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Art Game : alcuni esempi

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Moondust - 1983di Giorgio Massoni
Attualmente il mondo dell’arte sta assistendo al diffondersi di un fenomeno poco noto, che negli ultimi anni è cresciuto – e sta ancora crescendo – in maniera lenta ma continua. Si tratta dei cosiddetti “videogiochi d’arte” o “art game”, veri e propri videogame nati secondo un uso espressivo e creativo, sviluppati da artisti, grafici e programmatori informatici per lo più in maniera indipendente, fuori dall’estetica e dal design convenzionali e seguendo la propria libera ispirazione.
Prendendo riferimento da Matteo Bittanti (nell’introduzione del suo catalogo-saggio GameScenes, 2006, scritto assieme a Domenico Quaranta) e da Wikipedia sotto le voci “Video game art” e “Art game”, si possono individuare almeno due forme d’arte derivate dal videogioco in quanto medium e dalla sua enorme influenza sulla cultura di massa. Da una parte troviamo la “game art”, che è sostanzialmente quel versante artistico che trae ispirazione dalle immagini e dall’immaginario dei videogiochi, prendendoli come base di partenza per la creazione di opere quali elaborazioni grafiche, stampe e filmati. Dall’altra ci sono invece gli “art game”, considerati una sottocategoria della game art e che sono dei veri e propri videogiochi-opere d’arte, prodotti modificando il software di videogame già esistenti – detti perciò “modification”, o “mod” – oppure creati ex novo da artisti e programmatori.
Tra videogiochi creati da artisti (già riconosciuti nel circuito dell’arte contemporanea) e titoli “elevati dal basso”, la storia degli art game si sviluppa comunque all’interno di quella – molto più ampia e articolata – dei “videogiochi in genere” e negli ultimi decenni ha visto un lento ma inesorabile moltiplicarsi di opere, in particolar modo nel recente periodo che va dal loro boom – tra il 2005 e il 2006 – ai giorni nostri. Tuttavia, l’origine dei videogiochi d’arte viene fatta risalire precisamente al 1983, anno in cui vennero alla luce Moondust e I, Robot.

Moondust

Secondo il parere comune (o quello maggiormente condiviso dai critici), Moondust è il titolo oggi riconosciuto come primo art game della storia e venne creato da Jaron Lanier, programmatore americano nonché compositore, artista e autore. In quest’opera il protagonista è un piccolo astronauta fluttuante nello spazio buio dello schermo.
Il giocatore, muovendo e spostando l’astronauta nello spazio, genera dei suoni coi quali è in grado di creare una piccola sinfonia. Si tratta per questo della prima esperienza sinestetica presente in un videogioco e, molto probabilmente, anche del primo videogame musicale. L’obbiettivo del gioco è guidare l’astronauta in giro per lo schermo, creando strani disegni e conquistando delle navette spaziali per passare attraverso le scie che l’astronauta stesso crea durante il suo passaggio. Questo titolo è stato spesso esposto sotto forma di installazione d’arte nei musei ed è stato comparato ai lavori di Jeff Minter, anch’egli autore di videogiochi stravaganti divenuti famosi per il loro particolare stile allucinato (come ad esempio Psychedelia, un sintetizzatore luminoso del 1984).

I, Robot

Sempre nel 1983 troviamo I, Robot, uno dei primi videogiochi dotati di grafica 3D nonché il primo art game realizzato da un “non-artista”, il programmatore Dave Theurer (noto per aver creato anche Missile Command e Tempest, entrambi del 1980).
I, Robot è suddiviso in due parti di gioco, l’avventura (il videogame vero e proprio) e Doodle City, la sezione più particolare di I, Robot, che ci consente di riconoscerlo come il secondo videogioco d’arte della storia e, oltretutto, come il secondo non-game di sempre (il primo fu infatti Alien Garden del 1982, anche questo di Jaron Lanier, precedente di un anno a Moondust). Stando alle intenzioni di Theurer, Doodle City venne creato come fonte di svago per rilassare il giocatore al di fuori del solito “spara all’alieno” dei videogame dell’epoca. Si tratta della parte più libera e creativa di I, Robot dove il giocatore può disporre (per soli tre minuti, finché dura il credito) degli elementi grafici poligonali presenti nel videogioco e usarli per “dipingere” sullo schermo nero del coin-op. Le forme infatti possono essere manipolate e trascinate, lasciando una scia con cui disegnare delle composizioni astratte analoghe, sotto certi aspetti, a dei veri e propri quadri.

Pokémon

La Game Freak (fondata nel 1989 da Satoshi Tajiri e Ken Sugimori) produsse il proprio titolo di punta, Pokémon, nel 1996. Si tratta di un esempio particolare tra gli art game creati da non artisti, entrato con discrezione ma inesorabilmente a far parte della cultura popolare di massa.
In Giappone l’hobby di collezionare insetti era uno svago molto diffuso tra i bambini e fu un passatempo condiviso anche dal main programmer Satoshi Tajiri. Sostenuto dai ricordi d’infanzia, negli anni ‘90 Tajiri elaborò l’idea di Capsule Monsters (rinominato Pocket Monsters e poi Pokémon), videogame nato per rendere possibile la cattura, la collezione e lo scambio di tante diverse creaturine digitali, i pokémon: surrogati virtuali degli animali domestici appartenenti ad un mondo fantastico senza violenza, che non sanguinano e non muoiono ma possono solamente svenire se vengono sconfitti durante le lotte.
Contrariamente a quanto in genere si pensa, Pokémon non ebbe un successo immediato al momento del suo lancio sul mercato giapponese, nel febbraio del ’96. Ma la cosa strana fu che continuava a vendere anche dopo le prime settimane, quando di solito tutti i titoli hanno ormai realizzato il grosso dei profitti. Sebbene Nintendo non stesse spingendo il gioco, fu il passaparola a farlo salire in classifica aumentando esponenzialmente il numero di copie acquistate. Alla fine del 1997 Pocket Monsters aveva già venduto quattro milioni di copie.
Ma cosa c’era di così affascinante in Pocket Monsters? Stando a quanto dice l’amministratore e direttore generale del Nintendo Entertainment Analisys and Development – nonché creatore di Super Mario – Shigeru Miyamoto, “Tajiri non aveva avviato il progetto con l’intenzione di realizzare qualcosa di popolare, ma soltanto il gioco che lui stesso avrebbe voluto giocare. Non c’erano ragioni commerciali ma solamente l’amore per la sua creazione. Voleva, in qualche modo, realizzare qualcosa per se stesso che fosse apprezzato sia dai suoi connazionali che dalla gente di altri paesi”. Satoshi Tajiri ha investito nel gioco una fortissima componente autobiografica, ambientandolo nel suo mondo di fantasia e condividendo con un vasto pubblico di giocatori l’immaginario della propria infanzia di piccolo collezionista di coleotteri. Tant’è vero che nelle prime versioni giapponesi del gioco il protagonista si chiamava proprio Satoshi (mentre il suo rivale invece Shigeru, come ironico omaggio a Shigeru Miyamoto). Ma non solo: le ambientazioni di Pokémon, le mappe del gioco, esistono veramente e si tratta, infatti, di alcune zone del Giappone (a cui nel gioco sono stati cambiati i nomi) che Satoshi ha trasferito dalla realtà all’interno del mondo immaginario di Pokémon. Tali regioni fittizie sono sovrapponibili alle loro omologhe reali e questo ci permette quindi di rintracciare le corrispondenze geografiche che intercorrono tra loro. La trama del primo Pokémon, ad esempio, si svolge in viaggio tra le città della regione di Kanto.
Una realtà, quella di Pokémon, che riflette a pieno la sfera ideale di Satoshi Tajiri ed il giocatore, impersonando Satoshi stesso da bambino, è in grado di entrare in questo suo piccolo ma meraviglioso mondo (forse chiuso in sé stesso, ma tenero e accogliente come la sindrome di Asperger di cui Tajiri è affetto) immergendosi nella sua mente, facendovi parte per condividerne fantasia e memoria. E questo il giocatore riesce in qualche modo a percepirlo, anche se in maniera sottile e indiretta, non pienamente cosciente: riesce a intuire il tepore e l’intimità del piccolo universo interiore di Satoshi e, come di un sogno, non può che compiacersene.
A livello tecnico, Pokémon non è che un gioco di ruolo bidimensionale con poche tonalità di colore e animazioni limitate, un videogame nato senza aspirare al realismo cinematografico dei moderni titoli per consolle. Anche se crea una realtà completamente fittizia, lascia al giocatore la possibilità di immaginare da solo gran parte del mondo dei pokémon, dimostrandoci che l’esperienza di gioco trascende del tutto le apparenti limitazioni delle consolle e sbaraglia i tentativi di comprendere i videogiochi come semplici spettacoli audiovisivi.
In ciascuna versione di Pokémon il protagonista è un bambino (o, a scelta, una ragazzina, a partire dalla terza edizione del titolo) desideroso di diventare un allenatore di pokémon, che si assume il compito di aiutare un suo amico professore a completare la lista di tutti i mostriciattoli presenti nella regione del gioco. Per aiutarlo a svolgere il proprio compito, il buon professore permette al giocatore di scegliere la sua prima creatura fra tre “pokémon starters”, che gli viene lasciata in dono e che diverrà il suo più affezionato compagno d’avventura fin dall’inizio della storia.
Non esiste un’unica finalità di gioco. Si potrebbe dire che, seguendo la linea narrativa, lo scopo principale sarebbe catturare nuovi pokémon da collezionare per creare una propria squadra di lotta, percorrere tutta la serie di città per battere i “capipalestra” di ogni zona e sconfiggere infine il proprio antagonista per ottenere il titolo di miglior allenatore di pokémon. Ma una volta terminata l’intera avventura il gioco prosegue, dando così al giocatore la possibilità di “andare a zonzo” tra le aree della mappa per continuare ad allenare la propria squadra e renderla sempre più forte, oppure catturare altri mostriciattoli per creare un nuovo team di lotta.
Il successo di questo titolo è dovuto, fra i suoi molteplici aspetti, anche al fatto di avere una straordinaria durata di gioco – virtualmente infinita – per la quale si può continuare a giocare a Pokémon anche parecchio tempo dopo averne conclusa la storia, terminando solo quando viene a spegnersi l’interesse del giocatore. Oltretutto, a rendere ancora più longevo ed interessante il gioco contribuisce pure la peculiare “fragilità” del software. Fattore, questo, che consente al giocatore di farne una sorta di hackeraggio, un uso libero e creativo del videogame stesso tramite l’utilizzo di “cheat” (imbrogli e trucchi) e lo sfruttamento di “glitch” (bug, errori nel funzionamento o nella programmazione del gioco) accessibili con o senza l’aiuto di periferiche esterne. Alcuni glitch più semplici consentono al giocatore di duplicare i pokémon o gli oggetti posseduti nel proprio inventario, catturare creature normalmente inottenibili, accedere ad alcune aree esterne alla mappa di gioco ecc. Altri invece, più complicati, vanno ad intervenire direttamente nella struttura del videogame, modificando alla radice il funzionamento di alcune parti del programma stesso. Tra i glitch complessi i più noti sono MissingNo (cioè “missing number”), ‘M, Charizard ‘M, Bad Egg e Glitch City. Quest’ultimo è un bug particolare che visualizza in maniera erronea tutto lo sfondo della mappa di gioco – o solo una determinata zona – raffigurando un mondo disgregato, completamente astratto e costruito in maniera random dal gioco utilizzando gli elementi grafici a disposizione.

Ico

Creato nel 2001 dal Team Ico (diretto da Fumito Ueda), Ico è un videogame la cui bellezza risiede nell’intera atmosfera di gioco, data dalla delicatezza dei protagonisti e dagli scenari meravigliosi che il giocatore è chiamato a esplorare. Si tratta di un’avventura dinamica in 3D dall’ambientazione fantasy che racconta l’avventura del piccolo protagonista, Ico, un bambino esiliato dal suo villaggio perché munito di un paio di corna e perciò considerato portatore di sventura. Condotto in un castello abbandonato nella foresta, rinchiuso in un sarcofago e destinato a morirvi di stenti come sacrificio a misteriose forze oscure, il piccolo Ico riesce a liberarsi fortuitamente e ad incontrare la giovane e indifesa Yorda, una fanciulla luminosa intrappolata in una grande gabbia incatenata al soffitto.
Una delle peculiarità di Ico sta nella sua sobrietà stilistica. È insolitamente privo di tutti quegli elementi convenzionali presenti negli altri videogame, quali l’inventario, gli indicatori di punteggio ed energia, i menu a scomparsa e ogni altra interfaccia di gioco. Fumito Ueda evitò di inserire nello schermo qualsiasi cosa che potesse ostacolare il suo design, semplicemente perché non apprezza i videogiochi complicati. Ha creato Ico pensando al videogame che più gli sarebbe piaciuto giocare, quello ideale.
Altra caratteristica del gioco sta nei vasti ambienti disabitati, suggestivi e tutti da esplorare, impregnati di un’atmosfera surreale ed eterea. Ma la vera stranezza della storia di Ico, e forse anche uno dei suoi punti di forza, è che in realtà racconta molto poco. Raramente i personaggi parlano tra loro: ci sono solo pochi e preziosissimi dialoghi in cui Yorda si esprime in una lingua sconosciuta e intraducibile. Si raccolgono molti indizi ma quel che accade di preciso è lasciato all’immaginazione del giocatore, che è quindi indotto a legarsi ai protagonisti in altri modi. L’ambientazione realistica e i personaggi vividi portano infatti l’utente a un livello di emotività difficilmente raggiungibile da un videogioco.
Eliminando tutti gli stereotipi, Ueda voleva dimostrare che non si tratta di un “semplice videogame” (concetto generalmente troppo limitato) ma di intrattenimento controllato tramite un joypad. Uno dei primi passi verso nuovi videogiochi dove anziché tentare di replicare lo stile dei cartoni o dei film con lunghe sequenze animate non interattive e moltissimi dialoghi, si cominci invece a raccontare davvero una storia. E, così facendo, si possa raggiungere un livello analogo di coinvolgimento sentimentale puntando l’accento su quegli elementi che possono essere comunicati soltanto dai videogame.

Iconoclast Game

Di Lorenzo Pizzanelli va ricordato Iconoclast Game, videogioco sulla storia dell’arte creato nel 2003. Si tratta di un’avventura artistica elaborata in forma di videogame nel tentativo di introdurre un ragionamento critico sulla stessa storia dell’arte. Nato per proporsi come la prima opera-videogioco in assoluto (anche se non lo è affatto), utilizza il linguaggio videoludico per condividere una riflessione colta sulle radici e il destino dell’arte occidentale – dal tempo dei bizantini ai giorni nostri – in maniera partecipata, accessibile a tutti e divertente.
Tempo prima di togliersi la vita nella notte tra il 27 e il 28 settembre 2010, Pizzanelli aveva denominato tale pratica “Play Art” e Iconoclast Game ne è un esempio raffinato e intelligente. L’eroe di questo titolo è Marcel Duchamp (che nel gioco ha il volto dello stesso Pizzanelli), agente speciale del pensiero anticonformista in missione nel museo/tempio dell’arte occidentale per riconsegnare la libertà ai capolavori tenuti prigionieri, distruggendoli allo scopo di redimere le idee originare che vi sono intrappolate e innalzarle in volo verso l’Iperuranio celeste. La critica del videogioco è chiaramente rivolta alla musealizzazione che ha reso “aggressivi” i capolavori, imprigionati come belve in cattività. Per poterli restituire all’originaria pienezza di significato, il giocatore deve muoversi all’interno di smaglianti livelli (costruiti da collages con particolari di diverse opere d’arte) per raggiungere e sfidare il David di Michelangelo, la Medusa di Caravaggio, la Gioconda di Leonardo, quella “ritoccata” dallo stesso Duchamp e tanti altri loro magnifici compagni in una serie di duelli. L’ultima allegoria nonché ironica analisi dell’arte, della sua storia e dei meccanismi della fruizione, donataci da parte di Pizzanelli.

Super Columbine Massacre RPG!

Super Columbine Massacre RPG! è un art game controverso che deve la sua fama proprio alle moltissime critiche che lo hanno colpito nell’arco degli ultimi anni. Venne creato da Danny Ledonne nel 2005, ispirandosi al dramma della strage di liceali americani nella Columbine High School del 1999 (argomento trattato pure dal film Elephant di Gus Van Sant, 2003) e, proprio per questo, fu al centro di durissime polemiche.
Realizzato in sei mesi di lavoro con RPG Maker 2000 e rilasciato gratuitamente online, si tratta di un piccolo gioco di ruolo amatoriale in 2D – graficamente povero e dall’audio scarno – che ripropone l’episodio di cronaca nera dal punto di vista dei giovani criminali.
Prendendo spunto dal dolore causato da un fatto reale e inserendolo nella finzione del mezzo videoludico, Super Columbine Massacre RPG! permette di esplorare le ore finali nelle vite degli studenti assassini Eric Harris e Dylan Klebold, dei quali il giocatore assume i ruoli per “giocare al massacro”, vivendo dei flashback relativi a parti delle loro esperienze. Il videogioco ricostruisce l’intera vicenda di Eric e Dylan cominciando proprio dal mattino della sparatoria e seguendone le azioni fino alla tragica fine. Ed esattamente per questa fedeltà alla cronaca ha fatto nascere un acceso dibattito riguardo ai videogame e alla loro influenza sociale.
Le reazioni a Super Columbine Massacre RPG! furono contrastanti. Da un lato venne rimproverato di banalizzare la strage di vite innocenti e di incitare alla violenza, mentre dall’altro fu contemporaneamente lodato come un’opera degna di plauso. La grafica cartoonesca venne considerata dai critici come oscurante il messaggio drammatico del gioco. Tuttavia ricevette anche acclamazioni come videogame che trascendeva le associazioni stereotipiche del medium come intrattenimento per bambini. I temi e il contenuto dell’opera di Ledonne emersero prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica, essendo inclusi in discussioni sulla possibilità che i videogames causino violenza. Poco più tardi il titolo fu additato perfino come uno dei possibili fattori motivanti la sparatoria del 2006 al Dawson College. Venne oltretutto rifiutato dall’edizione 2007 del concorso Slamdance Guerrilla Games Competition per videogiochi indipendenti e, come segno di protesta contro la sua esclusione, diversi sviluppatori di indie-game decisero di appoggiare Ledonne ritirando i loro titoli, come Braid di Jonathan Blow, Castle Crashers di The Behemoth e flOw dei Thatgamecompany.
Ledonne concepì Super Columbine Massacre RPG! partendo dalla sua stessa esperienza come vittima di bullismo e dall’effetto negativo che l’annuncio della strage ebbe nella propria vita. Molto semplicemente, il gioco rappresenta una critica su come i media abbiano fatto sensazionalismo sulla tragedia, colpevolizzando il ruolo dei videogame e presentandola come una parodia dei videogiochi stessi. L’obbiettivo dichiarato di Ledonne era unicamente quello d’invitare il pubblico a rivivere l’intera triste vicenda a partire dalla prospettiva dei due protagonisti, non tanto per discriminarli o prendersi gioco delle loro vittime ma per provare a capire qualcosa di più sul loro disagio esistenziale, sulle motivazioni che li hanno spinti.
Ad oggi Ledonne è ufficialmente riconosciuto tra i massimi esponenti dei videogame in quanto forma emergente di arte e nel 2008 ha prodotto Playing Columbine, un documentario riguardante l’impatto mediatico causato proprio dal suo gioco.

Okami

Nel 2006 Clover Studio produsse Okami. Diretto da Hideki Kamiya, questo titolo nato per PlayStation 2 e poi convertito per Nintendo Wii è un gioco d’azione e puzzle di notevole grafica cel-shaded, ispirata allo stile delle antiche xilografie del Medioevo giapponese (che gli dà pure un’ambientazione cronologica e geografica) e si sviluppa attorno all’utilizzo del “Pennello Celestiale”, una particolare tecnica divina che permette di disegnare per compiere miracoli e progredire nel gioco, consentendo al giocatore di partecipare al grande disegno complessivo che l’intero videogame rappresenta, invece che limitarsi a guardarlo.
Una caratteristica particolare del gioco è proprio l’uso di tale funzione, con la quale il giocatore può “dipingere” sullo schermo usando lo stick analogico sinistro del joypad o, meglio ancora, il telecomando Wii (a seconda della consolle utilizzata). In base alle forme che disegnerà si creeranno nel gioco effetti diversi (ad esempio è possibile generare un forte vento disegnando una spirale, tagliare i nemici a metà disegnando una linea su di loro, creare ponti, ecc.) grazie alle tecniche imparate man mano nel corso del gioco, dopo aver liberato le dodici divinità del Pennello Celestiale dalla loro prigionia.
Quest’opera racconta la vicenda di una terra antica che si salvò dall’oscurità grazie all’intervento ultraterreno della dea del sole, Amaterasu, scesa nel mondo degli umani sotto forma di lupa bianca. In Okami il giocatore controlla proprio tale insolita protagonista dai poteri sovrannaturali e, nei combattimenti, può sconfiggere i nemici adoperando una combinazione di armi usate insieme alle varie tecniche di combattimento e l’ausilio stesso del Pennello Celestiale.

flOw

Thatgamecompany è un team di giovani sviluppatori americani di videogiochi fondato nel 2006 da Kellee Santiago, Jenova Chen e Nicholas Clark, emersi da un gruppo di sette studenti dell’Interactive Media Division della University of Southern California che nel 2005 aveva realizzato il videogame Cloud (dove il giocatore interpreta una nuvola in cielo guidata da una bambina volante).
Dopo aver visto il loro primo titolo, la Sony chiese a quelli che sarebbero stati i membri della Thatgamecompany di formare tra loro un gruppo per produrre tre giochi scaricabili per PlayStaion 3. Purtroppo Cloud era un videogame impossibile da realizzare per una compagnia così piccola, così decisero di creare flOw, nato a partire dal progetto di tesi di Jenova Chen, nel quale il giocatore conduce l’esistenza di un microrganismo acquatico in un fondale marino, mangiando creature più piccole per crescere e combattere organismi più grandi e per non finire a sua volta mangiato. Le differenti creature che il protagonista assimila nel corso del gioco danno luogo all’apprendimento di nuove capacità, portandolo di volta in volta ad evolvere anche nell’aspetto fisico.
In Flower – sviluppato come “successore spirituale” di flOw e rilasciato nel 2009 – il giocatore controlla invece i movimenti di un petalo sospinto dal vento che deve volare verso i fiori presenti nei prati dei livelli di gioco per aggregare vari altri petali a quello principale. Ritenuto un’esperienza emotivamente coinvolgente (nonché un successo di critica), l’arco narrativo di questo titolo prende forma attraverso la rappresentazione visiva di spunti sentimentali: Flower è stato infatti destinato a suscitare emozioni positive nel giocatore, piuttosto che essere solo una sfida o un videogioco divertente.
Sul loro sito, i Thatgamecompany hanno dichiarato che nei loro giochi intendono “comunicare diverse esperienze emotive che l’attuale mercato dei videogame non offre”. Ritengono infatti che la gamma di sentimenti che la maggior parte dei videogiochi suscitano nel pubblico sia stata finora molto limitata e, proprio per questo, hanno scelto d’impegnarsi nella ricerca per la creazione di “opere d’arte videoludiche”, rimuovendo dal loro operato gli elementi di gioco e le meccaniche che non provocano la risposta desiderata nei giocatori.
Attualmente il gruppo continua a collaborare con la Sony per la produzione di videogames scaricabili dal servizio PlayStation Network, per il quale il primo gioco sviluppato da loro è stato una versione migliorata di flOw (che in origine era in Flash) pubblicata nel 2007. Ad oggi stanno lavorando sul loro terzo titolo, Journey, un online-game per PlayStation 3 che verrà rilasciato nel corso del 2011.

Braid

Creato da Jonathan Blow (gruppo Number None) e rilasciato in versione definitiva nel 2006 dopo tre anni di sviluppo, Braid è uno splendido platform 2D con elementi rompicapo che consente al giocatore di manipolare le leggi fisiche dello spazio/tempo per sconfiggere i nemici, evitare la morte e concludere i puzzle di ogni livello. Si tratta di uno dei migliori esempi di videogame d’arte che ha ispirato vari altri titoli del versante indipendente, tra cui Limbo dei Playdead Studios e Time Fcuk di Edmund McMillen (autore, inoltre, anche di Aether).
A differenza della prima versione del 2005, che presentava gli sprite dei vari personaggi realizzati dalla mano dell’illustratore e game designer Edmund McMillen, quella definitiva – ridisegnata completamente da David Hellman, che ne aveva già curato gli sfondi – risulta essere meno fumettistica e dallo stile pittorico ed ispirato.
All’interno di Braid il giocatore si trova nei panni di Tim, un “uomo qualunque” in giacca e cravatta che cerca di salvare una principessa, sua ex fidanzata, rapita da un cavaliere malvagio. Come menzionato poco sopra, si tratta di un platform piuttosto classico all’apparenza, ispirato sotto più di un aspetto alle avventure di Super Mario. In quest’opera sono infatti presenti alcuni omaggi ai titoli Nintendo: uno dei livelli richiama Donkey Kong (per l’esattezza è il secondo livello del quarto mondo, intitolato non a caso “Jumpman”) mentre alla fine di ogni mondo vi è un castello con una bandierina, una volta ammainata la quale veniamo raggiunti da un tirannosauro di pezza che gentilmente ci riferisce: “Mi spiace, ma la principessa è in un altro castello” – aspetto ripreso dal celeberrimo Super Mario Bros.
Braid racchiude al suo interno gli elementi più tipici dei videogiochi a piattaforme, ma la vera particolarità di questo titolo è la possibilità di “riavvolgere” il tempo, similmente a Prince of Persia: Le sabbie del tempo (Jordan Mechner per Ubisoft, 2003). Il riavvolgimento temporale rappresenta le fondamenta del videogame, rivelandosi infatti una caratteristica necessaria per risolvere la maggior parte degli enigmi, e si può attuare ogni qualvolta lo si desideri. In questo modo il giocatore ha la possibilità di tornare sui propri passi, imparare dagli errori e correggerli. La trama ed il gameplay particolare di Braid ruotano attorno a questo assurdo immaginifico, il paradosso del “what-if”.
In quest’opera non esiste quindi il concetto di morte perché lo scorrere del tempo è relativo e soggetto alla nostra volontà. Non essendoci la possibilità di morire, non esistono game over e neppure limiti temporali (Braid è anch’esso privo di barre di stato, ripristini d’energia, vite extra, power-up e così via). Ad ogni morte accidentale di Tim, il giocatore può infatti premere un tasto e riavvolgere la timeline al fine di rimediare all’errore, evitandolo o correggendolo. Ma questo è solo l’inizio, la punta dell’iceberg dell’intero meccanismo. In verità il gioco ci costringe a ragionare in maniera più ampia e non lineare, cercando di capire come questo potere possa rendersi utile nelle situazioni di ogni livello per essere sfruttate a proprio vantaggio. Il giocatore è infatti sollecitato a usare il cervello piuttosto creativamente, a differenza di quanto viene normalmente richiesto nei soliti platform game. Ogni mondo, oltre a presentare una propria affascinante ambientazione, richiede utilizzi differenziati delle abilità temporali di Tim.
Braid ci aiuta a scardinare quell’invisibile porta che divide il mondo materiale – fatto di scelte che portano a delle conseguenze – da quello introspettivo ed inconscio, onirico, dove il tempo perde completamente di significato. Fin dai primi istanti di gioco scopriamo il fine ultimo che ha animato Jonathan Blow nella creazione di Braid, ossia quello di creare una sorta di “metafora videoludica” della vita e dell’inconsistenza del tempo all’interno della nostra mente – memoria e fantasia – allegorizzata dalla casa di Tim che si presta magnificamente a questa particolare interpretazione dell’esistenza, del desiderio e della frustrazione umana, che inconsciamente si sbarazza del tempo per darsi modo di rimediare ad errori fatti in un passato altrimenti immodificabile.
La casa è lo scenario di gioco ed è divisa in sei stanze: dietro ogni porta, un mondo immaginario con i suoi livelli. Mondi dove Tim trova ristoro, dove tutto è possibile ed in cui comincia a cercare la sua amata principessa. Come in un sogno idilliaco che, man mano che si avanza nel gioco, diventa presto un incubo terribile. Oltretutto questo gioco ha anche una profondità di trama tale da contenere almeno tre livelli di lettura, ripiegati uno dentro l’altro, in modo da permettere varie interpretazioni del suo significato intrinseco.

 

 

VISIONI in TRALICE [VI] di perle e rospi

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Adriaen Van Utrecht VANITAS
 
Adriaen Van Utrecht [ 1599 – 1652 ] Vanitas

  CLAUDIO MONTEVERDI   [ 1567 – 1643 ]   E’ questa vita un lampo
[mottetto a 5 voci] da Selva morale e spirituale [VENEZIA 1631 in tempo di peste]

È questa vita un lampo
ch’all’apparir dispare
in questo mortal campo
che se miro il passato è già morto,
il futuro ancor non nato
il presente sparito
non ben anco apparito.

The Monti Lessons

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di Helena Janeczek

Forse è stato quando da Fazio ha elogiato la ricchezza meritata che ho avuto un lampo. Non è solo questione di stile o di classe – il fascino discreto della borghesia a cui non siamo abituati. Nemmeno la stravaganza di chi riassume in purezza quel liberalismo che era stato lo slogan rivoluzionario su cui si è edificato il Nouveau Régime berlusconiano di corti, privilegi e monopoli. E’ che quando parla Mario Monti pare un po’ curioso che si chiami Mario Monti. Quasi verrebbe da fargli i complimenti per il suo italiano, così privo d’accento. Più che strano, Monti sembra straniero: questo è la sua forza. Il sogno di una dominazione straniera che faccia funzionare meglio il Paese non alberga solo nelle anime di una colta e privilegiata minoranza.

Assegnazione dei benefici della legge Bacchelli al poeta Pierluigi Cappello

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di Azzurra D’Agostino

Nelle ultime settimane diverse testate nazionali e siti web (ad esempio qui e qui) hanno riportato la notizia della proposta di assegnare i benefici della Legge Bacchelli al poeta Pierluigi Cappello. Ho scritto alla redazione di Nazione Indiana chiedendo di dare risalto a questa notizia, per far sì che il maggior numero possibile di lettere di supporto arrivino al Presidente del Consiglio della regione Friuli Venezia Giulia Maurizio Franz (email: presidente.consiglio@regione.fvg.it ). Maggiori informazioni sono reperibili sulla pagina Fb creata appositamente per diffondere l’iniziativa (indirizzo pag fb). Pierluigi è una di quelle persone che prendono sul serio le cose che fanno (senza con questa serietà perdere in leggerezza). Ha studiato da solo, nei lunghi anni di malattia e isolamento, raggiungendo una consapevolezza linguistica, civile, culturale rara e luminosa. Nonostante la fatica del suo corpo fragile, per decenni ha rispettato l’impegno di andare in scuole, piazze, strade, incontri per tenere letture e parlare di poesia, del senso della poesia nel nostro presente. In modo vivo e palpitante, tanto che tutti coloro che lo hanno sentito leggere o parlare sono rimasti rapiti, desiderando per lui che qualcosa del tanto che dà e costruisce gli venisse restituito. Il Premio Viareggio del 2010 è stato forse (assieme al Montale e al Bagutta) uno dei riconoscimenti più importanti attribuiti al suo lungo lavoro di scrittura, di traduzione, di pensiero. Ora è il momento per un riconoscimento non solo di prestigio ma anche concreto. Sostenere questa proposta e far sì che venga attuata è, mi pare, doveroso. Grazie.

Intervista al poeta su Mompracem

 

Cantico di stasi / 2011

2

di Marina Pizzi

1.
in un ospizio di foglie
la pigrizia dell’angelo.
si secca la gioia di dio
pertugio di lacrime.
incline al giocondo arenile
balbetta d’eco la conchiglia.
in mano all’armonia dell’inguine
resta la giara senza l’olio santo
prosciugato dal resto del mondo.
mandami un calesse avrò già pianto
nel dilemma scortese del fango.
è tutta qui la resina del dubbio
quando la casa crolla tutta sicura
di stare in piedi. i duri fratelli
hanno lasciato la casa dopo il saccheggio.
in un tuono di vendetta la scaturigine
del sacco chiuso a bomba. intorno le vipere
spasimano gl’intrecci. l’ironia del vicolo
spadroneggia sugli amanti senza riparo.
2.
quale imbrunire mi offuscherà la fronte
nella schiera di nuvole nemiche
scacchiere senza angeli di fianco.
oggi il diverbio è pastore di se stesso
quasi un convulso esodo di stasi
verso l’ombra che per tutti c’è.
in un buio di casale voglio l’occaso
della pace. in primavera si addice
la mia voglia di avverare aiuto
almeno alle fontane senza acqua
battesimali di cenere per sempre.
la croce sulla fronte non basta
il salario di essere felici, anzi
la casta delle ronde tonifica il demonio.
i prìncipi sono pochi e i sudditi
immensi. così lo stato delle fosse
vive, lo stato del dominio delle cose
fatte ad arco per castigare meglio.
3.
posso dormire una notte di scalee
quando le donne con lo strascico
giocano a copiar principesse.
presepe laconico guardarti
dentro il cullare delle darsene oleose
materne quanto un albero di riva.
in mano alla questura di dare appello
la turba che bada la scommessa
di perire sasso senza turbe
né baveri alzati da ubriaco.
4.
così si dice pianga la lucciola
quando la manna si fa spazzatura
presso la porta dorata del folletto.
il bimbo gioca a se stesso da piccolo
ma non lo sa e non è felice appieno.
si sa che è uno zero lunatico questo
tuo perno senza cibo sfinito nella ruggine.
nella sabbia che fatica le staffette
corre la fiamma a cercar di amare
le zuffe di ferrosi amanti.
in un duetto di fragole di maggio
invento le gole di fratelli golosi
così noiosi da sembrar gemelli.
l’arena di truppa non fa finir la guerra
né la buona cucina invita qualcuno
per esorcizzare il rantolo.
la pagnottella con il prosciutto è leccornia
da altare. tu inventa una steppa che
sappia grilli parlanti come le gemme
delle favole. dividi con me questo
cimitero acquatico di fuoco. io non
voglio chiamarmi più marina né in altro modo.
5.
ho imparato a giocare con le statue
in grandi mari a tuffarci insieme
inguine di donna la marea
sotto la guerra di perdere i bambini
in preda alla resina dei barbari.
in mezzo all’avarizia della bara
sono rimasta cenere sgraziata
dai sassolini dei venti più potenti.
in mano alla paglia dei falò
da viva imparai le ceneri
le belle faville che non smettono.
i cortili dei vivi avevano altarini
acquitrini per i pesci rossi
non peccatori i miti degli amori
aperti a mo’ di libri sui davanzali.
in barca sulla fronte dell’anarchia
la chela del granchio non osò toccarla
anzi si ritrasse per un fido di elemosina.
6.
La finestra dello scontento

lungo le rotte del mio sacrificare
la calca della palude. nell’interno
del diamante vedo il cestino
delle inutili stimmate. sono molto a soffrire
questo marziano d’ansia.
indarno gli appunti non spiegano
la disgrazia delle mosse senza rispetto
le malizie che contengono l’arrivo
sulle supplenze del vento sempre contro
il beneficio del faro tutto stante.
in gara con la rondine che vince
si ritiri la noia che dà da piangere
al cinereo bastone del basto dentro.
qui si immola l’avarizia del contendere
solo acquazzoni con le morse delle gocce.
in mano alla pietà della risacca
le scorie nelle mani sono l’affetto
di gente morta nel giardino delle meraviglie
così si dice nelle fole di vinti talami.
la paura del soldato è lo steccato
dinamitardo. qui se ti affretti a scappare
apra la sorte il vento e l’avarizia crepi.
7.
quale bistro truccherà il mio zaino
in perla d’indovino finalmente
per correre alla maniera dell’atleta
con la lancia in resta e la corona in testa.
nulla parlerà di regole oceaniche
visto che lo stagno piange fanciullo
e la pallottola ha trascorso la nuca.
così morta la ciurma della ronda
nulla potrà cantare alla madre del bivacco
l’accomodo di dirle una pietà.
alla cometa del rantolo maniaco
si scomoda il respiro per spirare
la corta moda di morire sùbito.
in mano al dado del sicario
si ottenebra la calce del loculo
quale più oscuro anfratto di bracconaggio.
in mano alla caduta della rotta
faccio ammenda di me nei secoli
per le placente irrise che non ebbi.
8.
dio di cancrene stare zitto
sul filo del rasoio come abaco
atto al rasoterra. l’alone della terra
è fiato smesso pronto per il sottomesso
fato di sospiro. e sempre rantola il guasto
della conca in culmine di oceano. iddio
canuto questo scempio fiumara di fumo.
addio al sasso che giocò al vetro rotto
dentro il cortile d’infanzia. è giara di veleno
l’alunno zoppo che non può scalciare
contro la poca aureola del sogno.
in lutto guarderò la sedia vuota
dove rantolò la scherma di Ulisse
il bel cerchio di restare vivi.
in fondo è un cipresseto anche l’annuncio
di chiamarsi al dondolo. muore la spada
d’accatto quando giocare sfuggiva la cavia.
oggi si accantona il bacio
per un giro ancora.
9.
mi metterò l’occaso in riva al sangue
e capirò perché la luna è piena
o spicchio di capestro. l’alunno saturnino
della pena gravita una roccia. dove da oggi
è turno di scempio prestare il rantolo
occludere la fiaccola del coraggio. in stato di
omuncolo regalo assiomi miracolosi
d’asma. eppur domani sia consono
il re del soqquadro per la caligine
del retro stato. un fato di nebbia
mi epuri l’odio. non basta raccontarsi
un enigma se la storia è dio. è da sùbito
l’urto con la fossa certa. d’animo e conclave
non avrò amore nel furto di esserci. la cenere
d’olimpio dove si culla il sole senza speranza.
e la darsena si acclude all’osso di sterco
al comignolo che ottura il cielo
verso la rottura col mito. in fase maschia
non sarà riscossa espugnare il rantolo.
10.
finalmente avrò un bottone d’agio
finalmente. e dietro l’ambito delle vene
rosse non ci sarà più il sangue, ma la fine
dolcissima della vita. nel ginnasio degli angeli
voglio andare dove la pena non è neppure
un ricordo. nelle scalee di prìncipi e tiranni
resta l’odore della morte per il popolo dei
gioghi. gigli secchi comprendono le tombe
quando nessuno si ricorda più
di quali stati fu il cruciverba e la badata
stasi di dormire raccolti in un apice
di piume. lo sterzo è la vendetta del morente
con urli o silenzio secondo la paura.
immersi in un letamaio di giullari
si contamina restare stamberghe di sé.
11.
lasciami andare a un sinonimo di eclissi
dove l’abaco conti solo miti
e siluri di alfabeti miracolosi
dove la cornucopia è sazia
e la viltà non ha indici
né sbagli di scommesse.
intagli di meraviglie starti a guardare
nell’eremo che soqquadra le pianure
perdurando le eresie del bello
sotto le cimase dell’esodo folclorico
e le rotte evangeliche del sorriso.
indarno il quadro scoppia di bellezza
se questo deserto è prova di catrame
e la trama del foglio perde la scrittura.
il trono maniacale dell’estetica
espunge il costato dell’arsura
questa bravura di piangere per sempre
nonostante le zeppe sotto la lavagna.
il crudo amore inguaia la progenie
misfatto editto per la solitudine
tutte già belle le turbe delle spose.
12.
mia madre è morta di strano cuore
una maretta intrisa di preghiera
la mia di sapida bestemmia
dove la pietà si annulla in urlo.
in un covo di rettitudine blasfema
ho sopportato l’agonia la gogna
dell’attesa e il silenzio finale.
con un pellegrinaggio di lenzuola
la giornata si fa atroce come la purea
di tutti i giorni e le cibarie pessime.
escludo da me la veglia della gioia
questa vanga di fanga e di gran fuoco
quando i fiori si gettano per terra
a piramide profumata. si toglie tutto
anche la croce per la cenere maligna.
resti o svapori poco importa alla baldanza
di lucciole letargiche e fuochi fatui.
i lavori degli uomini continuano
a trasportare morti per furti futuri.
si ruba ai morti tanto non costa niente
e la baldoria non barcolla un attimo.
13.
l’arringa del salice piangente
ingenera chissà quale soccorso
verso il sudario della donna in lacrime
sul crimine d’intendere l’area del pozzo.
quale dolore t’infilzò la milza oh fratello
del bosco? quale scoscesa realtà
volle sedurti al panico? intùito vederti
ormai che morta fu la nenia di
baciarti oltre. così commosso l’antro
del mio bene non trova strada sul dazio
del sale. ora me ne andrò per far cometa
il sogno. al vespro la madre non rincasa.
tu sapevi che piangere è morire lungo
la rotta del salario chiuso. misure d’asma
non trovarla più.
14.
vado all’espatrio ogni notte
con un tatuaggio nel cervello
botta e risposta senza fine
la mia carriera visitata da ferri
arroventati. nei denti un faro
di conchiglia. una perplessa
aurora quanto un cimitero
divelto. miserere del respiro
continuare la scansione del
tempo. vocativo d’estro volerti
accanto. camminami sul petto
abbi pietà del mito che ci rese
fragili. passa la vendetta un canestrello
di vespe. la grazia occulta della siepe
è un buon cammino nonostante
non sapere l’aldilà. incudine di putti
verremo uccisi tutti.
15.
qui si sale in coda all’erba vinta
alla riscossa che non sa di niente
né di pane azzimo la scuola.
il perno della foce è dietro l’angolo
una madonna in estro di fallacia
per un girotondo di perle senza
viottolo. si sta conserti mappamondi
in torto sull’occaso di dar spallate al mondo.
16.

I delitti efferati (1 prosa comoda)

17

di Andrea Inglese

 Certo, i giornali molto parlavano di delitti, e codesti delitti erano non solo in aumento, ma pareva aumentare di giorno in giorno la loro efferatezza, mentre le vittime perduravano vittime, ostinatamente sprovvedute e docili. Quanto alla polizia, quando uno ne ha bisogno davvero per ragioni securitarie, mancano poi gli effettivi per ragioni di bilancio. Quindi non c’era da stare allegri. Chi aveva un bambino o una bambina, se li godeva finché poteva, notte e giorno, tenendoli sempre svegli, per via del delitto incombente, sempre nell’aria, e per via del carnefice, che ogni volta risultava essere una persona educata e puntuale nei pagamenti.

da “Previsioni e lapsus”

15

di Luciano Mazziotta

Avvenimenti

 Succede. È successo più volte

sempre quasi fuori quadro di sbieco

tra le tempie e le lenti.

Succede che qualcosa si rompe

che si sgretola il soffitto sul sofà

appena intravisto nell’atto

di cedere, di essere cenere

bianca: crepa.

Vita complicata di un sopravvissuto

10

di Mauro Baldrati

L’altra sera al gruppo di psicodramma il sopravvissuto che è in me ha fatto una full immersion molto interessante nella cultura maggiore [qui ] italiana alla moda.

Toccava a Lucia, di Trento, salire sul palcoscenico per il lavoro, cioè la rappresentazione del suo psicodramma. Lucia è una donna di circa quarant’anni che lavora nel servizio pubblico della sanità.

Chiediamo coraggio

9

[Luisa Bocchietto, presidente ADI, il 4 gennaio ha replicato al mio appello sul Corriere – Milano, qui. Il giorno appresso è giunta la lettera di Pisapia, qui. Il 7 gennaio l’arch. Perotta ventila di querelarmi e ci dà degli invidiosi, qui. Ieri abbiamo rilanciato con questo pezzo che pubblico qui di seguito.]

di Marco Belpoliti, Gianni Biondillo, Marco Biraghi, Roberto Marone, Luca Molinari

Gentile Sindaco Pisapia, deduciamo dalla sua risposta che lei ha compreso benissimo quanto quella dei firmatari di questo appello non sia una azione “contro” questa giunta. Vuole essere, semmai, un contributo attivo per alzare la qualità e l’ambizione del dibattito.

Mà terials

4


Nina ovvero Nel nome della madre
di
Marco Barbieri

Il libro inizia con un viaggio per mare, cioè nel topico e ancestrale luogo di movimento dell’umanità, a significare quanto la storia di genere sia incardinata nella storia del mondo, degli uomini e delle donne.
Il racconto nasce da una riflessione di Nina, una bambina di dieci anni. Nina lancia uno sguardo sulle cose, sul mondo, che improvvisamente le appare storto, strano, asimmetrico. Nota un’asimmetria palese quanto bizzarra: i nomi dei componenti della sua famiglia rivelano un’incongruenza. Lei, suo padre e suo fratello, hanno tutti lo stesso cognome ma non la mamma, proprio quello della mamma risulta diverso. La mamma un’estranea?

Rompere la cornice

13

di Gianni Biondillo

Leggo i giornali tutte le mattine, mentre faccio colazione, al bar di Gianni. Che è cinese e chissà qual è il suo vero nome, ma tutti lo chiamano così, quando al bancone gli ordinano un caffè. Elena invece è il nome della proprietaria del ristorante cinese sotto casa mia. Poi ci sono Lia, Marco, e tutti gli altri cinesi che ho conosciuto nel quartiere multietnico dove vivo, pieno di Ahmed, Carlos, Arben, Yuri. I cinesi sono gli unici che prendono in prestito i nomi del paese che li ospitano. L’ho notato anche a Berlino o New York. Quando sento dire che sono una comunità chiusa, impenetrabile, trovo che questa sia l’ennesima scusa per giustificare i nostri mai sopiti sospetti.

Pistoia ripudia il fascismo. Giornata di mobilitazione

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Oggi, 7 gennaio 2012, dalle 17 in poi

Il 13 Dicembre Gianluca Casseri, un militante di Casa Pound, a Firenze ha ucciso due persone e ne ha ferite altre tre, ree soltanto di avere la pelle di un colore diverso dal suo e di essere venute in Italia alla ricerca di miglior sorte. A seguito di quel tragico evento abbiamo avviato una serie di mobilitazioni che hanno come obbiettivo la chiusura del covo fascista di Via S. Marco.
Non lasceremo che la memoria si affievolisca, e non lasceremo il quartiere finché quel ricettacolo di vecchie ed aberranti idee verniciate di nuovo non vedrà abbassato per sempre il suo bandone.
ORE 17,10: AnThéfascista!
Degustazione di tè davanti al covo di Via S. Marco (se vuoi porta la tua tazza ed il tuo tè preferito)
ORE 18,00: Bastasvastica
Spettacolo teatrale per il quartiere ad opera di Ultimo Teatro.
ORE 20 (Circa): Cena e DjSet
Presso la Libera officina Primo Maggio, in Via Argonauti 10
Ritrovo ORE 17
presso la Libera Officina Primo Maggio
L’evento su facebook, qui

Premio Tirinnanzi

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Premio di poesia Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi

Il premio si divide in tre sezioni: a) lingua italiana; b) dialetti della Lombardia; c) premio alla carriera. La partecipazione è libera e gratuita.

Sezione Lingua Italiana. Solo per libri editi nell’ultimo biennio.

Si partecipa inviando 4 copie di un libro di poesia stampato tra il 1 gennaio 2010 e il 30 aprile 2012. Le 4 copie, recanti breve biobibliografia, dati anagrafici e recapiti dell’Autore, nonché la dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2012”, vanno inviate entro il 30 aprile 2012 (fa fede il timbro postale) ai seguenti indirizzi:
Segreteria Premio Tirinnanzi c/o Famiglia Legnanese, C.P. 71 Legnano Centro – 20025 Legnano (Milano);
Franco Buffoni c/o Maga Museo d’Arte di Gallarate, via De Marchi 1 – 21013 Gallarate (Varese);
Uberto Motta Cattedra di Letteratura e Filologia italiane, Université de Fribourg – Faculté des Lettres, Av. de Beauregard 11 – CH 1700 Fribourg;
Fabio Pusterla c/o Liceo Cantonale Lugano 1 – Palazzo degli Studi – Viale Cattaneo 4 – CH 6900 Lugano.
La Giuria Tecnica, composta da Franco Buffoni (presidente), Uberto Motta, Fabio Pusterla

Nuntio Vobis

4

Avevo giurato a Nunzio che gli avrei fatto un bel ritratto per Nazione Indiana. Perché Nunzio Festa, nomen omen, ha una energia letteraria davvero notevole. Quando è il suo turno, per un reading o un intervento, non trascina i passi insieme alle idee, alla maniera dei mentecatti blasés che popolano le strade di Litteratur Village. Lui corre, lasciando che i capelli lunghi disegnino un’onda nell’aria, contagiosa e gagliarda. Ho camminato a lungo con lui tra i Sassi di Matera, pietre secolari abitate dal fumo di terribili incendi e con lui mi sono ubriacato a botte di amaro ai piedi del Barisano. Essere uno spirito libero non è, probabilmente, condizione di riuscita di un’opera, ma sicuramente un effetto. effeffe

da “Farina di Sole”
(Senzapatria Editore)
di
Nunzio Festa
Prima richiesta da ricordare: soffiargli il naso.
Mio figlio ha avuto due volte la morte.
Seconda richiesta da esaudire: massaggiargli il petto.
Due volte, è morto. Il pianto è fine fine. Sottilissimo dico. Quello che avrebbe voluto dare lui, ho concesso. Riconosco di avere fatto tutto il possibile. Gli sono stata vicino giorno e notte.
Il memoriale me lo stava dettando. In mente. Me lo passava con quella facilità che ci permetteva di comunicare. Ho preso un pezzo di quelle storie di politica e affari. Ma non ho avuto il coraggio di scrivere. Non sapevo allontanarmi dalla sedia. Non ho avuto il coraggio e la forza di scriverne. Non ero pronta per alzarmi e andare a prendere carta e penna.

Alla fine lui non mi ha chiesto esplicitamente di trascrivere, né di prendere la carta e la penna. Mi aveva richiesto invece di ricordare. Passando nella mia testa tutto quello che per mesi lo aveva frastornato. Da ora in poi sono disponibile a raccontare alla magistratura. Non mi crederanno o non saranno inclini a esserlo.
Ma da ora in poi tutto quanto mio figlio mi ha detto con i pensieri posso riferirlo alla giustizia di questa terra. Prometto che nel mio racconto ci saranno nomi cognomi e il resto del male.
Alle elementari mi hanno insegnato a mantenere i segreti. A tenere fede alle promesse. A giurare.

Avevo giurato a Nunzio di riferire soltanto alla Giustizia. La sua verità raccolta negli anni più cupi e condizionati dalle prove di altri ancora. Gli altri. Il prossimo che gli ha fatto bene e il male. A quello che è stato il mio unico figlio. Il maschio della nostra famiglia sconsacrata dagli abbandoni definitivi. Lui era il figlio che rispondeva alle colpe. Lui è stato il capro espiatorio. Ha patito più di sua sorella. E più di suo padre. Nunzio. Fino a doversi liberare dal suo ingombrante nome da civile. Spazzando via gli errori e le giustezze dei luoghi grandi e di quelli piccoli. Terza richiesta, ricordare. Per farlo devo raccontare a voce alta. Negli anni più bui.

Ora tutti mi state guardando e puntante il dito indice. Ma tentate voi l’impresa di leggere un figlio attraverso i codici di un computer. Il linguaggio del macchinario è facile da decifrare.
Certo. Escono parole in italiano direte e dico. Dallo strumento sboccano parolacce in lingua italiana. Che sono i suoi pensieri segreti. I gioielli custoditi a malavoglia. Certo, lo sappiamo. Però il computer non crea aria come i polmoni. Il computer non emette sangue come tutti i corpi umani. Le sue vene sono vacanti e pulitissime. Non ammette santi e miracoli.
Il computer, il calcolatore – diceva Nunzio quando era un ragazzino misterioso e bassissimo – , è una bella invenzione che sa leggere le menti. E comunque non è una mente. E non sa soffiare.
Mantiene in vita fino a quando i dottori e la ragione lo impongono. Nulla di altro capisce. Eppure la macchina soffre al pari degli umani. Il computer è più perfetto dell’umano, ma è quella perfezione limitata.
E’ necessario cacci tutto fuori.
Ora che tutti state puntando il dito fatevi coraggio… e ragionate meglio del calcolatore. Spazzolate il pavimento del presente di questa stanza triste invivibile immobile. Reggetemi il viso e cominciate a sentirvi quello che ho da raccontarvi della mia famiglia. Tutte le generazioni ci saranno. Le ultime. Quelle martoriate dalla sfortuna. La mia.
La mia famiglia preziosa sto per farvi scoprire. Saranno i primi nomi che vi confesso. Confiderò questi primi nomi alle vostre orecchie pulite e sante.

Nota di effeffe
A proposito del libro vorrei segnalare tre cose. La prima sulla validità del progetto immaginato da Carlo Cannella per Senzapatria. La seconda, la bella cover di Mario Bianco. La terza l’intervista che il mio amico contrabbandiere Marino Magliani ha pubblicato su “La poesia e lo spirito”. effeffe

L’Apocalisse di Francesco Dal Bosco

4

 

Questo è uno dei 22 episodi del film Apocalisse di Francesco Dal Bosco. Le riprese sono state effettuate

messaggio alle genti per il 2012

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Ho cercato di impostare la mia vita lasciando che fosse la letteratura a dimostrare di essere all’altezza della mia giornata. Ho sempre trovato vuota l’idea di una “vita da artista”, costruita attorno al testo, attenta, tale da permettere all’arte il suo progresso, la sua maturazione. Per conto mio, il punto è sempre stato che se quello che scrivo non regge la vita che faccio (con i suoi tempi disfatti dall’impiego, i suoi orizzonti limitati dal salario, la sua giornata intessuta dalle merci, dai media, dalla falsa coscienza, la sua materia, infine, corrotta e ottusa) allora è la scrittura ad essere impropria, a non aver dato luogo ad una propria, adatta fattispecie.

Gentilissimo Sindaco Giuliano Pisapia

31

di Gianni Biondillo

Gentilissimo Sindaco Giuliano Pisapia,
Le città cambiano. Mutano, si trasformano, sostituiscono parti obsolete, scrivono sul proprio corpo i segni delle epoche, incidono sulla pelle, sul tessuto urbano, i grafemi, le locuzioni, i concetti complessi della contemporaneità, i segni, i sogni di un’epoca, che diventa storia, memoria, monito. Se così non fosse ci voteremmo alla decadenza, alla morte per inanità. Le città vivono nel loro continuo mutare e nella capacità di assorbire il passato, rivitalizzandolo. Così, nella dialettica fra Storia e Contemporaneità, si definisce l’identità di un luogo e il suo destino.
Quindi, signor Sindaco, non sono mai stato e non sarò mai, un propugnatore della museificazione delle città. Il “nuovo” – antica tradizione della nostra città – mi affascina ed entusiasma. Dunque questa mia lettera sconsolata, scritta di getto nel cuore della notte, come se fosse una angosciosa impellenza alla quale non posso sottrarmi, non è la lettera di un passatista nostalgico.
Sento l’esigenza di parlarne a qualcuno. A lei, Signor Sindaco.

Pop is dead (but London isn’t)

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di Helena Janeczek

Il pop è morto e l’ho scoperto a Londra. C’ero stata quando le creste punk svettavano in metropolitana e John Lennon stava bene (benché dall’altra parte dell’oceano), mentre adesso i Beatles si contendono la scena con cloni di Elvis, Michael Jackson, Queen e Abba, nei musical più pubblicizzati lungo le scale mobili. Nella “Camera degli Orrori” di Madame Tussauds, Charles Manson si era aggiunto a Jack the Ripper e mi aveva spaventata, ma l’allestimento sapeva di tappezzeria gotico-vittoriana e un cordone separava le persone dai simulacri.

Nuovi autismi 12 – Requiem per la lettura

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di Giacomo Sartori

La lettura è un’occupazione oltremodo faticosa, oltre che di comprovata inutilità sociale. Insomma, molto più faticosa di guardare per esempio nel vuoto, o di dormire, o di essere morti. Invece di oziare gli occhi devono mangiarsi interminabili file di parole e sputarle nel cervello. Deglutire parole e sputarle nel cervello, inghiottire frasi e spararle nel cervello, masticare paragrafi e vomitarli nella scatola cranica: è estenuante. Lo stesso cervello ha difficoltà a starci dietro e a non congestionarsi. Ma quel che è peggio sono i danni agli occhi e alla salute in generale. Io fin quasi a diciassette anni ero semianalfabeta, e ero perfettamente in forma. Poi a diciassette anni mi sono messo a leggere e a studiare, e subito sono diventato miope, sempre più miope: più mi alfabetizzavo e peggio ci vedevo. Adesso sono quasi cieco. E sono apparse anche tante altre infermità che sarebbe lungo elencare. Pure l’umore s’è degradato: mi s’è appiccicata addosso una semidepressione dalla quale a stare a quelli che mi frequentano non mi sono mai ben ripreso. Molti ci sono rimasti, e tuttora ci rimangono, a forza di leggere. Non per niente alcuni testi sono assurti nel guinness dei primati proprio per la cifra impressionante di suicidi che hanno provocato. C’è da rimpiangere i bei tempi andati: per due milioni di anni gli uomini non hanno letto nemmeno una riga: non sapevano leggere, e anche se avessero imparato non avrebbero avuto modo di esercitarsi: niente indicazioni stradali, niente pervasive pubblicità, niente libri e libretti, niente enigmatiche istruzioni in diciannove lingue del videoregistratore. Gli esseri umani guardavano nel vuoto, o cacciavano, o dormivano, o chiacchieravano, o morivano, e stavano benone così. È molto dopo che a qualcuno è saltato il ticchio di notare sull’argilla quante capre aveva, e in men che non si dica è diventata una moda: chi non andava in giro con una tavolettina di argilla era considerato un mezzo imbecille. I mercanti di tavolette di mota hanno fatto i soldoni, i vasai che le miglioravano tecnicamente erano considerati struggenti eroi. Quasi subito sono arrivate anche le argomentazioni, perché era importante per esempio non mischiare le capre con le pecore, o con gli dei, o anche solo con i cavoli, e non fare confusione tra le pecore del tizio e del caio, o insomma mettere i puntini sugli i su questo o quel problema. Poi un tipo un po’ fuori di testa invece di contabilizzare gli ovini sulla sua tavoletta ha inciso alcune frasi balorde (sempre sulle pecore), e così è nata anche la poesia. Dalle prime odi ovine ai poemi omerici e alle fanfaluche bibliche, una volta sciolto il freno alla fantasia, il passo è stato breve. Le civilizzazioni successive hanno insomma utilizzato le tavolette di argilla e i papiri e le pergamene per contabilizzare pecore e bighe e automobili, o i loro equivalenti valutari e finanziari, o appunto per propalare cantici e liriche e sonetti. O anche romanzi, che sono poesie più prosaiche e meno stucchevoli, con pecore e eroine più somiglianti a quelle in carne e ossa. Come anche per teorizzare, filosofare, divagare, delirare, indottrinare, conoscere, fantasticare, sfidare, relazionare esperimenti scientifici, dichiarare guerre e stipulare paci, confessarsi. Per qualche millennio le cose sono state sotto però controllo, e anzi in certi periodi più fiacchi si dilettavano quasi solo i preti e i frati. La stessa invenzione della stampa ha fatto molti meno danni, di per sé, di quanto si dia comunemente per scontato. È solo negli ultimi due secoli che il fenomeno ha preso dimensioni preoccupanti, fino a diventare una vera e propria addizione universale: tutti volevano imparare a leggere, tutti volevano leggere. Gli stessi governanti pensavano che i governati dovessero cimentarsi a tutti i costi nell’esercizio insano della lettura (in qualche caso l’hanno pagata cara). Di qui la banalizzazione degli istituti concentrazionari chiamati scuole, con la conseguente diffusione di parassiti e infermità di ogni tipo. E l’apparizione a ogni angolo di strada di chioschi che smerciavano fogli di carta rigurgitanti di frasi, e di empori stipati di quelle orde irreggimentate di parole chiamati libri. E di qui la foga prometeica degli scriventi, assetati di gloria, di immortalità, di proventi, o anche solo – quando prevaleva l’ingenuità – di verità e bellezza. Inutile dilungarsi sugli episodi depressivi di vario genere e gravità ascrivibili a tale collettivo invasamento. Molti individui della mia generazione e di quelle che l’hanno preceduta ne sanno qualcosa, sono stati i più masochisti e beoti: i più irrimediabilmente marcati. Tramite la lettura volevano a tutti i costi imparare, emanciparsi, peregrinare nel tempo e nello spazio, gongolare, sperimentare, struggersi, conoscere, cambiare il mondo, elevarsi, degradarsi, migliorarsi, sfidare la morte, amare, odiare, spiegare l’inspiegabile. Cercavano la verità e la bellezza nelle parole allineate le une dopo le altre, come i cinghiali grufolano lungo i sentieri per raccogliere le ghiande, come gli eroinomani si piantano gli aghi nelle vene. Inghiottivano giornali e riviste, opuscoli, manifesti politici e letterari, dizionari, volantini, enciclopedie, bigliettini nei cioccolatini, poesie d’amore e civili, romanzi epici, sociologici, sentimentali, epistolari, inamidati o sperimentali, magretti o imponenti, apocalittici o spiritosini, romanzi di ogni sorta, tonnellate di romanzi. Si sdilinquivano, si inorgoglivano, lacrimavano, andavano in estasi, si crogiolavano nell’illusione di edificarsi, di capirci finalmente qualcosa. Erano dei pericolosi drogati. La storia ha provato in modo inconfutabile che in quello stesso lasso di tempo l’umanità invece di perfezionarsi si è fatta più cinica e più scaltra, sfoderando inedite nefandezze. Per fortuna adesso i giovani si sono resi conto che era una follia. Stanno ben attenti a tenersi lontani da qualsiasi stringa troppo lunga di parole, girano alla larghissima dai libri cartacei e dai loro surrogati elettronici. Se ne stanno incollati agli schermi dei telefoni e dei computer, dove si rimpallano frasette più corte possibili, bocconcini che non danneggino gli occhi e il cervello. Giocano con le parole con la stessa grazia  e maestria con la quale si giocava un tempo a ping pong. Si capisce subito che non vogliono rimetterci la salute mentale e fisica. Se proprio devono smazzarsi un romanzo lo scelgono in modo che non provochi troppi sommovimenti nella materia cerebrale, come una barca che decida di uscire col mare piatto, o anche in un burrascoso oceano confezionato con il polietilene e gli effetti di luce. Del resto non è lontana un’interfaccia che legga al posto nostro, risparmiandoci fatica e crucci. I poeti e i romanzieri si riciclano allora nell’arte di riscaldare pappette arcinote e di raccontare bugie, e per certi versi non li si può biasimare. Hanno anche loro poco tempo, come tutti. Viviamo un soprassalto agonico, gli ultissimi rantoli che precedono il silenzio stampa. In men che non si dica quelli come me spariranno, un po’ alla volta gli abitanti della terra guarderanno nel vuoto, dormiranno, moriranno ancora di morte naturale o violenta, senza farsi martirizzare dalle parole e senza martirizzarle, proprio come nei primi due milioni di anni. Tutto scorre, tutto finisce.

[l’immagine: Henri Michaux]

I Novissimi, tra esotismo e trauma

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di Andrea Inglese

Potrei narrare la scoperta dell’antologia dei Novissimi, come Proust narrava i primi passi del protagonista della Recherche nel salotto della duchessa di Guermantes. Il poeta novizio che compie le sue prime letture dei novissimi. Sono incontri circonfusi di fantasie e miraggi, di meraviglie e malintesi. Gli autori sono immaginati come eroi che tutto sanno e hanno visto, comprimendo nello stemma del nome proprio intensità di vissuti e vastità di conoscenze.

Hesse o non Hesse – Sergio Atzeni

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In questi giorni di trasferta cagliaritana per un servizio su Sergio Atzeni che sto realizzando per la rivista diretta da Riccardo De Gennaro, Reportage, ho potuto scoprire, grazie a Michela Calledda una pubblicazione che non conoscevo. La reputo un’opera fondamentale per seguire il percorso di uno dei migliori narratori italiani, ma forse dovrei dire intellettuali, scomparso un’Italia fa. Così ho chiesto a Giuseppe Podda e Giancarlo Porcu delle Edizioni Il Maestrale di pubblicare per Nazione Indiana uno degli articoli raccolti. Perché Herman Hesse? E perché Sergio Atzeni? effeffe


393. Hesse: perché parla alle nuove generazioni (pubblicato su “Il Giorno”,11 Febbraio 1990)
[Herman Hesse, Knulp, Marsilio; Il bicchiere scrivente, Marcos y Marcos; Francesco d’Assisi, Guanda]
di
Sergio Atzeni

Cos’è stato quell’agitarsi protestando della gioventù d’Occidente, nella seconda metà degli anni Sessanta e nella prima dei Settanta, ormai volgarmente e imprecisamente definito Sessantotto? In Italia si è affermata una interpretazione: scopo del movimento sarebbe stata la palingenesi sociale, la fuoriuscita del capitalismo, l’ingresso del comunismo… Interpretazione sinistra più che di sinistra, da molti contestata, ma ancor oggi detta e difesa. In parte falsa, se riferita soltanto al caso italiano, ancora più falsa se lo sguardo s’allunga fino in Francia e Germania, bugiarda e fuorviante se applicata alla realtà di un movimento diffuso in tutto l’Occidente, magmatico e contraddittorio.