Home Blog Pagina 36

Sessantacinque anni

0

[Per Besa è uscito Il diario delle mie sparizioni, di Daniele Comberiati. Pubblichiamo un estratto del primo racconto, dal titolo Sessantacinque anni].

di Daniele Comberiati

           SESSANTACINQUE ANNI

            Il Dépanneur

Ero passato dal Dépanneur un venerdì pomeriggio, pensando di trovarlo chiuso. Il classico atto mancato, mi dicevo parcheggiando la macchina. In realtà, speravo che sarebbe stato chiuso ma avevo promesso a mia moglie che ci sarei andato in settimana. Si trovava nella vecchia zona industriale della città, ormai da anni, se non da decenni, in disuso. Quando ero ragazzino c’erano ancora i meccanici, soprattutto di motociclette elettriche – i veicoli a benzina stavano già scomparendo – e con i miei ci eravamo andati quattro o cinque volte, a mia memoria sempre il sabato pomeriggio, quando non c’erano eventi organizzati, non avevo compiti da fare e, affinché non passassi ore attaccato al telefono, mio padre mi costringeva a uscire con lui. Comprava i pezzi di ricambio per la moto e i catarifrangenti colorati per le nostre biciclette, che non erano a norma – infatti li aggiungevamo a quelli comunali, non potevamo sostituirli – ma erano verdi o gialli e a me e mia cugina piacevano tantissimo. Io però, che avevo due anni più di lei, già li usavo meno (la bici mi serviva solo per andare al liceo e al centro civico) e passavo quei pomeriggi ad annoiarmi. Se veniva pure mia cugina era anche peggio perché mio padre iniziava a fare i confronti – vedi com’è sorridente lei? Devi sempre rovinare tutto con il tuo carattere? – e io mi immusonivo ancora di più. Le ultime volte ci eravamo andati noi due soli (anche mia cugina stava crescendo e, siccome mio padre era solo suo zio, non poteva certo obbligarla) e mi ricordo pomeriggi polverosi e annoiati in cui io non potevo rimanere in macchina e lo ascoltavo discutere sulla possibilità di comprare al mercato nero una targa valida per l’estero. «Ormai non le vendono più o sono carissime» gli rispondeva uno dei meccanici, attento a non farsi sentire. L’ultima volta avevano tutti la stessa tuta blu acido con due fasce gialle sugli avambracci.

E comunque quelle vecchie fabbriche ne avevano attraversate di ere: dal tessile alla produzione chimica, negli anni Settanta. Con la delocalizzazione, le aziende avevano chiuso e i due edifici più grandi avevano ospitato per un’estate la più grande occupazione abitativa della città. La polizia li aveva sgomberati piuttosto in fretta – un giorno umido di fine agosto, quando tutti sembravano aver cose più importanti a cui pensare – ma il quartiere per decenni era rimasto alternativo: un enorme centro sociale, che ospitava concerti punk-rock e festival di fumetto e letteratura indipendenti, aveva preso il posto delle case popolari fin quando, attraverso un movimento lento ma percepibile, anche il centro sociale si era trasformato. Una discoteca alternativa, così dicevano alcuni amici di mio padre che ci erano andati, ma pur sempre una discoteca: un locale in cui si pagava l’ingresso con le cripto-monete, che possedeva i documenti di usufrutto dei terreni, e i cui gestori pagavano le tasse. Della politica rimanevano strofe sparse di alcune canzoni dei gruppi che si esibivano, e i graffiti che imperversavano sui muri delle altre fabbriche. Poi erano rimasti solo i muri a ricordare quei movimenti, mentre i musicisti alternativi erano invecchiati e i prezzi dei biglietti erano triplicati nel giro di mezza estate: la discoteca alternativa era ormai un locale alla moda, e per questo fu spostato al centro della città – stessa gestione, stesso nome, persino stessi buttafuori all’entrata, ma cocktail più cari – allo Shibozu, il quartiere dove, dalle 21 alle 4 e 30 del mattino, si svolgeva tutta la vita notturna. La giustificazione era che alle vecchie fabbriche non ci fossero posti per i parcheggi con le colonnine per le ricariche delle auto elettriche, e che il traffico bloccasse la principale arteria cittadina che dalle 21 alle 22, mentre gli ultimi impiegati tornavano nei quartieri suburbani, era molto trafficata.

Cancellarono l’ultimo graffito dopo il crollo del capitalismo e decisero di metterci gli “Uffizi per le nascite, i decorsi e i decessi”. «È un luogo inclusivo», era lo slogan, «che serve a tutta la città e di cui la popolazione potrà usufruire». In effetti, non era lo stesso quando c’era il centro sociale: la musica dei Porn-corn, per esempio, piaceva a qualche vecchio amico di mio padre ma non a me. Invece agli Uffizi ci dovevamo passare tutti, prima o poi.

Del passato però era rimasto il nome, dagli antichi proprietari belgi di una delle fabbriche, curiosamente la più piccola, che produceva tappi da bottiglia: il Dépanneur.

Non c’era fila perché, l’ho capito dopo, gli uffici non chiudevano mai. H24, sette giorni su sette. La burocrazia perpetua.

«Chi deve registrare?»

«Mio padre…»

«Genere?»

«Mio padre… uomo».

«Ha indisponibilità?»

«Io o lui?»

«Suo padre, ovviamente. Perché non è venuto lui a registrarsi?»

«È arrivato ieri a casa nostra. Si sta ambientando…»

«Sessantaquattro anni precisi, quindi? Lo prenoto fra trecentosessantacinque o trecentosessantasei giorni?»

«Ah, possiamo decidere noi?»

«Certo, anche se teoricamente dovrebbe essere lui a decidere. Ma nei primi due mesi può cambiare, basta inviarci una mail».

«Faccia trecentosessantasei allora».

«Perfetto. Il regolamento con le tariffe e le multe lo ha già suo padre. Si ricordi solo che, dal primo gennaio di quest’anno, ogni giorno di ritardo è punibile con una multa in denaro o con una pena sociale per i figli o i nipoti dell’anziano, qualora i figli avessero ancora a carico prole minore. Lei ha figli?»

«Sì, uno».

«Età?»

«Nove anni».

«In tal caso potrebbe riversare su di lui la pena sociale per il mancato arrivo di suo padre. Raddoppiamento delle tasse universitarie, accesso vietato ad alcune facoltà di prestigio, decurtamento parziale dei primi stipendi…»

«Sì sì ho capito, grazie, non c’è bisogno che faccia la lista».

«Una firma qui… perfetto. Se suo padre non si presenta due mesi dopo la data, la reclusione familiare è obbligatoria e suo figlio sarà ospitato in uno dei centri per minori della città fino a quando non lo ritroviamo. Per le modalità di esecuzione parleremo con suo padre fra sei mesi circa. Gli ricordi di rispondere alle mail; senza risposta procediamo automaticamente con l’iniezione e la cremazione, a meno che non ci siano ragioni religiose contrarie esplicite, ma per queste deve compilare altri documenti».

«No, non mi sembra, mio padre è ateo».

«Perfetto allora. Grazie di essere venuto, e approfitti con suo padre dell’anno spirituale, mi raccomando!»

«Certo, grazie».

Ero ritornato alla macchina sollevato e angosciato al tempo stesso. Risposi a un messaggio di mia moglie: “Tutto a posto al Dépanneur, serve qualcosa per cena?”

Non c’è creatura che non sia un popolo

3

 

Sì, che si sappia:

non c’è creatura che

non sia un popolo.

 

Il dolore è collettivo.

 

Carichiamo in noi

ogni cosa estinta,

ogni debito,

ogni incandescenza

nel    limo opaco di

tutte  le vite negate.

 

***

Partitura visiva di Giuditta Chiaraluce

Note di lettura a «Invernale»

0

di Valentina Durante

Un figlio racconta gli ultimi anni di vita del padre, macellaio di Porta Palazzo, Torino, a partire da una malattia susseguente a un infortunio sul lavoro. Lo si potrebbe riassumere tutto qui il breve ma intenso Invernale di Dario Voltolini (La nave di Teseo, 2024), nel pacato congedo dalla figura paterna attraverso la giustapposizione di ricordi e frammenti del tentativo di cura e fino all’addio: composto in un finale potente proprio perché misuratissimo. Ma ci si limiterebbe al solo piano di superficie del testo, lasciando in ombra la traiettoria che esso traccia e che conduce non già al distacco, ma piuttosto a un incontro: tra il figlio e il padre, grazie alla scoperta di una lingua di mediazione.

Voltolini narratore assume il suo mandato memorialistico imponendosi due scelte espressive la cui forza e rigore si manifestano già nell’incipit. La prima è l’impiego di una prima persona così defilata da prendere su di sé i caratteri di una terza, mai giudicante. Dario, il figlio che racconta, lo fa per lo più osservando, e come un narratore che nel riportare i fatti non si trattiene dal proclamare la propria inadeguatezza (“non so niente, ma niente! Spaventosamente niente”), quasi uno straniero al cospetto di una conversazione in una lingua non sua (e su questo torneremo).

Strana postura, verrebbe da dire, per un memoir: genere in cui di solito si assiste all’esondazione più vertiginosa dell’io. Voltolini conserva una nettezza di sguardo encomiabile unita a una cautela, quasi una ritrosia nell’accostarsi alla materia narrata, come per il timore di dire troppo, o di dirlo male. Mai si cede alla tentazione del patetismo, il che accresce per contrasto la caratura emotiva del testo, la sua capacità di indagare quel “qualcosa che sta da un’altra parte rispetto alle emozioni e ai sentimenti”.

La seconda scelta è far parlare fin da subito la lingua del padre: lingua solo falsamente muta, tutta composta di silenzi perché tutta consustanziale al corpo. Il padre di Dario – Gino –, nell’esercizio della sua professione è colui che ha accesso privilegiato a un piano di comunicazione con l’altro-da-noi che è più prossimo a noi: l’animale. In uno scambio che articola i due poli estremi dell’esistenza biologica – vita (sopravvivenza, nutrimento) e morte –, in questa lotta fra chi s’impone – l’uomo, il macellaio – e chi si oppone – la bestia, con le sue ossa e i suoi tessuti che esercitano resistenza –, non si arriva mai a separare del tutto i due stati, i due contendenti e i due mondi: “Cara bestia, che arrivi già morta nelle mie mani, io ti seziono, ti riduco in cibo per altri umani come me. Stando al di qua del processo di cottura, quindi ancora nell’atavico, insieme a te.”

Invernale apre con una descrizione lunga ben sette pagine (non poche, nell’economia di un testo che ne conta centotrentadue) del banco macelleria al mercato di Porta Palazzo, con il padre intento al lavoro. È un incipit movimentato, tutto fatto di azioni: spaccare il pollo, l’agnello, il coniglio; spolpare la bestia e tagliare a fette, a fettine, a pezzi, a bistecche, a cotolette; impacchettare, sbattere l’involto sulla bilancia per stabilirne il prezzo, servire il cliente, ritirare il denaro, consegnare il resto. Il gesto funzionale viene assimilato al gesto atletico o artistico, con quei macellai che “colpiscono con la lama” “come batteristi nell’assolo”.

Pur nella natura fortemente dinamica della scena, questa ricchezza descrittiva realizza una tessitura ritmica che riproduce la stabilità della routine, la circolarità del quotidiano. Si dà una forma di paradossale stasi in questa danza armoniosa di corpi vivi e corpi morti, un equilibrio che prelude all’evento che arriverà a turbarlo: per un inciampo in quella coreografia ben rodata, Gino si trancia un dito quasi di netto.

C’è un prima del taglio: descritto fin qui. E c’è dopo un taglio: la malattia. Una malattia finora assente – nonostante la morte –, perché la bestia viene uccisa e macellata, se non sempre al massimo del vigore, comunque mai in una condizione di disfacimento, il quale al limite subentra poi.

Ma c’è un altro contrasto nel capitolo di apertura; un’antitesi più defilata ma non meno significativa che coinvolge il figlio Dario, il quale apprende dell’incidente nel mentre sta “leggiucchiando”. Abbiamo da un lato il linguaggio dei corpi: vivi e morti – si è detto – ma entrambi vitali, portatori di energia e uniti nell’atavico; dall’altro il linguaggio propriamente inteso: quello verbale, mediato dall’intelletto e che trova dimora nei libri. Già inadeguato a ricomprendere il padre nella salute, questo secondo linguaggio – appreso e artificiale – si rivela ancora più inefficace nell’interpretare la malattia. Perché il corpo tenta sì di trovare una sua propria via di comunicazione (“Il dito si gonfia, si infiamma, produce pus. La pelle si tende, si assottiglia, cambia colore.”) assecondando una sua propria intelligenza (“I muscoli, i tendini, i vasi, l’osso e la cartilagine aprono il cantiere della ricostruzione”), ma per decifrare un discorso somatico che sulle prime, a tutti (a Gino, ai famigliari, ai medici…), sembra parlare di guarigione, occorre un’attenzione costante, un’osservazione ripetuta nel tempo.

Serve cioè che l’osservazione si tramuti in ascolto, nell’intercettare scostamenti anche minimi rispetto a rituali forgiati in anni e divenuti uno standard e una norma: “Ecco che il ceppo, che sta lì da anni, è più difficile da raggiungere. I coltelli per disossare hanno lame che tagliano meno, quelle dei coltelli per sezionare, macellare, hanno un tentennamento all’attacco nelle impugnature”. La presa d’atto di una routine che si smaglia (subentrano la stanchezza e la noia – prima quanto inconcepibile! –, e persino qualche stramberia) permette al figlio di comporre un catalogo delle abitudini e delle passioni di quel padre che d’un tratto non è più lui. Sembra un itinerario di auscultazione e diagnosi retrospettiva attraverso la scrittura, ma si dà anche come disvelamento di altro, di un padre sotto la sua superficie – la “piana” fatta di lavoro e pochi extra (la caccia, il calcio, con quel Sivori addirittura incontrato di persona…) –, un padre per così dire in emersione.

Nella malattia che per il momento ancora cova sottotraccia, il corpo sembra non trovare più posizione. Ed ecco che a compensarne lo squilibrio si innesta la parola, però come “verbo”: tanto sporadica, quanto profetica. “Gol” dice Gino a metà dell’azione, mentre guarda con il figlio la partita alla tivù. “E, appunto, gol”.

Trascorrono i mesi, le analisi suggeriscono ma non determinano. Gino è sempre più stanco, e pure cerca di tirare avanti con la vita di sempre. I prodromi di una condizione che si avvia a diventare cronica? A questo punto, sarebbe quasi da auspicarlo. Ma cala la mannaia della diagnosi certa, e allora lo fa sotto l’egida di una parola esterna, persino esotica: “linfosarcoma prolinfocitario”. Lei sì, tutta razionalità e scienza.

Una parola “che non significa niente”, dice Dario: del tutto estranea alla persona di Gino, non risiedendo essa né nel linguaggio del corpo che parla sé stesso, né in quello verbale parco e però intessuto di mistero. E non c’entra nulla neppure con il figlio, ché non appena Dario cerca di ricollocarla nel suo proprio regno – l’ipocondria intellettualistica di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome – può solo constatare il fallimento, l’inutilità dell’operazione: lì è la letteratura, con le sue trasfigurazioni e sublimazioni, una finzione dove si ride “sonoramente e incontenibilmente”; qui è la malattia reale, posta al centro di un atto di comunione che a questo punto non si vorrebbe (padre e figlio che si scoprono entrambi a consultare la stessa enciclopedia), dove ciò che deve essere detto, alla fine, viene detto: cancro.

Al di là di ciò, il silenzio: “Tutta la camera sta in silenzio, tutta la casa, il condominio, il quartiere, la città, tutto in silenzio”.

Si cerca una cura, e anche questa è un altrove: l’istituto Gustave Roussy di Villejuif, in Francia, vicino a Parigi. “Un posto che non si conosce dove parlano una lingua che non si conosce e dove fanno cose che non si conoscono”.

La lingua è straniera, il medico – forse di origine pakistana – parla giusto un po’ di italiano; anzi, lo “mastica”: lo fa suo e se ne ciba come la carne che il padre, ai tempi della salute, masticava con voluttà e ostentazione ancora cruda, davanti alle clienti, a testimoniarne la freschezza.

Nel mentre i genitori nei loro sempre più frequenti soggiorni a Villejuif apprendono di tumori che possono essere ovunque, persino nella lingua (proprio lei, che non a caso sembra ricomprendere per sineddoche il tutto del corpo), il figlio cerca di sostituirsi al padre al banco macelleria, in quella danza-linguaggio che è il lavoro con le bestie. Ma non può che farlo “ai margini” – constata egli stesso – “miserabilmente”.

E quando, fra una terapia e l’altra, lo stesso Gino si impunta per riprendere il lavoro, tocca prendere atto che la nuova lingua (la nuova realtà) si è già installata di prepotenza nella vecchia, disassandola. Gli scambi di battute con gli altri commercianti perdono leggerezza perché acquistano in profondità: “un ingrediente che tarpa la possibilità della risposta data rapidamente, sveltamente, immediatamente.” In superficie il linguaggio sembra lo stesso, però la dimensione è altra, perché tutta diversa è la prospettiva. Attenzione e concentrazione – che pure resistono – lo fanno come sempre nel silenzio, sparando in giro “qualcosa di sacro e di bestiale”.

Se il padre ha perduto il vigore e la fluidità della sua antica oratoria, dell’uomo che danza sul filo di coltello con la bestia, anche il figlio si ritrova intrappolato in una sorta di afasia. Dario decide di accompagnare i genitori in occasione di una permanenza più lunga a Villejuif, e nell’accostarsi alla realtà di quei posti magari un tempo vagheggiati non gli restano che termini il più ampi e generici possibile: come se le parole venissero apprese a tentoni, persino fabbricate, nel momento stesso in cui le si adopera.

Parigi diventa “la grande città”. Il Louvre è “il museo che imprime il suo senso al nome ‛museo’”.

È la lingua di uno che “non capisce niente” e che non vede niente ma al massimo, dal mondo, può essere guardato e visto, perché tutto è pervaso “dal motivo per cui si trova lì”. Quel significato ottenebra e riassume tutti gli altri: è il significato; è la dialettica fra vita e morte nel momento stesso in cui accade – che poi è il momento che riassume la nostra intera esistenza, salvo che solo durante la malattia – nostra o altrui –ce ne accorgiamo pienamente, il pensiero diventa davvero e tremendamente visibile.

Durante l’ultimo e vano tentativo di terapia, avviene il distacco. Gino muore lontano da casa, in ambulanza, nel viaggio di ritorno, probabilmente nel tratto tra Fointenbleau e Auxerre. Dario non è con lui: è in vacanza con amici, neppure lui si trova a Torino. A casa, l’incontro fra il corpo morto del padre e il corpo vivo del figlio prende sulle prime la forma di un disincontro. Dario è “ancora una volta sulla soglia”: nel silenzio, nell’immobilità. “Eppure gesti, movimenti, rumori” dice, “e persino parole devono esserci. Ci sono, nel freddo del congelamento. C’è però soprattutto il congelamento”.

Come già in vita, l’unico linguaggio che appaia ammissibile è quello fisico: lo sa bene il fratello di Gino, che “allunga una mano e gli strizza le dita di un piede.” Un saluto muto ed eloquentissimo, “il gesto di un professionista estremo, che con un tocco sa valutare la qualità del bestiame, vivo o già macellato, un gesto che può permettersi solo chi ha ormai raggiunto un’esperienza assoluta in un campo precisissimo”.

Proprio questo gesto scaglia Dario distante. Lo respinge nel freddo siderale di un punto sperduto del cosmo, perché è un gesto che non gli appartiene, che non ha mai saputo apprendere né padroneggiare, un gesto che lo priva della parola rendendolo estraneo a suo padre forse più che la (terribile) sentenza consegnatagli dal nonno: “E tu non eri neanche là”.

A riallacciare per lui una possibilità di discorso è la cugina della madre. Risiede a Genova, ha accompagnato i genitori nell’ultimo viaggio della speranza. Ma c’è di più, perché questa cugina “parla le lingue, ha lavorato al porto, sindacato, camalli, genti straniere con cui comunicare”. La cugina interprete riapre per Dario il canale della comunicazione: “Ci guardiamo, lei e io, in silenzio. Poi lei mi dice che lui mentre moriva ha detto: ‛Salutatemi Dario’”.

Invernale mi ha ricordato un testo molto diverso, sia per materia che per intenti, ma che mostra una zona di similarità nell’attenzione per il linguaggio e i diversi piani in cui esso si manifesta. È Libera nos a Malo, di Luigi Meneghello: “Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua”.

In Invernale il dialetto non compare – non ci è dato sapere se Gino lo parlasse, e con chi –, e compare di rado anche il discorso diretto. In realtà, questo è vero solo in apparenza perché “le croste delle parole in dialetto”, la lingua “incavicchiata alla realtà” è, nel romanzo di Voltolini, la lingua del corpo – come si è visto – una lingua corporale. La lingua di Gino Voltolini, lingua paterna.

Voltolini ci consegna un inverarsi progressivo del padre attraverso la lingua. Lo consegna a sé stesso, in prima istanza, prendendo la parola nel finale con un “tu” finalmente riguadagnato: “Solo questioni di fondamentale importanza, penso che tu mi capisca”. Attraverso lo sforzo mnemonico e perciò stesso inventivo che la scrittura richiede, Voltolini è approdato infine a un linguaggio comune: eloquente come la parola profetica, carnale come un’eucarestia. Verrebbe da dire, una “lingua padre”.

“La zona d’interesse.” Un paio di cose che ho visto.

0

di Daniela Mazzoli

La prima cosa che ho visto è stato un mucchietto di persone che usciva dalla sala con gli occhi sbarrati e le teste infastidite dal rumore che si sentiva forte anche da fuori. Come se fossero state costrette a uscire per via del frastuono assordante. Ho avuto paura ma mi sono fatta coraggio. Sapevo almeno come sarebbe finita.

Il film è pieno di paesaggio. Inizia anche con un paesaggio. Un fiume, un prato che declina, alberi, lo schermo pieno di verde, foglie, e una famiglia in gita con cestini di cibo e bambini al seguito. E anche durante il resto del tempo ci sono fiori che sbocciano, fiori messi a disposizione della mano di un neonato, fiori che non si possono tagliare indiscriminatamente, a meno di una severa punizione, perché rappresentano il ‘decoro’ della piccola comunità che vive intorno e dentro il campo di concentramento. Il comandante Höss si preoccupa di emettere un ordine in proposito alla raccolta feroce dei lillà dai cespugli.

La natura è lì che migliora la vita di chi abita la grande casa al di qua del muro. Una natura addomesticata certo, un giardino con un piccolo orto che fornisce alla famiglia un po’ di svago e anche del nutrimento: i bambini vanno pazzi per certi ortaggi. Ci sono voluti tre anni per trasformare una fredda e anonima costruzione di cemento in una casa. La casa è stata ricostruita veramente, tra l’altro. E non ci sono state troupe a girarci dentro: le telecamere erano disposte nelle stanze, collegate e gestite da remoto. Così gli attori hanno potuto vivere tra quelle pareti perdendo il senso della recitazione, dell’essere sul set di un dramma.

Eppure il grigiore non se ne va. La fotografia del film ha i toni lividi di certi classici hitchcockiani: Nodo alla gola, Gli uccelli. Ed è una luce che non cambia, come se il giorno avesse sempre la stessa ora, la stessa inclinazione dell’asse terrestre, in un eterno mezzogiorno di sole invernale. È una luce che descrive e illumina esistenze immobili, che nonostante il passare del tempo e delle stagioni non possono cambiare.

La seconda cosa che ho visto è stato un mucchietto di prigionieri, di età diverse, con compiti diversi e condannati a una morte quotidiana, lenta, inesorabile. Ci sono le ciminiere al di là del muro, i rumori alti e continui, che non smettono chiudendo le tende o le finestre, e nemmeno bevendo fino allo svenimento. Non smettono nemmeno andandosene via, come fa la madre della padrona di casa, che gioisce di primo acchito per la fortuna capitata a sua figlia, diventata finalmente una moglie borghese con grandi spazi da amministrare e servitù, ma poi non riesce a sostenere il suono di quel dolore oltre il muro. E se ne va senza salutare, avendo però rimesso in ordine perfetto la stanza, di nuovo tornata morta come solo certi ‘ordini’ possono rendere cose e persone.

Non è un suono umano quello che accompagna le loro giornate, però è prodotto dagli uomini. “E li gettarono nella fornace del fuoco. Lì sarà pianto e stridore di denti”. Questo è l’inferno descritto nel vangelo di Matteo, e l’inferno ma senza colpa viene anche qui rappresentato, prima di vedere e senza mai vedere che cosa ci sia al di là del muro, attraverso il rumore del male.

Quando il comandante chiude ogni sera ogni luce, ogni porta, controlla che nessuno possa entrare, si chiude dentro, è evidente che i carcerieri sono sempre anch’essi prigionieri, che in una storia dove non c’è evoluzione del personaggio tutto è fermo, e sempre identico, come il male. Restano prigionieri i figli i cui giochi sono contenuti, sorvegliati, le cui notti sono inquiete, come certi volti di bambole. Resta prigioniera la moglie, che da quel ‘paradiso’ non vuole andarsene, e che per sopportarlo meglio, quel paradiso, sogna di tornare alle terme italiane, dove una volta ha conosciuto persone simpatiche.

Non succede niente in questa famiglia, e infatti non si fanno domande: si lavora, si mandano i bambini a scuola, si prepara la cena, si scaccia il cane dalla tavola, si aspetta il padre che torni, si fa carriera. Il comandante ringrazia i superiori della ‘fiducia’ che gli hanno riservato, si industria per meritarla, per fare sempre meglio, ottimizzare l’efficienza del campo, essere l’insostituibile. Allora, diversamente da quando sono entrata, ho avuto un po’ più paura e un po’ meno coraggio, e uscendo dalla sala mi è venuto il sospetto di coltivare anch’io qualche giardino, ignorando il cielo pieno di cenere. Di aspirare alle terme, di dover spegnere le luci ogni sera facendo almeno un giro di chiave.

Riesci a vedere la luce in questa immagine

2

di Lorenzo Tomasoni

Se ne stanno tutti seduti con le braccia conserte e lo sguardo abbassato per la preghiera, quando Colin McRooe all’improvviso si alza in piedi. La faccia gli è diventata una maschera di sangue. Qualcuno emette un grido, mentre lui no, nemmeno un gemito. Si dirige verso il portone laterale della navata come si fa quando il prete dice la messa è finita andate in pace, mentre invece non si è nemmeno arrivati al padre nostro. Chiamate un’ambulanza, dice qualcuno, è il castigo di Dio, ma Colin sembra intenzionato solo a prendere una boccata d’aria. Nel goffo tentativo di uscire dalla chiesa sbatte il fianco contro i banchi un paio di volte, procedendo a tentoni per guadagnare la maniglia del portone, poi lo afferrano bloccandolo sulla soglia.

Da dove proviene la luce, in questa immagine? Una manciata di centimetri, questa la distanza che intercorreva tra la punta della falange alzata in tono interrogativo e il pallido viso di Colin, prima che il respiro dell’insegnante di arte subisse una flessione spontanea fino a paralizzarsi in attesa del responso. Da bambino, durante l’interrogazione, Colin McRooe si limitava a fissare il libro lasciando che fossero gli altri ad individuare il punto focale da cui la luce nel quadro proiettava prospetticamente le ombre degli oggetti. A quella domanda la sua mente vagava sempre altrove, attratta da curiosità più profonde. Dopo l’incidente, alcuni anni dopo, Colin sosterrà che proprio quella domanda posta con semplicità dalla maestra Fleming fu il primo stimolo che lo spinse a cercare la verità nella luce.

Al termine delle lezioni l’accompagnatore Durth Filligan, detto piè veloce perché un congenito tallone sbeccato lo faceva camminare con un’andatura precaria e oscillante, scortava a casa gli alunni imboccando i sentieri ghiaiosi di Millenium Park. Mentre ascoltava Filligan sentenziare spropositi sulla negligenza della squadra di manutenzione comunale, Colin McRooe, amabile e biondo bambino di terza elementare, figlio di Arthur McRooe (dispotico bestemmiatore, proprietario di una panetteria in Grafton Street) e di Donna McRooe (casalinga dal fervente spirito cattolico) nata O’Neill, amava spesso osservare con la coda dei suoi bonari occhi azzurri la fontana al centro del parco, dove a volte la luce rimbalzava rifrangendo l’ondulata forma dell’acqua sulle statue sovrastanti. Era uno stato sospeso e delicato, quasi fragile, quello in cui sforzandosi di isolare ogni volta un particolare diverso, come il movimento palmato dei germani tra le foglie cadute nello scolo della fontana o la porosità marmorea del naso sbeccato di un tritone, Colin cercava di capire da dove provenisse la luce che lo colpiva con così tanta intensità, in quell’immagine. «Ehi, senti un po’» osò un giorno chiedere a Martin Murray, bambino grassoccio e dagli occhi sporgenti nonché suo compagno di fila fisso da almeno sei mesi, «da dove proviene la luce, secondo te, in questa fontana?».

Invaso da un buon senso tale da impedirgli di rispondere a una banalità così ovvia, Martin Murray si limitò a sorridere, lasciandogli andare la mano che per obbligo doveva tenere stretta per tutto il tragitto verso casa. Eppure già allora, in certi frammenti iconici della realtà, c’era qualcosa che continuava a ossessionare Colin McRooe tanto da trattenerlo interdetto a fissare per ore qualsiasi cosa emergesse dal mondo infantile che lo circondava, senza riuscire a cogliere che cosa veramente vi brillasse dentro. Quando capì che gli altri non condividevano la stessa sensazione, per vergogna smise di parlarne. Con il superamento dell’infanzia la domanda divenne meno assillante nella mente di Colin, il quale per molto tempo finì per essere incapace di scorgere altro nella realtà se non quello che chiunque, con una comune dose di diottrie, avrebbe potuto vedere.

Il risveglio della sua facoltà luminosa avvenne infatti durante il suo diciottesimo anno di età, nel bel mezzo dell’ultimo anno di scuola, quando Annie Faith, ragazza sbarazzina dai modi gentili anche se un po’ troppo energici, spruzzò con naturalezza un po’ di limone nel suo tè pomeridiano durante una pausa dallo studio. Il succo di limone cadde a piccole gocce davanti a quel viso tondo e non particolarmente bello, sconvolto però da una risata argentata che in quel momento ricordò a Colin la stessa melodia degli zampilli d’acqua a Millenium Park. Anche questa volta rimase folgorato da qualcosa, ma che cosa? Non riusciva proprio a venirne a capo. Era forse la tonda luminosità proveniente dalle lacrime del limone? Oppure i crateri incavati sulla superfice butterata della sua scorza? O ancora, perché no, l’acquosa consistenza degli occhi bovini di Annie Faith unita alla particolare angolatura assunta dalle sue dita intente a spremere il succo nella tazza? Colin McRooe sapeva solo che nel momento della spremitura qualcosa era tornato ad irradiarsi come una scheggia luminosa nei suoi occhi, fino a folgorarli per sempre.

Esperimenti simili a prove di laboratorio si svolsero nei giorni seguenti in camera di Colin, intenzionato a rievocare anche solo per un attimo quella sensazione che gli aveva attraversato la carne. Dopo essersi procurato una cassetta di limoni maturi, si mise a spremerli uno dopo l’altro in una tazza piena di tè, fino a renderlo un concentrato giallognolo e inacidito. Colin continuò i tentativi per un paio di giorni, fino a quando, scoperto a rubare i soldi dalla cassa della panetteria di suo padre, subì la consueta dose di schiaffi in cui i calli delle mani di suo padre gli lasciavano impresso sul volto tanti piccoli puntini rossi e roventi. Arthur pensò che chiunque avrebbe gridato nel riceve schiaffi così forti da far male alle ossa, ma suo figlio no, nemmeno un gemito. Nel momento in cui la debole luce della camera si sovrappose al viso di suo padre Arthur scolpendolo nella rabbia, una luce ancora più intensa attraversò finalmente, ancora una volta, quello di Colin McRooe. Fu l’ultima coincidenza necessaria per convincerlo a dedicare il resto della sua vita a catturare quella luce, ovunque fosse stato in grado di scorgerla.

Con le guance ancora gonfie, Colin scese in cantina, recuperò una vecchia macchina fotografica a cui mancava l’obiettivo, e dopo averla pulita e sistemata, iniziò a dedicare tutto il tempo libero alla verità nella luce. Di Annie Faith, di cui fino a qualche giorno prima credeva di essere innamorato, non parlò più. Nel corso dei mesi si rese conto però che più catturava immagini, più la luce sembrava sfuggire al suo obiettivo, e quando si soffermava su un soggetto che dal vivo gli pareva vibrare di luce propria, come per esempio la gamba metallica di un tavolo da esterno in una veranda assolata, ecco che nel momento in cui lo immobilizzava nel rullino questo perdeva la sua carica elettrica, rendendo quella fotografia nulla di più che un’immagine qualunque.

Colin McRooe nel frattempo concluse gli studi superiori senza roboanti risultati. Quando Arthur McRooe, dopo averlo tenuto in soggezione per più di vent’anni, morì per un arresto cardiaco nel bel mezzo della preparazione di una pagnotta di grando duro, Colin restò a vivere con la madre, continuando insieme allo zio Ernest a gestire la panetteria di famiglia e a fornire al quartiere il pane quotidiano così come per tanto tempo aveva fatto suo padre. Colin McRooe trascorreva le giornate in camera sua ad osservare le fotografie che aveva scattato, senza uscire mai se non per andare al lavoro o in chiesa con la madre, ultimo luogo dove vedrà la luce con i suoi occhi prima di essere trasportato in ospedale e poi trasferito in una casa di cura psichiatrica. Nei lunghi mesi prima dell’incidente, l’estenuante ricerca si era svolta con metodo, e a furia di scandagliare le immagini senza risalire all’origine ultima della lucentezza, ecco che Colin McRooe era giunto ad identificarsi così tanto con quell’indagine da non poter più pensare ad altro, ed ogni occasione era buona per andarsene in giro cercando di rispondere all’unica domanda che in fondo gli era mai davvero frullata per la testa: riesci a vedere la luce, in questa immagine?

Mentre fotografava una prugna spiaccicata sul pavimento di linoleum di casa sua, durante una sessione di fotografia nei primi giorni di aprile, Colin McRooe fu colto dalla feroce intuizione che non ci sarebbero mai stati criteri oggettivi o inquadrature luminose artificiali che avrebbero potuto inchiodarla per sempre alla realtà. Imprigionata dunque dentro di sé senza poterla possedere, la verità della luce poteva sorprenderlo all’improvviso senza ripresentarsi per mesi, e in quel periodo di tempo Colin si sentiva sperduto e abbandonato, così vicino ad un sentimento tragico della vita che non gli importava nient’altro se non ritrovare ancora per un attimo la levigatezza assoluta e trascendente di quella lucentezza. Poi avvenne l’incidente.

La chiesa è semideserta, quella mattina. Capita spesso che Colin McRooe accompagni la madre a messa nel fine settimana, ma quel giorno, dirà lei, chiede espressamente allo zio Ernest di assentarsi dal lavoro per poter venire. Assistono alla celebrazione alla chiesa del Santo Spirito, e poi a quella seguente presso la chiesa di Sant’Andrea. È sempre stato un bravo ragazzo, forse un po’ triste, dirà poi lo zio Ernest interrogato sulla vicenda. Colin McRooe, poco dopo l’inizio della messa e precisamente tra il salmo responsoriale e la seconda lettura, proprio nel momento in cui padre Jason alza le braccia al cielo per procedere con la liturgia e le maniche della sua veste gli si affusolano sui gomiti e il suo l’orologio da polso segna le dieci e diciassette, si afferra lentamente le palpebre infilandosi le falangi nell’incavo dell’orbita fino a farle scivolare dietro al nervo ottico, e senza alcun segno di dolore o un singolo sussulto, si strappa i bulbi oculari cavandosi gli occhi. Il sangue inizia a colare rigandogli il volto, fino a ricoprirlo con una maschera viscosa simile ad un sottile strato di cera rossa. «Me l’ha detto la luce, di togliermi gli occhi» dirà Colin McRooe una volta giunto in ospedale, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. All’età di vent’anni rimarrà cieco a vita, dopo aver compiuto un atto per cui, a detta dei medici, era stato necessario possedere una forza sovraumana. Nel breve incontro con la madre, prima di entrare nel reparto di psichiatria, le sue parole tenteranno di testimoniare solo l’avvolgente visione di una luminosa oscurità. E dunque, riesci a vedere la luce, in questa immagine?

Foto di Ashish Bogawat da Pixabay

Ciclo delle arche

0

di Danilo Paris,

da “ciclo delle arche”, in “filogrammi della segnatura”

 

SHIBBOLETH

 Partitura a tre voci  per presepe inaugurale di corpi fragili

 

 Yeghbayr:

 A colonia ed approdo
era di Gihon in fessura
il tendaggio a silicio
erbio e tessitura.

 

Dhorani:
In via di mercato e di fogge,
tra urne stipate
a gessi e cianosi,
a viburno e elleboro,
lì, a indicarvi,

in segno e di nulla,
inno e cero
e dea che affoga,

crepammo nelle carceri,
ci impressero le diaspore
a Sindone di catrame,
smalto
e piombo decaduto.

 

Rhosani:
Dov’era il resto, di conce e fibrina?
Dov’era pioggia e foce e nahar ar yarmuch?


Yeghbayr:

La prima dei mhyr
le trasse alle reti
a breccia e coccio

ad unghia e plasma
a striscia e Shibh Jazīrat

 

Dhorani:
E lì, nel nodo, era il filo,
lo sfilò dalle sue dita
E lì era il figlio
a fiocco di nitrati
e segnatura.

 

Rhosani:
La traccia si sformava
a gocce
ed erano una e l’altra,
il suo e del suo,
dell’altro,
infilati nel boccio

Yeghbahir:

Si scucì il rammendo dei loro passi
e dei suoi uadi
stremati sui carsi.

 

Rhosani::
E il terzo filava
lungo le assi
e saggiava la cornice
e allungò la mano
Là, più sotto,

lungo il fosso scorticato e il Wadi Rum
e il petroglifo della volpe
rossa,
a grappoli ed ammonium,
a filogramma e stenti
a sasso, spica
ortica e Shibboleth

 

Dhorani:
la falda brucava
sotto la steppa,
Tiberiade
alzava la placca,
“getta le reti,
verranno alla barca”
diceva, impregna l’ordito
continua
sotto il banco il suo corso
nel flusso.

 

                    La mia vita è esitazione prima della nascita, Veronica Neri, in Il germe sepolto, a cura di Ilaria Monti, in spazio-arca IV

 

 

Shekhinah

 

Chiesa di S.Lucia

In Agalma, spazio-arca IV, a cura di Chiara Gerpini: 1.2. “War updates from 20 May 22”,  cucitura della “Shekhinah” , dimora-tenda, con brandelli pitturati frames estratti da video-amatoriali di soldati nella guerra ucraino-russo, e meccanismo mobile con brandelli appesi per ucceli, installazione di Giampaolo Parrilla; 3. Ornitomanzia, proiezione di video-saggi sulla “fisica della complessità”(Giorgio Parisi) attraverso uno studio sui movimenti degli stormi.

 

 

Tra boro e argilla

              veniva il deserto

                         e fumo

e la mappa dei loro tragitti

              stava lì sotto, tutta in pezzi

e La riva,

 spiantata nella rena,

E la griffa delle bozze che si svia

L’una sull’altra

E Smacchia a miche di granaglia i paralleli

Li sgrava dall’appunto

Li tuffa a sepolcro di gesso.

 

“Qui”, pensavo “Il banco non s’attacca alla goccia

Si sterra invece a corolla di trasloco”

Qui, Yeghbayr

            grattò via dal bozzolo

foraggio e mietitura per commiato”

 

Mi arrampicai.

 

              La foce in grafite

Sbozzava il midollo all’insù

              E in fondo alla crepa, in alto

                            S’apriva lo sbuffo

                                                        a nitrato ed ammonio;

                            E a niobio e tecnezio

                                          l’idioma del trasloco

 sanciva il suo sintagma

                        a frane e scottature.

                                                       

 

Grattavo

              e mi scorticai le dita a forza di grattare

                            e la placca, venendo via, mi schizzava il berillio negli occhi

                           

E nel buio

 sotto il manto

                            veniva la brina

                                          da squarcio

                            e ossidava il rostro nel soffio

                                          e mi forava la vista,

                                                        e mi seccava la lingua

                                                                      e seccava infine l’estuario dell’engramma.

 

 E allora lo sentii

              Tra le dita screpolate

                            e sugli apici smarchiati della polpa

il filo,

              il filo sgocciato a xeno e cianuro di metile,

                            il filo di Mysiats e Dhorani,

mi stava tra le mani il filogramma degli stenti

              mi stava tra le mani il plasma a generazioni e  gemelli

                                          mi stavano i mhyr in breccia

crepata tra le unghie

e sgusciavano dalle pance per consegnarsi ai torrenti

 

                                          E fu per mia colpa che lo fecero.

                           

 

Tante volte avevo ritrovato il filo.

E tante volte lo staccai.

Invece.

Tirai il filo e

 dentro

 la sacca

di guscio e corallo

 si sbucciò

                                                                                    la scorza.

 

Annegai. Nel cerio e nel lantanio.

              Nel mondo, sopra la crosta, non era più il mondo.

Era l’aria.

 E l’aria era acciaio e silicio.

Come la terra.

E calotta esarava a crepacci e morene

                                                        e ovunque cianosi cuoceva a neotimio e samario

                                                                                                                l’embrione in bitume di gelo

 

Più salivo…e più morivo.

                            Più vedevo la luce e più diventavo cieco.

                            Cesio e iodio mi spaccarono i polmoni.

                                                        Io ricordo il primo a cui mancò l’aria.

                                                                                                  Fui io a togliergliela.

              A me…il tetracloruro mi strappò via la pelle.

              Il candio e l’irmio mi sformarono le ossa.

                            Antimonio e palladio mi colarono via l’ultima volta che vidi…mia madre.

 

Annegavo…e…sì…

                            Morivo…finalmente. O forse dormivo…o forse… volavo…si…

sentivo sulla schiena una fitta e poi…

due, tre…forse…

 cinque tronchi di faggio…

mi spezzarono le costole, mi torsero le braccia, bruciarono gli ultimi tessuti

 

Non avevo più occhi, ma vedevo…

né avevo più bocca, ma sentivo per la prima volta la mia voce.

                                         

“Nell’aria

lì sta la tua radice”, mi disse a un certo punto.

 

 

E la seguii.

 

“Che cosa?” …chiesi…Io…io non ho radici, dissi.

Io sono l’estirpato.

Io sono il sangue svasato via dalla sua goccia.

 Io sono Caino.

Nell’aria…Qayin…vieni nell’aria…vieni…mi disse…

e io non pensavo più, dopo tanto tempo…

e la seguii…                                                                                                                                                                          tra spifferi cadenze.

             

              Ero a casa.

 

Shamayīm …mi apriva tra le sue piume…

raqia mi accarezzò la fronte

Rafi era fresca…mi cadeva sulle spalle.

Qaydum era calda…mi teneva tra le sue braccia.

Marum era la sua voce…era come la ricordavo. Ed era bella.

Arfalun erano le sue dita…quando la conoscevo appena.

Hay’oun era il suo pensiero…quando la sera mi raccontava una storia, prima di addormentarmi.

Arous erano i suoi occhi…prima ancora che nascessi.

                            Ajma’ , invece, era la sua pancia, quando dormivo e…sognavo.

 

 

Miʿrāj, invece,

mi sussurrò qualcosa all’orecchio.

 

“Che cosa? Che cosa dici…”

 

Mio fratello

erano i miei fratelli

andavamo da qualche parte

ma non saprei dire dove

 

che cosa stavano dicendo

che cosa stavano-

 

Cantano gli uccelli

 

 

Postilla dell’airone:

 

Il bendaggio suturó il solco

e l’acheno forato nel frutto

aprì la goccia di cianuro

e il raso bianco della morella

si sfilò dal filogramma di metile,

si tolse via la segnatura dal becco,

il fororácide si schiuse via dalla corolla

e l’eocene sgonfiò ancora,

dalla spugna

la sua piuma dalle conce.

 

 

Cripta S.Lucia, “Passaggio di figura nel bianco”, Luca Grossi, in Il germe sepolto, a cura di Ilaria Monti per Spazio arca IV                           

 

Sanremo, l’Olanda e la questione meridionale

0

di Elsa Rizzo

Quest’anno Sanremo l’ho guardato da un piccolo paesino in Extremadura, una regione della Spagna al confine con il Portogallo, disseminata di campi e borghi in preda a un silenzioso ma instancabile spopolamento. Il nostro gruppo è disequilibrato: siamo cinque ragazze italiane, un ragazzo italiano e un’unica ragazza proveniente dall’Olanda.

Confesso di avere sempre evitato i grandi gruppi di italiani all’estero. Inevitabilmente, pur in presenza di una sola persona che non sapesse l’italiano, si continuava a parlarlo come se poi quella persona l’avrebbe, volente o nolente, appreso per osmosi. O, quantomeno, avrebbe carpito qualche parte del discorso che all’inizio non spaziava mai dagli intramontabili classici nostrani: la mancanza della pizza, il calore delle persone, le differenze tra la parte nord e sud del paese. Certo, la maggior parte delle volte il gruppo riusciva a fare dell’inglese la propria lingua comune, e anche quello rimaneva un lusso perché la conoscenza delle lingue straniere in Italia continua ad essere un privilegio di pochi, ma, a volte, il discorso prendeva una piega così intrinsecamente legata al nostro paese che anche a volerlo non avremmo mai potuto portarlo avanti in una lingua che non fosse la nostra.

Perché dico questo? Perché credo nella centralità che le lingue assumono nelle nostre esistenze.  Perché non smette di affascinarmi il risvolto sociale della lingua, che ci spinge a dibattere sui nostri significati, le nostre rivendicazioni, i nostri punti critici e intimi. Questo filone di pensieri mi è tornato prepotentemente a mente sabato 10 febbraio verso ora di pranzo quando, reduci da tre giorni in cui abbiamo sciroccato la sfortunata compagna olandese con l’evento televisivo italiano per eccellenza (grande Carolina per sopportare e interessarti (?) alla cronistoria delle vicende dei cantanti e alle nostre minuziose spiegazioni sul Fantasanremo), ci siamo ritrovati a discutere sulle reazioni social sui post di Geolier. Premetto: Geolier l’ascolto e mi piace. Mi piace pure assai. Nella serata di sabato mi hanno entusiasmato diverse cover e avrei difficoltà a scegliere la mia preferita. Mi sono addormentata a dieci minuti dalla fine ma qualcuna tra di noi aveva già sancito proverbialmente e con una malcelata insofferenza: a Geolier lo farà vincere il televoto.

Solo l’indomani, dopo aver visto alcuni spezzoni della conferenza stampa in cui rispondeva alle domande, alcune di dubbia etica professionale, ho anche scoperto che Geolier, come altri cantanti prima di lui in altre edizioni, era stato fischiato dal pubblico dopo l’annuncio della sua prima posizione nella classifica della serata. Ma, se questa non era la prima volta che episodi del genere avvengono, cosa cambiava rispetto a tutte le edizioni precedenti? Nella piena legittimità del dissenso circa la classifica vista l’elevata qualità di tutte le esibizioni, ad avere scatenato i commenti negativi su Geolier già nelle serate precedenti sarebbero state, soprattutto, due motivazioni: la fantasiosa teoria per cui Geolier, che in quest’ottica ascenderebbe al fantomatico napoletano medio per antonomasia, abbia truccato il voto comprando Sim ad ogni napoletano capace di intendere e volere, e la stizza per un cantante che continua a cantare in napoletano, una lingua che non viene mai percepita come tale, ma come espressione di una sub-umanità che continua ad essere profondamente rifiutata da una parte del nostro paese.

Ho cercato di darmi una risposta partendo dal secondo punto. Perché è soltanto Geolier, tra i diversi cantanti e gruppi napoletani (saranno mai tutti napoletani i campani?) a competere, a dovere rispondere di tali accuse? Certo, gli altri pezzi non erano, a differenza del suo, cantati in napoletano. Ma, se così fosse stato, ne staremmo parlando? Di più, se qualcun altro avesse deciso di cantare in sardo, in veneto, in toscano, di cosa parleremmo? Lo staremmo facendo? Il regolamento di Sanremo consente l’uso di parole dialettali nei testi, basta che non si snaturi il senso complessivo della canzone. Basta, cioè, che da Bolzano a Ragusa ci si possa capire. L’italiano è la nostra lingua ufficiale per una convenzione che stabilisce la presenza di lingue e dialetti e che ha avuto, come in altri paesi, delle ripercussioni sociali e storiche che si riflettono ancora oggi sulle nostre quotidianità. Così che chi è nato nel sud Italia lo sa bene che in alcuni luoghi pubblici non sta bene parlare in dialetto. Lo sanno benissimo anche le persone che vengono dal nord Italia. Quello che ci differenzia, credo, è cosa venga percepito quando si sente il nostro dialetto. A quali domande risponda il nostro modo di parlare oltre quelle riguardo la provenienza. Tocca allora a Geolier non rispondere solo di una lingua tutt’ora fortemente osteggiata, ma anche di tutto quello che riusciamo a vederci dietro: delinquenza, camorra, indolenza. Ci vediamo interi mostri che vivono come parassiti sulle spalle del nostro stato. E allora se sei napoletano e canti in napoletano non puoi essere il primo in classifica non perché, come giustamente si può sostenere, ci fosse chi meritasse di più, ma perché se sei un napoletano che canta in napoletano tu sei arrivato primo perché hai trovato un modo per fottere il sistema. E allora Geolier assorge all’unico napoletano che riusciamo a immaginare: lo scugnizzo di periferia, il truffatore, lo scansafatiche. E vive in una giungla che nientr’altro è che Napoli.

Non credo che questa generalizzazione, che non affronta i problemi sistemici che affliggono le grandi metropoli del sud Italia, non descriva situazioni che sicuramente esistono. Certo che a Napoli ci sono anche questi problemi. Solo, la scelta di cantare in napoletano di Geolier, si inserisce in una questione che non è solo linguistica, ma sociale, in contesti dove fin da subito gli unici esisti possibili della tua vita prevedono soccombere al sistema o imparare a navigarci. Fin da subito sai che perdi ed è vero che col vittimismo non ci facciamo nulla, ma non si può non dire che chi nasce in un ambiente svantaggiato del sud parta dallo stesso punto degli altri. È a questo punto che riappropriarti della tua lingua, in questa corrente di rivendicazione degli ultimi anni, studiarla, può simboleggiare l’emancipazione tua e quella di chi rientra nella tua comunità. Il tuo riscatto.

Questa unione viscerale con le nostre geografie non è sempre sana. Tutte le unioni che non prevedono dei dubbi al loro interno sono problematiche. Però, credo che la storia in generale del sud Italia, esente da qualsiasi assoluzione per le nostre incontestabili colpe, non possa non considerare come siano state anche l’arte, la musica, il cinema, il calcio, a cercare di bilanciare le indiscutibili carenze statali, di impiego, di questi luoghi. E allora cerchiamo di rivendicare qualcos’altro. In questo caso, una redenzione attraverso una lingua.

Questi miei pensieri li ho espressi a questo fantomatico quanto improbabile gruppo. Ne è seguito un dibattito interessante, che non riuscirei a riportare qui. Sapete in che lingua abbiamo parlato? In inglese. Sì, parlando di queste dimensioni così strettamente legate al nostro paese, ci è venuto naturale pensare che a Carolina non dovessimo sempre e solo fare la testa tanta sulla sacralità della pasta al dente, ma che potesse anche sentire parlare delle nostre differenze territoriali, così intrinsecamente nostre.

 

Respirare e basta

0

[Questo passo è tratto dal volume Respirare di Marielle Macé, uscito nell’edizione italiana per Contrasto nel 2023.]

di Marielle Macé

Traduzione di Matteo Martelli

Questo libro viene da lontano, da un lungo passato nella respirazione. Viene dai paesaggi avvelenati della mia nascita, da una familiarità con patologie respiratorie che da molto tempo colpiscono certe professioni, certi paesi, certe classi sociali, dagli occasionali attacchi di soffocamento di un’infanzia convalescente, e da un vago amore per tutto ciò che dà immediatamente aria: l’acqua, il mare aperto, la calma, le partenze, i ritorni, la fraternità, la parola vera…

È cresciuto in maniera obliqua, nella reclusione e nella rabbia del lockdown; poi, di filato, in un anno in cui la vita mi ha per miracolo offerto un giardino (un frutteto in pieno sole, a Villa Medici, nel centro di Roma): un giardino condiviso, antico e di nessuno, che non ha soffocato la collera – come avrebbe potuto? –, ma accolto e raccolto le domande, ravvivato le aspirazioni e calmato la voce.

Il libro parla dell’oggi, della nostra asfissia e del nostro grande bisogno di aria, ossia dell’irrespirabile e di ciò che è necessario per respirare. E vuole sostenere quella speranza di respirare che proviamo quasi in modo nuovo ora che l’esperienza intima, anche se impersonale, della respirazione ha acquisito con tutta evidenza una dimensione politica.

*

Senza dubbio, oggi più che mai proviamo il desiderio di respirare: respirare e basta, sentire la grazia dell’aria e la certezza del suo arrivo. Basta d’altronde pronunciare questa sola parola, “respirare”, e un intero paesaggio accorre, come sperato, attratto e aspirato dal richiamo della lingua. Si avanza in un oceano già ampio, seguendo la marea leggera dei polmoni: in soffi d’aria, il vicino e il lontano aprono le più piccole porte della pelle dove, come affacciati al “balcone del corpo”[1], l’esterno viene a raccogliersi, in vapore, nella bocca…

Ne proviamo più che mai il bisogno, ne parliamo, perché un’atmosfera in realtà irrespirabile sta diventando il nostro ambiente ordinario. Tutti lo sanno, lo sentono: ci manca l’ossigeno, la salute, la calma, ci mancano i legami veri, la giustizia e la gioia.

La peculiarità di ambienti quasi ovunque avvelenati è ormai pressoché divenuta la nostra condizione naturale; la nostra condizione politica anche, attraversata da violenza e disprezzo; la nostra condizione sociale (o piuttosto, le nostre condizioni sociali così differenti) in un’epoca di barbarie del capitale e di brutalità pubblica; la nostra stessa condizione psicologica: l’affanno che nasce dalle nostre “violente stanchezze”[2], sopraffatti dal lavoro e dal costo dell’adattamento a un mondo in ebollizione. Un mondo in cui le “crisi” si susseguono, rotolano come una valanga senza lasciare il tempo di riprendere fiato e aprire la finestra dei polmoni. – Respirare, in questo senso, sarebbe già una tregua: pausa, “tempo”, rifiatiamo, offriamoci bracciate di sopravvivenza. Si direbbe quasi che ci reggiamo più sulla qualità del nostro fiato che sulle nostre gambe.

È inoltre in termini di respirazione che viene formulata un’esigenza di giustizia sociale, un’esigenza crudamente ribadita in occasione di una pandemia che ha attaccato l’apparato respiratorio e accentuato la distribuzione già molto diseguale delle vulnerabilità. Poche settimane prima della comparsa del Covid-19, George Floyd era morto dopo essere stato soffocato per più di otto minuti sotto il ginocchio di un poliziotto: “I can’t breathe!”. E la protesta del corpo privato d’aria è diventata il simbolo della lotta contro la crescente violenza della polizia, contro un mondo che si brutalizza e vuole fare leva sulla nostra fragilità. Un mondo in cui il respiro è il cuore stesso del vivere, della vita pulsante, il suo cuore organico e politico, e anche il suo slogan.

È allora tempo di affermare, come fece Achille Mbembe all’inizio della pandemia, “un diritto universale a respirare”[3]. E questo diritto a respirare non è “solo” il diritto di ognuno a respirare in ambienti non più inquinati, ma il diritto a una vita respirabile, cioè desiderabile, una vita che valga la pena, una vita a cui davvero tenere. È il diritto ad aspettarsi molto dalla vita (da una vita con, vicino, tra): la speranza di fraternizzare nel respiro, la speranza di disintossicare il nostro quotidiano e respirare finalmente con gli altri. Respirare con, “cospirare”, se si vuole.

*

Per respirare, in effetti, occorre aria, ma soprattutto una qualità di legami, di paesaggi, di futuri possibili, e molte altre persone con cui respirare, in cui sperare, le quali possano respirare in noi. Un intero mondo in realtà. Perché respirare non significa solo continuare a mantenere il proprio fiato, nutrire il proprio organismo come se vivesse una piccola vita separata. Significa prendere parte a ciò che esiste e far parte di ciò che esiste: prendere l’aria (quella che c’è), lasciarla entrare, porosi e nati permeabili come siamo tutti; e poi restituirla, espirarla, ridarla cambiata al mondo che condividiamo. Partecipare all’insieme della vita, quindi, e contribuirvi. Meglio (o peggio), compromettervisi, in uno scambio che tiene stretti i fili che legano i corpi allo stato reale dell’ambiente in cui vivono.

Il respiro è l’esatto contrario, e in questo sufficiente, della separazione. In modo tale che ognuno sente che con l’aria che espira (l’aria che espira in vapore condensato, rifiuti, ma anche in gesti, atti, e ancora in frasi) contribuisce a produrre quella che viene chiamata “l’aria del tempo”.

Dico “in frasi” perché personalmente è anche la cura della parola e di quel che ci riserviamo l’un l’altro giorno dopo giorno a darmi più o meno da respirare. Il modo in cui la parola si diffonde nel mondo, crea i suoi sentieri tra noi e con tutto il resto, portando aria o inquinando un po’ di più, tutto questo è quanto rende per me la vita respirabile, ossia fraterna, oppure irrespirabile.

Forse in effetti parliamo solo per respirare. Forse parliamo solo perché tutto sia respirabile, in noi e intorno a noi.

*

Nella mia fame d’aria, ho trovato in una pagina di Charles Pennequin una proposta perfetta, un incoraggiamento: “Cercare di essere un respirante”[4]. Il punto è proprio questo: non si tratta di darsi da fare per respirare meglio, respirare correttamente, penetrare i misteri di un’intimidatoria arte del respiro[5] – come se dovessimo rieducarci, imparare una lezione, perché incompetenti in fatto di fiato, un po’ bisognosi, mal assortiti, in attesa di un preparatore atletico o di un correttore (ci manca solo questo, dover essere performanti anche nella respirazione!). Ma cercare di essere un respirante, un essere che respira, e dirci che siamo qui per questo, per far esistere tutto questo il più possibile. Anche a costo di rischiare di parlare, pensare, correre, sperare “al di sopra dei nostri mezzi pneumatici”[6].

[1] Antonella Anedda, Dal balcone del corpo, Mondadori, Milano, 2007.

[2] Romain Huet, De si violentes fatigues: les devenirs politiques de l’épuisement quotidien, PUF, Parigi, 2021.

[3]  Achille Mbembe, “Le droit universel à la respiration”, AOC, 2020.

[4] Charles Pennequin, La ville est un trou, P.O.L., Parigi, 2007, p. 106.

[5] Pensare di dover respirare meglio è già troppo. Molti di coloro che lavorano col corpo si oppongono all’idea stessa di esercizio respiratorio, poiché l’attuazione della volontà inevitabilmente “interferisce con il libero gioco della relazione con l’ambiente che prelude all’avvento del respiro”, Hubert Godard, Une respiration, Contredanse, Bruxelles, 2021, p. 7.

[6] Devo questa formula a Cécile Mainardi.

Si levano i morti

0

di Massimo Parizzi

Su La memoria delle piante, di Velio Abati, Manni Editori, 2023

“Si scopron le tombe, si levano i morti; / I martiri nostri son tutti risorti.” Benché per gli inni, specie patriottici, provi in genere avversione, questi primi versi dell’Inno di Garibaldi mi hanno sempre convinto e commosso. Perché è vero: i “martiri” possono “levarsi”, se chiamati dal presente o dal futuro; sono sempre lì in muta attesa, o muta finché non li si ascolta. Ogni epoca, comunità, gruppo umano sceglie i propri. Come sceglie i propri eroi. Anche per la cancel culture provo in genere avversione, ma non quando, per esempio, negli Stati Uniti si chiede che le statue di Cristoforo Colombo siano abbattute. Una statua rende omaggio a un eroe e lo “scopritore” dell’America, si obietta, non lo era. In effetti, era un farabutto e un uomo meschino.

Ci sono, in questo romanzo, martiri ed eroi? “Chi cerca di parlare dalla riva di chi voce non ha”, avverte l’autore, deve evitare “la postura umiliante della vittima” e, nello stesso tempo, “l’esaltazione della vittima”. Niente martiri ed eroi, quindi: soltanto morti che, scrive Abati riferendosi alla storia recente, ma vale anche per la storia meno recente, “non sono scomparsi. Assiepano discreti le nostre piazze, vegliano le nostre stanze, sanno che qualcuno li ascolta”. Morti che in questo romanzo sono tornati: “Dunque sono tornato” sono le parole con cui inizia, e “dunque siamo tornati” quelle con cui quasi finisce. Chi è tornato, da quale passato, e da dove?

Iniziamo dalla seconda domanda: quale passato? Gli ultimi decenni del XIII secolo, i primi secoli dopo Cristo (forse la fine del II), il XX e XXI secolo, la seconda metà del XVI. Queste le epoche più o meno identificabili, e bastano per farsi un’idea di quanto la memoria delle piante sia a lungo termine. I luoghi, invece, sono quasi sempre gli stessi: Grosseto, il grossetano e la Maremma, dove l’autore è nato e vive, con puntate a Siena e nel senese e forse in Puglia, nel brindisino. E più o meno simile è lo status sociale della maggior parte dei protagonisti: contadini.

Contadini che si trovano di fronte, negli ultimi decenni del XIII secolo, a cardinali che incitano alla crociata e al “fracasso sinistro del ferro e degli zoccoli” di armati che irrompono nei campi e li devastano; o, nei primi secoli dopo Cristo, alla peste, a padroni che dividono famiglie, a scorrerie di “uomini dalle lunghe barbe”; o, nella seconda metà del XVI secolo, a “ruberie e ammazzamenti” da cui scappano per arruolarsi; o, nel nostro tempo, contadini immigrati “neri, bianchi, asiatici” sfruttati da caporali e padroni.

Un contadino immigrato è Camara ed è per lui che, forse, il romanzo si sposta in Puglia, nel brindisino. Scomparso, suo fratello l’ha cercato ovunque, frugando “tutti i cespugli e i mucchi di rifiuti. Ma la sua bicicletta non c’era”. Ha chiesto di lui ai suoi compagni di lavoro e a due caporali, ma da questi ultimi ha ricevuto solo risposte sprezzanti. Lo trova infine “alla proda d’un fosso, dove Mario”, un caporale, “l’aveva buttato, con gli occhi ancora spalancati”. Non lo so, ma non è escluso che scrivendo questo capitolo Abati pensasse a Camara Fantamadi, 27 anni, del Mali, che il 24 giugno 2020, dopo avere lavorato per sei euro all’ora nei campi sotto il sole a una temperatura di quaranta gradi, stava tornando, anche lui in bicicletta e anche lui dal fratello, a Tuturano, nel brindisino appunto, e crollò prostrato sul bordo della strada. “Martiri” ed “eroi” o no, mi piacerebbe che Tuturano gli dedicasse un monumento.

Ma, oltre a contadini, fra i protagonisti di questo romanzo si trovano ragazzini che vanno “a garzone”, scolari e scolare, studenti e studentesse, boscaioli portati via per renitenza alla leva da uomini “con il moschetto”, donne in rivolta contro i “birri”. E, in diversi momenti, a prendere la parola è l’autore stesso: a volte autobiograficamente, per ricordare il padre, una visita a una mostra d’arte contemporanea, il passaggio di un corteo, il Sessantotto; altre per ragionare di verità e libertà, di “identità e temporalità” e della “stratificazione di tempi” nell’essere umano, cioè anche di questo libro.

Fra le parole che ricorrono spesso nel romanzo vi sono “sapere” e “silenzio”. Il bisogno di sapere (“davvero non sapere niente?”), lo stupore di sapere (“quale prodigio è questo mio sapere?”), “la fatica di dover sapere”. E nel silenzio il romanzo inizia (“il silenzio è ora completo”) e finisce (“il grano cresce silenzioso”). Quale il rapporto, se c’è, fra sapere e silenzio? La risposta più facile è che il sapere richiede ascolto e l’ascolto richiede silenzio: “Fermarsi. E ascoltare” è l’invito che rivolge a se stesso, ma sembra rivolto a noi, un personaggio. Che tuttavia subito aggiunge: “I silenzi non sono innocenti … sono la linfa della tua sottomissione”, perciò “raccòntati con gli altri, per capire con loro chi siamo”. C’è silenzio e silenzio, dunque? O, piuttosto, il silenzio che l’ascolto richiede cessa non appena l’ascolto ha inizio? Perché l’ascolto rivela che “non c’è silenzio”: “Quando ogni voce umana, come ora, è svanita” affiora “il soffio lieve del pino”. E quando sembra che “dai corpi degli olivi, dal folto dei grani” non provenga nemmeno “una cicala” o “un filo d’eco” e “nemmeno il mio grido esce di bocca”: “Sbaglio” si dice un personaggio. «Riconosco, riconosco – ah, quanto struggenti – le note sincopate. … Da dove, quel suono prorompe?”

Un personaggio, ho scritto, perché non sempre è facile capire chi parla, chi è a dire “io”, né da che epoca venga la sua voce, né da dove. Accade, per esempio, che un capitolo ambientato nei primi secoli dopo Cristo termini con parole riprese all’inizio del capitolo successivo, ambientato nel XX secolo. Ma che la fine di un capitolo sia ripresa all’inizio del successivo accade più volte, come accade che un capitolo termini con domande cui l’inizio del successivo sembra rispondere con un “eppure”, un “invece” o altre domande. E che dei personaggi, Celso, per esempio, o Renzino, si ritrovino a pagine di distanza, ma senza che si possa dire con certezza che sono gli stessi.

Ma non importa. O meglio, è proprio questo che importa: questo passarsi la voce, questo trasmigrare, questo infiltrarsi, questo mescolarsi, che fanno delle voci che risuonano nella Memoria delle piante una voce collettiva e, nello stesso, voci individuali. E di epoche remote, vicine, attuali, quasi la stessa epoca: “Sento intima la mano che verga incerta sulla roccia il cervo propiziato nella caccia.” Quindi “non ha il tempo un suo ordine, per quanto terribile? Non c’è un inizio e una fine a stringere per sempre un solo sviluppo?”. A queste domande del romanzo, il romanzo stesso sembra rispondere: no, non ce l’ha, non ci sono.

Non ce l’ha e non ci sono perché, scrive Abati, «c’è un’altra memoria»: la “memoria delle piante, delle rughe della terra”, quella, si legge nella stessa pagina, cui “alludeva” “l’intellettuale che, in punto di morte, ha dettato che la vera eredità non è nei suoi libri o nel suo insegnamento, perché verranno dimenticati, ma in quanto in meglio della vita ha cambiato intorno a lui”. Tuttavia, è forte la tentazione di dare del titolo di questo romanzo anche un’altra lettura e vedere nelle “piante” i morti “senza nome” e “senza voce” che ne sono protagonisti, sempre pronti a rinascere, germogliare, fiorire, fruttificare, come le piante a ogni primavera, “la rossa primavera”, per concludere con un altro inno garibaldino, ma delle Brigate Garibaldi questa volta, del “sol dell’avvenir.”

Dolores Prato: Scottature

0

Esce per Quodlibet una nuova edizione di Scottature, racconto di Dolores Prato premiato nel 1965 allo “Stradanova” di Venezia. Storia dell’uscita nel mondo di una ragazza cresciuta in convento il testo è, come scrive la curatrice Elena Frontaloni, la prima manifestazione della “prosa tarda” dell’autrice per “la rapidità imprevedibile del dettato, la vividezza linguistica in studiato accordo con l’oralità, il rifiuto di lirismi e frammentismi d’accatto, uno humour malinconico e spaesato, l’autobiografia come spazio e non come genere della propria scrittura”.
Del racconto, per gentile concessione dell’editore, riproduciamo qui di seguito la “lassa” o “sospensione” finale.

 

***

 

Ma per continuare gli studi lasciai di nuovo la clausura conventuale, e, con un moto tanto spontaneo che io l’avvertii dopo che era avvenuto, ruppi anche la clausura che avevo imposto a me stessa. Uscii fuori e guardai: l’amore fioriva intorno a me con l’esuberanza dei roseti a primavera, ed era tutto del tipo di quella rosa rossa. Io sorrisi e lui mi prese per mano; fummo felici e sfacciati come la rosa. Poi, non so perché, sempre meglio non sapere, egli fece a me quel che io non avevo fatto alla rosa, quel giorno che non avevo imparato nulla: mi gualcì e mi buttò.

Marabecca

0

di Daniela Sessa

In “Marabbecca”, ultimo romanzo di Viola Di Grado, persino la copertina sa di naufragio. E la donna di spalle con la testa spettinata dentro una gabbia è un relitto ammassato dall’onda. Della barca nemmeno una traccia, tanto è il relitto che ci interessa. Ci interessa quello che siamo, frantume. Si passa tra le cose della vita, facendosi il più delle volte male, e i pezzetti da ricomporre prima tagliano e poi formano un enigma sgangherato, superstite. Chi se non Athanasius Kircher poteva provare a decifrarlo? Non quell’Athanasius Kircher: i geroglifici egizi sono ben più semplice cosa dell’imbroglio della mente. Ma Athanasius Kircher, il pappagallo e la sua unica frase “ti amo, ti amo, ti amoooo“. L’amore è dunque l’enigma. Per tutti e per sempre. Anche per chi scrive. Occorre saperlo raccontare, l’amore. L’amore, con tutto il corredo di violenza o di passione altrimenti rischia di sgusciare nel già detto, già pensato, già…
Solo che “già” non esiste nel mondo di Viola Di Grado, cui appartiene invece il “giammai” ossia il dono della sorpresa fino al limite dello sconcerto. Sconcerto per l’originalità dell’invenzione, per la sorprendente declinazione dei personaggi, per il viaggio in un realtà talmente dura da esigere il surreale, per la meraviglia di una scrittura che si fa lama. Lucida e pronta a ferire. Fa tagli netti e corti, la frase una sincope della mente prima che della scrittura, un bisturi le parole, chirurgia e poesia. Dalla pagina zampilla sangue rosso buio: se fosse possibile inventare un colore, sarebbe la monocromia della marabbecca. Il mostro femmina nascosto nei pozzi pronto a mangiare i bambini: questo racconta la fiaba popolare. Marabbecca e sugghiu sono creature orrende e misteriose del folclore siciliano: il sugghiu ha una forma ibrida di rettile antropomorfo e viene dal mare mentre della marabbecca non si sa l’aspetto. E’ una femmina d’ombra, il buio è il suo destino e il suo potere. Viola Di Grado sceglie lei nelle leggende della Sicilia, per tornare nella sua terra e tornarvi a suo modo, con una storia che fagocita l’epica dentro l’inconscio. Che “Marabbecca” abbia il respiro dell’epica, il lettore se ne accorge man mano, procedendo dentro una storia apparentemente lineare. Il lettore entra dentro un labirinto dove nulla è come appare, dove non capisce se la marabbecca è fuori dal pozzo o è lui a esserci finito dentro, dove crede di sapere che la Marabbecca è Angelica, la ventenne in festa tutta glitter e abitini fiorati, o Clotilde, la protagonista col braccio e il cuore rotti. Oppure la marabbecca è Catania, la città nera come la lava o la Sicilia, l’isola che imprigiona. In ogni caso non si esce indenni da questo romanzo in cui la scrittrice ritorna a casa e la racconta con ferocia e alto tasso di letterarietà. D’altronde, per chi vuole uscire indenne dalla letteratura, può accomodarsi altrove. Quando Viola Di Grado scrive, essere lacerati dalle sue storie è il minimo che può accadere. E va bene così. Perché Viola Di Grado sa lo scarto tra la trama e l’invenzione. La trama offre la storia di un amore tossico e violento, di un incidente, di una malattia, di un nuovo amore: Igor e Clotilde prima, poi Clotilde e Angelica. Ci sarebbe materia per un mucchio di talk sulla violenza di genere, sul patriarcato, sulla fluidità di genere, sulla famiglia. Ma tutto questo è infilato dentro una casa piena di uccelli, è agito da personaggi incredibili e precipita come spinto giù da una scala disegnata da Escher, quindi dentro l’inconscio. Laddove è finita tutta la letteratura dal ‘900 in poi. “Marabecca” rientra dentro questa tradizione (il lettore attento saprà scovare le ombre lunghe delle letture della scrittrice) con una voce originalissima, giocata tutta sull’inattendibilità, della storia e della scrittura. E’ Clotilde, è la sua voce a portare il narrato nel prima e nel mentre, da una casa all’altra, da un personaggio a un uccello. Dal dentro al fuori? Ecco un geroglifico davvero ostico anche per il buon Athanasius Kircher. Clotilde è la scrittura che segue e insegue la menzogna: del narratore, dei personaggi, dei luoghi. E’ la casa voliera, in cui l’accudimento coincide con il possesso e le ali non si spiegano mai davvero: il volo è un precipizio, da cui chi si salva, si salva male. Mentre Athanasius Kircher, incerto anch’esso sulle ali della verità e della menzogna, sacerdote del buio, continua a parlare la stessa frase. Che sia lui la marabbecca?

Monologo bellico

2

di Daniele Muriano

Mi chiamo Aria, e sono una bomba. E che bomba… Non però in senso volgare, no. Io sono una bomba: lucida, tornita e inossidabile. Insomma, esplodo. Come posso avere una coscienza? Non lo so. Chiedetelo ai miei inventori. Mi avranno insufflato un’intelligenza artificiale, o un soufflé d’intelligenza alla vaniglia, non lo so. Questi tempi sono avanzatissimi. Anche le bombe hanno autocoscienza. Uccidono e, senza rimedio, soffrono per il loro destino. Ovviamente non possono soffrire dopo essere esplose, perché le bombe sono mortali (in un senso e nell’altro). Ma nel mentre, eccome se si struggono. “Si struggono e distruggono”, potrebbe essere lo slogan inventato da uno stupido.

Sia chiaro: non hanno colpa. Sono proprietà di chi le guida. Sono molto in breve, schiave. E no, carini: non chiamatemi bomba intelligente. Ché tra noi bombe, è un insulto. Al massimo, bomba autocosciente. O se preferite il nome proprio rispetto a quello generico, Aria. Chi mi ha battezzato con questo nome arioso? Forse l’aria stessa mi ha dato il nome di Aria. Infatti la sto attraversando. Sto brucando l’aria, come una mucca grigia che sfiora i prati del paradiso. Il brutto è che precipito, cioè mi precipito sull’obiettivo. Certo, lui per me è un semplice numero. L’obiettivo è un ammasso di coordinate precisissime. Non lo conosco, però. E se volete proprio saperlo, non lo conoscerò. Visto che esploderò al contatto con lui. Poi diranno di me che sono un mostro. Un ordigno senza cuore. È vero, purtroppo. Perché di cuore, no! non se ne parla.

Ma ho un naso, signori. Ed è piuttosto lungo. Con il mio naso buco l’azzurro dei cieli, attraverso questo orizzonte ingiusto. È un naso insensibile, che sente solo sé stesso. Ma è. Ho da lamentarmi? Forse. Ci sono però bombe peggiori, dalla vita assolutamente più corta. E poi, i miei circuiti mi impediscono di lamentarmi.

Cosa volete? Ammazzerò qualcuno, forse molti. Pioverò sul settimo piano di un palazzotto, sventrerò un tetto sotto il quale un ometto panciuto sta defecando in tranquillità, farò a pezzi le mattonelle del bagno, attraverserò in frantumi la tromba dell’ascensore mentre il signor palazzo si aprirà in tutte le direzioni come un animale squartato. Questo fatto è prevedibile. La mia intelligenza può quasi toccarlo. Eppure, io non so niente. Come dicevo, non conosco il mio obiettivo. Che è quasi Dio. Sì, credo che l’essere umano abbia il medesimo rapporto con l’essere divino. Dio è inconoscibile, e l’uomo può toccarlo davvero solo grazie alla morte. Non so però se ha senso divinizzare troppo il mio obiettivo, visto che – nella sua abissale passività – non ha alcun potere. Inoltre, verrà distrutto. È forse pensabile un dio che sta per essere fatto a pezzi? No, tutta questa metafora farcita di crema metafisica non tiene. L’obiettivo non è Dio.

Ci sono invece gli ingredienti affinché io sia buddista. Come può diversamente una bomba sopportare il suo destino infame? Del resto, la bomba è passiva. Deve lasciarsi andare, essere impermeabile a ogni sentimento terrestre, lasciarsi attraversare insomma dall’aria. Deve rinnegare le pulsioni, o soffrirebbe per la propria impotenza.

Invece io voglio vivere, amare, odiare, sopportare, contare le pecore nel pensiero prima di addormentarmi. Voglio subire la forza del caso, come tutti.

Pare che io abbia la fortuna degli uccelli. Sto attraversando questo abisso al contrario, sto volando in picchiata. E sono un essere potentissimo. Mi temono tutti. E avete notato quanto sono intelligente. Non sarò forse un dio? Probabilmente ho guardato lontano da me solo per modestia, mentre la grandezza era in direzione contraria, dentro di me. Mi sto sottovalutando. Come bomba, almeno posso vantarmi di essere il dio della morte. Meglio certo dell’ometto panciuto in defecazione che forse ucciderò. Meglio di te, umano, che pensi di essermi superiore perché non sei stato lanciato, e perché non sei stato direzionato da qualcun altro, perché non soffri il costante allontanamento dalle stelle. Ma pensaci. Sei sicuro fino in fondo di non essere stato lanciato, e poi direzionato, e di non soffrire ora questa sempre più grande lontananza dalle stelle? Lo so, lo so: pensi che sono disperato, che sono maniacale perché mi sto avvicinando alla morte mentre plano verso l’obiettivo, e che tutto sommato una bomba è una bomba. Ha una natura, per così dire. “Ecco, io pensavo che fosse una bomba buona, e invece abbiamo qui la solita bomba” pensi. E io dico razzista! Bombofobo! Mostro antropocentrico!

No, scusa. Era solo un test. Volevo valutare la tua pazienza e la tua attenzione. Visto che sei ancora qui, hai sicuramente passato il test. Allora possiamo essere amici. Certo, per il tempo che mi rimane. Quanti secondi mancano al grande schianto? 25… 24… Pensaci, però: credi sia bene provare a instaurare un’amicizia, o anche solo una minima conoscenza, con un essere intelligente che sta per finire la propria vita? Ti avviso: potresti soffrire. 21… Superato questo vile ostacolo, pensa anche al dopo: sarai diventato un amico, o un conoscente minimo (= coinvolgimento emotivo, un pochetto, dai!) di un essere intelligente che sta per ammazzare un gran numero di persone. Un ordigno, come mi chiamano i burocrati. Una bomba, come mi chiama la gente. Aria, come solo tu puoi chiamarmi, segno inestimabile di confidenza.

So anche che, con il passare del tempo, e ora siamo a 12… 11…, speri che lo schianto arrivi presto, perché la tua voglia di ascoltare una bomba sta cadendo in picchiata insieme a me. Ti sono scomodo, vero? “Basta” stai pensando, “schiantati!”

Eh, ma non ci pensi a quelli che si trovano a 3 secondi da me? 2… 1… Va bene, sono stato forse troppo manipolatorio nei tuoi confronti, non è giusto. Sto per esplodere sul tetto di una scuola elementare piena di bambini. Avrei voluto più tempo, vedi, perché ti ho mentito. Soprattutto sul dato più importante, sul particolare più bollente. Sulla sfumatura che cambia le cose…

C’entrano Dio, il senso della vita, le crepe sentimentali di cui siamo fatti. La verità è che, da dove vengo, nell’alto dei cieli, abbiamo coltivato un germe di sa.

Da “Tok”

0

[Zest Edizioni sostenibili giovanissima casa editrice, propone pubblicazioni di poesia e saggi divulgativi che esplorano le connessioni tra umano e non-umano e propongono riflessioni sulle problematiche legate all’Antropocene. È costituita da due collane: I gradienti, dedicata alla poesia, e Ecotoni, dedicata alla saggistica. Al progetto editoriale appartengono anche i volumi della Rivista TELLŪS a cura di ZEST Letteratura sostenibile progetto divulgativo dell’Associazione We feel green. Presentiamo qui un estratto dal primo volume della collana poetica.]

 

di Gabriele Belletti

.

tok     tok     tok

tok     tok     tok


Batte contro il vetro
il ritmo di qualcosa,
forse è solo un sogno
che vaga nella stanza. 


tok   tok   tok

tok   tok


Batte e ancora batte, 
– non è simulata la premura –
si ripete
per forza e dedizione.


Provare a dire

– se non si può dire –

sempre è inizio

di rivoluzione.

*

Verde partigiano appartiene 
ad arbusti e infiorescenze. 
Sembrerebbe di unica creatura 
acquattata, pensierosa. 

Una reale corrispondenza. 

Il bambino è fermo
presso il punto 
dove il fiume si scioglie nella selva.


Chiama 

– si intensifica il segnale –

oltre la superficie 

un punto cardinale.

*

Si è sparpagliato 
da fronda a fronda
– rapidissimo –
un selvatico appello.

Le nuove orme

hanno dato vita
a un anomalo fermento

hanno sparso 
un’insolita gioia.

*

7° Cerchio

Eravamo del presente

– rubicondo –

affamato di occhi
per guardarsi.

Divideva
e moltiplicava
i nostri corpi

– ripetendo
uno stesso scrigno.

[…]

Si vedevano emergere col verde
altri specifici colori

un armamentario delizioso

patrimonio dell’attesa.

 

*          *          *

105° Cerchio

 

Dell’antico prato

avevano fatto un parcheggio.

 

Mi avevano graziato

per essere albero

prediletto

di un poeta morto ammazzato.

 

Piangevo – piano –

del rumore e delle procedure

 

esistevo – solo –

 

nonostante la morte

di tante sorelle

 

creature.

[…]

Con pochi altri,

nella via trafficata

e insonne, scambiavamo

il nostro ricordo paesaggio

 

rinnegavamo i fabbricati

che con desideri altissimi

imprigionavano

 

tutti

 

i loro fiati.

 

*          *          *

163° Cerchio

 

Il popolo del mio corpo

era un rintoccare da ogni

parte. I sopravvissuti

tornavano, sotto altra forma:

 

dimenticati prati

e macerie di anni

si dicevano

 

con nuovi occhi

 

con ieratiche zampette.

 

.

Lo spettro della solitudine

0

 di Romano A. Fiocchi

Serena Penni, La destinazione, Il ramo e la foglia edizioni, 2023

Libro chiama libro. L’utilizzo della seconda persona singolare, quel ‘tu’ insistente, mi ha subito portato a collegare La destinazione a La modificazione. Il primo di Serena Penni, uscito nel novembre scorso, il secondo di Michel Butor, uscito sessantasette anni fa. Entrambi i romanzi, guarda caso, divisi in tre parti. Butor è esponente del Nouveau Roman, la ‘scuola dello sguardo’ teorizzata da Alain Robbe-Grillet: l’occhio dello scrittore come una macchina da presa che registra meccanicamente ciò che vede, le superfici, le forme, i colori, i movimenti, nulla più. Serena Penni è l’opposto: la sua macchina da presa emette raggi X e penetra nell’oggetto-essere umano che ha di fronte, scava nella sua anima, nelle sue nevrosi, nelle sue fobie. Una ‘scuola dell’introspezione’, insomma. C’è da dire che quando i raggi X si interrompono, i due scrittori collimano nelle minuziose descrizioni esteriori. Così Serena Penni, in una sorta di ecfrasi, ritrae il personaggio di Elisabeth: «Aveva i capelli neri, lunghi e un po’ mossi, il viso magro, un paio di occhiali con la montatura di tartaruga. […] La bocca era quasi perfetta, proporzionata e con labbra carnose, ma il naso era vagamente aquilino. La carnagione chiara contrastava con il nero dei capelli e delle sopracciglia. Dimostrava tra i quarantacinque e i cinquant’anni, qualche ruga d’espressione le segnava il viso. Aveva le guance arrossate per il freddo e per il vento».

In realtà, nel testo di Butor l’utilizzo della seconda persona singolare è costante in quanto la voce narrante si rivolge sempre al protagonista (l’incipit: «Hai messo il piede sinistro sulla guida d’ottone, e con la spalla destra tenti invano di sbloccare il portello scorrevole»), mentre in quello della Penni la voce narrante ruota su tre coprotagonisti che a turno si rivolgono al proprio antagonista. Mi spiego meglio. Ciascuna delle tre parti in cui è suddiviso La destinazione ha un protagonista-voce narrante diverso: Carla, Paolo ed Elisabeth, che con il proprio nome danno il titolo alle rispettive sezioni del romanzo. In “Carla” il personaggio omonimo racconta le sue vicende a Paolo, assente ma come se fosse di fronte a lei in carne e ossa. In “Paolo”, il personaggio di Paolo apre la sua confessione come se fosse l’inizio di un diario, per poi rivolgersi a Elisabeth solo nella parte centrale, abbandonando infine il ‘tu’ e tornando alla formula ‘diario’ nelle ultime pagine, quelle del suicidio, anzi: dell’omicidio di sé («Sono l’assassino di me stesso e di tutto quello che mi illudo di aver rappresentato»). Infine in “Elisabeth”, il personaggio di Elisabeth si rivolge a Paolo – sempre fisicamente assente – e conduce così il lettore sino alla soluzione del romanzo. Questo meccanismo narrativo genera dunque tre parti costituite di pieni e di vuoti che finiscono per incastrarsi perfettamente l’una nell’altra, integrandosi al punto di chiarire le situazioni lasciate in sospeso oppure, al contrario, smentendole e sostituendole con nuove verità. Perché la verità, secondo Serena Penni, non è univoca ma relativa: è la verità di ciascun personaggio. L’unica verità comune a tutti è l’impossibilità, per ciascuno, di trovare una corrispondenza d’affetto: Carla ama Paolo, Paolo ama Elisabeth, Elisabeth ama Gabriele (suo marito). Ma così come esiste una concatenazione di amori, esiste una concatenazione di morti: il padre di Paolo uccide la madre, Paolo uccide idealmente Gabriele, la morte in culla uccide la piccola Emma (figlia di Elisabeth e di Gabriele). Alla fine di queste concatenazioni di amori e di morti non resta se non lo spettro della solitudine, il senso dell’incomunicabilità tra gli individui, il disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo.

Qual è il tema portante di questo romanzo psicologico? Credo sia la nevrosi di colui che è poi il protagonista assoluto, Paolo. Nevrosi causata dall’episodio terribile a cui ha assistito da bambino: l’uccisione della madre da parte del padre. In sostanza, un femminicidio. O meglio: non il dramma dell’atto in sé ma quello peggiore di chi si trova nella doppia posizione di figlio della vittima e di figlio dell’assassino. Serena Penni scava nel profondo della psiche di Paolo portando alla luce le ossessioni che lo tormentano: il terrore di aver ereditato il gene dell’omicida, il dubbio mai estinto di essere il vero autore dell’assassinio della madre, l’esistenza dentro di sé di un devastante complesso di Edipo e la conseguente ricerca disperata della figura materna nelle donne che incontra. Con un amore-odio che in uno slancio autodistruttivo lo porta addirittura a frequentare la casa di Shantal, luogo per scambisti.

C’è molto Freud, dietro questa scrittura. Non per nulla il testo è disseminato di sogni dei personaggi. A cominciare da Carla, sconvolta dalla fantasmagoria del castello sul fiume che può sprofondare da un momento all’altro. Poi i sogni innumerevoli di Paolo: dalle decorazioni sulle pareti – uccelli, pesci, foglie, fiori – che si animano, agli incubi con le molteplici metamorfosi del padre, ora in forma di mostro, poi di leone, pitone, ragno velenoso, uomo in giacca e cravatta, professore in saio grigio, poliziotto, fino al sogno dell’investimento volontario di Gabriele, il cui cadavere ad un tratto si trasforma in quello della madre uccisa, mentre le mani di Paolo diventano le mani del padre assassino. Freudiana è l’associazione di idee che alimenta il sogno dove Gabriele appare come angelo non-angelo. Infine il sogno di Elisabeth, che vede la propria madre vestita di nero che le parla in una lingua sconosciuta, terribile premonizione della morte della piccola Emma. Il susseguirsi di tutti questi sogni finisce per creare una vera e propria narrazione parallela nel linguaggio dei simboli, come a evidenziare la bipolarità dei personaggi, soprattutto di Paolo, con le molteplici maschere bisessuali dietro cui si nasconde sin da piccolo: Zorro, Giulio Cesare, Luigi XVI, Cleopatra, Maria Antonietta, Simone de Beauvoir. Ma anche le maschere che gli attribuisce Elisabeth: Achab, Dorian Gray, persino Faust. Tutto ciò fa di Paolo un concentrato di troppi individui per consentirgli di sopravvivere a se stesso.

Un’ultima considerazione tecnica. Carla, Paolo ed Elisabeth sono personaggi assolutamente teatrali e letterari. Nessuna persona reale terrebbe un discorso diretto al proprio antagonista in questo modo. L’abilità della Penni, che si innamora di volta in volta di ogni coprotagonista, sta nell’instaurare una convenzione con il lettore per cui lo stesso si immedesimi nella vicenda e la segua fino in fondo come se fosse la più autentica delle storie. Persino il misterioso paesino del Brasile dove si rifugia Paolo, luogo tra fisico e mentale che per certi aspetti evoca i vuoti e i silenzi della Crisopoli di Guido Morselli, si riveste di un fascino misterioso e poetico che incuriosisce e spinge il lettore alla caccia di indizi per identificarlo. Ma, come tutti i personaggi sono privi di cognome, il paesino del Brasile resta anonimo. Personaggi e luoghi non sono se non l’incarnazione di simboli: «Perché qui c’è un fiume trasparente che scorre lento e monotono verso l’aldilà, portando con sé i petali rossi dei fiori di un albero di cui non so il nome e le anime dei dannati».

* * *

Il ramo e la foglia è una piccola e coraggiosa casa editrice di Roma, coraggiosa perché è nata nella seconda metà del 2020, in piena epidemia di Coronavirus. Si segnalano, tra le sue ultime uscite, il fantasioso e ucronico Navi nel deserto di Luigi Weber e la riedizione, a distanza di cinquantaquattro anni, del Marcel ritrovato di Giuliano Gramigna.

Mahmud Darwish: «un altro giorno verrà»

0

 

 

È in uscita per Crocetti Non scusarti per quel che hai fatto di Mahmud Darwish, spesso definito “il poeta nazionale della Palestina”, scomparso nel 2008.

Ospito qui alcune poesie in anteprima.

 

Ho la saggezza del condannato a morte

 

Ho la saggezza del condannato a morte:

non possiedo niente perché niente mi possieda,

scrissi il mio testamento con il mio sangue:

“Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto”.

Poi mi addormentai imbrattato e coronato dal mio

domani…

Sognai che il cuore della terra è più grande

della sua mappa,

e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca.

Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto

come fossi un’upupa, e il vento le mie ali.

E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua

dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra

morte,

cambia le tue ultime volontà,

l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”.

Domandai: “Fino a quando?”.

Disse: “Aspetta ancora per morire di più”.

Dissi: “Non possiedo niente perché niente mi possieda”.

Scrissi il mio testamento con il mio sangue:

“Confidate nell’acqua

oh abitanti del mio canto!”.

 

Un altro giorno verrà

 

Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,

alla metafora trasparente,

compiuto, diamantino, di visita nuziale, soleggiato,

fluido, allegro. Nessuno sentirà

alcun bisogno di suicidio o di migrazione.

Poiché ogni cosa, fuori del passato, è naturale e vera,

sinonimo dei suoi attributi originari.

Come se il tempo oziasse in vacanza… “Prolunga il bel

tempo

della tua grazia. Illùminati nel sole dei tuoi seni di seta,

e aspetta l’arrivo della buona novella. Poi,

potremo crescere. Abbiamo ancora tempo

per crescere dopo questo giorno…”

Un altro giorno verrà,

un giorno femmineo,

dal cenno canterino e dal saluto e verbo azzurri.

Tutto è femmineo fuori del passato,

l’acqua scorre dalle mammelle della pietra.

Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta.

E le colombe dormono in un carro armato abbandonato

quando non trovano un piccolo nido

nel letto degli amanti.

 

Al nostro paese

 

Al nostro paese,

quello vicino alla parola di Dio

un soffitto di nuvole,

al nostro paese,

quello distante dagli attributi del nome

la mappa dell’assenza,

al nostro paese,

quello minuscolo come un seme di sesamo

un orizzonte celeste… e un abisso nascosto,

al nostro paese,

quello povero come le ali di un gallo cedrone

libri sacri… e una ferita nell’identità,

al nostro paese,

quello circondato da colline dilaniate

l’imboscata di un nuovo passato,

al nostro paese, bottino di guerra,

la libertà di morire di brama e di struggimento.

Il nostro paese, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per le distanze più lontane

e illumina ciò che è al di fuori di lui…

Quanto a noi, dentro, soffochiamo ogni giorno di più!

Renée Vivien – “Saffo ‘900”

0

L’ardente agonia delle rose. Antologia poetica

– nella traduzione di Raffaela Fazio (Marco Saya Edizioni, 2023)

Dalla nota introduttiva della traduttrice:

La poesia di Renée Vivien (Londra 1877 – Parigi 1909) ha una caratteristica imprescindibile: la musica perfettamente orchestrata di ogni componimento. La costruzione meticolosa del verso, che risulta nella più fluida naturalezza sonora, è tanto più sorprendente nella nostra autrice quanto la lingua usata è una lingua acquisita: la britannica Pauline Mary Tarn, che assunse il nome di Renée Vivien, scelse il francese per dar forma alla sua voce, una voce di indiscusso e riconosciuto talento. L’equilibrio degli emistichi, il respiro calibrato intorno alla lunghezza delle vocali, il gioco delle rime, il richiamo interno delle allitterazioni, l’iterazione delle parole, spesso nelle epifore, sono alcuni dei più evidenti accorgimenti stilistici a cui ricorre la poetessa. […] Proponendo Renée Vivien in questa nuova veste italiana, mi auguro che il lettore riesca a percepire il ricco cromatismo della sua poesia, che tematizza l’amore con un’apertura inusuale per l’epoca, senza temere il passaggio, a volte repentino, tra dolcezza e violenza, desiderio e repulsione. L’eros si rivela allora tendenza irrinunciabile, sebbene fonte di sofferenza, nell’alveo di una costante malinconia, nota di fondo del decadentismo europeo. Rêverie, simbolismo visionario, sensualità dai toni anche morbosi affiorano con insistenza in Renée Vivien; tuttavia, la sua scrittura non si esaurisce là, sorprende di continuo, perché nasce da uno spirito inquieto e dolente, intento a ricercare, almeno nella forma poetica, quella purezza che, nella vita, si era spesso rivelata fugace o illusoria.

Cinque poesie dalla raccolta:

À la femme aimée

Lorsque tu vins, à pas réfléchis, dans la brume,
Le ciel mêlait aux ors le cristal et l’airain.
Ton corps se devinait, ondoiement incertain,
Plus souple que la vague et plus frais que l’écume.
Le soir d’été semblait un rêve oriental
De rose et de santal.

Je tremblais. De longs lys religieux et blêmes
Se mouraient dans tes mains, comme des cierges froids.
Leurs parfums expirants s’échappaient de tes doigts
En le souffle pâmé des angoisses suprêmes.
De tes clairs vêtements s’exhalaient tour à tour
L’agonie et l’amour.

Je sentis frissonner sur mes lèvres muettes
La douceur et l’effroi de ton premier baiser.
Sous tes pas, j’entendis les lyres se briser
En criant vers le ciel l’ennui fier des poètes
Parmi des flots de sons languissamment décrus,
Blonde, tu m’apparus.

Et l’esprit assoiffé d’éternel, d’impossible,
D’infini, je voulus moduler largement
Un hymne de magie et d’émerveillement.
Mais la strophe monta bégayante et pénible,
Reflet naïf, écho puéril, vol heurté,
Vers ta Divinité.

Études et préludes, 1901

Alla donna amata

Con andatura assorta arrivasti nella bruma:
il cielo univa allora cristallo e bronzo all’oro.
Il tuo corpo s’intuiva ondeggiare insicuro,
fluttuante più dell’onda, più fresco della schiuma.
Era la sera estiva un sogno dell’Oriente
di rosa e sandalo fragrante.

Tremavo. Come freddi ceri, lasciavi nelle mani
morire lunghi gigli, mistici e sbiaditi.
Spiravano i profumi, sfuggendo alle tue dita
nell’alito sfinito delle supreme pene.
Chiare le tue vesti continuavano a esalare
ora agonia, ora amore.

Del tuo primo bacio, sulle mie labbra mute,
il brivido sentii, di panico e dolcezza.
Udii sotto i tuoi passi le cetre, andando in pezzi,
gridare al cielo, fiera, la noia dei poeti.
Nella marea dei suoni in languido ritrarsi,
bionda, mi sei apparsa.

Con sete d’impossibile, eterno e infinito,
tentai d’intonare, modulandolo ampiamente,
un inno di stupore, magia e incantamento.
Ma la strofa balbuziente a fatica è salita,
eco puerile, ingenuo riflesso, volo che va,
ferito, verso la tua Divinità.

Studi e preludi, 1901

*

Amazone

L’amazone sourit au-dessus des ruines,
Tandis que le soleil, las de luttes, s’endort.
La volupté du meurtre a gonflé ses narines :
Elle exulte, amoureuse étrange de la mort.

Elle aime les amants qui lui donnent l’ivresse
De leur fauve agonie et de leur fier trépas,
Et, méprisant le miel de la mièvre caresse,
Les coupes sans horreur ne la contentent pas.

Son désir, défaillant sur quelque bouche blême
Dont il sait arracher le baiser sans retour,
Se penche avec ardeur sur le spasme suprême,
Plus terrible et plus beau que le spasme d’amour.

Études et préludes, 1901

L’amazzone

L’amazzone sorride, sulle macerie, felice,
e stanco delle lotte il sole si addormenta.
Il piacere del delitto le dilata le narici.
Esulta; della morte è la bizzarra amante.

Ama solo coloro che le donano l’ebrezza
di un’agonia selvaggia, del loro trapasso fiero,
e, disprezzando il miele della tiepida carezza,
non si può appagare con coppe senza orrore.

Sulle bocche esangui la sua voglia viene meno;
strappando loro il bacio che non può ricambiare,
si china con ardore sullo spasimo supremo,
più bello e più tremendo dello spasimo d’amore.

Studi e preludi, 1901

*

Ressemblance inquiétante

J’ai vu dans ton front bas le charme du serpent.
Tes lèvres ont humé le sang d’une blessure,
Et quelque chose en moi s’écœure et se repent,
Lorsque ton froid baiser me darde sa morsure.

Un regard de vipère est dans tes yeux mi-clos,
Et ta tête furtive et plate se redresse
Plus menaçante après la langueur du repos.
J’ai senti le venin au fond de ta caresse.

Pendant les jours d’hiver énervés et frileux,
Tu rêves aux tiédeurs des profondes vallées,
Et l’on songe, en voyant ton long corps onduleux,
À des écailles d’or lentement déroulées.

Je te hais, mais ta souple et splendide beauté
Me prend et me fascine et m’attire sans cesse,
Et mon cœur, plein d’effroi devant ta cruauté,
Te méprise et t’adore, ô Reptile et Déesse !

Cendres et Poussières, 1902

Somiglianza inquietante

Sulla tua bassa fronte, l’incanto del serpente.
Sente il tuo labbro il sangue, odore di ferita.
Qualcosa in me ha ribrezzo ed ecco già si pente
al morso del tuo bacio che freddo mi ha colpita.

Di vipera lo sguardo nell’occhio semichiuso.
La testa cauta e piatta in fretta si raddrizza
più minacciosa ancora dopo il languido riposo.
Conosco il tuo veleno in fondo alla carezza.

Nei giorni dell’inverno inquieti e raggelati,
tu sogni, in valli interne, tepori in cui bearsi.
La vista del tuo corpo, sì lungo e ondulato,
rammenta scaglie d’oro in lento dispiegarsi.

Ti odio, eppure molle l’estrema tua bellezza
mi ammalia, mi cattura, mi attira ancora e ancora
e il cuore che è atterrito dalla tua spietatezza
ti disprezza, Rettile e Dea, e insieme ti adora!

Ceneri e polveri, 1902

*

La soif impérieuse

J’étais hier la voyageuse solitaire.
J’allais, portant au cœur une âpre anxiété…
J’avais besoin de toi comme d’un flot d’été,
D’un flot purifiant où l’on se désaltère.

Aujourd’hui, mon silence a des bonheurs pensifs,
Ô très chère ! et mon âme est une coupe pleine,
Le monde est beau comme un verger de Mytilène :
Je ne crains plus le soir qui pleure sous les ifs.

J’avais besoin de toi comme d’une eau courante
Que l’on écoute et qui berce votre chagrin
Dans un ruissellement musical et serein…
J’entendis ta voix claire ainsi qu’une eau qui chante.

Ta voix coulait, murmure et cadence à la fois,
Chère, et ce fut dans mon être le bleu nocturne,
Et je sentis alors mon chagrin taciturne
S’attendrir… J’écoutais l’eau pure de ta voix.

Depuis lors, la lourdeur des blancs midis m’enchante,
Et ma soif ne craint plus le soleil irrité…
J’avais besoin de toi comme d’un flot d’été,
J’avais besoin de toi comme d’une eau qui chante…

À l’heure des mains jointes, 1906

La sete impellente

Ieri vagavo, solitaria viandante.
Un’ansia amara in cuore mi portavo…
Mi eri essenziale, quale rivo estivo
che scorre puro e s’offre dissetante.

Il mio silenzio ha calme gioie adesso.
È la mia anima una coppa piena.
Il mondo è bello: frutteto a Mitilene.
Pianga pure la sera sotto i tassi!

Mi eri essenziale, o tu, acqua fluente
che si ascolta e che culla grandi pene
nel ruscellare armonico, sereno…
La voce chiara, tua, acqua che canta.

Era la voce sia ritmo sia sussurro.
O cara, mi pervase il blu notturno,
si sciolse il mio dolore taciturno
alla tua pura voce, acqua che scorre.

Bianco e pesante, il meriggio ora m’incanta.
La sete più non teme il sole irato.
Mi eri essenziale, o tu, rivo d’estate,
mi eri essenziale, o tu, acqua che canta…

All’ora delle mani giunte, 1906

*

Épitaphe sur une pierre tombale

Voici la porte d’où je sors…
Ô mes roses et mes épines !
Qu’importe l’autrefois ? Je dors
En songeant aux choses divines…

Voici donc mon âme ravie,
Car elle s’apaise et s’endort
Ayant, pour l’amour de la Mort,
Pardonné ce crime : la Vie.

Haillons, 1910

Epitaffio su una pietra tombale

Esco, vedete: questa è la porta…
Ah le mie rose! Ah le mie spine!
Il tempo passato che importa?
Dormo pensando a cose divine…

L’anima mia, ecco, è rapita.
Al sonno, in pace, lei si converte,
perché ha, per amor della Morte,
perdonato il reato: la Vita.

Stracci, 1910

Last Stop Before Chocolate Mountain

0

di Mariasole Ariot

L’alternarsi di una luce desaturata e della sera che precede la notte, e ancora l’alba, e ancora la notte, con un andamento lento ritmato da principio dalla presenza di poche anime: anziani che camminano lenti, nel paesaggio contaminato e desertico, fossili di pesci di un passato remoto, pochi bambini col volto della calma. E la lentezza del paesaggio si fa metafora di un luogo altro, lontano dal troppo del brusio di un’America che si muove a velocità raddoppiata, dove tutto è rimasto nel poco del rimanente.

Last Stop Before Chocolate Mountain, di Susanna della Sala, candidato al David di Donatello 2023 e girato a Bombay Beach, nel sud della California, è storia di rinascita dalle macerie: frequentata come località di villeggiatura tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta da artisti come Frank Sinatra e i Beach Boys che qui venivano per fare vita mondana e per praticare sci d’acqua, nautica e pesca, Bombay Beach è poi stata abbandonata a causa di un disastro ambientale e sanitario. Pochi sono rimasti, pochi resistenti: outsiders. Salt sea è un lago contaminato, acque basse che dicono un’assenza, la sottrazione da una mandria umana di un luogo da cui scappare, e luogo altro in cui rifugiarsi. Dice la donna coi fiori raccolti: “Un arazzo dove tutto si trasforma in meraviglia” – perché Bombay Beach dalle ceneri delle rovine si fa luogo di attraversamento, di comunità che vive di comunione: saggia creatura in decadenza, e saggia perché alla volontà spinta di un Sapere inflazionato contrappone il conoscere e il conoscersi dell’altro.
L’immaginario si concentra nella creazione di uno specchio rotante che modifica l’imago tra altro e altro, tra un io che rinuncia al suo io per fondersi nel volto di chi sta nel retro. Non una fusione ma un intreccio del Nome, dei volti, della terra chiara che muove le mani.

Ed è là dove l’apparenza dell’immobile arriva all’occhio come luce fioca, che la potenza dell’arte si fa creazione, che da giorno a notte – in un documentario girato in quattro anni e qui contratto in un’alternanza di tempi racchiusi in una dimensione onirica – si dilata in un crescendo di frammenti di colore e il potere della sovrapposizione dei bianchi e dei neri di artisti che scoprono e ricoprono il paesaggio.
Dalle inquadrature vicine a sguardo di terreno/territorio, la macchina da presa si solleva verso i corpi dipinti, creature di legno e teatri, un pascolo dell’immaginazione, vita che vive della volontà di riscrivere la storia – la propria, quella collettiva.
L’uomo racconta un sogno: accoltellare il padre, là dove il padre ride e dice “Uccidere il passato, crescere”. Non un’uccisione del Padre in nome di una Legge da scardinare, ma in nome di una Legge dei singoli da ricreare: l’anarchia percepita dai pochi abitanti rimasti a Bombay Beach è un tentativo di ritrovare ciò che è stato scardinato nell’infanzia, ricordi di passati mortiferi o violenti. Non una fuga ma un andare, un incedere verso il desiderio.

E’ così che a Bombay Beach, dalle macerie arrivano da ogni ovunque “cantastorie” di storie disseminate: maghi, attori, pagliacci, pittori, poeti, scultori, danzatrici, musicisti. Sono anche la musica e il canto, infatti, a scandire il tempo dell’opera di Susanna della Sala : locande di voci e chitarre, prima che i “nuovi” arrivino. Voci a cappella di vecchi che danzano corde vocali e ridono la risata, quei sorrisi malinconici che non chiedono niente se non il tempo della quiete. Danze per cui non è prevista l’età ma solo corpo in movimento.

Esiste il dubbio: può chi giunge a questo luogo contaminato per inquinamento ma incontaminato per pensiero, invadere il vuoto con la struttura dei mondi da cui ci si vuole separare? Resta un punto interrogativo che – forse – trova risposta nelle ultime immagini: processioni di vecchi abitanti e degli artisti arrivati per la Biennale che procedono nelle acque basse e nelle strade nell’insieme. Dall’obiettivo che offusca alla nitidezza della scena.

E allora, come nell’arte giapponese del Kintsugi, le crepe lasciate da un umanità disperata che distrugge acque, cieli, terre e animali, che l’arte, come un sottile filo d’oro a riparare, fa della fragilità non una colpa, ma traiettoria e nume.

*per la rassegna Rovine d’America – Le città coinvolte nelle prime tappe del tour saranno a Roma (cinema Troisi), Bologna (cinema Pop Up Arlecchino) Genova (cinema Nickelodeon), Brescia (cinema Eden), Mantova (cinema Mignon), Venezia (cinema Rossini e Astra) e Bassano del Grappa (cinema Metropolis).

Nuove proiezioni si terranno a Genova, Bologna, Perugia, Torino e Mestre

Lei e Anne

0

di Ilaria Pamio

 

 

“…ogni tanto socchiudeva gli occhi

per non perdere il contatto

tra il sogno e la realtà”
(Palazzeschi)

 

  La barista si spostava da una parte all’altra, presa com’era tra le macchinette del caffè, del cappuccino, della cioccolata. Attendeva che i beccucci fossero incandescenti, prima di metterci sotto la tazza.

«Cosa le porto?»

«Una cioccolata.»

Sylvia continuò a tener d’occhio l’uomo calvo: indossava il solito soprabito a scacchi rosso e grigio. Dalla manica sbucava il polsino blu del maglione. Compieva gesti lenti. Aveva lisciato con le mani la tovaglietta; disposto la tazza centrale davanti al suo viso; messo in ordine le bustine di zucchero nella vaschetta.

Sylvia aprì una bustina, la scosse e la versò nella cioccolata appena arrivata. Mescolò e soffiò, bevve facendo attenzione a non scottarsi. Adocchiò ancora l’uomo. Stringeva con la mano destra il bricco del latte. Lo versava lentamente, fissando la tazza del caffè. Il liquido uscì fino a bagnare la tovaglietta. Aveva una rosa tatuata sul capo.

 

Sylvia lasciò i soldi sul bancone e si diresse all’Hotel Oblique di cui era erede.

La facciata aveva un colore fiacco per la luce invernale: si presentava come un austero viso allungato pieno di occhi, alcuni socchiusi, che la osservavano.

Sentì un dolore forte al piede sinistro. Un filo di metallo incandescente salì fino alla coscia, la scosse dal bacino, percorse il gluteo, scese lungo il retto femorale e il ginocchio vacillò.

Il cuore le stava uscendo dal petto. Si sedette sulla vecchia sdraio del nonno vicino all’ingresso e chiuse gli occhi.

Pensò al mare. Il bar del Beppe con l’altalena di legno, i cabinati, il calciobalilla e i ragazzi grandi con cui lei e Anne avevano giocato.

«Oggi è il più bel giorno della mia vita, papà» aveva detto Anne. Lo diceva ogni volta. E Sylvia ogni volta si sentiva felice. Perché se Anne era felice, lo stomaco diventava caldo e irradiava benessere in tutto il corpo.

Ai bagni del Beppe gli ombrelloni rossi erano in file perfette da dieci. Il vicino, amico di famiglia, era sempre solo. In quel momento lo era anche Sylvia.

«Vieni qui, ho un regalo.»

Lei si avvicinò e lui le disse che era molto carina. Era proprio una bella bambina.

Sylvia abbassò un pochino la testa, lo sguardo rivolto al dorso dei piedi, e la sua bocca sorrise. Lui le raccolse una ciocca di capelli dietro l’orecchio, il dito tiepido toccò appena la guancia e il sorriso di lei si allargò. Le piaceva sentirsi dire che era bella. Poi lui rovistò nella sacca della Coca Cola, infilò tutto il braccio.

«Era qui, un attimo fa.»

Eccola: una rosa bianca con un gambo lunghissimo. L’uomo era inginocchiato sulla sabbia, un braccio piegato dietro la schiena, con l’altro gliela porse.

 

Sylvia rimase incantata da quel gesto, non prestò attenzione alle grida, né alle persone che correvano verso riva, incluso il vicino.

Lei, come ipnotizzata, stringeva la rosa. La prima della sua vita.

 

Riaprì gli occhi e guardò davanti a sé. L’Hotel Oblique ora aveva una luce diversa. L’immensa vetrata obliqua era più luminosa. La gabbia creata dagli infissi, che prima dava forma a dei triangoli scaleni, aveva cambiato intreccio. Sylvia fissò le porzioni di vetro: il cielo si specchiava nei rettangoli.

Lo stomaco si arrotolò su se stesso. Le succedeva quando era agitata. Coliche fortissime e improvvise. Si alzò di scatto. Tolse velocemente il cappotto e lo abbandonò sulla sdraio.

 

Appena entrata nell’Hotel guardò fuori da una finestra: c’era un punto, in fondo, in cui si vedevano solo rose bianche. Il cuore in petto correva talmente veloce che non lo sentiva più.

Conosceva tutte le camere alla perfezione. Erano trenta. Le avrebbe distinte anche senza il numero all’esterno; ogni giorno le rassettava una a una: ne conosceva ogni crepa sulle pareti, ogni piastrella scheggiata. Erano vuote, in ordine, pulitissime, odoravano di chiuso, di cassetti colmi di naftalina e di muffa. In ogni piano erano esposte fotografie a tema. Al primo c’erano le foto dei nonni; al secondo le foto di lei e Anne; al terzo i genitori da giovani. Sylvia percorse tutti i corridoi dei tre piani, come ogni giorno, poi prese le scale per raggiungere i sotterranei.

 

Il rumore si fece via via più intenso. Avvicinò il viso al vetro della porta e vide, lontana, l’acqua ondeggiare impetuosa. Entrò.

Il pavimento era coperto dalla sabbia, vicino alla piscina c’erano una fila di dieci ombrelloni rossi e le sdraio. Sotto un tendone c’erano poi un vecchio calciobalilla, dei cabinati e una tabella di gelati Eldorado.

Sylvia si slacciò le scarpe e tolse le calze. A contatto diretto con la sabbia sentì freddo, provò un fastidio che somigliava al dolore. Poi si tolse i pantaloni, il maglione, la maglietta.

Sedette su una sdraio. L’uomo calvo sotto l’ombrellone accanto la guardò, le sorrise e si avvicinò a lei. Quando furono uno di fronte all’altra, le passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Lei abbassò lo sguardo. C’era profumo di salsedine, in piscina si intravedevano ciuffi d’alga e piccoli pesci marini. L’uomo calvo le porse la rosa bianca col gambo lungo. Lei gli sorrise.

Intanto una ragazza con un seno acerbo in un reggiseno rosa, i capelli a caschetto neri come i suoi e un braccialetto al polso identico al suo sprofondava in acqua. C’era silenzio.

Sylvia lasciò la rosa accanto alla sdraio e la raggiunse. L’uomo calvo rimase fermo a guardare, a bordo piscina. Si passava una mano sulla testa tatuata, sulla rosa. Sylvia aumentò la bracciata, i pesci le nuotavano attorno. Nuotò giù, fino in fondo, rasente il pavimento della piscina. Riemerse con la ragazza.

Anne, o chi per lei, respirava ancora.

 

 

 

 

Lettera aperta

2

di Giovanni Anceschi e Davide Boriani

Chiusura delle sale dedicate al Gruppo T
e del quarto piano del Museo del Novecento a Milano

Dai primi giorni di gennaio il 4° piano del Museo del Novecento è chiuso al pubblico.  La sezione del Museo a cui si accedeva attraverso la passerella sospesa tra Arengario e Palazzo Reale è inaccessibile e totalmente disallestita. Non sono più visitabili le sale dedicate all’arte d’avanguardia del secondo Novecento.
Non è neppure possibile rintracciare informazioni sulla eventuale prossima riapertura e sul destino di quegli spazi. Un biglietto collocato all’entrata avvisa i visitatori che “per motivi tecnici alcune sale del percorso espositivo sono solo parzialmente visitabili”.

Le sale del museo dedicate al Gruppo T, gruppo storico di arte cinetica e programmata attivo a Milano dai primissimi anni ’60, formato da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia Varisco, sono state completamente smantellate. La Tricroma di Anceschi è stata restituita. I quattro “ambienti”, l’Ambiente a shock luminosi di Anceschi, l’Ambiente stroboscopico n. 4 di Boriani e l’Ambiente Strutturazione a parametri virtuali di Gabriele De Vecchi, smontati e, se non di proprietà del museo, restituiti anch’essi, come nel caso dello Spazio elastico ambiente di Gianni Colombo.
Strana è sembrata fin da subito la scelta del museo di privarsi di opere già acquisite, diminuendo di fatto il fondo che costituisce la sua ricchezza. Incomprensibile la tempistica e la fretta nel disfarsi a cavallo tra Natale e l’Epifania di quelle testimonianze preziose dell’arte cinetica e programmata. Assente qualsiasi rassicurazione rispetto ad una loro possibile nuova collocazione all’interno del museo.
Ma soprattutto è la decisione di smontare gli ambienti, allestimenti per loro natura fragili e difficilmente ripetibili, senza un progetto concreto di ricollocazione che desta le maggiori preoccupazioni.
La presenza degli ambienti del gruppo T nella Collezione Permanente costituiva un tassello fondamentale del percorso del Museo che dalla Struttura al neon di Lucio Fontana, posta alla fine dello scalone di accesso e visibile dall’esterno attraverso le vetrate dell’Arengario, portava alle sale del Gruppo T fino ad arrivare alla sala dedicata a Luciano Fabro.
Gli “ambienti” erano stati allestiti nel 2010 con l’attiva collaborazione e supervisione degli artisti, fatto che rendeva quell’allestimento irripetibile, rappresentando un’esperienza museale unica a livello internazionale.

L’arte cinetica e programmata è nata dall’impegno di artisti come Lucio Fontana e Bruno Munari in collaborazione con giovani artisti che lavoravano in gruppo (gruppo T, gruppo N, gruppo Mid, e altri). Le forme di arte nate dalla collaborazione tra artisti, sono state proposte come presa di coscienza collettiva di processi in continua evoluzione.
Critici e storici dell’arte come G.C. Argan e Umberto Eco ne hanno condiviso e difeso obiettivi e valori.

A quella che allora si configurava come evoluzione dell’arte nata in Europa, è stata contrapposta la Pop Art, importata dagli USA alla Biennale d’arte del 1964 con grande impegno di mezzi pubblici e privati allo scopo dichiarato di rendere predominanti nel sistema dell’arte modalità e interessi del mercato privato USA.
La prospettiva di facilitare lo scambio commerciale di opere ridotte a merce, ha prevalso sugli obbiettivi più complessi della ricerca interdisciplinare, dell’analisi e della risposta a bisogni emergenti sul piano collettivo, della nascita di forme di arte coerenti con lo sviluppo dei diversi saperi.
La difesa di questi valori non a caso si affianca alla difesa oggi necessaria di quei valori analoghi che qualificano l’assetto democratico della nostra società.
Le opere che vuole distruggere chi è preposto alla loro conservazione, sono realizzazioni essenziali del movimento che ha segnato l’evoluzione dell’arte italiana nel Novecento.
Ciò che è avvenuto al Museo del Novecento prefigura sostanzialmente l’affossamento dell’idea originaria da cui è nato il museo e, in generale, la rinuncia a ogni prospettiva che tenga conto dello svilupparsi dell’avanguardia artistica.

Chiediamo alla città, agli artisti, ai critici e agli intellettuali di mobilitarsi perché venga preservato un luogo amato dai milanesi, visitato dagli studenti, anche i più piccoli, e attrattivo per i turisti e gli studiosi di tutto il mondo.

Se vuoi rispondere all’appello scrivi a:
anceschi.boriani.gruppot@gmail.com

Raccoglieremo e pubblicheremo documenti e dichiarazioni di artisti, critici, intellettuali e cittadini che sono contrari o che giudicano negativa sul piano storico l’eliminazione della sezione del Museo del 900 dedicata all’arte programmata e cinetica e la distruzione degli ambienti che questa sezione raccoglie.

La follia dei numeri #1

7
la fetta che vedete sarà un settimo della torta?

di Antonio Sparzani

la fetta che vedete sarà un settimo della torta?

In tutta la mia vita adulta i numeri e la scienza che li tratta, la matematica, mi sono stati piuttosto familiari, e spesso necessari, data la mia professione di fisico teorico alla milanese università. Ma in queste settimane, ripensando ai numeri, anche in occasione di una mia recente pubblicazione, mi è venuto da ripensare al ruolo e alla sorte che tutta, diciamo, la teoria dei numeri ha avuto nella storia della matematica.
Tutti i manuali dicono, e sembra abbastanza plausibile, che la necessità di avere i numeri, nella propria lingua ancorché primordiale, sia stata quella del contare: io ti dò tre peperoni tu mi dài quattro melanzane, hai mancato di rispetto a mia sorella meriti dieci frustate sulla schiena, e così via. E questi sarebbero quelli che oggi chiamiamo numeri interi positivi (ancora senza lo zero, beninteso, che fu inventato ben più tardi) e sul loro senso e la loro utilità non mi pare si sollevino dubbi. Però: una volta che uno comincia a contare gli viene voglia di andare avanti: supponendo di aver adottato il cosiddetto sistema decimale, è facile accorgersi che non si riesce a nominare un numero intero più grande di tutti gli altri, perché posso sempre “aggiungere uno” e salire un altro gradino nella scala. E già qui ci si potrebbe porre il problema del significato di numeri molto grandi: milioni e miliardi vanno ancora bene, c’è gente al mondo che guadagna le cosiddette cifre da capogiro, oppure contiamo le stelle della Galassia o tutte le stelle dell’universo che conosciamo e avremo qualche miliardo di miliardi, un 1 con una ventina di zeri, contiamo gli atomi, gli elettroni, i quarks, gli sfuggenti neutrini che scorrazzano per l’universo e andiamo su ancora di una decina di zeri. Sì, ma poi? Se scrivo, dato che formalmente ha senso, un 1 con diecimila zeri, cosa vuol dire? Formalmente lo sappiamo cosa vuol dire, vuol dire 10 moltiplicato per se stesso diecimila volte, sì, ma abbiamo qualche vago esempio concreto? Certo che no. È un simbolo che alla nostra mente, che l’ha inventato, dice qualcosa, ma certamente nulla di praticamente pensabile. Senza dire poi che, con questa sfrenata illimitatezza, possiamo pensare 1 con miliardi di zeri, quanti ne vogliamo, allontanandoci sempre più da qualsiasi cosa concreta.

Si potrebbe forse, sul filo di queste considerazioni, mettere un limite? Già, ma dove e perché? Credo che qualsiasi limite andrebbe incontro a obiezioni e problemi formali e anche non formali.
Detto con una parola fin qui non scritta, i numeri interi positivi – detti anche, udite udite, numeri naturali – sono infiniti. Cosa vuol dire questo aggettivo che percorre anche la nostra lingua naturale (“ti amo infinitamente”, “un appartamento nel centro di Parigi costa infinitamente di più che una casupola sull’Appennino”) e in essa significa “tanto tanto”? Vuol invece dire letteralmente “non finito”, cioè vuol dire che non si arriva mai in fondo, che non c’è limite, che si può andare avanti finché si vuole: con la fantasia certo ma in nessun senso materialmente praticabile. Possiamo chiamarla astrazione, giustificata da una necessità logica, per esempio dalla necessità di poter definire la somma e il prodotto di due numeri interi qualsiasi: se ci fosse un limite N, il numero più grande di tutti, non potremmo eseguire somme o prodotti di numeri minori di N che diano un risultato maggiore di N.
Ma poi? Questa non è che una piccola follia rispetto a quant’altro ci siamo inventati: il fatto stesso che io li abbia chiamati poche righe fa “numeri interi positivi” indica già che c’è dell’altro, numeri non interi e/o non positivi. Quelli non interi fanno ancora parte dell’esperienza comune: io ti voglio dare un peperone e mezzo se tu mi dài due melanzane. E quell’uno e mezzo, tutti lo sappiamo, possiamo ormai scriverlo 1,5 (in Italia si usa la virgola, altrove si usa il punto, ma poco importa, pur di saperlo). Se vogliamo però dividere 10 mele in tre persone, abbiamo qualche difficoltà in più: se ne diamo 3 a ciascuna, ne rimane una, che bisogna equamente dividere in 3. Bisogna imparare a fare le divisioni. 1 : 3. Cioè dare a ognuno un terzo di mela, che scriviamo talvolta 1/3; sì, ma c’è un modo per scrivere questa quantità con un numero? Se applichiamo le regole che ci siamo già inventati per eseguire le divisioni, otteniamo 0,3333. . . ., non riusciamo a scriverlo tutto, questo numero, perché, per quanto andiamo avanti troviamo una fila di 3. E allora? Allora ci inventiamo i numeri decimali periodici, ovvero che hanno infinite cifre dopo la virgola però che si ripetono, magari a gruppi:
per esempio 1/7 = 0,(142857) dove con la parentesi – o il trattino sopra, a seconda delle convenzioni – si indica il gruppetto di cifre che si ripete. Si ripete, capite, si ripete infinitamente. Come faccio se devo dividere una torta per 7 persone? Certo non posso usare quel bizzarro numero periodico, piuttosto “vado a occhio” con eventuali proteste di chi avrà una fetta di qualche millimetro più piccola.
E allora a cosa serve preoccuparsi dell’esistenza di quel quoziente? Serve, risponde il matematico, per far sì che l’insieme dei numeri che maneggiamo sia un po’ più “completo”, cioè che si possano fare sempre le addizioni, le moltiplicazioni, ma anche le divisioni, vi pare? Eh sì, così oltre alla moltiplicazione è fattibile la sua inversa, la divisione, per carità, non la divisione per 0, che non dà alcun risultato (supponiamo di aver passato sotto silenzio l’invenzione del numero 0, com’è noto di provenienza araba).
E l’operazione inversa della somma, che sembra molto più innocua? 5 – 3 siamo capaci di farlo, ma 3 – 5 no. E allora ecco perché c’era quell’aggettivo “positivi”, perché si è voluto aggiungere degli altri numeri per rendere possibile sempre anche l’operazione inversa della somma, la sottrazione. Ed ecco che 3 – 5 ha un risultato, che chiamiamo -2, i numeri non si chiamano più interi, ma relativi, e formano una fila che non solo non finisce, ma neppure comincia: . . . .- 4, – 3, – 2, – 1, 0, 1, 2, 3, 4 . . . . numeri negativi prima dello zero e positivi quelli dopo.
E così s’è costruito un bel mucchio di oggetti, che chiamiamo sempre numeri, con aggettivi vari, nei quali si possono eseguire le operazioni che conosciamo normalmente (tranne s’intende, la divisione per 0, bisogna sempre ricordarlo). Questo “mucchio” è quello dei numeri razionali, così denominati perché si possono sempre mettere sotto forma di frazione, ovvero di divisione di un intero per un altro. Infatti si dovrebbe aggiungere a quanto detto che qualsiasi numero decimale, anche con infinite cifre dopo la virgola, purché ci sia un gruppetto di quelle cifre che sempre si ripeta, può essere rappresentato sotto forma di frazione, c’è l’apposita regoletta che avete tutti imparato alle medie, e subito dimenticato. E molto di quanto detto, notate, è stato motivato da questa esigenza di completezza: poter fare sempre, in tutti i casi, le quattro operazioni che capitano anche nella vita quotidiana.

Ma non è facile accontentare un matematico, che ha sempre nuove pretese, di cui ci occuperemo alla prossima puntata.

L’intellettuale di fronte a casa o Gaza

3

Di Adele Bardazzi

L’intellettuale, se è ciò che sono, è colui che parla in terza persona singolare, maschile. L’intellettuale che scrive e che voi state leggendo – perché l’intellettuale si rivolge a un voi, non un tu (e sto dicendo questo indossando il mantellino in tweed del critico letterario ossessionato dall’apostrofe) – un voi presente in tutta la sua bulimia semantica. In ogni caso l’intellettuale che scrive pensando a voi che leggerete le sue parole si trova nell’ultimo giorno dell’anno 2023 su una freccia diretto a nord del paese in cui è nato ma dove non vive più – la qual cosa viene capita pure da Renzi. L’intellettuale è sempre straniero. Questo è vero, fino a quando, tenta di fare un esercizio, ormai assodato: una critica rivolta verso l’esterno ma completamente ripiegata verso l’interno; e proprio lì, esattamente in quel momento, perde la sua posizione di straniero al trono – si chiarisca lo statuto – e ne diventa parte. Parte del voi, un noi che è sempre solo io. In questo caso, un io, o dio, dell’Occidente. In questo paese che diventa così a pochi chilometri dalla capitale del nord, tutto l’Occidente, vuole pensare che scriverà ciò che non gli è stato permesso e nel farlo, diventerà donna, ancora una volta, l’occidente ritornerà paese, il paese Italia, e così via.

È ormai noto l’atteggiamento di chi si fa chiamare intellettuale di fronte all’oggetto osservato: scriverne da intellettuale. Ovvero, reclamando una libertà e indipendenza del pensiero che il proprio linguaggio comunicherà all’altro, anzi a voi. Voi che 1. non sapete osservare tale oggetto come l’intellettuale o 2. non rischiate come l’intellettuale ha il coraggio di fare investito dalla sua responsabilità tutta sentita fino ai calzini bucati perché poco si cura di alcune faccende quotidiane essendo preso da ben altre più urgenti. Ma cosa avviene se l’intellettuale non sa di cosa stia parlando? L’intellettuale non sa mai ciò di cui scrive, soprattutto potete esserne certi, se lo scrivere è rivolto a voi. Tuttavia, l’intellettuale ne scrive. Di cosa scrive oggi, nell’ultimo giorno dell’anno 2023 l’intellettuale? L’intellettuale scrive di ciò che è davanti a sé, ma a distanza di sicurezza. La distanza che lo divide dall’oggetto e che lo rende importante ma anche già storia. È come se fosse già a saldo: scontato del 40 per cento. Lo compriamo non tanto perché lo reputiamo di un certo valore, non è nemmeno di questa stagione, ma perché davanti a tale sconto ci sentiremmo in imbarazzo a non farlo. Per questo, l’intellettuale ritorna a cercare i post che sono ormai seppelliti sotto le prime settimane di chiacchiericcio sulla Palestina.

Dove è la Palestina? La Palestina è in sicurezza, là e, pure, qui accanto a me. La prima volta, ufficialmente, l’ha portata qui il mio capo di facoltà dell’università in cui lavoro insieme a tantissimi altri intellettuali che conoscono la questione 1. molto meglio dell’intellettuale o 2. molto peggio. Ma stanno tutti insieme. Perché anche l’intellettuale è sempre plurale soprattutto se responsabile e impegnato. Ritornando al capo di facoltà, il gruppo di intellettuali di cui vi sto raccontando ha ricevuto delle linee guida chiare e precise su come comportarsi in una serie di scenari ipotetici. Il comportamento dei corpi degli intellettuali in università, non troppo in forma e non solo perché sono le vacanze natalizie e si muovono più del solito, sono le parole – e questo il capo di facoltà lo sa molto bene. Ogni intellettuale che parlerà non potrà mangiare il panettone, né a prezzo pieno, né a sconto. Romperà il patto di sangue che ha firmato con la propria università. Tradirà parole come, per prendere un esempio, ‘genocidio’. L’intellettuale salva l’email sul desktop insieme a screenshot di tagli di capelli da farsi prima dell’ultimo giorno dell’anno 2023 perché in realtà i buchi nei calzini stanno bene insieme a un bob francese fresco di piega. L’intellettuale riceve tantissime email importanti e in alcune che non c’entrano niente con la questione di cui vi sta parlando legge: Shabbat shalòm. L’intellettuale non sa cosa fare perché 1. non sa niente 2. è sempre plurale 3. scrive sempre a voi 4. questo scenario non è stato menzionato dal capo di facoltà. L’intellettuale decide così di togliersi il mantello da critico letterario e mettersi il cappotto di alpaca da vero intellettuale e risponde all’email: Shabbat shalòm & Jumu’ah Mubārak. Come se si potesse non cadere nella trappola di a versus b. Lo fa in realtà perché non sa niente né di a né di b e questa è la scelta più sensata data la natura di a e b che in realtà conosce bene. L’intellettuale a cui non importa niente 1. di essere il più stupido 2. di essere il più furbo 2. del cappotto di Max Mara Icon 101801 color cammello 3. il destinatario dell’email sopramenzionata 4. il capo facoltà 5. voi – si sente meglio per qualche momento fino a quando non fa un po’ troppo caldo e si toglie il cappotto riappendendolo sul gancetto vicino alla scrivania vuota.

Adesso, chiedo: l’intellettuale sta scrivendo 1. al capo di facoltà 2. a voi 3. ai palestinesi 4. agli israeliani 5. all’Occidente 6. alla Noia che bella grassa ingombra tutto lo spazio del posto accanto per le intere due ore e mezzo prima del cambio a Verona. Perché l’intellettuale viaggia in treno da sempre ma oggi si lamenta dello spazio del silenzio che non viene più rispettato. Sono domande importanti, che riguardano tutti, quello spazio di silenzio dove i palestinesi sono in 3D – li abbiamo aggiunti noi a costo zero nella nostra casa su Spatial. In questo spazio ci sentiamo al sicuro, troviamo case a prezzi stracciati e siamo tutti uguali davanti alla morte come in ogni storia che si rispetti. L’intellettuale è ormai arrivato alla stazione di cambio prima dell’arrivo nella città del nord del suo paese, e di tutto l’occidente, dove in bagno si cambierà (basterà rossetto e velluto) e si sente già soddisfatta in quanto è riuscita a non dire niente. L’intellettuale non dice niente, ma solo buon anno! e senza chiedere niente in cambio se non il pane quotidiano che tiene lo spirito saldo e fa volare qualsiasi atto di critica in alto di fronte a casa o Gaza.