparigliare le carte, Tommaso Pincio. Ci mette giusto sei righe per alzare la classica cortina fumogena di una parolina intorno alle sue reali intenzioni: libercolo. Non solo libercolo, ma anche capriccio – ancora meglio, svago. È questa la definizione che dà del suo ultimo libro, Pulp Roma, edito da Il Saggiatore. Quasi si tirasse indietro o mettesse le mani avanti o in qualche modo si autodenunciasse riguardo alla portata minima dei contenuti e delle ambizioni. Un libro che dovrebbe appena raccontare com’è scaturita e in che modo si è sviluppata l’idea che avrebbe dato origine al suo ultimo romanzo, Cinacittà. Libercolo o libricino compilato per evidenziare il legame indissolubile con il luogo in cui vive, la città di Roma.

Se questa è la premessa, qualcosa non torna. Il primo capitolo dà conto del tratto distintivo della capitale, Roma si rivela luogo di sproporzioni: sproporzioni tra io e l’altro, tra il presente e il passato, tra il dire e il fare. Ma soprattutto si rivela un luogo refrattario alla narrazione. Il secondo capitolo avanza il racconto allucinato di un’estate rovente trascorsa in una Roma invasa dai cinesi tra le sponde di un hotel e di un go-go bar dove viene irretito dal mutismo di una ragazza cinese e dal magnetismo di un fermacomande – uno spillone di metallo fissato a una base di legno. Il terzo capitolo chiama in causa Freud, Onfray, Nabokov e una scimmietta per evidenziare che Non c’è nulla di più tortuoso e ingannevole della memoria. Credere di avere il controllo dei propri ricordi, di poterli manipolare a proprio piacimento, si rivela spesso illusorio o, nel migliore dei casi, un’arma a doppio taglio. Risalire alla sorgente di un’idea, percorrendo a ritroso il corso delle sue modificazioni, può riservare sorprese inaspettate […]. Il quarto capitolo restituisce il frammento di un romanzo scritto ben prima del suo esordio, il cui protagonista, Pietro Marana Sforza, agente ausiliario della Piesse, a cui viene assegnato il compito di piantonare l’ingresso dell’ufficio dell’inconoscibile e sfuggente Acaba – un commissario il cui cognome riporta l’acronimo più inviso alle forze dell’ordine, All Cops Are Bastards – si muove negli stessi spazi in cui si stagliò il profilo investigativo di Francesco “don Ciccio” Ingravallo, protagonista a sua volta del capolavoro di Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Il quinto capitolo, attraverso il ricordo di alcune catastrofi reali o del tutto immaginarie, stringe un nodo tra l’idea romantica di apocalisse e la visione delle rovine che affiorano come denti cariati sul sorriso fatale e metastorico di Roma. Il sesto capitolo, frullando la memoria di Kurt Cobain, Federico Fellini, La dolce vita, Blade Runner e il colosseo raffigurato nel fumetto Ranxerox come un albergo puntellato da colate di cemento armato, rischiara la certezza che Roma era un luogo fisico, presente, ma al tempo stesso anche immaginario e da sempre perduto. Il settimo capitolo fa il consuntivo di come sia sfumato il tentativo di sistemare l’idea per il romanzo dentro il righino nero delle tavole di una graphic novel. L’ottavo capitolo rispolvera le tavole della graphic novel, The melting spot, che si avverano alla fine del libro come la summa lisergica e fulminante di quanto è stato confezionato poco prima con le risorse proprie della lingua piuttosto che delle immagini.

Lo stile che Tommaso Pincio usa, soprattutto nei capitoli più riflessivi, è lo stesso impiegato nella stesura del libro precedente, il bellissimo istruttivo toccante Hotel a zero stelle (Laterza, 2011). C’è la stessa lingua – misurata, malinconica, confidenziale, discorsiva ai limiti dell’ipnosi, che ti trascina nei gorghi di una visione o nelle spire di una riflessione. Ma se in Hotel a zero stelle la struttura permetteva attraverso la messa in scena della vita e le opere di una eletta casta di scrittori di venire a conoscenza di alcuni frammenti fondamentali della biografia di Tommaso Pincio, frammenti sempre situati sul confine mobile tra realtà e ricostruzione immaginaria – del resto, già dalla scelta del suo pseudonimo, Pincio fa di questo confine uno dei punti cardine della propria scrittura – in Pulp Roma appare tutto più instabile e precario. Se già i capitoli, nonostante rispondano a una progressione logica, sembrano più giustapporsi che succedersi, entrando anche sottilmente in contrasto tra di loro, come se fossero il risultato scientifico di un collage, l’apporto conoscitivo di cui il lettore potrebbe alla fine vantarsi rispetto a come si sia trasformata l’idea di un romanzo in un romanzo effettivo rischia di collassare nella muta espressione dell’imbarazzo.

Volendo estrarre dalla miniera d’oro della scrittura di Tommaso Pincio la pirite di alcuni dati bruti, si viene a capo di minuti riscontri. La gestazione di Cinacittà è stata lunghissima, soprattutto per la difficoltà e/o la fobia di tratteggiare come sfondo e/o personaggio la città di Roma, un chiodo fisso, a quanto pare, che sembra precedere qualsiasi altra pubblicazione, e che avrebbe generato le pagine riportate nel capitolo quattro. Alla primitiva poi cassata versione del romanzo era stata appioppata dal futuro editore il titolo di Pulp Roma. Il racconto scritto successivamente e da cui si originerà lo stile e la struttura del romanzo si chiamava The Melting Spot, quello del capitolo due. L’avvocato, uno dei personaggi principali di Cinacittà, è stato costruito calcando la mano sulle fattezze reali di Emanuele Trevi, altro scrittore romano. Il romanzo di ambientazione romana, su idea della redazione della rivista Rolling Stone, fu sul punto di trasformarsi in una versione a fumetti da pubblicarsi a puntate.

Se le evidenze si fermassero qui, non varrebbe neanche la pena sfogliare il libro, il tutto si potrebbe considerare inconsistente gossip letterario – tra l’altro, come ogni canonica faccenda di gossip, nessuno rischierebbe le dita sul fuoco per certificarne la presunta autenticità. Ma c’è un modo più sbilenco e obliquo per godere di questa scrittura, e rendersi conto di quale aria sorniona si sia irradiata dal volto di Tommaso Pincio nel momento in cui definiva libercolo il piccolo ammontare di queste pagine. Alla fine, nel suo apparente disordine, nella sua dispersione, nel suo diramarsi lungo le molteplici linee della narrazione e della riflessione, questo libro illumina il modo in cui viene al mondo l’idea per scrivere un romanzo – un’idea che nasce, cresce, arretra, si sviluppa, sbanda, fiorisce di colpo, come di colpo torna ad avvilupparsi su se stessa, prima di diffondersi ancora e attecchire meglio in un terreno irrorato tanto dal desiderio di dare una qualche forma e una qualche compiutezza alle mille idee che confluiscono intorno all’idea originaria, tanto dal presentimento che il fallimento incrinerà ogni possibilità di forma e compiutezza. Le idee per un romanzo germinano al modo disordinato e discontinuo e persistente delle erbacce piuttosto che nell’impennarsi verticale delle grandi conifere. Ed è molto commovente sapere che uno scrittore si è premurato di consegnare al lettore un orizzonte di fitta vegetazione in cui smarrirsi cercando la propria irripetibile posizione nel mondo invece che una circoscritta porzione d’ombra sotto la grande conifera in cui trovare appena un comodo riparo o uno scontatissimo conforto.

Il contro in testa

1

di Marco Rovelli
(Marco ci regala un estratto del suo nuovo libro. E’ appena uscito, come poterne fare a meno questa estate? G.B.)

All’osteria mi insegnarono il brindisi alla carrarina. Perché questa è un’osteria della campagna massese, sì, ma sta appena sotto le colline del Candia, e il Candia richiama anche i carrarini. Uno di loro mi ha preso per un braccio una sera che si cantava, “Vieni qui che ti offro un bicchiere”, e tu mica puoi dirgli che ce l’hai già sul tavolo e ne hai bevuto anche tanto, è buona educazione accettare. Beve, e alza il bicchiere, anzi il bicierin, il “goccio di vino” che si può scolare tutto d’un fiato. Brinda, e quel brindisi somiglia molto a un rito. Si leva il bicierin in alto, lo si fa digradare verso terra, poi lo si porta a sinistra e infine a destra: un segno della croce, insomma, e l’importante è che l’occhio non perda mai di vista il vino. Si salmodia nel gesto apotropaico: “ciar i è ciar – muss’lin a ni né – te ‘n t’l vo – te nemanc – al bev me” (chiaro è chiaro — moscerini non ce n’è — te non lo vuoi — te neanche — lo bevo io). Va da sé che si pronuncia l’ultimo verso levando il bicierin alla bocca per assimilare il Verbo.

“Sai qual è la frase migliore per definire il carrarino? Il contro in testa”.
Silvano veniva di tanto in tanto all’osteria, e mi diceva della differenza ontologica tra massese e carrarese.
“Il massese è molle. E’ rimasto sempre un contadino, servile. Il carrarino no, il carrarino non si piega, è fiero, schiena dritta. Ha il contro in testa il carrarino.”
“E che significa?”
“Per spaccare il marmo devi capire qual è la linea giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. Se invece provi a tagliarlo diciamo al contrario, se vai contro il verso, non ci riesci: non c’è verso, proprio. E quello si chiama contro.
Ecco, i carrarini hanno il contro in testa, sono duri, resistono, e non c’è verso di scalfirli. Non c’è il verso, proprio.”

Il marmo è come la vita, morbido al verso e duro al contro.

“Solo che avere il contro in testa non è facile. E’ un bel fardello da portare. Che se ti trovi in periodi di piena va bene, sei un ribelle, ti unisci con gli altri e allora guai a chi vi tocca. Se Carrara è terra di anarchici ci sarà un motivo no? Ma in tempi di secca, quando nessuno ha speranze di trasformare questo mondo, allora avere il contro di testa non è bello, vai contro il tuo vicino, il tuo compagno, il tuo amico. Tutti a parlar male dell’altro, a farsi guerra l’un con l’altro. Non è bello.”

Silvano alzò il bicchiere e se lo scolò d’un sorso. Niente brindisi. “E’ un mondaccio questo. E mi sto stufando di questa terra.”

***

Silvano l’ho incontrato di nuovo dopo alcuni anni, tra le bandiere nere e rosse alla fine del corteo del primo maggio anarchico a Carrara. Un corteo di canti, una ritualità antica, corone di fiori rossi alle lapidi. Tante. Troppe, visto che dietro ognuna di quelle lapidi c’è una vittima da ricordare. Le vittime dei moti del 1894 alla caserma Dogali, Giordano Bruno in piazza del Duomo, Alberto Meschi storico sindacalista d’inizio novecento, e per finire i morti alle cave e Francisco Ferrer educatore anarchico, le due lapidi che stanno nella piazza dove arriva il corteo. La piazza ufficialmente si chiama piazza Alberica – dal duca Alberico I dei Cybo Malaspina, il sovrano che la volle nel Seicento -, ma per gli anarchici continua a essere piazza Gino Lucetti, l’anarchico che attentò a Mussolini e per un soffio lo mancò, in un tragico impeto di sfortuna: la bomba rimbalzò sul tetto della macchina del Testa di Morto, esplodendo solo toccando terra e ferendo sei persone plaudenti. Lucetti venne condannato all’ergastolo. Nel 1943, all’arrivo degli alleati, Lucetti fu liberato dal carcere di Santo Stefano, una delle isole ponziane, ma riuscì a vivere libero solo per pochi giorni: arrivato a Ischia, il 17 settembre morì sotto un bombardamento aereo tedesco.
A Lucetti venne dedicato il battaglione partigiano libertario sui monti apuani, a lui venne dedicata la piazza, che nel 1960 tornò all’antica denominazione per gli stradari ufficiali. Non per gli anarchici però, che nei loro manifesti di convocazione della giornata continuano a scrivere “piazza Gino Lucetti”.

[…]

Nel maggio del 1936 in tutta Italia si celebrava l’Impero. A Carrara la cerimonia di popolo si tenne in piazza Farini. Durante il discorso dell’oratore, in un angolo della piazza si sentì cantare l’Internazionale. Nove operai vennero arrestati.

E’ cosa buona e giusta che questa terra sia trasfigurata. La trasfigurazione le appartiene. Qui hanno proliferato visioni, e una visione è davvero tale quando ne suscita altre, in una catena interminata. Come quei nove operai che cantarono quel giorno sfidando i fascisti, e quel canto è arrivato fino a noi, e suscita altro canto.

Basta salire sulle montagne, in Apuania, e il paesaggio stesso si presta a essere scenario di visioni.
Che poi già il marmo è un brulichio di vite marine, sedimenti carbonatici prodotti in quelle che furono scogliere coralline, dov’erano alghe, spugne, coralli. Quegli strati, segnati da linee oblique e parallele, vene sottopelle che il lavoro millenario delle cave ha scoperto e portato in superficie, sbattendotelo in faccia – quegli strati di marmo sono vivi, profondamente vivi, e quel biancore che ti abbaglia è come un concentrato ipnotico di vita.
Il mare, qui, è già compreso nella montagna. Quello ancora liquido è come il suo specchio necessario, una distesa che si srotola per dar aria alla maestà della montagna.

Mentre sali su per le valli di Carrara – i tre bacini di Torano, Miseglia e Colonnata – la vista ti s’impiglia in una matassa di linee geometriche. Quelle irregolari ed eccedenti dei monti, con la loro tensione verticale e sfuggente, e le griglie regolari delle escavazioni, gabbie su gabbie, una metodica operazione per ridurre questa eccedenza a misura umana. Figure geometriche e ripetitive disegnate dalla volontà di appropriarsi dell’inappropriabile. Una smisurata mostruosità, che pure ha il suo fascino perverso, proprio di ogni tentativo faustiano.

In un’ascesa alla montagna, passando su ponti e viadotti e dentro gallerie, tra le innumeri cave di marmo tutt’intorno, il pezzo ideale è Astronomy Domine, il primo brano del primo lp dei Pink Floyd: psichedelia pura, viaggi interstellari. E’ l’introibo alle cavità spaziali della terra portate in superficie, a un’ostensione sacrificale che pare l’accesso a un mondo del rovescio.
Syd Barrett cantava e Camilla, seduta nel sedile di fianco, diceva che tutto quel bianco troppo esposto pareva ottenuto per corrosione, come fosse il resto di un millenario percolare, ottenuto per sottrazione, e non per un’addizione di colore. Era esattamente quel che vedevo anch’io: il rovescio, appunto, il fondo nascosto e terribile che appare alla fine di tutto. Alla fine dello scuoiamento, di un infinito sacrificio.
A far da costellazione, nel percorso, oltre a una fila infinita di blocchi e lastroni di marmo, ci sono macchine per l’escavazione e la lavorazione, cavi e carrucole arrugginite, caterpillar, come fossero tutte parti di un gigantesco scheletro di metallo che sembra uscito dalla prima rivoluzione industriale. “Ti par di vedere anche il vapore”, diceva la compagna di questa risalita. “E i ravaneti li trasfiguri come sabbia di clessidre gigantesche”. Uno sgretolio infinito, la terra che si sfracina, il divenir polvere di tutto ciò che è.
E’ un paesaggio inesploso, come una bomba ritrovata sottoterra, che ancora aspetta qualcuno che la disinneschi.

Capita allora, durante il percorso, di trovare caverne dove inoltrarsi, come a cercare di scovare il segreto della montagna. Caverne che sono poi cave scavate nella pancia dei monti, a strapparne le arterie più preziose. E dentro, se ti imbuchi un giorno in cui non si lavora, senti il sistema circolatorio della terra, gocciolii che formano pozze come cadendo da vene aperte, e fanno echi amplificati come nella più sacra delle cattedrali.
Se poi hai la fortuna di capitarci dentro in un giorno di lavoro, allora lo scopri il vero segreto di tutto questo: gli uomini-drago, quei cavatori che corrono da un’estremità all’altra della cava.

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Il selciato di Carrara è ingombro di memorie. Non sai bene che farne. Da piazza Lucetti – e sì, continuiamo a chiamarla così nonostante lo stradario – si vedono le Apuane. E le Apuane ce l’hai sotto i piedi, nelle tarsie di marmo che la ricoprono per volere di Alberico, principe di Massa e marchese di Carrara, ce l’hai nel marmo del loggiato, ce l’hai nelle decorazioni degli edifici. Eppure, in quel troppo candore, può capitarti di vedere il rosso del sangue, quello sparso dai cavatori che lo hanno estratto nei secoli, e trasportato a valle con la lizzatura. “Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? / Dentro i libri ci sono i nomi dei re. / I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?”, scriveva Brecht. E qui, il nome del re è nella targa della piazza: Alberica. Nella targa invece non ci sono quei cavatori che i blocchi di marmo hanno trascinato. Il nome di Lucetti, marmista, poteva risarcire quegli assenti?

Dalla piazza saliamo col Taro verso il Duomo (ad essere precisi l’Insigne Collegiata Abbazia Mitrata di Sant’Andrea Apostolo). Meraviglioso il suo romanico-gotico (romanico portale e gotico rosone), ma si vede il sangue essudare anche da lì. Così torniamo nel luogo sacro dirimpetto, l’osteria di marmi e di Cynar. Ci facciamo altri due gocci di vino.
“E quindi stai insegnando al liceo? Io a scuola ho fatto la seconda media e poi non son più andato: tirai il calamaio al professore e lo presi in pieno. Sospeso tutto l’anno. A casa botte da mio padre, e non son più andato a scuola.” Gli racconto che in prima elementare fui sbattuto fuori dalla classe perché dissi “scema” alla suora. Ma poi rientrai nei ranghi. Il Taro ride, credo che insultare una suora non sia un peccato per lui. Gli chiedo, perché gli avevi tirato il calamaio? “A dir che mi ricordo ti direi una balla, ma era già un po’ che me la durava… Magari perché sapeva che i miei erano antifascisti, non lo so… e allora adesso basta, è ora di finirla, to’!” Accenna il gesto del lancio, ed è come un annuncio di vita. In guerra quel braccio avrebbe lanciato bombe ai tedeschi.

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Mi piace sentire i racconti sui vecchi. Quegli uomini che non ci sono più, avvolti da aure eroiche, tempre che continui a cercare ma non trovi. Forgiati forse in altra materia.
“Elio, Mazzucchelli, li ho conosciuti tutti. Io ero col battaglione Lucetti, qui sulla Linea Gotica. Poi ci fu lo sganciamento: ci toccò andar via, di là dalla Linea Gotica, dove c’erano già gli americani, per evitare le rappresaglie dei tedeschi. Quando tornammo di qua la formazione prese il nome di Michele Schirru, un altro dei nostri, un sardo, che voleva uccidere Mussolini”. E già, solo gli anarchici in Italia avevano provato a uccidere il Duce. Schirru lo avevano ammazzato. “Il comandante della Lucetti era Elio. Un buon comandante, intelligente. E un uomo di fegato: in combattimento faceva una strage che guai, non lo fermava nessuno. Aveva vent’anni, pensa. Il padovano – Mariga, si chiamava – era il suo vice, ma quel che diceva lui era legge per tutti, anche per Elio. Aveva più autorità, anche perché era più vecchio, sulla quarantina, e nella guerra del 15-18 era stato premiato tre volte con la medaglia d’argento: segno che anche lui era un fegataccio, eh… Io avevo quindici anni, Mariga per me era un padre. Era bravissimo. Un carattere, una bontà… Ti curava, ti ascoltava, ti dava dei consigli – e te li dava buoni! Dopo la guerra gli volevano dare un’altra medaglia al valor militare, stavolta d’oro, ma la rifiutò. Era un anarchico vero, lui. In compenso gli fecero fare ventidue anni di galera, lo accusarono di aver giustiziato un fascista di Santo Stefano”. Nessuna amnistia per loro, solo per i fascisti. Mi viene in mente il generale Mario Roatta, responsabile di immani crimini di guerra in Jugoslavia. Lui, l’amnistia la ebbe.

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“Non ce n’è più di uomini così, non ce n’è più. Oggi la gente è nata nel benessere. Punto e a capo. Promuove in quinta elementare e vuole la bicicletta, va in seconda media e vuole il motorino, mangiano bevono hanno soldi, il padre magari si priva lui per dare a loro, non hanno un’idea politica. Quegli altri uomini lì era differente: c’era la fame, e si ribellavano. Questi qui cosa vuoi che si ribellino che magari loro padre fa i debiti per prendergli la bicicletta? Sai quanta gente c’è, io li vedo, che dice sono anarchico: li hai mai visti qui, non so, a una riunione? Si vantano… uguale a quelli che dicono “sono comunista”, e non è vero… Non c’è paragone: dal giorno alla notte”.
Insomma Taro, dici che la differenza è che quelli erano nati in famiglie povere, di lavoro duro. “Eh, quando ce l’avevano il lavoro duro! I lizzatori, ché allora c’era la lizza per portare il marmo a valle, andavano sul ponte Baroncino, che lo chiamavano il ponte della Bugia, e aspettavano che li chiamassero a lavorare. “Oggi tocca a te, te e te”, gli altri se ne tornavano a casa, ed era fame… E’ questo il motivo, lavoro non ce n’era, e gli uomini si ribellavano… Se pensi che partivano da Carrara e andavano sul Canalgrande a piedi, lassù in cima, e lavoravano otto ore e ritornavano in giù sfondati… Sai quanti di quelli che andavano in cava passavano da Miseglia, dove ci sono le quattro fontane, mettevano sotto l’acqua un pezzo di pane, lo rincartavano, e a pranzo mangiavano pane e acqua…”
Taro, dimmi una cosa: per te il lavoro è un valore? “Per forza che è un valore, lo deve essere! Senza lavoro cosa fai? Sei obbligato a rubare, a ammazzare, a andare in galera. E il lavoro era un valore per tutti quegli uomini lì. Per questo a Carrara si è sviluppata così tanto l’anarchia: per il lavoro, per la fame! Senti ancora dei vecchi comunisti che ti dicono: Sono comunista ma la mia mentalità è anarchica!” Segno davvero di un altro tempo, questo: nessun anarchico di una generazione successiva ti risponderebbe mai che il lavoro è un valore. In quella società non c’era nemmeno la possibilità di pensare a una società in cui il lavoro non fosse un valore, tale era il grado di sfruttamento.
Taro, dimmi una cosa: se avessi chiesto a quei vecchi, cosa significa essere anarchico? “Pane, lavoro, niente galere, più giustizia fatta dal popolo. Non ne volevano sapere loro di quei lavori lì, governi e via discorrendo. Che è una man bassa di ladronismo. Altro che terzo mondo, il terzo mondo è qui! Se c’era ancora quella gente, secondo te succedeva così? Erano già andati a Roma ad ammazzarli! Ma con chi lo fai oggi come oggi quel lavoro lì? Qui? Con chi lo fai in Italia? Coi giovani? Non lo fai”.
Nelle parole del Taro c’è un mondo scomparso. “Quegli uomini lì” non possono tornare a essere. Sono consegnati definitivamente a un passato eroico, che non ha misura comune con il nostro tempo. Consegnati loro alla mitologia, a chi resta non è consentito sentirsi orfano. Si tratta di essere liberi, tocca esplorare il presente.
Cosa resta del padre, domanda l’analista, e risponde: la testimonianza. Che non è un universale, ma un esempio singolare – da uomo a uomo (e non, sia chiaro: da maschio a maschio). Oggi possiamo usarli, quei padri, proprio in ragione della loro distanza. Perché non è con i loro simboli e le loro pratiche che cambieremo il mondo, perché il mondo ha cambiato formato. L’esempio, però, la loro testimonianza – è questo ciò che resta. E che ci rende liberi.

Parliamo de Le Qualità

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di Antonio Sparzani

Con felice acribia Biagio Cepollaro arricchisce costantemente il suo patrimonio di produzione poetica, così come accresce quello della produzione pittorica, con il primo, del resto, strettamente connesso e intersecato. L’ultima raccolta, Le Qualità, è uscita da pochi mesi per i tipi de La camera verde, Roma, direttore e animatore Giovanni Andrea Semerano.