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Indagine su un genere al di sopra di ogni sospetto

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Una possibile spiegazione all’invasione del giallo vichingo in Italia e non solo

di Andrea Ferrari

Il giallo nordico ha invaso il mercato e gli scaffali italiani alla velocità della luce, manco fosse il tarlo asiatico che minaccia gli alberi delle nostre città più di un approvando piano di governo del territorio. Questa affermazione ha da tempo preso cittadinanza nel dibattito intorno alla letteratura di genere, e soprattutto intorno al mercato che la regola, ma ciò che spesso si omette è che gli ormai sempre più numerosi SSON, ERG, ELL, SEN e chi più ne ha più ne metta, non sono altro che la punta di un iceberg formatosi più di un secolo fa e che, a mio avviso, attinge le proprie atmosfere in un humus culturale ancora più profondo, che risale alla letteratura scandinava nel passaggio fra l’Ottocento e il Novecento.
Come si formino gli iceberg, quelli veri, lo ignoro, ma quello del giallo scandinavo ha avuto una genesi davvero particolare.

Alla fine del XIX secolo le traduzioni di grandi autori come Conan Doyle e Edgar Allan Poe approdarono in Scandinavia e, sulla scorta delle loro opere magistrali, si mossero i prodromi della letteratura di genere del Grande Nord. Pioniere fu Sven Elvestad che con vari pseudonimi (Kristian F. Biller e Stein Riverton) diede vita a Knut Gribb, il primo detective della storia del Grande Nord. In omaggio all’opera di Sven Elvestad venne in seguito istituito il premio Riverton per la letteratura di genere, tutt’oggi attivo e prestigioso riconoscimento. Autori come Palle Rosenkrantz e Gösta Palmkrantz iniziano, tra le altre cose, a mettere a tema quello che sarà uno dei tratti distintivi della letteratura di genere scandinava, cioè l’attenzione per i temi sociali e la relazione tra lo stato e l’individuo. I pionieri verranno poi nel corso degli anni Quaranta ripresi e sviluppati in abili esercizi di stile da autori come Maria Lang, Stieg Trenter, Niels Meyen che hanno il merito di rendere il genere autonomo dalla ingombrante tradizione anglosassone. Questi i presupposti che paiono ancora lontani e forse un po’ troppo aristocratici.
Possiamo dire che i veri genitori della moderna letteratura gialla scandinava siano però i coniugi Maj Sjöwall e Per Wahlöö, che diedero vita, sul finire degli anni Sessanta, alla serie del commissario della polizia di Stoccolma Martin Beck. Dieci romanzi, all’interno dei quali si trovano una profonda analisi sociale, caustica e perfino impotente, una ricerca importantissima sui rapporti interpersonali nella Scandinavia di quel tempo e una finissima attività investigativa conscia dei limiti dell’essere umano e delle sue risorse finite e fallibili; oltre ad una critica a tratti feroce della socialdemocrazia svedese e del suo welfare “folkhem” , tanto celebrato nel resto d’Europa.
Insomma, Maj Sjöwall e Per Wahlöö con questi dieci romanzi tracciarono una sorta di summa teologica del genere della krimlitteratur , dalla quale tutti i nostri contemporanei scandinavi trarranno “ispirazione”, per dir così, per le proprie opere.
Una citazione a parte merita un altro mostro sacro del giallo nordico, Gunnar Staalesen, scrittore norvegese che, a partire dal 1977, ha dato vita al filone Hard Boiled scandinavo con il suo detective privato di chiara matrice chandleriana, Varg Veum , che ha all’attivo 16 romanzi e numerosi tentativi di imitazione, come la Settimana Enigmistica.
I romanzi di Staalesen segnano un tratto di discontinuità dal classico stile procedurale imposto in un certo qual modo da Sjöwall e Wahlöö e introducono, o per meglio dire riportano alla luce, la figura dell’antieroe solitario che non ha neppure la legge alla quale aggrapparsi per portare avanti la propria ricerca della verità. Filo conduttore che tiene uniti invece tutti gli autori del grande Nord è la spietata critica sociale, che risulta essere trasversale per tutte le tre grandi nazioni scandinave e anche per la piccola Islanda. A partire dagli anni Ottanta, con l’avvento di dinamiche capitaliste e del neoliberismo anche nel Grande Nord, i Socialdemocratici si spostano nettamente verso il centro e la società si sente delusa e tradita. Nel corso degli anni Novanta quindi queste istanze, unitamente al solco tracciato da Sjöwall e Wahlöö, vengono riprese da Henning Mankell, anch’egli svedese. Il suo commissario Wallander è la trasposizione del parigrado Martin Beck nella Svezia a cavallo del nuovo millennio in cui la tecnologia e le novità (infiltrazione delle mafie provenienti dalla Russia e dalle Repubbliche Baltiche formatesi dopo il crollo del muro di Berlino e del blocco socialista) arrivano molto velocemente e investono un tipo di letteratura che per cifra stilistica e di impatto resta, tutto sommato, lenta e attaccata ad una precisione e ad un amore per il dettaglio che rasentano il didascalico.
Dopo di lui, sulle spalle di questi giganti, sono arrivati altri autori, altri SSON, ERG, SEN, UND, Ø e così via, che hanno impresso certamente un proprio impulso alla Krimlitteratur, ma che hanno sicuramente innovato poco il canovaccio tracciato. Autori significativi per voglia di sperimentare sono certamente Kjell Ola Dahl, che fonde lo spirito Hard Boiled di Staalesen con il rigore procedurale di Mankell, e Jo Nesbø, con la figura del commissario Harry Hole prima della deriva da film americano degli ultimi due romanzoni da cassetta. Altri nomi dei quali avrete certamente sentito parlare, ma che hanno forse aprofittato della “piena”, sono Anne Holt, Liza Marklund, Camilla Läckberg. Attenzione speciale, invece, va ad Arnaldur Indridanson, che dalla piccola Islanda ha messo a tema la decomposizione di una società minuscola e chiusa, grazie alla figura quasi epica del commissario Erlendur Sveinsson della polizia di Rejkiavik.
I temi trattati sono gli stessi quasi per tutti, ampliati e attualizzati: l’individuazione delle sempre più enormi falle sistema del welfare scandinavo che viene addirittura eletto a nemico del singolo cittadino. Tutti questi libri sono popolati da protagonisti emarginati, uomini e donne che non hanno più alcuna fiducia verso lo stato che si va progressivamente sgretolando, poi droga, mafie e prostituzione, immigrazione e un’integrazione spesso solo formale e niente più, oltre ai rigurgiti neo fascisti che popolano tutta la Scandinavia.
All’interno di questi aspetti generali e condivisi da altri articoli in merito, si inserisce il recupero di atmosfere tratte dalla letteratura nordica nel periodo fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, come l’esigenza di raccontare la città e i suoi mutamenti che avvertono autori del calibro di Knut Hamsun, e figure borderline che ricordano da vicino il Doktor Glas di Hjalmar Söderberg, per non dimenticare le atmosfere dell’Ibsen di Hedda Gabler o quelle dell’opera di Strindberg .
Una menzione particolare, e volutamente separata da questo bestiario della letteratura di genere scandinava, va a Stieg Larsson, che con la sua trilogia di Millennium ha avuto la triste ventura di divenire la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. I suoi lavori sublimano in modo addirittura eccessivo quanto detto sopra, dando vita ad una serie di romanzi ipertrofici che lasceranno dietro di loro il dubbio che la sua prematura scomparsa abbia accelerato un processo di beatificazione editoriale e di pubblico molto più grande del previsto e del prevedibile. Stieg Larsson, il primo dei nuovi vichinghi che partono dalle coste del Grande Nord e invadono, conquistandoli, i nostri mercati, con navi ipotetiche il cui fasciame si tramuta negli scaffali delle nostre librerie o nelle mensole delle nostre case firmate IKEA. E il cerchio si chiude.

Il successo di pubblico della letteratura del Grande Nord è dovuto in gran parte al solco tracciato dai capostipiti, solco così chiaro da essere ricalcato dai molti, anzi troppi, autori contemporanei. Il mondo che esce dalle loro pagine è percepito dal lettore italiano come abbastanza lontano, ma tutto sommato europeo e quindi distante al punto giusto per essere condiviso senza sporcarsi troppo le mani. Gli scrittori scandinavi sono abili nel riprodurre le atmosfere dei luoghi narrati e renderli vivibili al lettore; che si tratti di Oslo o dei grandi fiordi a picco sul mare del Nord ha, a questo punto, poca importanza. L’ultimo aspetto per cui il lettore italiano si fidelizza con il giallo Nordico è da individuarsi nella ben dosata alternanza fra la quotidianità e i grandi avvenimenti, fra i dettagli più piccoli e i paesaggi sconfinati, in cui è inserita l’intima indagine dell’animo umano e della società contemporanea nel suo decadimento.
Le ragioni profonde per le quali quest’onda del mare del Nord sembra essere infinita, non sono quindi da ricercarsi solo ed esclusivamente nel leggere miope e influenzabile del pubblico italico e nel vendere e promuovere lungimirante delle maggiori case editrici nazionali.
Il mercato ci mette certamente del suo. Regola le nostre vite che ci piaccia o meno, e regola anche il nostro leggere. Magari non quello di tutti, ma sicuramente il leggere di quella massa acritica che con un libro a testa sposta in modo inconsapevole il vento del momento. E il vento del momento è gelido e soffia dal Grande Nord.

(Andrea Ferrari è un “giallista” milanese, laureato in lingue e letterature scandinave)

Oui, nous, nuje, nosotros sommes (un petit poch’) la France!

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di Helena Janeczek

Com’è il bicchiere della riscossa a sinistra dopo il primo turno delle presidenziali in Francia? Mezzo pieno o mezzo vuoto? Il 1,5% di vantaggio di Hollande, insieme alle nette indicazioni di Mélenchon, giustificano festeggiamenti e speranze?

I topastri di Marino Magliani

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(ecco l’incipit dell’ultimo lavoro, giallo-bolaño-animalesco, di Marino Magliani: “La ricerca del legname”, due punti Edizioni, 6 €; provare per credere e apprezzare; GS)

 

“A volte vengono giri d’idee che non appartengono alla nostra lingua, e ciò non ti sembri strano.”

Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi

 

C’erano i piccoli con cui giocavo sui bordi del tubo che usciva dallo sfiatatoio e a noi sembrava uscisse dal mare. E c’erano i vecchi a ridosso del muro. E c’era il mare, ma non si vedeva. Era sopra di noi, e per raggiungerlo si procedeva attraverso le fessure fino allo sfiatatoio e lassù c’era il tombino e da qualche parte il mare. Ma prima del mare c’era da attraversare la strada e allora uno restava lì, immobile, e dicevano che a quel punto mancava il coraggio.

Un giorno da lassù era caduto un serpente. Scappammo via, e quando da dietro i ripari ci voltammo a guardare tirammo un sospiro perché il serpente era morto. Le ruote delle macchine gli erano passate addosso mentre tentava d’infilarsi tra le sbarre e gli avevano spezzato la frusta che hanno dentro i serpenti. Le ultime forze le aveva usate per trascinarsi e cadere tra noi. Prima di avvicinarci e mangiarlo, aspettammo che anche i suoi nervi si quietassero e la bocca non mordesse più l’aria. Anche El Tira era tornato a guardare. Lui era il più sveglio e non credo lo fosse solo perché era nipote di Josephine la cantante. A una certa età queste cose non interessano. La popolarità di Pepe El Tira continuò anche quando entrammo al commissariato. Io mi arruolai proprio perché c’era lui. Ci misero a fare i turni nello stesso quartiere, era un periodo in cui nella colonia vivevano parecchie teste calde, sabotavano i collegamenti ai condotti periferici, disturbavano il transito dei pendolari. Poi mi trasferirono alle aree di risorsa. Dovete sapere che l’ottanta per cento del legname proveniva dalle radici dei platani che sfondavano i muri di contenimento, il resto si recuperava ammassato contro le grate. Era legname di prim’ordine che giungeva dal fiume e si accampava provocando innondazioni. Le grate esterne ne lasciavano passare grosse quantità, quelle interne trattenevano i tronchi e le tavole, pezzi di mobili che galleggiavano nell’acqua assieme ai cadaveri sorpresi dalle piene. Le squadre dei recuperatori avevano sempre il loro daffare. A volte li scortavamo nei condotti poco sicuri.

Per un periodo, con El Tira lavorammo fianco a fianco anche nella lotta contro il brac­conaggio. I bracconieri possedevano una tecnica fulminea, la usavano durante i temporali di maggio, e nel giro di poche ore le lumache che inseguivano le trasudazioni fino al nostro livello venivano sterminate.

Poi con El Tira ci perdemmo di vista; gli assegnavano i controlli di altri livelli, territori frequentati da assassini di grossa taglia, serpenti e faine, fin quando non si mise in testa che per una serie di delitti il responsabile era uno di noi, un topo. All’Accademia, per quel poco che la frequentammo prima di praticare, ci avevano sempre detto che i topi non uccidono i topi. Ma El Tira aveva avuto quell’intuizione, nel nostro mestiere contano le intuizioni. E quella volta il serial killer era davvero un nostro simile, anche se i capi non lo ammisero mai per non allarmare la popolazione. A rendere definitivamente famoso El Tira ci pensò lo scrittore cileno col racconto del serial killer. Da quel giorno, quando si usciva con lui, lo riconoscevano subito tutti: guarda, Pepe El Tira, dicevano. Lui s’era calato nel personaggio. Ci confidava che stava indagando sulle morti dello sfiatatoio con metodi nuovi, usati nel mondo superiore.

Quando uscii dal corpo di polizia non passò molto tempo che se ne andò anche El Tira. Rimanemmo entrambi a vivere nel quartiere, anche se ci incontravamo di rado. Lui veniva intervistato e parlava di disagi e crimini, e credo che la popolarità non gli dispiacesse. Quanto a me, dopo un periodo a far nulla, cominciai ad annoiarmi. Tornavo nei posti dell’infanzia, i miei genitori non vive­­vano più, a volte mi portavo lungo la scarpata, prima dello sfiatatoio, e mi nascon­­devo nel buio in attesa che penetrasse qualcuno: giovani serpenti, al solito, moribondi con i segni delle gomme sul ventre. Mi piaceva vederli mordere l’aria mentre morivano, una soddisfazione di cui non riu­scivo vergognarmi.

Un giorno feci come tutti i poliziotti che si annoiavano e misi su un’agenzia di investigazioni. Piccole indagini per conto dell’amministrazione. E fu durante l’estate, che era il periodo di maggiore lavoro perché i condotti si prosciugavano e l’amministrazione dava in appalto la realizzazione di accessi ai livelli superiori, che venne a farmi visita la madre di un tale Rudy. Disse che il figlio era sparito da tempo e la polizia sosteneva che poteva essere stato depredato e ucciso. Oppure era stato fatto fuori durante un rego­la­mento di conti.  ….

(la collana ZOO|||SCRITTURE ANIMALI nella quale appare il testo di Magliani è diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini)

26 Aprile

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Byron – Le ultime poesie

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di Franco Buffoni

Ancora oggi si ritiene che “On This Day I Complete my 36th Year” sia l’ultima composizione di Byron. Invece è la prima di un breve ciclo – che potremmo idealmente intitolare “To Lukas” o “To Luke”, come avrebbe preferito Lord Byron – in un pendant col giovanile ciclo “To Thyrza”, dedicato al primo amore John Edleston.

La Région Centrale

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Altro Snow qui.

… nella notte lo guidano le stelle…

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Felice Cascione
[Imperia, 2-5-1918 – Alto, 27-1-1944 ]

Sassolini, mollichine.

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di Giuseppe Zucco

Una sola metafora spesso dice più di un lungo discorso.
Bernard Lamy

Gli stringevamo una corda intorno ai piedi, e lo trascinavamo fuori dalla tenda. In realtà, non erano i piedi, quanto l’estremità del sacco a pelo. Facevamo strisciare il sacco a pelo sul catino della tenda, sullo spiazzo di terra davanti alla tenda, intuendo appena la polvere sollevata nell’oscurità.

Intervista a Vladimiro Giacché

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di Helena Janeczek

Si chiama Titanic Europa (Aliberti, 14,00€), ma in circa 170 pagine contiene una nave e un iceberg ben più grandi: la crisi economica presa da molto prima del crack di Lehman Brothers, fino alla Grecia e l’Italia, perno del possibile naufragio, too big to fail ma troppo grande per essere salvata. L’ha scritto Vladimiro Giacché, dirigente della finanziaria Sator e, al contempo, marxista dichiarato. Nel saggio prevale lo sguardo dell’insider o la voce del militante?

Con due deca

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hanno ucciso l'uomo ragno / 883di  Giacomo Bottà

[Quest’anno è, tra le altre cose, il ventennale di Hanno ucciso l’uomo ragno degli 883. Alcuni gruppi indie italiani hanno realizzato una compilation on line su Rockit.it]

Ho abitato a Pavia dal 1993 al 1999. Levando un paio di semestri di Erasmus, la città sul Ticino è stata la mia casa ammobiliata, la mia stanza condivisa, la mia aula magna, la mia sala studio, il mio bar mal frequentato e la mia pizza al metro.

Contemporaneamente gli 883 di Pavia andavano in televisione, alla radio, al Festivalbar, su Sorrisi e Canzoni e magari qualcuno diceva di aver visto Pezzali in giro in centro, con gli occhiali ray-ban a pera e la giacca da aviatore o dentro una macchina, mentre girava rombante la rotonda di Pomodoro. Il Celebrità, il Bar Dante, il Naviglio fetido e altri riferimenti delle canzoni degli 883 erano posti reali di Pavia.

Le (r)esistenti

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STORIE DI 27 DONNE AQUILANE 

Le (r)esistenti
Una giornata a L’Aquila
27 donne raccontano

[ clicca sulle sagome rosse per vedere le storie ]
 
pubblicato da orsola puecher

Byron – I diari distrutti

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di Franco Buffoni

La notizia della morte di Lord Byron a Missolonghi il 19 aprile 1824 giunse a Londra solo il 14 maggio. Superato lo shock iniziale, l’amico John Cam Hobhouse, nominato esecutore testamentario, ebbe un solo pensiero: distruggere la carte compromettenti. Non importava che si trattasse di opere letterarie. Che cosa accadde delle privatissime e brillantissime Memoirs, scritte a Venezia nel 1818, con sostanziali aggiunte apportate nel 1820 e nel 1821?

pop muzik (everybody talk about) #18

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Bingo! / AKB48. 2007

Nuovi autismi 20 – Letteratura e fallimenti

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di Giacomo Sartori

Nella mia famiglia siamo tutti dei falliti. Certo con sfumature diverse, perché la vita è sempre molto varia, e anche in un asfittico ecosistema autoreferenziale la biodiversità può essere notevole: falliti presuntuosi da parte di mia madre, falliti più dimessi da parte di mio padre, falliti coscienti di esserlo e falliti emuli Napoleone, falliti coraggiosi, a tratti eroici, e falliti meschini, falliti estroversi e falliti depressi, falliti nullafacenti e falliti iperattivi, falliti invitti e falliti suicidi: ce n’è per tutti i gusti. Ma pur sempre falliti. Io sono cresciuto nel silenzio che segue le grandi catastrofi. Quando ero piccolo il fallimento più vistoso e invadente, il cataclisma che pesava su ogni discorso, era il fiasco del RIFUGIO. Dopo la guerra mia madre aveva avuto la bella idea di investire gli ultimi risparmi rimasti a mia nonna dopo il naufragio precedente, quello della SVALUTAZIONE, nella costruzione di un rifugio alpino sulla montagna che sovrasta la cittadina dove abitavamo. Naturalmente sul rifugio si focalizzano tutte le aspirazioni e le predilezioni dei miei: la passione per la montagna e per gli sport salutisti, l’ideale di una vita semplice e spartana, un lavoro indipendente, la lontananza dalla città e dalla corruzione democristiana. L’idea forse non era male, ma troppo avanti con i tempi: all’epoca i clienti si facevano vedere solo la domenica, e solo quando faceva bel tempo. E avevano pochissimi soldi: la maggior parte ordinavano una bevanda, o al limite un qualcosina per integrare un pranzo al sacco, mangiavano, e poi sparivano. Ma soprattutto i miei non avevano nessuno spirito commerciale: a mia madre è sempre piaciuto pontificare agitando le braccia nell’aria, e mio padre si atteneva al ruolo dell’orso burbero e sessualmente temibile. Non sapendo trattare con i fornitori pagavano tutto caro, e men che meno riuscivano a incassare i debiti. E comunque un sacco di gente consumava e se la filava alla chetichella: il rifugio aveva raggiunto una certa notorietà proprio per questo. Loro si inventavano sempre nuovi metodi, ma moltissimi riuscivano lo stesso a farla franca. Rendendo pazzo di rabbia mio padre, la cui moralità littoria non poteva concepire bassezze di questo genere. Del resto visto l’andazzo anche i sottoposti facevano man bassa. Insomma, dopo una lunga agonia hanno gettato la spugna. Prima mio padre, e dopo qualche stagione, e per la precisione un anno dopo la mia nascita, anche mia madre. Del rifugio, svenduto per poche lire poco prima che la zona cominciasse a diventare di moda, restavano decine di coperte di lana grezza, e dei pesantissimi piatti di porcellana grezza, quelli stessi che ogni tanto mia moglie porta in cantina e io vado a riprendere, perché appunto ai fallimenti e ai loro simboli ci si affeziona. Lo scacco del rifugio era però prima di tutto una metafora: il vero fallimento era il loro matrimonio. Per rimediare a quello non si poteva fare proprio niente, anche con la migliore volontà. Ma naturalmente dietro alla disfatta della loro unione c’era quello delle loro giovinezze e delle loro belle speranze: in altre parole il crollo del fascismo, al quale entrambi avevano aderito con entusiasmo. Per far fronte a quello non c’era rifugio che tenesse. Ma appunto più indietro ancora c’era tutta una genealogia di insuccessi, sia da parte di lui che da parte di lei. Adesso non voglio dilungarmi, altrimenti diventa un romanzo, ma mio nonno paterno aveva investito tutti gli averi della moglie in un avveniristico progetto di lavanderie per alberghi, nel quale la proprietà delle lenzuola e delle tovaglie restava alla sua società. Anche qui i tempi non erano maturi, anche qui mancava completamente il bernoccolo degli affari: le lenzuola e le tovaglie venivano sistematicamente rovinate e distrutte. Mio nonno materno, la cui carriera americana aveva preso il là da una giovanile perdita al gioco, è fallito in un modo meno eclatante, ma più ignominioso: ammalandosi di una malattia impronunciabile. Dopo la sua morte prematura mia nonna è riuscita a recuperare solo una piccolissima parte dei suoi averi mimetizzati in una ingarbugliata foresta di società e di prestanome sparsi per il mondo. Di lui restavano la divisa di ufficiale sabaudo, qualche gingillo prezioso, perché adorava il lusso, e qualche lettera manoscritta dell’amico di gioventù Giovanni Agnelli. Ma naturalmente i fallimenti precedenti si ammantavano di ancora più evanescenti nebbioline, nelle quali fragili figurette danzavano sul bordo della voragine dell’oblio: miraggi ancora più labili. Io sono cresciuto nella nostalgia di un qualcosa che non c’era più, e ancora adesso provo nostalgia per ciò che forse non è mai esistito. È con questa zavorra sentimentale che ho affrontato i miei primi romanzi, è con questa bramosia che ho divorato le scaffalate di diari e di racconti di guerra che leggeva mio padre. Vicende che si svolgevano per lo più dalla parte sbagliata della storia, con retoriche che ora aborro, però pur sempre umane storie di fallimenti, con corpi che soffrivano e sangue che sgorgava. Ma anche dopo nei libri ho sempre cercato esempi di insuccessi con i quali confrontarmi, braccando gli strumenti per interpretare la mia disfatta personale, e forse anche nutrirla, come si foraggia senza volerlo un insaziabile verme solitario. La letteratura per me non è mai stata evasione, ma vertigine e confronto, dialogo con me stesso: essenziale lavorio quotidiano. Nel mio piacere allignava sempre la soddisfazione della vittoria sui miei pregiudizi, l’ebbrezza di nuovi orizzonti di ripiegamento. Nel corso degli anni ho rincorso esempi sempre più arzigogolati e raffinati, sempre più infossati negli abissi dell’interiorità, perché mano a mano diventavo più esigente, più difficilmente contentabile. Non mi dicevano più niente le rozze battaglie che mi soggiogavano quando ero ragazzo. E naturalmente sempre più i messaggi segreti li trovavo imbrigliati nei meandri del linguaggio, sempre più diventava una questione di scarti e  di virtuosismi linguistici. Ossessionato dalla ricerca della verità, senza rendermene conto ero io stesso forse diventato un prodotto delle finzioni che avevo assimilato, avevo forse perso ogni realtà, ogni verosimiglianza. In questa terra di nessuno popolata da miraggi ho cominciato io stesso a scrivere. Eppure andavo avanti a cercare, e tuttora sfrucugno alla ricerca di insegnamenti, o anche solo di risultanze sperimentali, cristalline evidenze fatte di parole, che possano essermi utili. Devo dire che ho sempre trovato senza difficoltà quello che cercavo: l’assillo principale del romanzo moderno, a cominciare dal Don Chisciotte, sembra essere proprio il fallimento. In tutte le sue declinazioni e varianti, in tutti i suoi inessenziali ammaestramenti.

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1989 circa)

In nome del debito sovrano

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L’età del declino *

“…Nel 2012 la democrazia nell’Europa mediterranea venne sospesa, per instaurare una tecnocrazia il cui unico fine era quello di drenare le risorse del capitale privato e convogliarlo nelle casse della BCE. I colpi di Stato bianchi dei tecnocrati vennero favoriti dalla corruzione endemica delle classi politiche locali, che accettarono il fatto compiuto sulla base di un ricatto strisciante, pur di conservare i loro privilegi e restare immuni da ogni provvedimento in sede processuale. Questo fenomeno determinò la sospensione effettiva dei diritti dei cittadini e dei più elementari principii di legalità, costituendo inoltre un laboratorio politico per le democrature, le tecnocrazie e i totalitarismi che avrebbero caratterizzato la successiva fase del collasso delle strutture sociopolitiche dell’Occidente.

Gli ultimi desideri di Boyle: alchimia e luce.

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di Antonio Sparzani

Continuando quanto vi raccontavo a proposito della lista dei desideri del nostro Robert Boyle, molte altre cose potrebbero formare oggetto della nostra curiosità e del nostro stupore,

Quando arrivarono gli alieni. 43-45

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I want to believeAd Andrea Raos

43. Il pianeta si attardava in un dormiveglia fatto di guerre regionali, di smantellamenti di distretti industriali. La proliferazione di confusi e sovrapposti schemi di ferocia e avidità segnava i gruppi sociali localizzati nelle fasce periferiche del capitale finanziario. Gli spessori dei loro corpi sociali, composti, come persone addormentate, tra i quartieri residenziali a basso impatto ambientale, erano intessuti da social network dedicati, da sistemi autonomi di circolazione monetaria e da dottrine filosofiche apprese dalle TV via cavo locali, orientate al razzismo, alla riproduzione endogamica, all’ottusità come espressione compiuta di potenza.

Nostalgia canaglia

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due parole sul futuro della memoria e sui Navigli meneghini

di Gianni Biondillo

In un romanzo rimasto incompiuto di Elio Vittorini, proprio nelle prime pagine, l’autore ci racconta delle due cerchie di terrapieni e mura meneghine che andavano abbattendosi già dagli anni Trenta del secolo scorso. Conosco pochi autori così profondamente milanesi come lo scrittore siracusano. È tipico di chi si sente accolto come un figlio, l’amore quasi incondizionato, estremo, per Milano. Vittorini vedeva abbattersi la memoria storica, preindustriale e, non ostante la sua sensibilità estetica consapevole della perdita, riusciva allo stesso tempo ad entusiasmarsi nei confronti di ciò che il nuovo portava con sé. “Il grandeggiare delle prospettive dei gai palazzi di vetro” – scrive – che andavano a prendere il posto “dei docili colli coi fianchi coperti di muschio che furono i bastioni.”
Se esiste una tradizione, una autentica tradizione meneghina è sicuramente quella di cambiare di continuo pelle, di ridefinire i suoi spazi, di aggiornare il contesto urbano alla modernità. Milano quasi vive come un intralcio la sua millenaria storia, cerca di continuo di rinascere con slancio, di esserci, costi quel che costi, di mostrarsi al passo col mondo. Non che questo non provochi sofferenza, nostalgie, spesso anche frizioni nel tessuto sociale. Leggo, per dire, da un bollettino parrocchiale di quasi un secolo fa, dopo l’abbattimento del complesso di Santa Maria di Loreto, i versi di un anonimo poeta vernacolare: certo, quanto dolore per la perdita della memoria, sopratutto per “i vic nas, scampa chi tucc arent / atorna a la gesina ed al convent” d’altronde, inutile girarci attorno “L’è inutil imprecà e suspirà / L’è inutil tornà indree cont el penser”. Alla fin fine i milanesi, dal grande scrittore al poeta della domenica, comprendono che il mutamento assomiglia a loro più della conservazione. Strana razza, che demolisce monumenti insigni e poi li rimpiange. Ma prima, appunto, li demolisce, nel nome di una emotiva, viscerale fiducia nei confronti delle magnifiche sorti e progressive.
Così accadde con la cerchia dei Navigli. E così, in fondo, doveva accadere. Nel volgere di qualche decennio, quasi a sfregio del lavoro secolare delle generazioni precedenti che avevano trasformato Milano in una sorta di Venezia di pianura, giusto perché la contemporaneità lo chiedeva, con slancio, con entusiasmo, la fitta rete di canali è stata tombinata, chiusa, sepolta, esclusa allo sguardo di tutti. Ciò che resta scoperto, lo sappiamo, sono lacerti di un sistema idraulico straordinario, che ha perduto la sua funzione originaria di trasporto merci. Non ci ha messo molto Milano a trovare una nuova vocazione ai quartieri che si affacciano sui Navigli ancora esistenti, usati oggi come canali irrigui, spesso in secca, desolati, abbandonati.
È bastata una generazione. Mio padre rammentava i suoi bagni da giovinetto nelle acque di un canale che non esiste più. Per me i Navigli, quelli della cerchia storica, semplicemente non sono mai esistiti. Ciò che non esperiamo col corpo smette di scambiare significato. Non c’è. Punto. Per me i Navigli sono solo quelli che ho conosciuto per davvero – la Martesana, la Darsena, il Grande, il Pavese -, lì ho passato la mia adolescenza (certi sabati qualunque, certi sabati italiani) bevendo birre su queste sponde, discutendo di arte e di politica, ridendo a crepapelle, piangendo, anche. Qui ho scoperto la passione per la musica, ascoltata in alcuni locali storici (fra cui il mai abbastanza rimpianto Capolinea, autentico tempio della musica jazz) e accompagnata a bruschette saporitissime e calici di vino rosso rubino. Qui, io stesso, ho suonato e cantato, quando avevo vent’anni e volevo fare la rock star nella vita, qui, preso da autentico innamoramento urbano, ho festeggiato, nel cortile pergolato di una birreria, il mio matrimonio, banchettando e ballando fino a tarda notte.
Ma per me il “tombone” di San Marco, le chiuse, le alzaie, sono poco più di una toponomastica misteriosa. Un racconto che viene da un altro mondo, da un indifferenziato passato, da una nostalgia di un’epoca che, a dirla tutta, non ho mai conosciuto. Mi rendo conto di fare a pugni con la mia formazione storica, universitaria, ma d’altronde mi sento perfettamente coerente col mio essere milanese.
Leggo e ascolto di continuo i lai disperati di chi rimpiange quella Milano, quella dei bastioni e della cerchia dei Navigli (non vorrei apparire caustico, ma ogni tanto mi chiedo se si rimpianga anche la Milano di quando “si teneva la porta di casa aperta”, “ci si conosceva tutti” e “si parlava tutti in dialetto”. La nostalgia è un motore mitologico fenomenale) e ammetto di subire il fascino di chi propone la riapertura della rete d’acqua, per quanto sappia, razionalmente, che sarebbe una impresa spaventosa e assolutamente antieconomica.
Avrei voglia anch’io, insomma, di vederla quella Milano fluviale, imparentata con le città del Nord, con Amburgo, con Amsterdam. Ma so che sarebbe, nei fatti, un desiderio antistorico. Il ripristino dei canali navigabili mi sembra una operazione di restauro urbano che nega l’evidenza: la freccia del tempo è irreversibile, mi ricorda Ilya Prigogine. Scoperchiare i Navigli, al di là dell’impresa titanica, mi pare persino blasfemo e irrispettoso nei confronti della altrettanto titanica operazione di ridefinizione territoriale che segnò il secolo che ci ha preceduti. Un modo di annichilire la Storia proprio nel nome della Storia.
Ma non è nostalgia, mi si ribatte. È progetto. È, a partire da un talento del territorio, il modo di dare una nuova tonalità, una nuova bellezza alla città. Sarebbe vero, e sarebbe bello, se non fosse che alla fine, questo sistema di canali artificiali che si vuole creare non fa che ricadere nei tracciati storici. Cioè, sotto mentite spoglie, nel desiderio di rimettere mano ad una zona della città che ha già subito fin troppi segni e riscritture. Il sospetto – brutta cosa essere sospettosi – è che in fondo si cerchi di abbellire ciò che non ne ha bisogno, il centro storico, lasciando il resto della città per quello che è, quasi non esistesse. Una visione centripeta e perfettamente inadeguata a quello che Milano è diventata: una città centrifuga e policentrica. Insomma, fuori dai denti: ma davvero crediamo che occorra densificare di segni progettuali solo il centro, cioè una piccola parte di territorio di una metropoli enorme, quando la restante parte della città, quella quantitativamente più presente (in abitanti e in incasato) avrebbe bisogno, eccome, di attenzione, di progetto, di identità?
Nessuno mi propone di usare l’elemento cangiante, poetico, magico dell’acqua per riprogettare alcune periferie, alcuni quartieri senza qualità. Luoghi dove, tra l’altro, per sezione stradale e per spazi disponibili una invenzione ex-novo di canali non comporterebbe cantieri dai tempi biblici quali quelli che, se si attuassero, imprigionerebbero il centro storico per decenni.
Questa passione per le grandi opere la conosco. È tipica di chi vuole lasciare il proprio imperituro segno nel mondo. È tipico di una deformazione del progettista e di una logica demagogica che ci caratterizza come italiani. Ma per come la vedo, oggi Milano ha bisogno di qualcosa di meno eclatante, di meno spendibile dal politicante di turno. Ha bisogno, cioè, di una rispettosa manutenzione ordinaria e di una consapevole riprogettazione funzionale di ciò che già c’è: dei Navigli ancora esistenti, per dire, che versano in condizioni penose; dell’unico fiume che attraversa la città, il Lambro, bisognoso di attenzione vera e occasione progettuale irrinunciabile; del Seveso, intubato nella pancia della città e che ad ogni pioggia minimamente copiosa, tracima e mette in ginocchio Niguarda e, di conseguenza, mezza Milano (certo, uno scolmatore fa poco chic per un architetto, ma quanto ne abbiamo bisogno!). Ma su tutto il nostro sguardo dovrebbe concentrarsi su quelle periferie dove vive il 90% degli abitanti di una città enorme, che, come il Seveso, “tracima” ben oltre, non solo dalla cerchia dei Navigli, ma dai confini stessi della città. Le tangenziali di Milano, per capirci, sono il nostro nuovo sistema di circonvallazione urbana di una metropoli che esiste non ostante le lentezze amministrative, e che ha perciò bisogno d’essere (ri)pensata a questa macroscala.
Diamo le spalle al Duomo – alla nostra montagna di pietra cresciuta grazie ai Navigli della nostra memoria – almeno per una volta. Concentriamoci, per dovere, per etica urbana, sul resto del territorio. Questo non significa dimenticare la nostra storia, ma ribadirla. Il doveroso esercizio della memoria più che in un restauro falsificante sta soprattutto nella capacità di conservare l’esistente come un prezioso lascito ereditato dal passato, sta nella ricerca dei segni fantasmatici, e perciò affascinanti, di ciò che sembra perduto, sta nel saper leggere tutte le differenze o le aderenze del palinsesto urbano, stupendoci ancora di quanto sia viva questa città, di come muti per restare sempre se stessa. Milano cambia e noi con lei. Come diceva Pasolini: “nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze.”

[questo pezzo si legge anche qui, con titolo differente]

Lo scienziato buono e lo scienziato cattivo

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di Andrea Inglese

[Questo pezzo fa parte di un nodo su scienza e democrazia apparso sul n° 18 di “Alfabeta2”, che include anche un inedito di Feyerabend curato e tradotto da Antonello Sparzani.]

Realtà dell’uranio impoverito

Da una decina di anni, in diversi paesi del mondo, associazioni e famiglie di veterani, organi dell’esercito, istituzioni internazionali della sanità e dell’ambiente, ONG pacifiste e ambientaliste, giornalisti, ricercatori di diverse discipline, commissioni parlamentari, avvocati e magistrati stanno cercando di stabilire un fatto, l’esistenza o meno di un pezzo di realtà, ossia l’eventualità che esista un legame di causa-effetto tra l’uso di proiettili contenenti uranio impoverito e la malattia di chi, soldato o civile, è entrato in contatto con frammenti o polveri da essi prodotti.

A Cure for the Blues

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di Orsola Puecher

 
Nel piccolo saggio ⇨ Come curare la malinconia Mark Twain recensisce l’esordio tardivo, o forse ritardato, sicuramente a scoppio ritardato di un oscuro scrittore di provincia, G. Ragsdale McClintock