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Tre teste

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di Max Mauro

Come si fa a tagliare una testa?

Vorrei porgli questa domanda, ma dubito avrebbe una risposta da darmi. No, una risposta probabilmente l’avrebbe, ma sarebbe un’invenzione, un crudele gioco di immaginazione. Lui non ha mai tagliato una testa, ne sono sicuro. Come potrei essere seduto al tavolo con un tagliatore di teste? Così voglio credere, ma chi può assicurarmi del contrario?

La sua è una storia inventata, almeno in parte, come tutte quelle che raccolgo. Anche la mia lo è, ne sono cosciente. Tutti raccontiamo qualcosa che non ci appartiene, ricordi di altri, parenti, amici o perfetti sconosciuti incontrati sul tram o scoperti nei libri. Ricordi così limpidi e intensi da offuscare i nostri. Raccogliamo emozioni con un setaccio bucherellato e le attacchiamo malamente una all’altra come pezzi di plastilina rinsecchiti illudendoci di farne dei ricordi personali. Qual è la parte inventata e qual è quella vera?

Però la testa tagliata.

Non posso fare a meno di pensare a quelle tre teste allineate sul terrazzo del carcere a pochi metri di distanza da dove si trovava la mia, di testa, con annesso il corpo, appena alcuni giorni prima. Tre teste. Sono allineate in bella vista come fossero torte a un concorso di cucina. Tre terrificanti torte tonde.

Il viso, gli occhi, la bocca, non c’è bisogno di altro. Il resto è accessorio. E’ sparso sul terrazzo, un carnaio alla rinfusa. Due braccia, o spezzoni di braccia. Una scarpa. Una scarpa da trekking alta, di piede destro, come se ne vedono tante sui marciapiedi di Caracas, di gente frettolosa e distante. La scarpa è macchiata di sangue e contiene un piede attaccato a un pezzo di tibia. Accanto alla scarpa col piede dentro c’è un corpo, un corpo morto, ovviamente, quasi intero. Quasi. La testa è altrove. E sangue ovunque. Ma non attorno alle teste. Quelle no. Sono esposte in un angolo. Ripulite.

Gli occhi di tutte e tre le teste sono semichiusi. In una, la prima a destra, un viso tozzo, tondo e carnoso con capelli radi e ciglia folte, mi pare di scorgere uno sguardo di rassegnazione. E’ solo un’impressione. Che sguardo è possibile in una testa mozzata? Cosa avranno visto gli occhi in quell’attimo che hanno smesso di vedere? Forse hanno visto il vuoto, magari un soffitto, perché chi ha tagliato la testa agiva da dietro e voleva evitare di essere visto, come in quel quadro di Caravaggio, non quello con la testa del pittore, un altro, memoria aiutami tu.

E’ stato un machete vero o un coltellaccio ottenuto dalle gambe del letto di ferro affilato sul muro? Probabilmente le teste sono state tagliate dopo che gli uomini erano stati uccisi. Chi le ha allineate per fotografarle sapeva che qualcuno, un me qualsiasi, un me sconvolto, vedendo la foto ne sarebbe stato turbato al punto da non poter pensare ad altro e si sarebbe fatto molte domande.

Come si fa a tagliare una testa? Non come avviene il taglio, un atto di banale macelleria di cui non sono completamente ignaro, colmo dei ricordi di polli, tacchini e maiali visti uccidere a casa dei nonni durante la mia lontana infanzia. No, mi chiedo, perché avviene il taglio? Cosa spinge qualcuno a tagliare una testa, e ad esporla alla macchina fotografica, invece di accontentarsi della semplice, banale, uccisione di un essere umano?

La testa a sinistra è quella di un ragazzo, un giovane uomo coi capelli rasati e i tratti meticci. Ha un taglio profondo sulla fronte, poco sotto l’attaccatura dei capelli. Il taglio sembra di plastica perché è intonso come un marchio disegnato. Dove è finito il sangue? Comincio a ragionare come se tutto questo fosse normale e una testa mozzata potesse essere analizzata come si fa con un’immagine tratta da un film. O un’opera d’arte.

Il taglio mi ricorda un quadro. Di chi era? La mia memoria è fratta. Lucio Fontana, ecco, era lui. Il taglio di Lucio Fontana visto al museo di arte contemporanea, proprio quello di Caracas, questa mia città transeunte. Ecco cosa mi ricorda il taglio sulla fronte di quel ragazzo, anzi della sua testa. Un taglio chiaro, preciso, pulito. Ma quelli di Fontana erano tagli fatti sulla tela di quadri destinati a un museo o una galleria d’arte, e chi li osserva oggi si chiede cosa vogliono dire, perché li avrà fatti. Questo taglio è fatto sulla carne, su di un corpo spezzato, svuotato, spento. Eppure le domande per me sono le stesse. Cosa vorrà dire, perché l’hanno fatto.

Le tre teste ora, nella foto, sono solo un ornamento sulla terrazza che fa da tetto al carcere. Anche se non si trovano più lì e sono state portate altrove, la foto le rende parte integrante di quello spazio. Dopo quella foto non c’è più una terrazza senza teste. Non esiste più quel luogo che io ho visitato in incognito, ignaro di quello che vi sarebbe accaduto poco dopo, quando la rivolta sarebbe scoppiata.

“Copia queste foto nel tuo computer e poi ridammi la pendrive, è l’unica che ho”. Così mi disse il mio interlocutore al nostro primo incontro. E ora lo rivedo per restituirgli la pendrive. Mi sembra coli sangue, la pendrive. Le mie mani sono sporche, sporche di sangue. Mi sento stupido, ho paura di me stesso.

L. parla come se volesse aiutarmi, aiutarmi a capire in che luogo sono finito. Ha un modo nervoso di raccontare e raccontarsi. Io non so cosa vuole in cambio da me, credo sia solo bisogno di attenzione, la sua, o forse la ricerca di un contatto che potrebbe servirgli, prima o poi. Ho imparato dal prof K che in questa città senza contatti sei perduto. Io raccolgo storie e le scrivo, finché me lo permettono. I contatti sono importanti anche per me e L. è un contatto prezioso perché mi porta dentro alla storia che più di altre cerco di ca(r)pire, quella del senso del mio trovarmi in questo luogo, così diverso da ogni altro in cui ho messo piede prima.

L. ha poco più di quarant’anni, gran parte dei quali li ha trascorsi in Italia, dove ha dei lembi di famiglia con i quali fatica a mantenersi in contatto. Un fisico snello e solido, il viso affusolato, i tratti scavati abbrustoliti dal sole. Con la cravatta e un vestito adatto potrebbe reggere la parte del direttore di banca, una piccola filiale di un piccolo centro di provincia del centro-Italia. Da alcuni anni la sua vita è il carcere in Venezuela, da poco è stato inserito in un regime di semi-libertà che gli permette di lavorare fuori per alcune ore al giorno e di rientrare solo per dormire. Il carcere non è un luogo separato dalla vita reale. E’ un crocevia di contraddizioni dove il fuori e il dentro si confondono negli spazi vissuti e nelle storie individuali dei detenuti. La violenza del carcere è solo una versione lievemente amplificata di quella che anima e travolge le vite reali. E’ questo che mi tormenta. Cosa mi dicono le teste mozzate sulla mia scelta di vita? Ma è una la scelta, la mia?

“Le decapitazioni sono frequenti. Ogni rivolta in carcere, che poi rivolta magari non è ma semplice guerra tra bande per il controllo del carcere, può finire così. Le guardie non intervengono perché tutto avviene nel carcere interno, un territorio ‘auto-gestito’ dai detenuti, dalle bande. Le guardie lasciano che i detenuti si scannino, che ci sia un vincitore, perché un vincitore c’è sempre, ed è quello che rimane in vita. Quando tutto è finito, loro entrano e scattano le foto, prima che arrivino gli inquirenti. Alcune le scattano anche i vincitori e le conservano per far vedere chi comanda. Le guardie le scattano per aver qualcosa da mostrare ai colleghi che non erano in turno quel giorno, o solo per farsi grandi davanti alle donne. Vogliono far vedere che quello è veramente un carcere violento e che gli assassini sono dei veri assassini pronti a tutto e loro sono i guardiani di questo mattatoio”.

Allungo la schiena per stendere i muscoli contratti dal racconto e dalla memoria delle immagini viste sul computer alcune ore prima e fissate a lungo, troppo a lungo. Le sedie di plastica unta su cui siamo seduti da più di un’ora non sono fatte per conversazioni prolungate. Sono sedie da campeggio, come del resto i tavolini coperti malamente con una tovaglia gommata a quadretti, con macchie sparse qua e là. Il bar si chiama Inter ma non ha nulla di calcistico. Quando venne aperto probabilmente in questa zona vivevano degli immigrati italiani, ma negli anni si sono spostati altrove, in zone più “sicure” della citta, o sono rientrati in Italia. Qualcuno mi ha detto che i gestori del bar sono portoghesi, ma altri mi hanno detto di non credergli. Più d’uno mi ha detto di dubitare di tutto, sempre, è la regola per sopravvivere in questa città, ma non so se sono in grado, se sono all’altezza di questo compito. Sono nato innocente.

Dietro il banco della panetteria-bar si affollano varie giovani figure e mi paiono indistinguibili dalle migliaia che incrocio nelle strade. Se qualcosa di europeo, un’idea ingenua e balorda di alterità continentale, c’era in loro, è andato perso qualche decennio fa. Nulla è rimasto nei movimenti e negli sguardi di questi ragazzi che possa ricordarmi l’Europa.

Il tavolino è all’interno della sala ma la parete che dà sulla strada è una semplice saracinesca che è aperta. E’ sempre aperta, almeno fino alle cinque, cinque e mezza, quando il bar chiude, e con esso ogni attività nei dintorni. A quell’ora tutti spariscono rapidamente perché si avvicina il tramonto.

Sul tavolo, una birra, la mia, bevuta per metà e ormai calda, e una coca cola, quella di L.. “Non bevo alcolici durante il giorno, cerco di bere meno possibile”. Forse in lui c’è un passato di dipendenza.

“Io tra un po’ devo andare”, aggiunge tradendo una certa ansia. “Ho il rientro alle sette e prima devo passare a prendere una borsa da casa della mia donna”. Invece continuiamo a parlare e il racconto si ripete, come se ci fosse un bisogno catartico di liberarsi del vissuto e rincorrerlo a parole fosse l’unica soluzione.

Ha scontato tre anni e gliene restano altri sei, ma grazie ai contatti che ha creato fuori e dentro il carcere conta di averne abbuonati alcuni. Sogna l’estradizione in Italia, ma quella è più difficile da ottenere. Come lui, condannati per traffico di droga, ce ne sono a decine di italiani nel paese caraibico. E tutti hanno ottime ragioni per dirsi innocenti. Tutti viaggiavano per piacere o vacanza e si sono ritrovati, a loro insaputa, con qualche chilo di cocaina nella valigia.

Io credo a tutti, ho sempre creduto a tutti, fin da bambino. Il mondo adulto a cui appartengo mi vuole convincere a diffidare delle storie, soprattutto di quelle straordinarie. Eppure io non ce la faccio, continuo a credere alle persone. Chi sono io per dubitare delle loro vite? Io sono solo un umile raccoglitore di storie. Non sta a me giudicarle.

Ma le teste mozzate?

Mentre L. ripete per l’ennesima volta il racconto della sua vita io penso alle teste mozzate. Non sono invenzioni. Ho salvato le foto sul mio computer, che ora è sporco di sangue. Fisso chi me le ha date, quelle foto; la sua mano destra sfiora il bicchiere di coca cola quasi vuoto, il dito indice si avvicina al bordo, un movimento incosciente. E’ forse lo stesso dito che ha premuto il tasto della macchina fotografica sul tetto del carcere? Non oso chiederglielo. Una domanda di troppo. Fuori fa buio ed è meglio che mi avvii verso casa.

Acque alte

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di Cristiano Dorigo

Il pezzo che segue è tratto da “Acque alte” (Meligrana Editore, 2024), di Cristiano Dorigo, per maggiori informazioni si veda la nota alla fine (NdR)

Come e quando ho imparato il prima e il dopo”
“Quando ero bambina mi divertivo tanto con mamma e papà, avevo una spensieratezza infinita, come tutti i bambini. Quello per me è il periodo dell’innocenza, delle corse nei campi, lungo l’argine del fiume, dello sguardo pieno di stupore dinnanzi alla natura: ero libera come un cucciolo d’animale, in sintonia con l’ambiente che mi circondava.
Questa era la mia vita finché stavo nei paraggi di casa, nella cittadina che mi pareva grande come un universo.
A volte mi capitava di accompagnare mamma giù al Sud dai suoi parenti. Mio padre, per una storia che non si è mai capita – so solo che riguardava una sorta di pegno con amici degli amici con i quali aveva un debito di qualche tipo – era andato a prendersela, l’aveva poi sposata pur non essendo più illibata, un’onta non rimediabile in quegli anni, in certo meridione rurale. Su al Nord invece, ci si poteva già chiudere un occhio su queste faccende d’altri tempi e latitudini, in cambio di lauta mancia al reverendo parroco.
Quelle incursioni, oltre ai viaggi interminabili mi piacevano, come fossero un momento tra parentesi fra due mondi così diversi. Li percorrevamo a volte in auto con papà, ma più spesso in treno, e mi rimaneva sempre impresso qualcosa, particolari a volte insignificanti: ricordo, ad esempio, la prima volta che vidi le vecchie andare in giro vestite tutte di nero, col caldo che faceva in paese, come condannate a un eterno lutto.
Solo le donne, gli uomini no.
Mia madre giù cambiava tono, umore, modo di esprimersi, come avesse introiettato un precetto che le imponeva di stare il più possibile in silenzio. Quando apriva bocca era per rispondere a una domanda, e lo faceva con quel dialetto faticoso, che quasi non capivo; ci ho messo diversi viaggi a digerirlo, ma non sono mai riuscita a parlarlo, se non qualche parolaccia, frequentando bambini e ragazzi, che poi sentivo ripetere a mia madre, una volta tornati a casa, esclamare ad alta voce quando si arrabbiava.
Al ritorno il viaggio sembrava più breve, come se andata e ritorno corrispondessero a salita e discesa; notavo in mia madre una certa frenesia di allontanarsi da quei luoghi, e al contempo mi sembrava che una malinconia sottile le velasse gli occhi, che cercava di nascondere al mio sguardo.
Tornate a casa con papà ricominciava a ridere, a usare il solito linguaggio sguaiato, a guardare quei film che a me all’inizio parevano strani, che facevano vedere anche a mia sorella e ai miei fratelli, tutti insieme, e che soltanto da grande sono riuscita a distinguerli da quelli normali.
E c’era anche lui, il figlio di mamma nato al sud, molto più grande di noi, lo stigma della vergogna.  Dopo quei film veniva sempre a trovarci, e a pretendere qualcosa che da bambina mi era sembrato normale benché fosse una scocciatura, una consuetudine noiosa come pettinarsi o farsi la doccia o prendere un ceffone dopo una marachella; a scuola mi ero confrontata con le compagne di classe e avevo capito che per le mie amiche non era normale, anzi, era proibito anche soltanto parlarne. Mentre io raccontavo, mi guardavano a occhi spalancati, chi con curiosità, chi con smorfie di sgomento, chi ancora con la mano davanti alla bocca a coprire spavento o ridarella, e io ancora non capivo, all’inizio: mi dicevo ma cosa ci sarà mai di strano? boh.
Mia madre rideva sempre, anche quando andavo a dirglielo: ah ah perché non è divertente Dalia? Ma dài, se proprio non ti piace, pensa che è solo un gioco, e che dopo lui se ne va e ti lascia stare. 
Mamma non capiva che a me non piaceva, anzi non sopportavo il prima di quel dopo, o se lo capiva, lo riteneva una tara ereditaria che tocca a ogni femmina, benché lei fosse riuscita, con ogni evidenza, a farseli andar bene entrambi: il prima e anche il dopo. .
E poi col tempo era diventata abitudine. E che sarà mai, mi dicevo: basta concentrarsi, convincersi che il dopo arriva sempre.
Ed è così che si fa con gli uomini, no? Se durante il prima si pensa che poi c’è il dopo, il gioco è fatto.
Ed è così che tanti uomini mi volevano un poco di bene ciascuno, e tanti poco, sommati, magari potevano diventare tanto; ho imparato così l’aritmetica, che pure mi confondeva: mettendo insieme tante cose, tante era più di poche.  
Tanto affetto formato da tanti piccoli poco affetti. Come nelle canzoni, nei film dove due si amavano tanto, solo in modo diverso, variabile: là era tutto in blocco, un amore grande; nel mio caso era una somma di piccoli amori.
Ma nessuno mi capiva e tutti pensavano male di me, mi giudicavano; e allora io andavo in confusione e facevo più guai – guai non per la considerazione che ne avevo io, ma per quelli che giudicavano: io mi ponevo sempre dopo con il pensiero, il quale veniva prima anticipato dall’azione.
Sapessi quanto mi è costato tutto questo: nessun uomo restava con me, le ragazze mi disprezzavano, dicevano che io la davo via a tutti.
Ma solo in questo modo mi sentivo viva.
Il resto del tempo era solo confusione.

Quando Dalia era arrivata in appartamento andava ancora a scuola, non aveva mai esperito un rapporto con un uomo adulto che non fosse come quelli che aveva raccontato.
Ma una volta capito che qui non serviva il prima e il dopo, che io non giudicavo, che rispondevo quando chiamava, che potevo ascoltare quasi tutto anche se certe volte mi faceva tremare di tenerezza e di rabbia, che potevo aiutarla a spingere la fatica durante quelle salite, siamo riusciti a fare un pezzo di strada insieme.
Prima da vicino vicino, poi un po’ più lontano.
Poi c’è stato il periodo intercorso tra la fine della scuola, i tirocini, le giornate di prova, i tentativi vari ed eventuali.
Quando finalmente è arrivato il lavoro vero, quello con uno stipendio, tutto è cambiato.
Allora era vero che lei e la normalità potevano stare insieme, o almeno provare a convivere per un po’.
Ancora tanti alti e bassi, rotonde, incroci, passaggi a livello; respira Dalia, prendi fiato.
Ok, si riparte.
Ci riprova, ce la mette tutta: anche per lei arriva un ragazzo che le offre una vita normale, mettono al mondo una bambina, tutto fila liscio.
Per un po’.
Poi ricomincia a fare quello che Dalia ha sempre fatto: scusa, scusa non lo farò più.
E si prova a ripartire.
Il tira e molla però ora non è più solo tra adulti, c’è una bambina, una suocera, incomprensioni, agiti, tradimenti, scontri, lotte.
Che fatica la vita.
Sempre in salita.
Chissà cosa ci sarà dietro quella curva a gomito.
C’è un prima, poi ci sarà un dopo.
Prima o dopo ci si rivede, Dalia.

 

NdR Questo pezzo è tratto da “Acque alte” edito nella collana “Priamo” di Meligrana Editore (2024), di Cristiano Dorigo, che si ispira alla sua lunga esperienza di operatore sociale a Venezia. Questa la presentazione nel risvolto dicopertina del libro:

Venezia è invasa dall’acqua alta. Le previsioni dicono che potrebbe durare ininterrottamente per giorni e notti. Il protagonista, chiuso in casa, isolato, decide che la clausura potrebbe essere l’occasione per scrivere il libro che troppo a lungo ha trascurato. Avrebbe voluto raccontare le storie delle ragazze incontrate durante la sua esperienza professionale di educatore, ma la chiusura forzata lo trasforma, anche, in un diario intimo dei giorni e delle notti trascorse nel suo piccolo appartamento. Il libro è formato da sette parti, suddivise a loro volta fra “giorno” e “notte”, che contengono ciascuna un racconto della giornata, un episodio delle “sue ragazze” – tutte chiamate con un nome di fiore per mantenerne l’anonimato –, e una notte in cui rievoca episodi della propria vita emotiva. I temi affrontati sono quelli del disagio sociale, della morte, dell’introspezione e elaborazione del lutto. E della possibilità di rinascere, ricominciare, per come si è, per come si può.

 

Fuori è un bel giorno di sole

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di Roberto Addeo

con una introduzione di Antonio Spagnuolo

[Sul piano espressivo una frantumazione del reale, in cui si accumulano i simboli, le immagini, le folgorazioni, i germogli tratti dal subcosciente ed emergenti con una certa violenza, improvvisa e spesso affascinante. Il vissuto personale del poeta diventa il mormorio con voce pacata, morbida, suadente. “Annusa una disciplina” per comprendere tutto ciò che accade nella storia, qualcosa che attacca la corteccia nell’ansia di saziare il sogno, che civilmente si collega ad eventi imprevisti. Richiama alla ribalta personaggi che hanno lasciato un segno tra la cornice di un confronto o degli automatismi istintivi che riparano le crepe del conflitto. Roberto cuce e ricuce incandescenze adagiando il suo intimo sospiro allo sguardo dell’io teso verso il razionale, e governa le leggi del linguaggio con una maestria tutta personale, da scrittore avvezzo al colloquio, al confronto, all’immaginazione. A volte alla ricerca del motto filosofico, del dolciastro
imperscrutabile, dell’azzardo verso il dicibile, della rapacità memoriale, come un raffinato che vede la propria persona riflessa in uno specchio, che è verso la consunzione, come una campana lesionata che batte ancora i suoi colpi senza indugi.
Lavorare per la poesia è scavare nel patrimonio culturale, per cercare di aggregare sentimenti e fulminazioni, decantando emozioni e vincolandosi alle articolazioni linguistiche, nel tempo e nell’affanno. E la parola cerca di contenere il tutto, sufficiente a definire compiutamente la massa delle emozioni che un artista ha dentro. “oggi mi troveranno disponibile/ come il rasoio del barbiere/ sarà una cosa piacevole, altroché/ spalancherò le forze e ridurrò in granelle/ tutti i loro sottopancia/ stirpi di mezzi uomini che hanno fatto bingo/ il giorno in cui vennero al mondo/ mentre a me tocca la sorte del cane in chiesa/ il mio odio per loro è il lenzuolo di Laerto/ (Laerte o come si chiama)” Nella solitudine si insinua una luce solare che offre una euritmica musicalità dei nessi una combinazione che simboleggia il percorso di una via accidentata verso la ribellione per la sorte o le sorti che ci accompagnano. La rappresentazione del dolore, o dell’angoscia, anche se calati in una precisa realtà contingente, diventa molto efficace con la descrizione di scene esaltative, anche se sfiorando di sorpresa lo sfondo politico. Ad un tratto del libro la versificazione improvvisamente diviene quasi prosa, in pagine che hanno l’aspetto del racconto, introducendo avvenimenti o situazioni “nel breve tempo di uno specchietto acqueo” o per “una forza nell’imbastitura del ghiaccio”. Compare un certo De Girolamo senior che “faceva sul serio” tra magagne ed intrallazzi, realizzando una narrazione a saltelli nella quale si svincola una fusione di simbolo e mottetto. Non c’è confusione negli incarnati legata ai meri interessi di un elemento sociale, ma una consapevole identificazione del canto per esaltazione enfatica o retorica. “Anche se De Girolamo junior fu tra le grandi sorprese della mia vita,/ l’avevo sempre visto come uno di quelli che se la tirano e poi la sua voce/ in lega metallica credo per via dell’apparecchio non mi aiutava nella stima,/ e invece si dimostrò la personcina più attaccata e servizievole che ricordi,/ un’ora prima mi ero fermato sotto l’attaccapanni con la sorellina…” Descrizioni che accarezzano la semplicità tipica di tanta accortezza, che da concezionale si piega ad un brusco risveglio, rivelatore di un quotidiano tutto da scoprire. La fiducia accarezza quei momenti in cui traballa il senso di equilibrio, tale da esprimersi in pacate combustioni di accelerazione. Tutto ciò che in poesia è sospeso tra l’emozione e l’intesa di attualità, tra le compromissioni possibili del divenire e la sintesi di manifestazioni fenomenologiche, tra i moduli razionalizzati e la rappresentazione dello spirituale, si concentra con grande vigore nella disponibilità di dialogare con il lettore. Questi a sua volta ascolta e cerca di inseguire quelle emozioni che il verso riesce a suscitare. Snodo decisivo di questo linguaggio è, per Roberto Addeo, la capacità di modulare i limiti della chiarezza e l’eccezionalità delle variegate suggestioni, tra sezionamento sperimentale e autentica rilevanza di certezze da consolidare.

A.S.]

Testi scelti

può darsi che il peggio sia già caduto
il suo spirito ha gravato su così tante emersioni
specchiato in un cerchio d’acqua
mi disse che avrebbe ereditato il mondo reale
e con l’ombra delle braccia, coperto ogni sogno
che avremmo dissotterrato un cuore tra le ceneri della verità
e che il vuoto è un fermaglio dietro l’orlo degli occhi
per fissare a ogni palpebra la sua ciocca di pianto
quando le infezioni galleggiano sulla marea diurna
attirate dall’ossame della purezza
e i muri del silenzio crollano
cola da una spina, la dolcezza del mio sguardo
dalle stagioni di caccia, la sessualità del sangue
e nelle macchie di memoria, così piovo dal nulla
ho ingoiato tutto il fragore di una tragedia
e lo stesso stato d’animo che fa marcire questo Paese
faccio il bagno in una tomba calda e dopo
mi vestirò a lutto sotto mentite spoglie
l’occhio puntato agli stormi in lega metallica
che fanno da guida a ciascun petalo buio
– poi mirerò la mia ombra di stella mai sorta
so unificare gli spasimi tra i denti
e annodare piccioli di speranza con la lingua
non sono nato dagli stessi drappi
avvelenato dalle loro canzonette
mi dimeno come un selvaggio ferito
in cerimoniali di suppurazione
la voce sepolta nella fanghiglia, leso
da tanta comicità
tutte le regge guardinghe intorno
e tavole botaniche a biasimarmi
analizzo vecchie pellicole incatenato al sofà
mentre sgranocchio detriti d’infinito
fasciato dalla stessa caligine che ingrossa le velature
del mio percorso ciondolante sull’abisso
fino alla resa dei conti
più dolce di un tormento
meno dura della coscienza
nel bene dei defunti, tra le menzioni perdute
porterò in pugno una fiaccola e un piede di porco
una causa comune
e sottobraccio, la mia coda di lacrime
imparando che ogni passo
è calpestare un sogno altrui
e che le fronde sui tralci sapevano dirmi perché
le aspirazioni vengono giù così trasparenti
ebbro di carenze
abbraccio gli altri fra i bordi di questa lesione
nei reclusori illuminati da feste
e rituali in cui non sarò mai benvenuto
colmerò bocche di fascino agli schiavi più remissivi
berrò pioggia gialla da mani bucate
preda dei sobborghi non ancora smossi
e l’inganno originale
parlerà di me alla frescura di un desiderio mai patito
alle corolle di prestanze sciolte
alle luci oltre la catena dei tetti
canterà le mie ossa
alle parole rinvenute sotto un manto di foglie

* * *

la diceria che più circolava in città
era quella di una mia presunta relazione
con una girovaga di nome Antonellina
consacrata alle spade e nelle notti di magra
massaggiatrice per addetti ai servizi di pulizia
impiegai una cosa come tre secondi
per risalire alla foce delle maldicenze
vale a dire uno sconosciuto dagli occhi bellissimi
che possedeva un fabbricato in riva al Trasimeno
il padre insegnante in diciassette corsi a ciclo unico
e che prima d’incontrarmi aveva avuto occhi bellissimi
nei giorni seguenti m’incaponii nella scrittura isterica
di un tomo da trecento e passa cartelle a duplice spazio
che una sera finì per sfuggirmi dalle dita
l’ho ritrovato un anno e mezzo fa tra i medicinali di Antonellina
e dopo averle chiesto cosa ne avesse fatto
capii che la sua calma non doveva essere solo il prodotto
della combustione di quei momenti, ma anche la fiducia
di persuadermi a non fare più cose del genere

* * *

benedici il sangue
che non hai perso.
bacia la bocca
che non ti risponde.
hai dato poco.
avuto meno.
traccia un lampo
sulla parete
che la tua vista
possa seguire
e chiamarlo subito
destino.
non hai amici
ma conosci un dolore.
non dare consigli
ma fa’ che le tue orme
brillino
come stelle polari.
benedici ogni lacrima
venuta giù
per dissetare
la tua natura
e offrire al tuo viso
la carezza
delle nubi.
benedici gli sguardi
che ti hanno scusato

Soldi soldi soldi

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di Romano A. Fiocchi

Andrea De Alberti, La rimozione del conflitto, Industria & Letteratura, 2024.

A Pavia c’è una libreria speciale. Si chiama Il Delfino. Speciale perché è diventata il punto di ritrovo – oltre che dei lettori, come è logico che sia – di poeti, romanzieri, novellisti, giallisti. Non è una magia, è il risultato dell’impegno trentennale di tre librai (Andrea Grisi, Guido Affini, Andrea Bordone) che sono riusciti a creare una comunità di ‘amici dei libri’. Accanto agli scaffali, mescolati tra i frequentatori abituali, trovi a chiacchierare poeti come Andrea De Alberti e Dario Bertini, narratori come Piersandro Pallavicini e Giorgio Scianna, giallisti come Alessandro Reali, autori eclettici come Walter Vai e Davide Ferrari (tra l’altro attore e regista). Trovavi, prima della sua recente e prematura scomparsa, appena cinquantasettenne, anche la bravissima scrittrice italo-somala Kaha Mohamed Aden.

È dunque in questo ‘habitat librario’ che Andrea De Alberti ha presentato, il 17 febbraio scorso, la sua ultima raccolta di liriche La rimozione del conflitto. Diciamolo subito: la rimozione psicologica e il conflitto sociale con i soldi. Si tratta di un libretto di trenta composizioni, suddiviso in cinque parti, a loro volta costituite da un numero variabile di liriche. Tecnicamente si sviluppa come un poema sinfonico con motivi che si rincorrono, ossia con immagini che affiorano e riaffiorano a distanza di pagine, che passano da una lirica all’altra, il tutto ‘narrato’ per lo più in terza persona senza esplicitare il nome del soggetto. Ed è incredibile come De Alberti riesca ad amalgamare ironia e visione poetica, concetti filosofici e semplicità lessicali. Il suo è un linguaggio che si affina sempre di più da una pubblicazione all’altra, a cominciare dalle prime raccolte: Solo buone notizie, 2007, Basta che io non ci sia, 2010, Litalìa, 2011, sino al balzo di qualità delle sillogi Dall’interno della specie (Einaudi, 2017) e La cospirazione dei tarli. L’universo di Don Chisciotte (Interlinea, 2019).

Poema sinfonico, suggerivo, inteso quale intreccio di liriche di varie misure dove le parole si ripetono come motivi musicali, ogni volta modellati diversamente e sempre più vicini al perfezionamento dell’immagine. Ad esempio l’esergo «Avrei potuto fare di più nella vita / che portare persone su un carretto di legno» in una lirica successiva diventa «Un carretto di legno a volte ci svela / il nostro posto nel mondo». Oppure l’espressione «Il denaro è un incidente» ritorna più avanti come «Il denaro è un incidente di percorso che mina la speranza». O addirittura, ci sono versi che si ripetono inizialmente pari pari e poi evolvono in ramificazioni impreviste:

L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva,

ci ricordiamo l’odore dei soldi

e l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia.

La profondità dell’abitare è perlustrata da un detective,

la trincea da una talpa.

Nella penultima lirica si ripropone in questo modo:

L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva,

ci ricordiamo l’odore dei soldi,

l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia.

L’adolescenza rappresenta la profondità del nostro abitare,

la trincea, l’attaccamento alla danza mascherata;

Oppure ancora, procedendo sempre per allusioni, De Alberti incastra pezzi di associazioni di idee:

Ha paura a guidare,

odia le code delle mucche,

gli piacciono le facce delle banconote,

il muso del maiale.

Tutto ciò per dire della tecnica poetica. Che un verso semplifica così: «Probabilmente una di queste cose è collegata a un’altra». Non senza ironia: «Probabilmente».

De Alberti nomina Freud, Auden, sant’Agostino, Hegel, Céline, il «carissimo» Hölderlin, allude a Leopardi scrivendo «L’immaginazione poteva superare una siepe / o un esame di coscienza», evoca il verso di Montale «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» attraverso una citazione velata: «ciò che vogliamo ma non ciò che sarà». Citazioni colte, dunque, che fanno da contrasto al mondo semplice e primitivo della campagna e dell’osteria-trattoria dei nonni dove De Alberti ha trascorso l’infanzia: i pesci nei fossi, i grilli, le libellule, le lumache, la «castità disarmante» delle nuvole, le mucche, il maiale, la stalla, l’orto, la legnaia, il fienile, i campi, le marcite, le risaie con l’acqua verdastra. Un mondo dove «tutto era gratis». Ma anche citazioni ironiche, come «strofina una lampada con un calzino», perché sa che il genio non uscirà mai. Citazioni che, grazie a una scrittura stratificata, non devono essere necessariamente decodificate: la lettura di queste poesie è su più piani, come se fosse un misto di poesia colta e di cronaca da giornale.

Andrea De Alberti e Flavio Santi

Che conta, in fondo, è l’argomento che De Alberti vuole trattare: i soldi in quanto fenomeno sociale. I soldi in quanto componente inevitabile del carattere dell’Homo sapiens, perché è lo stesso che abitava le grotte e le decorava. I soldi nella visione di un poeta. De Alberti non giudica, tutt’al più fa dell’ironia sul conflitto soldi-individuo, soldi-società, soldi-potere. Lui stesso è consapevole di vivere un rapporto conflittuale con i soldi sin dall’infanzia («Usciva dal cassetto odore di caffè, minestrone e mille lire, tutto insieme»). Ma né li ama né li odia, cerca semplicemente di capirli esaminando ogni loro sfumatura: «I soldi fanno la bava», «I soldi invece attraversano la vita», «I soldi fanno l’infanzia luminosa», «la mancanza di soldi come un attacco di angina», «Tutto ha propriamente inizio / quando per la prima volta ci danno i soldi per le caramelle», «Con i soldi il nulla viene incessantemente / convertito in tutto, / per trasformare il bene nel niente che ci serve».

Il concetto dei soldi intensifica la sua presenza (anche con la formula «denaro») nella terzultima e nella penultima lirica: Il denaro trasfigura le cose e Da ragazzi pensiamo le cose in grande, che per certi aspetti, dal punto di vista tematico, rappresentano il fulcro della raccolta. Di seguito un frammento, tra i passi più suggestivi:

I matti non pensano mai al denaro

anche se lo trovano e lo raccolgono sul marciapiede;

il denaro in questi casi può essere un mozzicone

di sigaretta usata,

una cosa da riciclare;

è la cosa che nessuno vede perché evidente,

perché ci si deve inginocchiare per raccoglierla.

Le persone chiedono in ginocchio il denaro;

quando vediamo una persona

che s’inginocchia ci viene pietà.

La pietà è nemica del denaro

perché ci fa perdere l’obiettivo della nostra ricerca

facendoci guardare verso il basso la persona

che abbiamo davanti;

per avere denaro bisogna sempre guardare in alto,

ma in alto crescono i frutti dell’albero della cuccagna.

Le parole «soldi» e «denaro» si trasformano talvolta in «Banca» (spesso scritto con l’iniziale maiuscola), che ha un valore semantico non dissimile. Ma la banca di De Alberti è anche un luogo della mente, fantastico e mitologico: «La Banca era la nostra grotta di Altamira», «L’osteria era la Banca dell’infanzia».

C’è poi il motivo della scomparsa del padre, il suo ricovero al Policlinico, che alla fine ci riconduce al tema dei soldi: «La Banca gli fa interrogare il malato / controlla gli stati epilettici del denaro, / la distanza che separa un avvenimento / da un versamento». La figura paterna torna dopo una decina di pagine in una bellissima lirica:

Scrive di notte una lettera:

Caro papà,

forse ti sei perso il mio periodo migliore,

è cambiato tutto quel giorno in cui alla televisione,

per caso, passarono la finale dei duecento,

Mennea a Mosca nel 1980 e la voce del telecronista:

recupera recupera recupera recupera.

In questi anni per me tu sei stato

quel telecronista.

(La raccolta La rimozione del conflitto è uscita per i tipi di Industria & Letteratura, qui il sito Internet)

Da “I quindici”

2

di Chiara Serani

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La follia dei numeri #2

3
Un buon numero di "radici" poco matematiche

di Antonio Sparzani

Un buon numero di “radici” poco matematiche

La follia dei numeri, frutto forse dei deliri o forse delle intelligenze dei matematici, non è certo tutta qui. Perché una volta che si è capito che esistono – sempre in quel senso speciale del verbo “esistere” – dei numeri decimali che hanno infinite cifre non nulle dopo la virgola, che però hanno la caratteristica che la parte dopo la virgola è formata, da un certo punto in poi, solo da gruppetti ripetitivi di cifre, cioè i numeri decimali periodici, la domanda che arriva ovvia è: ma se io scrivo un numero decimale che ha dopo la virgola infinite cifre senza alcun gruppetto che si ripeta, cosa ottengo? Intanto ho fatto male a dire “scrivo” perché nessuno al mondo è in grado di far ciò; diciamo invece “penso”? Peggio ancora, come faccio a pensare infinite cifre, neppure Zeus Olimpio ne sarebbe stato capace, e allora? Perché ci sembrava possibile pensare a un numero decimale infinito periodico? Perché sapevamo la regoletta per andare avanti, bastava continuare a ripetere lo stesso gruppetto di cifre. E allora anche qua: se conosco una regoletta che mi permette di andare avanti all’infinito perché mi spiega come calcolare in ogni punto la cifra successiva, allora posso dire di conoscere il numero almeno nello stesso senso in cui conoscevo quelli periodici. Certo, ma ci sono delle regolette così? Ebbene sì che ci sono, soprattutto una, una di quelle che avete imparato alle medie e che avete subito dimenticato: la famosa estrazione di radice quadrata √ . Come mai è saltata fuori quest’altra operazione di “radice quadrata”? Tutta colpa di Pitagora.

Dico subito che non intendo impelagarmi nella faccenda del teorema di Pitagora, sul quale fiumi d’inchiostro sono stati spesi, se qualcuno è interessato si legga ad esempio il bel libro di Paolo Zellini, Il teorema di Pitagora, Adelphi 2023 e si ascolti su youtube una sua bella lezione qui . Aggiungerò solo che la storia di questo teorema e di problemi simili, comprende antichi testi babilonesi, indiani (vedici), cinesi ed egiziani nel I° millennio prima di Cristo (Pitagora, che in greco ha l’accento sulla “o”, visse nel VI° secolo a.C.).
Forse l’enunciato del teorema non l’avete tutti dimenticato perché rimane impresso più facilmente, essendo legato ad una figura geometrica semplice: il triangolo rettangolo, ovvero che ha un angolo retto. Ricorderete che il suo lato più lungo (quello opposto all’angolo retto) viene chiamato ipotenusa e che gli altri due vengono detti cateti. Bene, il teorema dice che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei due quadrati costruiti sui cateti, Se chiamiamo a e b le misure dei cateti (in una qualsiasi unità di misura di lunghezza) e c la misura dell’ipotenusa, il teorema assicura che a^2 + b^2 = c^2. E allora, se conosco le misure a e b dei cateti e voglio conoscere quanto misura l’ipotenusa, devo eseguire il quadrato di a e di b, facile, poi sommare i due quadrati, facile, e così ottengo c^2, ma poi? Facile? No certo. Devo trovare un numero il cui quadrato conosco. Cioè devo eseguire l’operazione inversa dell’elevamento al quadrato. Se il numero di partenza è un numero speciale, tipo 1, 4, 9, 64, e infiniti altri, allora è facile, come credo tutti vediate, ma se il numero da cui parto è 2? Per esempio se i due cateti misurano entrambi 1, la somma dei loro quadrati è 2 e non conosco alcun numero che abbia come quadrato 2; e allora si sarà trovata la famosa regoletta di cui dicevo, che permette di ottenere cosa? Permette di costruire, passo passo, un numero decimale il cui quadrato si avvicina sempre più a 2. Così come, quando volevo dividere 1 per 3 ottenevo 0,3333. . ., cioè dei numeri che, moltiplicati per 3 davano 0,9 , 0,99 , 0,999 , 0,9999 , che si avvicinavano a 1 ancorché senza mai raggiungerlo davvero.
Forse Aristotele avrebbe detto che questa è una conoscenza del numero non in atto ma in potenza? Non so, meglio chiedere a un esperto aristotelico.
Questo numero il cui quadrato è 2 si chiama la radice o, più precisamente, la radice quadrata di 2; e conosciamo la regoletta per calcolarlo, sì, per calcolare cosa esattamente? Per calcolare una fila – si dice una successione – di numeri i cui quadrati si avvicinano quanto si vuole a 2. Dunque anche qui: la nostra conoscenza della radice quadrata di 2 consiste esattamente in un modo per andarle vicino quanto si vuole. Cosa significa esattamente “quanto si vuole”? Significa che, se immaginate un numerino piccolo ad arbitrio, del tipo 0,0000001, chiamatelo ε come spesso si fa in matematica, allora se andate abbastanza avanti nel calcolo con la regoletta, arrivate certamente a un numero n il cui quadrato differisce da 2 per meno di ε. E così tutti quelli che vengono dopo n: si avvicinano finché si vuole. Si scrive bellamente √(2). E dico “bellamente” perché la nostra conoscenza è quella che avete capito: astrattamente la radice esiste perché noi decretiamo che siano numeri reali tutti i numeri che si possano scrivere anche con un numero infinito di cifre dopo la virgola, anche se nessuno lo può “vedere” o “pensare” tutto in una volta. E, qui viene un punto importante, questo numero certamente non è periodico, perché se fosse tale, allora ci sarebbe una frazione che lo rappresenta (la ricordata frazione generatrice) e si dimostra in due righe che la radice di due non può essere messo sotto forma di frazione (se qualcuno/a mi chiede la dimostrazione gliela metto in un commento). Dunque non è un numero razionale, e quindi lo chiamiamo irrazionale. Che sembra paradossale, ma il punto è che i numeri razionali si chiamano così, non perché ubbidiscono alla ragione, ma proprio perché possono essere messi sotto forma di frazione (ratio), e quindi per questo tutti gli altri devono esser chiamati irrazionali.
Dove siamo arrivati con la follia dei numeri: siamo arrivati a costruire una classe di numeri che sembra li contenga tutti, visto che possiamo scrivere un numero qualsiasi di cifre prima della virgola e una successione qualsiasi di cifre dopo la virgola, anche una qualsiasi successione infinita, cosa vogliamo di più folle ancora? Non si sa mai, vedremo.

La lettura narrativa come resistenza

1

di Paolo Morelli

Solo gli algoritmi salveranno la letteratura italiana

Ecco un esempio di frase ragionevole. Se guardiamo all’attuale produzione narrativa nostrale infatti, non si può fare a meno di notare quanto sia ormai esclusivamente frutto di un mero calcolo minimale, inconsapevole o meno non è questo il punto. Dimenticata la possibilità di affidarsi allo stato di affezione che possiedono le parole, ignari della malia delle frasi e della complicità di ogni conversazione fantastica vi si privilegia un più o meno accurato dosaggio dei contenuti alla moda, vi si legge solo il dominio della Ragione Calcolante, la famosa, la quale poi smunta ma sempre più assertiva pretende dal lettore una razionalizzazione totale, con un grado tale di determinismo che non lascia nulla al caso.
Tutto può essere oggi solo pensato come un racconto da consumare, che sia più o meno engagé non è questo il punto, ma scritto con regole ben riconoscibili, non seguire le quali è considerato un errore grave che vale la squalifica. E il calcolo deve essere ben riconoscibile appunto, altrimenti dimostrerebbe che un altro modo è possibile. Lo slancio, la dedizione, la nevrosi, la pausa, l’eccesso, la follia, perfino un brandello di originale o cosiddetto pensiero laterale sono banditi ormai da tempo in quanto ritenuti impossibili o indicibili. Mai e poi mai un dispositivo basato sulla saggezza dell’incertezza, solo il meccanismo appena sufficiente a confermare proprio ciò che bisogna dire. Persino quello che una volta si diceva stile sembra non contare più. “Tutto è irrimediabilmente trascorso”, come scrive un vincitore di premi, siamo al tempo di Oramai. Scrivere è solo un gesto stanco, ripetuto, automatico, uno dei tanti, programmato si ma in sistema che si vuole chiuso, e rigido poi nel far finta di no, che non è per niente così.
Un gesto muto, già programmato per sordi. Perché è innanzitutto la voce immanente al testo ad esser stata messa al bando, sostituita dal mutismo della pagina scritta, in base all’assunto che niente rafforza più l’autorità quanto il silenzio, e se ne sia o no consapevoli non è questo il punto.
Ecco come mai ci vengono in aiuto gli algoritmi: loro, quel lavoro, lo fanno più in fretta e, tra breve, anche meglio. Se consideriamo nei due soggetti generici la persistenza effettiva del cosiddetto pensiero emotivo, il cretino veloce in questo caso vince sul cretino lento.
Purtroppo, una sola cosa gli algoritmi non riusciranno mai a fare: riprodurre la voce di cui può essere intessuto un racconto, cosa ormai rara o pressoché sparita dall’orizzonte letterario, perché in essa si riascolta ogni volta, oltre al passato, anche il futuro di tutti.
La voce in un testo letterario o più specificamente narrativo è l’esperienza vissuta attraverso il corpo. Per questo Dostoevskij ad esempio cominciava a delineare i personaggi a partire dalle loro voci. In quanto concomitante insieme al linguaggio e al corpo la voce è il tramite possibile, la giunzione fra coscienza e sensazione cui ogni volta tende la narrazione. E, come aveva già individuato ad esempio Valery, ”il Linguaggio scaturisce dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio”, mentre il Mondo Nuovo che si impone ha proprio come nemica giurata l’esperienza diretta, di prima mano, oltre alla fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura.
Siccome però fortuna vuole che le voci che ci vengono dal passato restano tuttora abbondanti, intrise e indelebili sulle pagine, c’è un archivio sonoro ancora a nostra disposizione e nulla vieta agli amanti delle cause perse di pensare alla lettura narrativa come un atto di resistenza, per riscoprire il piacere della lettura a voce alta così come dell’ascolto, per reinserire la narrazione nella nostra vita come pratica di socialità quotidiana. In un contesto in cui la socialità è concepita come remoto concetto della solitudine, riallacciarsi alla tradizione della dimensione narrativa delle parole e per ciò stesso curativa. Come sentire un testo. Mettersi a disposizione di una tonalità. Respirazione, intonazione, sprezzatura. Certo però del tutto laicamente, all’insegna dell’Orwell di 1984 quando dice che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo. Questo è tutto”.
Insomma per quello che vale.

 

L’arte della viva voce

Quindi un approccio intensivo alla lettura ad alta voce e, cosa altrettanto importante, all’ascolto di un testo letterario, più specificamente una prosa o una narrazione.
Come sappiamo della parola narrazione da qualche anno si sono impadroniti i politici, al solito per i loro interessi, a significare più che altro come riescono a riempire i canali di informazione con la versione dei fatti che gli fa più comodo. Noi invece ci riallacciamo alla tradizione della parola con le sue ampie sonorità, con tutte le sue ricchezze e le ambiguità, e della frase, alla sua malia, considerando prima di tutto la narrazione come un atto di socialità e normalità.
Già raccontare infatti è una cura, forse una delle poche possibilità che ci restano per far riacquistare alle nostre vite un certo qual senso di confidenza e normalità. Perché cosa possiamo chiamare normalità se non il tessuto quotidiano di racconti che ci facciamo, le piccole narrazioni che riempiono i nostri incontri, le circolazioni anche di ovvietà, quello che il filosofo Günther Anders diceva “un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa”? Alcuni, come il critico americano Richard Brooks hanno più volte ribadito la centralità della narrazione nello strutturare ogni esperienza umana: “Le nostre vite sono strettamente intrecciate alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate”. Altri ancora si spingono fino al punto di dire che non siamo che le storie che abbiamo incontrato nelle nostre vite. A guardare bene, altro non possiamo chiamare normalità se non il nostro modo di raccontarci un certo corso di eventi, perché è attraverso i racconti, anche i più semplici, che organizziamo la nostra esperienza nel mondo. Se poi si tratta di un racconto letterario questo fare mondo, come si diceva una volta, vale a dire il provare a organizzare modelli di esperienza può assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale che è la letteratura, altrimenti vige la paura.
In un contesto in cui la socialità è concepita esclusivamente come somma di condizioni isolate (ed è un risultato poi che non viene mai), uno dei presupposti di tale isolamento è la presunzione. Il pensiero che ci viene imposto è tutto improntato sul fatto che c’è un passato, un prima ignorante e balbettante e un oggi che ne è il riscatto. Questo succede anche per ciò che riguarda la considerazione che si aveva dei libri nel passato, quando molti erano gli analfabeti e pochi i libri, rispetto all’oggi in cui l’analfabetismo è di ritorno o addirittura funzionale. Qualcuno vi potrà raccontare invece che i libri un tempo, almeno fino alla metà del secolo scorso erano trattati con ogni sorta di rispetto e timore reverenziale. I pastori ad esempio ci vengono tramandati come l’epitome, il massimo dell’ignoranza di quei remoti tempi, ed invece può capitare di scoprire che, in tutto il mondo, essi avevano a volte ricche biblioteche e soprattutto avevano un orecchio letterario finissimo. Cosa crediamo facessero la sera attorno al fuoco, durante le transumanze ad esempio, se non che chi sapeva leggeva a tutti gli altri, narrazioni prima di tutto in versi ma non solo? Vi sono squisite narrazioni in versi da leggere a voce alta, l’Ariosto lo si potrebbe mettere tra le sostanze psicotrope, per gli effetti, benefici, di destabilizzazione fantastica che provoca nella mente di chi lo legge. E, d’altra parte, se ci facciamo caso i libri una volta avevano una serie di accorgimenti, piccoli espedienti per invitare il lettore, metterlo a suo agio, come ci si tiene a mettere a suo agio un ospite.
È comunque la dimensione narrativa della parola ad animare un rapporto fantastico con il mondo, a catalizzare capacità percettive e riflessive esiliate.
Tutta la logica di un testo si trova nella voce che contiene, se la contiene, se ne ha una, tanto che anche i traduttori di recente hanno imparato a leggere ad alta voce il testo che devono tradurre. Facciamoci caso, i libri che non si possono leggere ad alta voce sono anche quelli in cui non si vede immediatamente quello che vi si descrive, bisogna rileggerlo e comunque a volte è inutile. La voce in una narrazione è quel congegno infallibile che ogni volta ci riporta al remoto, al condiviso, come se si trattasse dell’incontro con una mente molto simile. Se la poesia esiste da sempre nell’esigenza della mente di ricrearsi condizioni originarie per non perdere i propri strumenti cognitivi, la narrazione ha la sua funzione primaria come luogo di convergenza e condivisione, una specie di intimità allargata in cui si riconosce la propria voce in un’altra percependo il suo tono, e con sé porta l’esigenza della socialità.
“Leggere è ascoltare altri sé”, diceva Nietzsche, oppure “Leggere è soprattutto disposizione all’ascolto” sosteneva R.L. Stevenson. Ma soprattutto la voce viene a rammentarci come la narrazione sia un fatto culturale nel senso più ampio della parola, non un semplice orpello ma una necessità umana primaria come sostengono gli scienziati e quindi auspicabilmente di uso quotidiano come potrebbe essere l’amicizia, o il vino per la convivialità.
Quello che dobbiamo fare per leggere a voce alta una storia è passare da una lettura introspettiva e intellettiva, dal silenzio a volte ignavo della pagina scritta a un esercizio fisico, corporeo, fatto essenzialmente di vocalità, vale a dire espressione fisica della voce e di postura. Intonarsi sulle parole, non solo decifrarne i significati, sulla linea di quella che viene o meglio veniva chiamata prosodia, cioè l’insieme dei caratteri fonici – dinamici, melodici, quantitativi: accenti, tono, ritmo sul flusso sonoro del testo, perché le sonorità emotive sono il perno della narrazione, e non tanto lo sviluppo logico-semantico. E poi la voce, la traccia orale di un testo non è soltanto la parte corporea del linguaggio ma implica altresì  l’affettività, è nell’udito che sta racchiuso tutto il senso sociale di una storia. Proprio così l’oralità diventa esperienza vissuta, quella parte di vita che le pagine portano con sé.
Già nessun enunciato umano può darsi interamente senza emozione: i modi, i gesti, gli atteggiamenti sono patrimonio del discorso: questa la fonte primaria anche della narrazione scritta, dei libri che devono contenere una voce.
Nasce così una specie di slancio che viene a lasciarsi trasportare dalle parole, a sentire le parole che ci vengono dentro, diciamo così e risuonano sempre più familiari all’orecchio di ognuno.
In questa maniera è possibile fare della lettura narrativa non solo un atto di evocazione vero e proprio nei riguardi di un testo e del suo autore, ma una sorta di esercizio spirituale se non è parola brutta: una prova di socialità, amicizia, addirittura fraternità si potrebbe dire, se non è parola brutta anche questa.
Non stiamo qui cercando una concentrazione onerosa o un’attenzione forzosa, non nella lettura né tantomeno nell’ascolto. E neppure la bravura, quasi il contrario, ma di perdersi nel testo, di farsi guidare dalle tonalità, di affidarsi allo stato di affezione delle parole (ed è sempre nella prima frase di un testo che riconosciamo il suo tono). Non dobbiamo fare insomma come certi attori quando leggono una storia e si sente subito che non è in funzione delle parole che leggono, oppure che le recitano perché esse valgono assai per darsi dell’importanza. Si mettono in posa, si ascoltano mentre leggono (cosa dolorosa per chi legge e fastidiosa per chi ascolta), mentre qui intendiamo tentare un non-ascolto di sé, di fare soltanto da tramite al testo, che ogni volta si reinventa con la voce di ognuno, con le sue particolarità e complessità di tessitura.

Quindi immaginiamoci se fra i gesti quotidiani di condivisione ci inserissimo un: Ti leggo due pagine di questo libro che mi hanno commosso, o m’hanno fatto sganasciare… Facendogliele anche sentire bene. Significa riappropriarsi di un piacere sovrano, così come si chiama conversazione sovrana quando non tentiamo di imporre noi stessi, le nostre idee o la nostra visione ma invece cerchiamo risposte assieme all’interlocutore.
In conclusione, per ottenere il risultato non abbiamo bisogno di qualità particolari, tipo una cosiddetta bella voce, o una dizione perfetta, tanto meno di una voce impostata come quella di molti attori:
1) basta rinforzarsi con l’esercizio (oltretutto man mano si scoprirà che leggere per se stessi a voce alta è un cerimoniale assai piacevole, curativo, nutritivo oserei perfino dire), finché l’abitudine non diventi natura ma senza aver alcun obiettivo se non l’amore per le pagine che si leggono e il piacere di condividerle. Allora si situerà fra le tante cose importanti ma piacevoli, quelle che, come si dice ancora, rendono la vita degna di essere vissuta.
2) abbandonarsi, fidarsi di quelle pagine e di quell’amore, senza paura alcuna di sbagliare. Quindi ancora, il modo di estendere la pratica, per essere sicuri di comunicare sarà quello di esporsi così come si è, senza cercare di essere qualcun altro.

Collana Adamàs, La vita felice editore

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[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo iniziato con Le Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it. a. i.]

La Collana Adamàs, La vita felice editore, è diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. Nel 2023 sono stati pubblicati i libri di Heiner Muller (settembre), Vito Bonito (maggio), Florinda Fusco (maggio), Franco Ferrara (dicembre), di cui presentiamo degli estratti. Nel 2024, sono usciti in febbraio Cinema di sortilegi di Tommaso Ottonieri e 06.010 di Sara Davidovics.

Risposte di Vincenzo Frungillo

Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?

La collana Adamàs, diretta da Ivan Schiavone, Tommaso Di Dio, oltre che da me, nasce ufficialmente nel 2023 con i primi tre volumi pubblicati (Vito Bonito, Florinda Fusco e Heiner Müller), ma in realtà l’idea di un nuovo spazio per la poesia contemporanea era nei nostri pensieri già da un po’ di tempo. Dopo la scomparsa dell’editore Francesco Forte e la chiusura della casa editrice Oèdipus, era finita anche la meritoria collana Croma K, diretta da Invan Schiavone, quindi ci siamo ripromessi di continuare il lavoro di Ivan con un’altra casa editrice per non disperdere i progetti già in cantiere ed aggiungervi idee e proposte mie e di Tommaso. La vita felice e l’editore Gerardo Mastrullo ci hanno dato quest’occasione e l’abbiamo accolta con entusiasmo.

 

Che regime di produzione avete? Vi soddisfa quello che riuscite a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?

Il regime di produzione è piuttosto intenso, in verità. Ci siamo ripromessi di pubblicare nove volumi all’anno con tre titoli in febbraio, tre in maggio e tre in novembre. Direi che siamo soddisfatti anche se la cura dei libri ci impegna abbastanza.

 

Come scegliete i libri che volete pubblicare? Quali sono i criteri che vi guidano? Siete interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?

Nella terna di libri pubblicati abbiamo deciso di inserire un/una autore/autrice straniero/a, magari inedito/a in Italia, anche se abbiamo aperto con la ristampa di Heiner Müller, Non scriverai più a mano, tradotto da Anna Maria Carpi, già edito da Scheiwiller, ma non più disponibile; un/a autore/autrice italiano/a del recente passato che reputiamo importante per le nuove generazioni, ma che non ha ancora lo spazio editoriale che meriterebbe, ad esempio, insieme ad Argo edizioni si è avviato un progetto di ripubblicazione delle opere di Franco Ferrara; e infine un/a autore/autrice italiano/a che reputiamo importante per l’attuale panorama poetico nazionale: finora abbiamo pubblicato Vito Bonito, Florinda Fusco, Tommaso Ottonieri, Sara Davidovics. Il fatto che noi tre curatori siamo anche tre autori piuttosto diversi l’uno dall’altro per poetica, oltre che formatici in tre aree geografiche piuttosto diverse (Napoli, Roma, Milano), ci aiuta ad avere una visione piuttosto ampia dell’attuale panorama. Aiuta inoltre la possibilità che ognuno di noi ha di essere a contatto con contesti poetici internazionali: prossime uscite straniere previste provengono da aree linguistiche differenti (portoghese, tedesco, macedone, americano). Non abbiamo una linea o una corrente privilegiata, come dicevo, veniamo da ambiti differenti e cerchiamo di prendere il meglio di ciò ci sta intorno o che ci viene proposto. Abbiamo però stilato un piccolo testo programmatico in cui abbiamo cercato di dire qualcosa sulle nostre intenzioni. Ne riporta una parte qui di seguito:

“La parola [Adamàs] appare in una celebre poesia di Guido Guinizzelli («Com’adamàs del ferro in la minera») e porta con sé l’idea – che facciamo nostra – di una scrittura che non ponga l’alternativa oziosa fra pensiero e poesia, fra conoscenza, filosofia e arti del linguaggio e della scrittura, ma tenti di portare le prime e le seconde ad un punto di fusione che le renda coese e indistinguibili. E insieme duplice e una sola è la stessa parola “adamàs”: possiamo sì tradurla con “diamante”, ma anche con quella di “calamita”, perché si attribuiva a questo minerale il potere sia di risplendere e farsi trasparente e così rilanciare la luce che lo penetrava, sia quello di attrarre a sé per una forza invisibile e stupefacente il metallo ferroso, opaco, denso e pesante. Così pensiamo debba essere la poesia: da un lato deve portare il ricordo degli strati più sepolti di noi e saper trarre alla superficie il rimosso geologico del nostro vivere sul pianeta terra, dall’altro sapere raccogliere intorno alla propria luce una densità metallica e metamorfica di significati e di atmosfere, di visioni e cosmologie che possano sfuggire all’ipocrita semplicità della più trita comunicazione a cui il l’epoca dello spettacolo ci ha condannato e che sempre più sembra pervasiva, anche nelle scritture che si dicono letterarie”.

Non esiste quindi una corrente poetica di appartenenza ma l’attenzione ad autori e autrici autentici e autentiche che sappiano traferire in un libro di poesia quanto auspicato nel nostro manifesto.

*

Heiner Müller
Da Non scriverai più a mano, 2023

Pellicola nera
Il visibile
Si può fotografare
O PARADISO
DELLA CECITA’
Ciò che ancora si ascolta
È conservato 
TAPPATI GLI ORECCHI FIGLIO
I sentimenti
Sono di ieri Pensato
Non viene nulla di nuovo Il mondo
Si sottrae alla descrizione
Tutto l’umano
Diventa estraneo 
                            
                                     1993
*



Vito M. Bonito
Da Acrobeati, 2023



I


è come sui papaveri esausti
le zanzare
un deliquìo di morte
un iperìo senza più porte

una festa di sangui
di cirrose protervie
banalmente impervie

come a volte
quando scendi da le stelle
o mi del cielo
nel sì del mio sfacelo

tra li papavera belle

	oh! perché perché
	allor ti lingui?

oh! perché?
		ti esangui?

[…]

che? non ti piageva
la smisurata tua doglianza?
la buia lontananza?
la bua senza speranza?
il fior che fragile morì
tra gli usignuoli già in ardore?

non è abbastanza
questo papaverico tremore?

cos’è che non sai?
o è perché te ne vai e vai
e vai alfin laggiù
tra i rrasoi
che rrose non furono mai

luce morte dondolio
oh sine fine addio

beate rrime addio beate
mai state mai neppure nate

voi
spente lampadine
io fervente
senza mutandine


II


ergo la vita è un vuoto esergo
non scritto
		io porto il cimiero in segno di castità
		li nervi bianchissimi dei denti

io mi dentificavo ogni mese
poi mi cariavo
il cimiero non me lo sono tolto
nemmeno da morto

abbiamo tutti paura come i fioretti nel notturno
gelo solo che noi in noi chiudiamo lo sfacelo
ci fanno male gli arti le pupille l’infinita
solitudine prostatica

siamo solo un dolore impertinente
un reuma un’unghia che non cade tra le rrose
						o dove o niente


*


Florinda Fusco
Da Materia osservabile, 2023

1.
Leggera fluttuazione sulla gonna. La maglia fuxia. La chewing gum si gonfia tra le labbra. Piccola 
croce tatuata sulla spalla. Guarda in alto adesso. Verso nord-est. Sembrerebbe un nulla. Ma: una
leggera fluttuazione ha generato un’espansione che ha prodotto materia e ordine: galassie, stelle, 
pianeti.

2.

Ecco la lista delle cose presenti: 
diario, borsetta, cappello a falda ampia, smalto, pillole
Errato: sono cose del passato, di un miliardesimo di secondo fa, il tempo che la luce emessa 
dalle cose impiega a raggiungere gli occhi
Ecco la lista delle cose presenti: 
la luce

*

Franco Ferrara

Da Lettere a Natasha, 2024

 

[…]

il silenzio

ma l’audacia che pongo con questa parola

è (anche) annientamento dalla devastazione

del tempo.

 

(Perché non parli?

dovrebbe allora disorientarmi la solare incautela

cui affido la mia tendenza di essere?)

 

(Ricordi? lo abbiamo detto:

«la gioia è infinitamente ricca, dà, getta via;

la gioia è più assetata, più vigorosa,

più affamata, più terribile, più estrema

                                        di ogni dolore…

implora perché qualcuno prenda; vorrebbe

                                                  essere odiata

tanto è ricca la gioia

                    che è assetata anche di dolore!»)

Per questo, vedi?

sento di trarre nutrimento

anche da questa eccezione al silenzio

che ti offro come una focaccia

di datteri e d’orzo;

(e anche per questo

sento che non posso esimermi dal porre la mano

nella stimma di questa luce).

 

Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono

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di Valeria Nicoletti

Spira il vento in queste pagine, quello che trasforma, che allontana, ma anche quello che riporta con sé profumi, suoni e memorie di quanto ci si lascia alle spalle. Sono storie “sciroccate”, quindi, in tutti i sensi, quelle che compongono la pregevole raccolta edita da Tamu, dove si radunano dieci penne, una diversissima dall’altra, che tuttavia condividono quel sentirsi scisse, a metà, un po’ tradite e un po’ traditrici della terra che le ha generate.

Nata dal laboratorio di scrittura curato da Ubah Cristina Ali Farah e Claudia Durastanti, che ne firmano anche la prefazione, questa antologia raccoglie storie di separazioni, di migrazioni, interne o internazionali, dove la differenza tra le due è dura da decifrare, narrate da una prospettiva contemporanea e inedita, grazie anche all’età degli autori, tutti tra i venti e i trent’anni, tutti a loro modo sperimentatori di nuove tendenze, forme ma anche contenuti della letteratura attuale. Storie sgualcite da lunghi viaggi e segnate da strappi, da tagli con quel cordone ombelicale che è spesso rappresentato dalla figura della madre, o ancor più, in molti casi, della nonna, dove riaffiora una malcelata ambiguità verso quel sentimento di appartenenza, a tratti ricercato, quasi sempre fuggito.

Memorie che, per scriverle, necessitano il ricorso a una lingua sepolta, abbandonata, a rinominare cose di cui, nel tempo, sembra essere sfuggito il nome. Riemerge allora un idioma sparito, a tratti anche anarchico, con parole materiche, corporee, intime, sgrammaticate sì ma subito riconoscibili nel loro senso più autentico. Ed ecco che, sullo sfondo di paesi appoggiati alla terra “come un neonato sul corpo della madre”, si consumano tragedie che feriscono a morte, nel senso in cui La Capria si faceva mortalmente colpire da quell’indolenza tutta meridionale, perché la terra, quella che si abbandona, è sempre al Sud, che sia quello italiano o quello di altre aree del mondo. Si ritorna e si riallena il corpo a misurarsi con raffiche di vento, cariche d’umidità e temperature dimenticate, ma anche ad affrontare chi, dal paese, se n’è andato pur essendovi rimasto. Un dolorosissimo ritorno al passato, oppure un curioso e originale immaginare un futuro in cui la “grande migrazione al Nord” si sia finalmente compiuta e il mezzogiorno, dopo essere stato discarica e terra dei fuochi, sia stato tramutato in un labirinto di radici, cunicoli sotterranei e rizomi, popolato solo da pochissimi sopravvissuti.

La scrittura diventa allora strumento per cimentarsi e trovare il coraggio di sfidare narrazioni stereotipate su uno strettissimo Sud da cartolina, rigettare finalmente quello scorfano di morantiana memoria, ma anche un modo per ritrovarsi, per rimettersi insieme, per accettare finalmente il fatto di essere tramontana e scirocco insieme, di sbraitare “contro la mia terra perché non mi riguarda più” ma anche di parlarle “sottovoce perché è l’unico posto a cui assomiglio e l’unico a cui so assomigliare”. Sono storie, queste, di chiusura del cerchio, ma anche, come dice Claudia Durastanti, di “schiusura”, dove il guscio finalmente si rompe.

Storie che “terminano esattamente quando devono iniziare”, come scrive una delle autrici, per lasciare al respiro altro tempo e altro spazio e continuare la ricerca. Per fare, di questa antologia, una compassionevole ed eterogenea “opera aperta” che il lettore, anch’egli, come tutti, sicuramente segnato dalle sue migrazioni, potrà completare.

AA.VV., Sciroccate, Tamu edizioni, 2023, 212 pagine, 16 euro.

Premio Tirinnanzi 2024

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Il Comune di Legnano e la Famiglia Legnanese, per ricordare il poeta Giuseppe Tirinnanzi (Firenze 1887 – Legnano 1976), indicono la quarantaduesima edizione del Premio di Poesia Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi.

Il premio si divide in tre sezioni:

a) Lingua italiana

b) Legnano città 1924-2024

c) Premio alla carriera

La partecipazione è libera e gratuita.

a) Sezione Lingua Italiana. Solo per libri editi nell’ultimo biennio.

Si partecipa inviando quattro copie di un libro di poesia stampato tra il 1° gennaio 2022 e il 30 aprile 2024. I 4 volumi, corredati da breve biobibliografia, dati anagrafici e recapito dell’autore/autrice, nonché dalla dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2024”, vanno inviati entro il 30 aprile 2024 (fa fede il timbro postale) al seguente indirizzo:

Segreteria Premio Tirinnanzi c/o Fam. Legnanese, C.P. 71 – 20025 Legnano Centro (Milano).

La Giuria Tecnica, composta da Franco Buffoni (Presidente), Uberto Motta, Fabio Pusterla e assistita dal Presidente della Famiglia Legnanese o da un suo delegato, dal Sindaco di Legnano o da un suo delegato, da un membro della Famiglia Tirinnanzi e dal Segretario Luigi Crespi (premio.tirinnanzi@gmail.com), sceglie tre libri i cui autori/autrici saranno invitati alla cerimonia di premiazione che si terrà a Legnano sabato 23 novembre 2024 h 16.45 presso il Teatro Tirinnanzi, piazza IV Novembre 4, Legnano (Mi). Ciascuno/a dei tre finalisti riceverà un premio in denaro di euro 1.500. Non sono ammesse deleghe. In caso di forzata assenza il/la finalista rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro. Alcuni testi di ciascun/a finalista saranno stampati nel programma di sala. Nel corso della cerimonia ciascuno/a dei/le tre finalisti/e sarà intervistato dal Presidente della Giuria e verrà invitato/a a leggere le poesie stampate nel programma di sala. Al termine, la Giuria Popolare esprimerà su apposita cartolina il proprio voto decretando il/la vincitore/vincitrice, che riceverà un ulteriore premio di euro 2.500.

Tra i libri pervenuti per la Sezione Lingua Italiana la Giuria premierà anche con euro 1.000 un’opera prima o comunque l’opera di un/una giovane poeta.

 

b) Sezione Legnano Città 1924-2024. Si partecipa inviando un solo testo di max 6mila battute spazi inclusi, in prosa o in poesia, edito o inedito, in italiano o in un dialetto di ceppo lombardo, in quattro copie, corredato da breve biografia, dati anagrafici e recapiti dell’autore, nonché dalla dicitura “Partecipa al Premio Tirinnanzi 2024”, entro il 30 aprile 2024 (fa fede il timbro postale) all’indirizzo sopraindicato. L’argomento è “Legnano Città” e può toccare tutti i possibili aspetti della storia di Legnano: storici, culturali, artistici, industriali, commerciali, naturalistici, ecologici ecc.

Tutti/e i/le partecipanti riceveranno un attestato commemorativo del Centenario della Città.

La Giuria sceglierà un/una vincitore/trice che sarà premiato/a alla cerimonia di premiazione presso il Teatro Tirinnanzi, piazza IV Novembre 4, Legnano sabato 23 novembre 2024 h 16.45, e riceverà un assegno di euro 2.000. Non sono ammesse deleghe. In caso di forzata assenza il vincitore/la vincitrice rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro.

Seguirà una festa del dialetto milanese con il poeta e performer Davide Ferrari che reciterà testi della grande tradizione da Carlo Porta a Delio Tessa a Franco Loi.

c) Premio alla Carriera della Fondazione Tirinnanzi. Già assegnato nel 2010 a Luciano Erba, nel 2011 a Franco Loi, nel 2012 a Giampiero Neri, nel 2013 a Giorgio Orelli, nel 2014 a Vivian Lamarque, nel 2015 a Milo De Angelis, nel 2016 a Valerio Magrelli, nel 2017 a Maurizio Cucchi, nel 2018 a Biancamaria Frabotta, nel 2019 ad Antonella Anedda, nel 2020 a Giuseppe Conte, nel 2021 a Umberto Fiori, nel 2022 a Dacia Maraini, nel 2023 a Eugenio Finardi, il Premio alla Carriera di euro 4.000 verrà assegnato a un/una autore/autrice di chiara fama che si sia particolarmente distinto/a nella propria ricerca linguistica, tematica e nell’impegno civile. In caso di forzata assenza il/la vincitore/vincitrice rimarrà tale, ma non riceverà alcun premio in denaro.

Ai sensi del Regolamento UE 679/2016 e del D.Lgs. 196/2003 e s.m.i., i/le concorrenti autorizzano la Segreteria al trattamento dei propri dati personali forniti per la partecipazione al Premio, per tutte le finalità connesse alla gestione dello stesso. Con la partecipazione i/le concorrenti danno atto di aver letto l’informativa di cui all’art. 13 del citato Regolamento UE, pubblicata sul sito Internet www.premiotirinnanzi.it.

La partecipazione costituisce implicita accettazione delle norme del bando. Per quanto non previsto valgono le delibere della Giuria, il cui giudizio è insindacabile.

“Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città

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di Daniele Ruini

Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità
hanno due facce diverse o contrarie, anzi infinite
(G. Leopardi)

Ad un certo punto, lungo la statale che collega Montepicozzo Marittima a Boschetto (frazione di Vallombrina), si può scorgere una biforcazione: due stradine subito nascoste da una vegetazione lasciata crescere nella più totale incuria, dove «la mano casuale della natura ha disegnato, nel corso degli anni, una fitta rete d’intrecci ascendenti tale da non permettere, neanche a un minimo bagliore del cielo, di filtrarci attraverso». Non che la prima stradina, che si conclude in una piazzola scenario di incontri notturni, non offra materiale da romanzo; ma il narratore ci avvisa che non è in quella direzione che gli interessa procedere: sarà invece lungo la seconda strada che accompagnerà il lettore, alla scoperta di una «modesta abitazione» in cui risiede il protagonista eponimo della sua storia.

Non sembri ozioso aver voluto dare rilevanza a tali dettagli; il fatto è che è proprio nella pagina iniziale che si manifestano alcuni dei tratti caratteristici dell’ultimo romanzo di Massimiliano Città, “Agatino il guaritore” (Il ramo e la foglia edizioni). L’opera si nutre infatti di un potenziale narrativo per così dire sempre aperto a nuove possibili aggiunte, in un intreccio di sviluppi e biforcazioni potenzialmente infinito. Quello di Città è un romanzo corale, in cui intorno al protagonista ­– un presunto santone su cui girano tante voci e che da anni presta i suoi servizi ai bisognosi della zona– ruotano i destini di vari personaggi che ad un certo punto si incrociano con il suo.

E nel raccontare tutto questo l’autore sembra porsi nella stessa prospettiva della chiacchiera paesana: quelle tramandate nella vallata erano infatti storie «intrecciate», tali per cui «iniziavi a parlare di qualcuno e finivi distante una decina di chilometri a parlare delle sventure di altri, da anni lontani dagli occhi».

Facendo continuamente avanti e indietro nel tempo, il narratore ci presenta una compagine di vicende che, sullo sfondo di una provincia siciliana tagliata fuori dalla modernità, descrivono esistenze sofferte: una donna, un tempo indipendente e ambita, costretta a cedere la nipote; un ludopatico pieno di debiti; una figlia che non può più sopportare le sofferenze del padre malato terminale; un giovane calciatore che si vende le partite e che, diventato avvocato e piccolo imprenditore, desidera intraprendere una carriera politica; due genitori disperati per la cecità del loro neonato; un ragazzo, senz’arte né parte, che desidera fare il giornalista. Sono miserie di varia natura rispetto alle quali Agatino agisce come una calamita: la sua specialità è proprio quella di districarsi «in quel crogiolo di voci, facce, nomi ed esperienze» dei suoi questuanti e di vendere loro una soluzione o anche solo un barlume di speranza.

L’aura di mistero intorno ad Agatino dipende anche dal vuoto di notizie sul suo passato: nessuno sa di dove sia originario, e assai poco si conosce della sua vita precedente. Il poco che emerge dalla sua infanzia, passata in balia di una madre prepotente che non lo ho mai desiderato e che lo ha presto allontanato da sé, basta però a farci comprendere come alla base della sua remunerativa attività, in cui convivono conforto e raggiro, vi sia proprio quell’abbandono sofferto da piccolo. In questo senso la citazione da Niels Bohr posta dall’autore in esergo al suo libro, in cui si dichiara che la coesistenza degli opposti è la cifra delle verità più profonde, rimanda all’ambiguità che circonda le imprese di Agatino. Non sorprende allora che a (s)travolgere il protagonista del romanzo sarà proprio l’occasione miracolosa in cui si rivelerà capace –con suo sorpreso sconcerto– di donare a qualcuno la gioia più grande della sua carriera.

Dimostrando un’ammirevole padronanza narrativa e stilistica, Massimiliano Città ci guida con la sua scrittura raffinata in un labirinto fatto di tante storie e molteplici personaggi (molti dei quali portano, come il protagonista, un diminutivo nel nome). “Agatino il guaritore” è l’esito felice di un narratore ispirato che descrive parabole umane disperate – parabole che conducono a un venditore di speranza il cui business si basa su un postulato difficile da contestare: «Pensiamo d’esserci evoluti per il fatto di conoscere causa ed effetto dei fulmini e dei tuoni che dall’orizzonte s’avvicinano alle nostre case, ma una paura ancestrale c’è rimasta dentro le ossa».

 

Discorso di Capo Orso Scalciante

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a cura di Silvano Panella

Introduzione

Versione di Silvano Panella del discorso che
Capo Orso Scalciante pronunciò nel 1890. Orso
Scalciante (1845-1904) fu un grande capo dei nativi
americani Miniconjou (Lakota Sioux). Il suo nome in
lingua lakota è Matho Wanahtaka.

Il discorso

Fratelli, vi prometto che un giorno nessun uomo
bianco poserà più la mano sui nostri cavalli. Vi
prometto che un giorno l’uomo rosso della prateria
dominerà di nuovo il suo mondo e nessuno lo
allontanerà più dai terreni di caccia. I fantasmi dei
vostri padri mi hanno detto che desiderano unirsi a voi
guidati dal messia che già venne una volta per vivere
su questa terra ma fu ucciso dagli uomini bianchi. Io
ho visto le meraviglie della terra degli spiriti. Ho
parlato con loro. Ho viaggiato a lungo. Ora sono
tornato per avvertirvi che presto ci ricongiungeremo
con i fantasmi dei nostri padri e con il messia.
Sedici lune fa uscii fuori dal mio tipì nella riserva
Cheyenne e mi preparai per il viaggio perché avevo
avuto una visione. Accadde subito dopo la semina del
grano. La voce nella visione mi aveva ordinato di
incontrare i fantasmi perché essi desideravano tornare.
Viaggiai sul treno dei bianchi fino al punto in cui la
ferrovia si interrompe. Qui incontrai due uomini rossi
che non conoscevo ma che mi salutarono come un
fratello. Mi offrirono carne e pane. Avevano tre
cavalli, uno era per me. Cavalcammo per quattro
giorni senza mai parlare, sapevo già che quegli uomini
sarebbero stati i testimoni della mia esperienza. Due
soli erano già tramontati, avevamo superato gli ultimi
segni della civiltà bianca quando incontrammo un
uomo nero d’aspetto fiero, vestito di pelli. Viveva da
solo e le sue medicine avevano un grande potere.
Agitava le mani e comparivano sacche di soldi,
agitava le mani e comparivano carri colorati, agitava le
mani e comparivano mandrie di bisonti. L’uomo nero
ci disse che era nostro amico, potevamo restare con lui
e prendere quel che volevamo, denaro, carri, bisonti.
Non restammo e proseguimmo per altri due giorni.
La sera del quarto giorno, sfiniti dal viaggio,
cercammo un luogo dove accamparci. Incontrammo
un uomo vestito come un indiano ma con i capelli
biondi. Aveva un volto piacevole e le sue parole mi
rallegravano e non pensavo più alla fame, non pensavo
più alla stanchezza. Egli disse che il nostro lungo
viaggio ci aveva condotti a lui e ora dovevamo lasciare
i cavalli e seguirlo a piedi. Così facemmo. Mentre
camminavo provavo un gran senso di serenità. A un
certo punto il sentiero in salita nella foschia divenne
proprio un sentiero di nuvole che ci portò in cielo.
Fratelli, la mia lingua è dritta e non riesce a rivelare
tutto quello che vidi, non sono più un oratore ma un
messaggero degli spiriti. L’uomo che seguimmo ci
portò al cospetto del Grande Spirito e di sua moglie.
Erano vestiti da indiani. Ci prostrammo e da una
apertura del cielo vedemmo tutte le terre e tutti gli
accampamenti dei nostri antenati. C’erano i tipì e
c’erano i fantasmi dei nostri padri, c’erano grandi
mandrie di bisonti e tutti erano felici perché l’uomo
bianco non era ancora arrivato. L’uomo che avevamo
seguito ci mostrò le sue mani ferite, i suoi piedi feriti,
erano i segni lasciati dagli uomini bianchi che lo
crocifissero. Ci disse che sarebbe tornato sulla terra
ancora una volta, ci disse che sarebbe rimasto a vivere
con noi, con gli indiani. Eravamo noi il popolo che
aveva scelto stavolta. Sedemmo davanti al tipì del
Grande Spirito, su pelli di animali a me sconosciuti. Ci
venne spiegato come recitare le preghiere ed eseguire
le danze. Vi mostrerò come si fa. Poi il Grande Spirito
parlò:

Porta questo messaggio ai miei figli rossi, ripetilo
parola per parola. Ho trascurato gli indiani per molte
lune, ora se mi obbediranno li renderò il mio popolo.
La terra sta invecchiando. La renderò nuova per voi,
per voi e per i fantasmi dei vostri padri, delle vostre
madri, dei vostri fratelli, dei vostri cugini, delle vostre
mogli. Lo farò per tutti quelli che accoglieranno le mie
parole. Coprirò la terra con nuova terra, coprirò i
bianchi malvagi e le cose malvagie, e tutto quel che
esiste di cattivo verrà sepolto. Sulle nuove terre ci
saranno prati, alberi, fiumi. Bisonti e cavalli
correranno liberi e gli uomini potranno bere, mangiare,
cacciare ed essere felici. Renderò invalicabili i mari
affinché le navi di chi intende conquistare le terre
altrui non potranno mai più passare. Mentre farò tutto
questo voi danzerete e pregherete, vi alzerete in cielo e
quando sarà tutto pronto tornerete sulla terra e sarete
assieme ai fantasmi dei vostri antenati. Chi dubiterà
del mio messaggio verrà lasciato in brutti luoghi dove
vagherà perdutamente finché non crederà e imparerà le
preghiere e le danze. Io sottrarrò agli uomini bianchi il
potere della polvere da sparo affinché quando
spareranno di nuovo su di voi le loro armi si
bruceranno. Soltanto chi crederà avrà armi che
funzionano, armi da usare sugli uomini malvagi. E se
pure un uomo rosso verrà ucciso mentre danza, il suo
spirito si unirà ai fantasmi dei suoi antenati e tornerà
sulla terra assieme a loro. Andate, ora. Dite a tutti di
prepararsi per la venuta dei fantasmi.

Ci venne offerto cibo dolce, squisito. Mentre
mangiavamo arrivò un uomo molto alto, molto magro,
con grandi denti, i capelli corti. Capimmo subito che
era uno spirito maligno. Questa creatura si rivolse al
Grande Spirito e disse: voglio metà degli abitanti della
terra. Il Grande Spirito rispose: no, non posso darteli,
li amo troppo. Lo spirito maligno ripeté la richiesta,
ma ottenne soltanto un altro rifiuto. Poi chiese una
terza volta. Il Grande Spirito disse che avrebbe potuto
lasciargli gli uomini bianchi. Noi no, oramai ci aveva
scelto come suo popolo. Lo spirito maligno scomparve
e io pensai che perfino lui non volesse avere niente a
che fare con gli uomini bianchi.

Ci furono mostrate le danze, ci furono insegnati i
canti. Poi fummo accompagnati giù. Ritrovammo i
nostri cavalli. Tornammo alla ferrovia. Il messia ci
seguì in cielo per insegnarci altri canti. Poi ci disse di
tornare dalla nostra gente, di riferire tutto quello che
avevamo visto, di insegnare quanto avevamo appreso.
Ci promise che sarebbe rimasto sulla terra per guidare
i fantasmi dei nostri padri fino a noi.

Questa versione si rifà alla trascrizione in lingua inglese che si trova nel volume di memorie My Friend the Indian (1910) dell’agente agli affari indiani James McLaughlin (1842-1923).

Foto di Eszter Miller da Pixabay

Bioeconomics (Georgescu Roegen) vs bioeconomy: i miti del riciclo completo della materia e dell’onnipotenza delle tecnologie

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di Alberto Berton

I passi che seguono sono tratti – per maggiori dettagli si veda la nota finale – da “La storia del biologico. Una grane avventura” di Alberto Berton, Jaca Book (NdR)

Nonostante alcuni deboli tentativi di fare della bioeconomics di Georgescu-Roegen la base teorica della bioeconomy[1], l’impostazione dell’economista rumeno resta fondata su una ‘visione del mondo’ che non ha nulla a che vedere con la bioeconomia com’è oggi comunemente intesa. Come si diceva all’inizio, un caso emblematico, quello della bioeconomia, in cui l’uso del suffisso bio genera grandi confusioni[2].
Per quanto riguarda l’agricoltura, ad esempio, la bioeconomics di Georgescu Roegen sviluppa delle analisi e conduce a valutazioni diametralmente opposte a quelle su cui si basa la bioeconomy. Vediamo in che senso.
Per prima cosa, in termini molto generali, per Georgescu-Roegen, nonostante l’importanza vitale di ogni forma di riciclo e di utilizzo di energia e materiale di origine rinnovabile, l’economia umana non riuscirà mai ad affrancarsi completamente dall’attività mineraria, anche solo per la nostra dipendenza dall’estrazione di minerali ad alto contenuto di metalli e di altri materiali utili, nonché per l’impossibilità del riciclo completo della materia. Matter matters too, anche la materia conta, amava scrivere Georgescu-Roegen per ricordare l’importanza del problema dell’esaurimento delle miniere di metalli e di rocce fosfatiche in un contesto dominato dall’problema dell’energia. In agricoltura questa dipendenza è divenuta sempre più evidente nel corso del tempo a causa della nostra evoluzione esosomatica che ci ha portato, ad esempio, dai primi falcetti in legno e selce alle gigantesche mietitrebbiatrici.
Proprio nella conferenza del 1972 alla Yale University a cui si faceva prima riferimento, Georgescu-Roegen affrontò il problema dell’analisi delle diverse forme di agricoltura da un punto di vista bioeconomico.  Secondo l’economista rumeno l’industrializzazione dell’agricoltura, basata sulla sostituzione del lavoro umano e di quello animale con i macchinari a motore termico, nonché con la sostituzione del letame e delle rotazioni con i fertilizzanti di sintesi e i pesticidi, ha effettivamente permesso un aumento significativo della produzione agricola mondiale, ma questo tipo di sviluppo agricolo, nel contempo, ha comportato la sostituzione di risorse rinnovabili di origine solare abbondanti con risorse non rinnovabili di origine terrestre, scarse ed esauribili.
Grazie all’agricoltura industriale, l’umanità è riuscita ad incrementare in modo rapido e considerevole la produzione di cibo su una data superficie agricola, ma questa intensificazione di un processo in ultima analisi fotosintetico, è stata raggiunta grazie ad un aumento più che proporzionale del consumo di risorse non rinnovabili, che sono quelle veramente critiche data appunto la loro scarsità, la loro non riproducibilità e la loro esauribilità.
Georgescu-Roegen, inoltre, considerando il fatto, accertato empiricamente, che tutti i fattori produttivi in agricoltura hanno rese fortemente decrescenti, ovvero che all’aumentare dei livelli di produzione l’incremento delle rese si ottiene solo grazie a un incremento sempre maggiore del consumo di risorse, giunge alla conclusione che l’agricoltura moderna, basata soprattutto  su fattori produttivi di origine terrestre piuttosto che su quelli di origine solare, è una energy squanderer, ovvero una sperperatrice di energia fossile. Per questa ragione, l’aumento delle produzioni agricole attraverso un’agricoltura sempre più meccanizzata e basata su un sempre maggiore uso di fertilizzanti e pesticidi di sintesi, rappresenta una strategia che in una prospettiva di lungo periodo va contro i più elementari interessi bioeconomici della specie umana.

La diseconomia dell’agricoltura industriale, orientata alla massima resa immediata, secondo Georgescu Roegen «è particolarmente pesante nel caso delle varietà a resa elevata che hanno fatto vincere al loro creatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel»[3]. Queste varietà sono capaci di produrre anche il doppio delle colture tradizionali, ma solo a condizione di un uso massiccio di fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, sistemi di irrigazioni e macchine agricole, ovvero di un uso intensivo di fattori produttivi non rinnovabili. Sementi di varietà ad alta resa, fertilizzanti di sintesi, pesticidi e diserbanti chimici, macchine agricole, pompe idrovore e combustibili rappresentarono difatti il ‘pacchetto’ che venne promosso a livello globale dalla Fondazione Rockfeller e dalla Fondazione Ford per dare avvio alla Rivoluzione verde.
Quando Georgescu-Roegen espose pubblicamente queste sue argomentazioni (1972), a Norman Borlaug, padre riconosciuto della Rivoluzione verde, era stato da poco (1970) attribuito il Premio Nobel per la Pace grazie al suo impegno nella lotta contro la fame attraverso la creazione delle varietà di ‘grano nano’. Per certi versi simili alle ‘varietà élite’ create dal nostro Nazareno Strampelli durante l’epoca fascista, questi grani molto bassi sono capaci di crescere senza ripiegarsi su sé stessi, o, come si dice correttamente, senza allettare, pur utilizzando massicce dosi di fertilizzanti azotati. È probabile che le critiche dell’economista rumeno al lavoro di Borlaug non siano state recepite con piacere all’interno della Fondazione Nobel che mai, come ho anticipato, attribuì l’importante onorificenza a Georgescu Roegen, nonostante i suoi fondamentali contributi alla scienza economica standard e nonostante la sua originale visione della bioeconomia.
Secondo Georgescu-Roegen, riassumendo, l’agricoltura moderna è una sperperatrice di risorse e «se la produzione di cibo tramite complessi agro-industriali divenisse la regola generale, molte specie connesse con l’agricoltura organica all’antica potrebbero gradualmente scomparire, una conseguenza che forse condurrebbe il genere umano in un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno»[4] E’ quindi presente nel pensiero dell’economista rumeno la stessa preoccupazione che troviamo in Nikolai Vavilov e Girolamo Azzi per l’erosione genetica causata dalla diffusione delle nuove varietà ad alta resa.

Come vuole farci capire Georgescu-Roegen, l’eccezionale capacità fotosintetica dell’agricoltura industriale è raggiunta grazie ad un consumo ancor più eccezionale di risorse non rinnovabili (gas, petrolio, suolo fertile), risorse che sono scarse (e quindi oggetto di studio dell’economia) non solo in quanto limitate (come la superficie di terra arabile), ma anche in quanto esauribili e non riproducibili (come lo sono i giacimenti di petrolio, gas naturale e in parte anche il suolo).
Dato che il genere umano per ‘nutrire il pianeta’, o, più correttamente, per nutrire sé stesso, ha bisogno oggi – come avrà bisogno domani – anche delle risorse che giacciono sotto la crosta terrestre, l’’economia nel tempo’ dell’uso di queste risorse non rinnovabili è il problema bioeconomico più importante. Tale problema, che rappresenta anche un problema di giustizia intergenerazionale, tende ad essere normalmente aggirato sulla base di quelli che Georgescu-Roegen definì ‘miti economici’, quali il mito delle infinite possibilità della tecnologia, il mito della possibilità della sostituzione infinita di una risorsa esauribile con un’altra o il mito del riciclaggio completo della materia. In questo senso, anche la bioeconomia così come viene attualmente intesa, ovvero la prospettiva di una economia interamente basata sul flusso di risorse rinnovabili, sulle infinite possibilità dell’ingegneria genetica e sul riciclo completo delle risorse di origine terrestre, quindi un’economia perfettamente sostenibile, in grado addirittura di crescere indefinitamente nel tempo attraverso – nella sostanza – l’incremento dell’intensificazione dell’attività fotosintetica e della velocità di riciclo della materia organica, ha tutte le caratteristiche del  mito economico.
Per Georgescu-Roegen, una volta smascherati i vari miti economici, e preso atto dell’ineluttabile carattere entropico del processo economico, la questione cruciale per quanto concerne l’agricoltura, non consiste solo nel determinare quanto cibo può produrre un certo sistema agro-alimentare ma anche per quanto tempo questo può mantenere certi livelli di produzione.

È evidente, come è stato sottolineato da più parti, che l’obiettivo dell’ulteriore intensificazione produttiva, in assenza di un reale cambiamento nei modelli di produzione, di trasformazione, di distribuzione e di consumo, non può rappresentare la strategia più corretta, ai fini di raggiungere l’obiettivo, questo sì condivisibile, di una maggiore sostenibilità presente e futura dei sistemi agro-alimentari.
A livello di campo, non si tratta tanto di scegliere tra un’agricoltura intensiva ed un’agricoltura estensiva; quest’ultima tra l’altro, in molte situazioni, risulta oggi impraticabile dati i livelli di popolazione raggiunti e la conseguente pressione sulle terre coltivate. La scelta non potrà che essere tra un modello agro-industriale più intensivo di risorse non rinnovabili (macchine sempre più potenti ed energivore, fertilizzanti, pesticidi e erbicidi di sintesi) e un modello agro-ecologico più intensivo di risorse rinnovabili (macchinari e sistemi a energia rinnovabile, lavoro umano e animale, sostanza organica), avendo ben chiaro che il primo modello avrà sempre nell’immediato maggiori rese del secondo, ma alla lunga – dando a questo termine un’estensione necessariamente indeterminata –si rivelerà meno sostenibile, producendo complessivamente di meno.

[1] Cfr. M. Bonaccorso, Inside the World Bioeconomy. The Bio-revolution has just begun, Il Bioeconomista Publisher, Milano, 2014., p.15 e B. Croce, S. Ciafani e L. Lazzeri, Bioeconomia. La chimica verde  e la rinascita di un’eccellenza italiana, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 22
2] A. Berton e G. Nebbia, Dialogo sulla bioeconomia op. cit.
[3] Ibidem
4] Ibidem

 

NdR: i passi che precedono sono tratti dal sottocapitolo “Biologico e bioeconomia” del volume “La storia del biologico. Una grane avventura” dell’economista e grande esperto dell’agricoltura biologica Alberto Berton, pubblicato da Jaca Book (2023), e con una prefazione dello storico Piero Bevilacqua. L’autore si interessa da tempo all’opera di Georgescu Roegen, sul quale ha svolto una tesi. Più in generale questa sua storia del movimento biologico rappresenta il quadro più completo e approfondito sull’argomento ad oggi esistente, anche considerando il campo internazionale. Nella sua stringatezza e relativa brevità è quindi un lavoro molto importante, che consiglio a chi voglia farsi un’idea al di là di tutti i luoghi comuni e le controverità che circolano su questi temi. Mi piacerebbe comunque tornarci sopra.

 

Carlo Ragliani: “La carne”

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 Intervista a Carlo Ragliani

a cura di Lucrezia Lombardo

 

L.L.:          È uscita a gennaio 2024, con l’editore Ladolfi, la raccolta “La carne”, un testo complesso, in cui il linguaggio pare oltrepassarsi di continuo, esprimendo – come in un dipinto – la fatica di corpi che combattono, sentono, cadono…
Questa restituzione del linguaggio poetico ad una dimensione materiale e incarnata è uno degli aspetti che più mi hanno colpito, leggendo il tuo testo.
Vorrei pertanto domandarti, com’è nato il titolo
“La carne”? Perché questa scelta visiva?

 

C.R.:          In un tempo come quello che ci tocca in sorte, in cui lo zeitgeist mostra il proprio strabismo nell’assolvere plenariamente e condannare senz’altro questa nostra materialità sia nel suo pudore che nel suo svelarsi, mi è sembrato sensato recuperare il senso carnale come destinazione della parola poetica. Moriremo tutti nella nostra cella.

Il titolo del testo mi si è mostrato alla luce dell’unica cosa che resti da fare: non più concedersi alla sterile contemplazione della parola in astratto, che mi sembra allontanare vita e viventi in una catarsi dalle volute tanto ampie da essere irrealizzabile; e nemmeno spendersi nell’ammirazione di un ambito più vago che si manifesta, per questo, incorporeo e deresponsabilizzante.

Nell’ora in cui di più l’umanità è separata dalla propria anima, il mio ploro è questo: si riscopra la profanazione. Si recuperi la sacertas che si fa nella parola come violazione della legge della bellezza, dell’eccelsa bellezza, e quella concretezza tremenda ed infesta che non può che materializzarsi nella tensione al basso, al ripugnante, all’immondo, all’indecente materia che sopporta e profetizza lo splendore mortale ed il suo cruccio.

Deinde la carne come centro di imputazione dell’oscenità, la carne come il corpo del reato, la carne come dimensione fisica in cui si agglutina l’esperienza del tragico sublime, la carne come scandalo del peccato, la carne del sovrano assediato, la carne del monarca detronizzato.

La carne del nazzareno in cui si manifesta come vergogna immensa la morte del dio che in questi si calava.

La carne rinnovata, la carne demonizzata. La carne ingannata, la carne tradita.

La carne eretica che partecipa alla dimensione del divino non più come mistica passiva e sterilizzata; ma come attante immediato dell’arcano, officiante alla cerimonia che si celebra ad Eleusi.

La carne sconsacrata, e vendicativa di sé stessa in un ganglio vitale denso di senso e significato, di cupore fondo e quindi tanto più intimo quanto più oscuro.

La carne inonorata, risemantizzata nella catabasi orfica finalmente esiziale, pregna della propria ombra autentica e concreta; di contro al dilagare di una luce immateriale, rarefatta, e priva di un senso che smargini l’autoreferenzialità.

Ecco, questo mi sembra interessante. Non un cielo che gira le spalle nel momento in cui gli si rivolga lo sguardo.

 

L.L.:          La silloge si apre con versi che trafiggono e che annunciano l’inammissibilità – dal punto di vista umano e, quindi, dal punto di vista della nostra carne – della morte. Scrivi infatti che “non saremo mai / muti quanto basta / per scendere / nel gorgo / per spingere / la carne / nel sepolcro…”. Possiamo dire che il motivo centrale della silloge è la contraddizione insanabile e inconcepibile del rapporto che lega vita e morte?

 

C.R.:          Io non penso che vi sia contraddizione fra morte e vita. Anzi, credo coscientemente che la prima sia la premessa, nonché prosecuzione naturale, della seconda; e mi riservo di poter dire che fra le due non possa coesistere altro che un rapporto di reciproca sineddoche.

Al più può presentarsi una incoerenza in astratto fra la vita redenta e la morte, perlomeno secondo me, e se si prende in esame la prospettiva religiosa cristiana, stante la salvezza. E tale è poi il dubbio che ha dato vita al testo, ossia quello riguardante ogni mia congettura alla teodicea.

Questo, e l’impossibilità concreta di raggiungere una conclusione che sia da ritenersi più attuale del dover pazientemente sopportare le angherie di una vita – evidentemente – irredimibile, in vista di una auspicata perpetuità.

Possiamo piuttosto dire che il motivo centrale dell’opera sia una rivalutazione della teoria chenotica, (come ne dirò a stretto giro), dal momento che ogni tentativo che faccia fronte al nulla che si staglia dal Golgota ricade necessariamente nella gabbia quinziana in cui si contorce il pensiero esistenzial-fideista.

Se la discesa del celeste nell’umano non conduce ad altro che alla carnalità, dunque è altrettanto vero che all’aspettativa secolarizzata si assomma la colpa serena di essere ciò che siamo, botri e vette comprese.

Ma che esista ancora il male, e la morte, a seguito della redenzione, e dopo la resurrezione, mi sembra più testimoniare un fallimento che un trionfo. Posto poi che lo scollamento fra vertigine e abisso sia il senso più intimo del testo che precede quest’ultimo, mi sembra di poter asserire coscientemente che “La carne” si concentri sulla dimensione visibilmente tangibile della nostra perimetrazione fisica, e non solo.

Ma, sia ammesso, in sei anni molte cose son cambiate e molte altre son state caducate. E l’incredulità alle promesse si è concentrata alla diffidenza, al dubbio, all’incapacità di poter desiderare altro che l’epilogo di attesa e felicità lusingate.

Per riprendere la questione dello stile oracolare, è mia convinzione che “La carne” rappresenti un momento stazionario, ancillare al complesso, di piena citrinitas; e successivo a quello di albedo che ho vergato nel libro precedente – ben conscio di invertire la mandatoria impostazione alchemica.

Di qui, dunque, credo si possa recuperare l’archetipo junghiano del Vecchio Saggio come modus, se potesse aiutare a contestualizzare meglio quanto ho appena detto; in vista della rubedo che avverrà, in vista dell’unione degli opposti, in vista del locus in cui ci si riappropria del materiale inconscio proiettato ingannevolmente all’esterno, per rielaborarlo consapevolmente a un livello superiore, aprendosi all’amore.

E dico questo perché se esiste anche un caso eccezionale per cui il sempiterno penetra nella carne per conoscerne tutta la natura mortale, dunque ci è anche dato di riflettere sull’inversione archetipica della struttura genetica di ogni cosa.

E se quindi ci è dato di riconsiderare tale paradigma, credo che si possano ribaltare pedissequamente tutti i modelli affini: l’orfismo e l’onirico, l’ascesi occidentale, il prototipo gnostico dell’aldilà positivo di contro all’aldiquà svilente della corporalità, et cetera res.

Sia questo perciò l’arcano con cui sondare l’umanità, e la sua anima bramosa, rea ed oscura; e quelle sue pulsioni animali quanto più fondanti che si materiano in un nucleo atro di desideri viscidi e passioni sùcide.

Parafrasando Montale de “Il fuoco e il buio”, credo sia possibile credere al buio innanzi ad una luce bugiarda. Questo, mi pare, sia il significato della mia opera.

 

L.L.:          Allacciandomi alla precedente domanda, vorrei chiederti, in che rapporto sta la tua ricerca poetica con la ricerca spirituale, ovvero con la ricerca di una dimensione metafisica – sia essa trascendente o immanente – che fonda l’esistenza su questa terra? Esiste – a tuo parere – qualcosa che sia in grado di restituire pienezza a una condizione di vulnerabilità qual è quella dell’intero universo vivente, ancorato alla carne, a qualcosa di talmente fragile da avere, infine, un destino che si conclude?

 

C.R.:          Premesso che non è assolutamente detto che metafisico e spirituale coincidano, il mio tentativo di informare un pensiero poeticamente rilevante riguarda l’evidenza per cui la divinità, incarnata nel corpo del cristo, muore con questo.

Sarebbe a dire che al di là di tutto il Padre, morendo nel/col Figlio, abdica al trono dell’onnipotenza e diviene il simbolo della mortalità.

La mia opinione (ma mi sembra cosa verificabile, tosto che una mera opinio) è che, seppur per poco, la morte inghiotta l’iddio; divenendo l’unica potenza assimilabile a quella altissima. In altre parole, la carne in cui si cala il divino perisce, come tutte le altre creature subordinate all’ordo naturalis. Il che significa che la salvazione non avverrà se non subordina al demerito insito nella conclusione di ogni cosa.

Per questi motivi vorrei inoltre dire che i versi citati, in verità, afferiscono al dogma della resurrezione; il che, dal lato mio e come ho scritto, comporta una (non solo mia) discordanza innanzi ad ogni verità imposta per articolo di fede ed imposizione.

In questo, dunque, alcuna verità o speranza è negata come confermata. Fermo restando, però, che la reintegrazione della potenza passi comunque per il gelo del sepolcro. Il che rende piuttosto amara ogni consolazione ipotetica.

In questo modo, non mi sento in grado di poter fornire una risposta che svincoli da questo fatto certo, come non mi si può addebitare la gioia o fragilità altrui: mi sento solo di dire che (nei limiti imposti) se deve esistere una benedizione che consoli, salvi e guarisca, essa non può che passare per quella maledizione che sussume in sé stessa ogni male.

Da qui parte ogni mia parola, ed ogni mio silenzio; perché innanzi alla morte absoluta cade ogni docetismo, e si svela più vicina ogni cosa. Ma preferirei parlare di poesia, per quel che mi è dato. Non di teologia, né di religioni. Ognuno di noi si sceglie il proprio veleno.

E non vedo nemmeno un motivo per farlo; o meglio: non vedo più né una ragione pregnante a sufficienza per discutere in maniera indebitamente aggiuntiva alle falle dell’esperienza teologica, né per entrare a piedi pari nell’argomento “poesia religiosa”, come se questa possa essere contrapposta o paragonata ad altro, ovvero se si potesse distinguere in generi di poesia.

E ritengo sia più difficile preferire di non vedere che la salvezza non abbia eliminato né la depravazione del male, né l’afflizione della morte; che accogliere questa condizione con la dignità con cui si dovrebbe accettare la malattia.

Come dicevo, innanzi alla morte si scioglie ogni dubbio si disfa. Perché quest’evidenza scabrosa non è che un inizio, un passaggio che conduce ad una identità senza ideologie e affini.

Di qui, francamente, credo si possa recuperare una condotta deontologica altroché bastevole. Al contrario mi sembra di capire che molti non desiderano comprendere che la croce sia divenuta l’effige di un dio che giunge alla propria miserabile conclusione.

Dal canto mio, non mi sembra che il crocifisso ritragga un’immagine di vittoria; più tosto, la croce effigia l’esatto opposto: l’umiliante momento culminale della vita, che sboccia nella morte.

Questa dovrebbe essere la verità del credente: l’accettazione del male, senz’altro, e la speranza di non dover soffrire inutilmente. E l’estasi dell’agonia, senza sconti di genere e senza codardia, baciando le piaghe sudice e fiorenti della morte che siamo.

Se questo mi configura come facente parte della categoria preposta alla cultuazione dei morti nell’Italia contemporanea, o della morte, ben venga. Non credo muterà molto, né anche credo che le mie parole cambieranno qualcosa.

 

L.L.:          Nella tua poetica si respirano i temi della grande riflessione filosofica moderna, in modo particolare, il tono – a tratti oracolare – che impieghi, mi riporta alla mente “Così parlò Zarathustra” di F. Nietzsche. Vorrei chiederti, in che rapporto stanno, a tuo parere, la filosofia (ovvero la riflessione razionale sulle questioni di senso) e la poesia? È possibile una poesia–filosofica?

 

C.R.:          Spero di non offendere nessuno nel dirlo, ma mi sembra che i poeti-filosofi siano già esistiti. E credo che la lista non possa partire che da Leopardi, se considerassimo un indice che proceda secondo un carattere sistematico. Ma ciò che rivela questa domanda è una preoccupazione legittima: quel che mi sembra essere il quesito vero riguarda l’inconsistenza del pensiero che si tramuta in versificazione.

A questo, temo di non saper fare fronte. Soprattutto perché una pubblica denuncia ad hominem mi sembra infruttoso, specialmente se riguardante la preparazione minima e raffazzonata, l’elezione/l’essere eletti da un maestro, la condensa degli elementi più svariati senza una adeguata preparazione e senza approfondimento per dimostrare ecletticità, la dimostrazione di una santimonia contraddetta alla minima occasione, il ritenere che il proprio istinto basti alla poesia in assenza della fatica dello studio, l’improvvisarsi, l’intruppare movimenti stretti da esaltazioni vicendevoli in assenza di una amicizia che permetta una critica cordiale, e chi più ne ha e più ne metta.

In effetti, non chiederei ai poeti di essere filosofi. Chiederei loro di essere sapienti, perché dopo tutti i relativismi di comodo, ogni minimo sforzo per tollerare il dolore scivola nello scolatoio di questo tempo.

In verità la questione da porre mi pare sia un’altra, e cioè domandarsi senza nascondimenti: “quanto spazio c’è nel nostro cuore? Ameremmo il profeta, perché egli ama il peccatore? Ameremmo ancora il peccatore, perché siamo noi?

Credo sia questa la risposta: amare ciò che vive perché morirà significa anche riqualificare la vita alla luce della morte, anche e soprattutto con il canto. E tornando all’ars poetica, mi sembra che nessun verso possa esistere se prima non si sia formato in un sentimento abbastanza consolidato sicché questo possa essere detto.

Se pensiamo al “cosa” ed al “come”, la poesia veicola entrambi; se, invece, il carmen sposta il proprio baricentro sui caratteri di opportunità della parola, senza passare la cruna della mortalità, sostengo che non si possa tacere che all’abbassarsi della qualità del pensiero segua l’abissarsi della qualità del poetare. Ma stiamo parlando di altro.

Ciò di cui son convinto consiste nel fatto che non si possa parlare di razionalità stretta nel caso della poesia, e forse lo schema razionale generico non è adeguato neanche alla vita umana. In linea di massima, sarebbe bello vi fosse un principio di non contraddizione fra forma e sostanza; ma chi può decretarlo, se non chi produce, vive, e respira?

La mia convinzione riposa nel fatto che la poesia sorga da una a-razionalità; sarebbe a dire che questo, seppur dotato di una certa logica, non pertenga ad un sistema ragionevole per cui vi sia una consequenzialità condivisibile. Ed è giustissimo che sia così!

Di più: mi sembra che i presupposti, ovvero le premesse, di ogni enunciazione dell’oggidì tendano non più a risolvere un argomento, ma a parlarne oltre il valore stimabile della parola.

Non penso sia sano chiedere ed ottenere dubbio su dubbio, dedurre noto dal noto sino a quando alla luce del sole ripartorito i nostri ori avranno reso sgombro lo specchio di Narciso. O sino a quando ogni cosa già detta sarà detta ancora, e meglio, e nuovamente uguale a sé stessa; rassomigliando colui che, specchiandosi in sé stesso, si riflette nell’animazione atroce dell’inanimato.

 

*       *       *

 

per essere

padri e madri

nell’inganno

mangeremo

la manna

di cui la materia

è spoglia

la lebbra

che spolpa

l’innocenza

nell’incanto che condanna

i vivi non possono

amare i morti

 

*

 

questa terra è nera e morta

come la mano

che scava nel fondo

del mondo

e non draga

il credo di risorgere

dalla motriglia

ma la morte divina

e l’arcano segreto

in cui entriamo

ed in quel fango

la salma è dono

alla gora in cui

si divora l’iddio

dal disgusto

alla devozione

versa vino e fiele

il bacio infedele

 

*

 

ciò che si compie

adempie la pretesa

e riempie la tomba

promessa

al limite del vaio

impassibile

i morti non possono

amare i vivi

 

*       *       *

 

Carlo Ragliani (1992), laureato in giurisprudenza presso l’ateneo rodigino dell’università di Ferrara. È redattore in “Atelier Cartaceo”, e caporedattore in “Atelier Online”. Ha pubblicato “Lo stigma” (italic, 2019), “La carne” (Ladolfi, 2024; Segnalazione speciale al premio Montano, ed. XXXVII).

 

Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze Filosofiche, è redattrice di “Atelier Poesia”, scrive per “La Bibliothèque Italienne”, ed è responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie. Insegna Storia e Filosofia, e collabora con vari atenei privati come docente di Bioetica e Storia della filosofia. Per la poesia, ha pubblicato “La Visita” (L’Erudita, Giulio Perrone 2017), “La Nevicata” (Il Seme Bianco 2017), “Solitudine di esistenze” (L’Erudita, Giulio Perrone 2018), “Paradosso della ricompensa” (Eretica 2018), “Apologia della sorte” (Transeuropa 2019), “In un metro quadro” (Nulla Die 2020), “Amor Mundi” (Eretica 2021), “Cercando il mezzogiorno” (Helicon, 2021; vincitrice del primo premio, per la poesia inedita, al concorso “La Ginestra di Firenze”), “Elegia Ambrosiana” (Divergenze, 2021), “L’errore della luce” (Ensamble, 2022), “Il gelsomino indiano” (Cosmopoli, 2023), “La venditrice di menta” (Progetto cultura, 2023), e “L’approdo dei sogni” (Controluna, 2023). Per la saggistica, ha pubblicato “L’Alunno” (Divergenze 2019; vincitore del primo premio al concorso “Nuovi Saperi”), “Due saggi dirompenti. La Repubblica delle occasioni risolutive e il processo coscienziale” (Divergenze, 2022; finalista al Premio Carver 2022, sezione saggistica, Salone del Libro di Torino), “Una vita di lampo. Portraits de poètes” (Eretica edizione 2023, in collaborazione con la rivista letteraria internazionale italo-francese La Bibliothèque Italienne). Per la prosa, ha pubblicato “Scusate, ma devo andare” (Porto Seguro, 2020); “Kinder” (Augh! 2021, finalista al “Premio Santucce e Storm 2023”); “Un karma distratto” (Porto Seguro, 2021). È stata curatrice e autrice del secondo numero della rivista di scienze umane “Augeo”, titolo del numero “Oltre l’ideologia dell’emergenza”, Divergenze 2022 (hanno scritto nel numero i primari dei reparti di Malattie Infettive ed Ematologia della Asl 8, Ospedale S. Donato di Arezzo). Maggiori informazioni sull’autrice sono disponibili sul sito www.lucrezialombardo.com.

«La fortuna del Greco», storia di un italiano

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di Antonella Falco

Il termine “fortuna” deriva dal latino “fors” e ha la stessa radice di “ferre” che significa “portare”, di conseguenza, stando all’etimologia della parola, “fortuna” vuol dire semplicemente “ciò che porta la sorte”. E La fortuna del Greco – sorprendente romanzo d’esordio edito da Rubbettino del trentenne Vincenzo Reale, insegnante di lingua italiana per stranieri e autore di racconti e libretti d’opera – probabilmente è solo quella di essere riuscito a sopravvivere alle avversità del Fato, uscendo incolume dai disagi della fame e dell’emigrazione, dal bombardamento di Napoli del 3 settembre 1943, dallo scontro a fuoco tra una truppa Alleata e un gruppo di soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, da una potenzialmente rovinosa caduta in montagna, da una cruenta faida paesana e dalle follie del Tòzzolo, suo cugino.

Antonio il Greco è dunque un sopravvissuto, impastato di tenacia, fatalismo e dignità. Deve il suo soprannome alla somiglianza con uno dei due Bronzi di Riace, «quello con un occhio solo, il vecchio guerriero».

La sua parabola esistenziale, che attraversa quasi un secolo di Storia, nazionale e locale, lo rende un testimone dei grandi e piccoli eventi del Novecento italiano, e tuttavia la sua vicenda pare essere calata in un tempo mitico e astorico, si potrebbe dire ancestrale. «Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle col dito»: non è un caso che tornino alla memoria queste parole dell’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, perché anche nel romanzo di Vincenzo Reale il mondo di Carafa Nuova, immaginario paese incastonato nel cuore dell’Aspromonte, sembra avvolto da un’aura primordiale, e, proprio come la Macondo di Garcia Marquez, è un microcosmo arcano e isolato nel quale la linea di demarcazione tra i vivi e i morti è tutt’altro che netta, così ai viventi è concesso il dono della chiaroveggenza e alla religione ufficiale si mescolano credenze e superstizioni popolari, la magia, il malocchio, le presenze ultraterrene.

Custodi e medium di questo mondo liminare, e dunque figure liminari esse stesse, sono le donne: Coletta, la madre del Greco, che aveva con santa Brigida la stessa intima familiarità che si potrebbe avere con una vecchia amica e parlava col marito morto, sua cognata Teresa, detta la Sanpaulara «perché era nata la notte dei santi Pietro e Paolo» e «aveva la capacità innata di domare i serpenti», tanto da averne addomesticato uno, una piccola serpe rossa che custodiva tra i seni, e sua figlia Marina che sapeva togliere il malocchio. Se alle donne spetta questo ruolo di connessione con lo spirito, la magia e il soprannaturale, gli uomini sono invece figure pragmatiche, materiche, a volte violente fino a divenire brutali e spietate: sono loro che fanno la guerra, che si uccidono a vicenda nelle faide, che si fanno giustizia da soli, in un mondo in cui «la violenza e la beffa coesistevano, così come il senso dell’onore e la lascivia. Era possibile credere in tutto, anche nella congruenza dei contrari. Ciò che contava davvero era sopravvivere, e ognuno doveva sopravvivere a modo suo».

La fortuna del Greco, pur essendo incentrato sul personaggio eponimo, è in realtà un romanzo corale e lo stesso protagonista non può prescindere dal proprio alter ego, Antonio il Tòzzolo, suo cugino e compagno di mille rocambolesche avventure. Il Tòzzolo è una sorta di doppio complementare a cui il Greco guarda con divertimento e ammirazione in quanto capace di fare quello che lui, per il suo carattere sempre controllato e responsabile, non riuscirebbe neppure a concepire. È proprio il Tòzzolo a conferire al romanzo quella sfumatura picaresca che ne alleggerisce il tono epico e tragico: Antonio il Greco e Antonio il Tòzzolo attraversano gli eventi, spesso drammatici, della loro esistenza con spavalderia e noncuranza, convinti di formare insieme un connubio invincibile. Nel rievocarne il ricordo, il Greco ammanta il cugino di un’aura leggendaria fino a creare l’immagine di uno strambo eroe invulnerabile, quasi immortale. La caratteristica che più colpisce del Tòzzolo è la disinvoltura con la quale si relaziona al denaro e a qualsiasi altro bene materiale cui entra in possesso in maniera non del tutto lecita: sembrerebbe dedito a scialacquare ogni sia pur piccola fortuna che gli capiti fra le mani, tuttavia la sua è una leggerezza che ha tutto il sapore della spensieratezza e della gioia di vivere proprie della gioventù. Non è un caso che a fare da spartiacque nella storia del Greco sia proprio la separazione dal Tòzzolo, che decreta la fine della fase più scanzonata e lieta della sua vita.

Pur nella sua specificità tematica e stilistica La fortuna del Greco ricorda la narrativa di Domenico Dara, non solo per quel realismo magico di matrice ispano-americana che sposa felicemente l’antichissima tradizione del racconto orale tipica del nostro Meridione, ma anche per la capacità, che sia Dara che Reale hanno, di creare personaggi iconici in grado di imprimersi indelebilmente nella memoria del lettore.

Il romanzo di Vincenzo Reale è un affresco antropologico, sociologico e storico di una Calabria in bilico tra un passato preistorico, magico, violento ma anche puro e incontaminato e un futuro incerto, una Calabria nella quale distruzione e ricostruzione sono i due poli opposti entro cui la gente è abituata a muoversi e a vivere, ricominciando ogni volta daccapo, in un moto perpetuo che fa di questa terra il luogo per antonomasia del non-finito. Quel non-finito che si palesa negli scheletri di case con i tetti piani, i mattoni a vista, i pilastri sporgenti, senza intonaco e senza finestre: «schizzi di cemento disarmonici» li ha definiti Gioacchino Criaco nel libro La Maligredi. Un aspetto paesaggistico e sociale divenuto ormai identitario della nostra regione. L’incompiuto, come stile architettonico ma anche come categoria dello spirito. Pure il Greco non finirà la sua casa, lui, esperto muratore che l’ha tirata su con le proprie mani, mattone dopo mattone, deciderà di non finirla. Non perché non può, ma perché non vuole. E sui diversi possibili motivi di questa scelta, come sulle differenti interpretazioni di quella che può essere stata (o non stata) la fortuna del Greco, il romanzo si chiude, in un finale che lascia al lettore la libertà e lo spazio di trarre le proprie conclusioni.

Il romanzo di Vincenzo Reale pur attingendo a una storia familiare – è il nonno dell’autore ad aver ispirato la figura del Greco – affronta tematiche in cui tutti possono riconoscersi, come sempre accade con la vera letteratura che sa partire dal particolare per assurgere all’universale.

La narrazione, potenziata dalla forza immaginifica della parola, si snoda attraverso piani temporali diversi, non seguendo un ordine cronologico lineare ma procedendo per salti, perché è così che «si racconta la vita, saltando di qua e di là nella memoria, ricordando un po’ i buoni un po’ i cattivi tempi intrecciati e indistricabili, in una concatenazione di persone e parole».

Vincenzo Reale, La fortuna del Greco, Rubbettino 2023, pp. 171, euro 16,00

Rosa

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di Laura Ramieri

Prima di questa storia, nessuno sapeva perché il Signor Rosa amasse quel colore. In tutte le sue sfumature, dal brillante al pastello, ma solo, rosa.

Il Signor Rosa, il cui vero cognome era proprio Rosa, era alto e sottile, più simile a un lampione che a un uomo, aveva i capelli scompigliati, nei toni di un pomeriggio bruciato, e i baffi: folti, pettinati con le punte all’insù, rosa. Splendidamente, perennemente, rosa.

Il Signor Rosa lavorava al Luna Park della città, un piccolo spazio fisso fatto di dolciumi invitanti, cartomanti in lustrini, giostrine luccicanti, pupazzi simpatici. Di giorno era frequentato da bambini golosi, ragazzini curiosi, addetti ai lavori indaffarati, e un pizzico di quel senso di abbandono caratteristico di un luogo di divertimento quando c’è troppa luce. La sera, si animava magicamente delle più strane creature. Persone sfortunate, animali perduti, e tutti quelli segnati da difetti inaccettabili alla perfezione del giorno: cicatrici spaventose, deformità tremende, arti mancanti, cecità crudeli, sorti maledette. Ma a cosa serviva, nascondersi, se le persone del giorno, chiamiamole così, non si accorgevano di quelle della notte, chiamiamole così?

Il Signor Rosa abitava entrambi i mondi, quello del giorno, e quello della notte, e non provava assolutamente nulla.

Il signor Rosa aveva ipnotici occhi azzurro piscina, e indossava sempre al polso destro un braccialetto di perline nere lucide, che sfavillavano enfatizzando ogni suo movimento, e che nascondevano una scritta tatuata all’interno dell’avambraccio, una scritta nera, appena percettibile, in una bella grafia dal tocco infantile: Rosa.

Dettagli del Signor Rosa che venivano notati, ammirati come fantasticherie, e poi, dimenticati insieme alle sue magie. Di giorno, gli sguardi che si rivolgevano a lui somigliavano a scherzi cattivi. Di notte, la sua figura diventava incanto: l’infinita altezza, gli intriganti baffi rosa, i capelli scintillanti come fiamme. Un sogno a occhi spalancati. Tutte le notti il sorriso del Signor Rosa illuminava di meraviglia l’intero Luna Park, e la sua fila lunghissima si snodava paziente ed emozionata: il Signor Rosa era il proprietario del banco dello zucchero filato, lo zucchero filato più buono del mondo, si sussurrava, dal tramonto all’alba. Uno zucchero filato che da lontano, dall’ingresso del Luna Park, riconoscevi come la più stupefacente delle visioni: formava una nuvola quasi trasparente che galleggiava poetica in aria, fino a disperdersi, lenta, in piccoli soffi. E poi ricominciava. Uno spettacolo da togliere il respiro, e il profumo, dolce, dolcissimo, ma dolce come una cosa squisita a cui ti devi avvicinare, che devi vedere, toccare, insomma quella sensazione lì, irresistibile. Tutti, si mettevano in fila. Ammaliati dalle nuvole danzanti, innamorati del profumo delizioso, prendevano il loro posto come piccoli giocattoli, in ordine, con cura, e così ciascun abitante della notte, seppur nella sua tragedia, pareva illuminato. Il magnifico carosello della sciagura, improvvisamente sorridente e felice, aspettava il momento di trovarsi di fronte al Signor Rosa, ammirarlo girare lo zucchero filato, e ricevere infine il suo tanto bramato sguardo, uno per ciascuno di loro, uno sguardo che regalava amore e perdono. Li stregava con fascino e compassione e tutti, davanti a lui, restavano in silenzio, osservavano la procedura che il Signor Rosa compiva meticolosamente, con gesti precisi, e poi, nel momento di porgere quel bastoncino di meraviglia, li guardava in faccia: tutti, tutti, tutti, si sentivano graziati, di più, benedetti. Senza vergogna. Il Signor Rosa era uno specchio che mostrava bellezza, e i più disperati si rivolgevano a lui desiderosi di comprensione, di conforto. Il Signor Rosa non giudicava, e guardava tutti con lo stesso identico, incontenibile, amore. Questo, accadeva solo la notte. Il Signor Rosa aveva un unico gusto di zucchero filato, e ovviamente, era rosa.

 

Il Signor Rosa non provava nulla, abbiamo detto. Come il più perfetto dei personaggi svolgeva un ruolo, non provava rammarico per le persone del giorno, e non provava affetto per le persone della notte, che pure sì, benediva, ma senza quell’amore spettacolare che pareva sprigionare dall’esterno. Il Signor Rosa non provava nessun sentimento. Il suo volto aveva due versioni, il giorno, e la notte, e finiva lì, come se non esistesse, fuori dal Luna Park. Le persone del giorno non avrebbero saputo dire di averlo visto in qualche altro luogo. Le persone della notte non si vedevano, di giorno, e forse vivevano solo al Luna Park, così che anche loro, il suo più fedele pubblico, non sapeva dire di averlo mai visto fuori dalla sua stessa magia.

Perché il Signor Rosa, che aveva una vita all’apparenza gratificante, di più, un uomo ammirato, non provava alcun sentimento? Qualcuno sapeva cosa significasse la scritta sul suo avambraccio?

 

Capitò che era Novembre, la notte nelle luci del piccolo Luna Park somigliava a un sogno fatato, tutto nebbia e brillii. Capitò nella fila senza movimento, senza accorgimento, come un’apparizione: occhiali dalla montatura rosa polvere, papillon rosa confetto, giacca rosa lecca-lecca, pantalone rosa bonbon, stivaletto rosa fucsia. Accanto a lui, un piccolo cane dallo sguardo triste. Il cane era tutto bianco, con una coda vaporosa tutta nera, e una macchia, anch’essa nera, attorno all’occhio destro. Il suo guinzaglio era colore rosa bambola. L’uomo rosa camminava a passi lenti, e il cane teneva la testa alta; i due personaggi seguirono la fila senza un respiro. Pur essendo adatti al contesto, stonavano terribilmente. L’uomo rosa era pallido, aveva gli occhi socchiusi come sottili fessure, e le rughe del suo viso si increspavano in infiniti disegni. Non parlò al cane. Forse qualcuno li guardò, meravigliandosi dell’abbondare di rosa, ma in quella fila erano nel posto giusto, e nessuno rivolse loro gesto, né salutò il cane: in quel bel colore sembravano nascondere qualcosa capace di allontanare anche le persone della notte. Qualcosa che non aveva nulla, di dolce, amorevole, rosa: qualcosa di freddo, di ingiusto. Qualcosa di orrendo.

L’uomo rosa e il cane bianco e nero raggiunsero il loro turno, e arrivarono davanti al Signor Rosa: ecco il momento. Il Signor Rosa divenne cereo, e si immobilizzò. Restarono a guardarsi, l’uomo rosa, il cane bianco e nero, e il Signor Rosa, rigidi come in un malvagio incantesimo. La lunga fila se ne accorse, ma rimase zitta, incapace di descrivere la scena, o di dire una parola. E poi, il cane abbaiò. Una volta, un verso delicato come un commosso saluto, da far battere lieto il cuore. Nell’improvvisamente silenzioso Luna Park una lacrima, dal rumore spettrale, agghiacciante, scese sulla guancia del Signor Rosa, perdendosi nei suoi bellissimi baffi rosa.

 

Una piccola croce costruita da due rametti giace in un campo di erba verdissima, protetta dal respiro di alberi felici. Vicino alla croce, una rosa dai petali lisci, rosa, perfetta. Accanto alla croce e alla rosa, tante altri croci, e tanti altri fiori. Al tramonto il cielo diventa rosa, e la luce, rosa, sembra guardare tutte le croci, abbracciandole con amore.

«Sei davvero tu?»

«Non hai più saputo amare, dopo di me.»

« Non volevo lasciarti sola.»

«Ma io sono in quel posto bellissimo. Tutto rosa.»

«Volevo restare con te, in quel rosa. In quella pace.»

«Non potevi. E adesso non vivi in nessun luogo.»

«Non è lo stesso rosa. Ma ti somiglia, Rosa, guarda.»

«Mi sei mancato.»

«Sei venuta a prendermi?»

 

L’uomo rosa alzò un mano e fece schioccare le dita, senza espressione. Lo schiocco sembrò velare il Luna Park di un cupo dolore, come se la morte in persona si fosse messa in fila, e avesse toccato tutti con il suo male. E quello, fu.

Per un solo primo e unico istante Il Signor Rosa, quella notte di Novembre di nebbia e brillii, perse misteriosamente il controllo del suo zucchero filato. Che devoto, non smise di continuare a filarsi, fino a invadere il banchetto, a ricoprire il Signor Rosa, per poi spargersi nel Luna Park che diventò tutto, tutto, tutto, una gigantesca nuvola rosa, e come la più appiccicaticcia delle caramelle intrappolò cose e persone e del Luna Park, per molti giorni, rimase solo un effetto nebbia che nascondeva la vista, e che nessuno voleva attraversare. Ovviamente, era tutto rosa.

Le persone del giorno si spaventarono, e dissero di aspettare, dissero che si trattava di qualche stranezza dovuta alle piogge, che sarebbe passata. La nebbia rosa durò fino al primo giorno di inverno, durante la notte uno scoppio come di un fuoco d’artificio fece rabbrividire per lo spavento chiunque lo udì. Mille sfumature di rosa colorarono il cielo. L’esplosione si portò via tutto: i dolciumi invitanti, le cartomanti in lustrini, le giostrine luccicanti, i pupazzi simpatici. Si portò via l’intero Luna Park. Ma dove sorgeva una volta l’area, come una aggraziata ombra, rimase, tra le erbacce e la terra, una polvere appiccicosa che nessuno ebbe il coraggio di attraversare, nemmeno di avvicinare. Ovviamente, rosa.

E credo che sia ancora, anche adesso, là.

 

Rosa, mia preziosa amica, la memoria serve a vivere per sempre.

Deus ex Makina: Maniak

4

 

La nuova crociata dei bambini

di

Francesco Forlani

Sarà pur vero che oggi più che mai viviamo in un’epoca in cui solo la tecnica potrà finalmente offrirci la consapevolezza della fragilità nostra e del nostro pianeta, ma sarà ancora una volta la letteratura a renderne disponibile il racconto. Sentiamo da due anni almeno, come voci di Cassandra, gli uni e gli altri, raccontarci la”svolta” delle nostre vite con l’avvento dell’Intelligenza artificiale, in ogni campo dello scibile umano, in ogni parte dell’umano senza alcuna distinzione tra anima e corpo ma questo di Labatut è il primo libro, almeno per me, a tentare una genealogia appassionante di tale rivoluzione tanto cruenta quanta necessaria, per capire da dove si era partiti.

Dalle prime pagine di questo romanzo vivamente consigliatomi dall’amico Miguel Gallego, sentiamo una profonda tensione tra vita e tecnica, una guerra senza esclusione di colpi, combattuta da eroi, generalmente scienziati, alle prese con le scoperte che hanno cambiato la storia dell’umanità, con tanto di nome e cognome e fatti che potremmo definire storici. 

“Tutto ebbe inizio con un telaio meccanico, e devo dire che si trattava di un apparecchio mostruoso. Sembrava proprio la macchina sognata da Franz Kafka nel suo racconto Nella colonia penale, quella che incide sul corpo del condannato il comandamento che ha trasgredito: un gigantesco insetto metallico con diecimila zampe, che ingurgitava istruzioni e secerneva fili di seta come un vecchio ragno deforme. Papà l’aveva portato a casa per farcelo vedere.”

A pagina settanta di questo “curioso” libro di Benjamin Labatut si racconta della scoperta, fondamentale per il celebre matematico Von Neumann, di un telaio a schede perforate. Sono andato a riprendere l’incipit del racconto in questione e un dubbio non affatto inessenziale è sorto su come fosse stato tradotto in due versioni differenti. Poiché si trattava di un’opera in tedesco ho chiesto lumi alla mia amica Silvia Bortoli, germanista:

Silvia cara assai, mi servirebbe una piccola tua consulenza traduttoria. Nella colonia penale di Kafka, l’incipit in francese dice “c’est un appareil singulier”, in quella italiana, credo perché ho consultato una versione on line pirata: “”È una macchina veramente curiosa”, tu come l’avresti tradotto?

Io avrei tradotto “è un apparecchio singolare”. È una versione fedele. Cosi lo traduce anche Andreina Lavagetto (Feltrinelli), ma Anita Rho, grande traduttrice della generazione precedente, che traduceva con maggior libertà e maggiore attenzione all’efficacia narrativa, ha tradotto con “È veramente una macchina curiosa”, e ritmicamente è migliore di quella che hai trovato tu, che pure le assomiglia.

Apparecchio, che come ci ricorda la Treccani è “nell’uso tecn. e scient., complesso di elementi di varia natura, meccanici, elettrici, ecc., coordinati in modo da costituire un dispositivo atto a un determinato scopo”.

Apparecchio dunque ma anche congegno narrativo, dispositivo, telaio, trama, ordito, filo, per rimanere alla “macchina” che strega una delle menti più brillanti del secolo breve,  come ci viene raccontato da Eugene Wigner, Premio Nobel per la fisica nel 1963.

Ho conosciuto Planck, von Laue e Heisenberg. Paul Dirac era mio cognato, Leo Szilard e Edward Teller sono stati fra i miei più cari amici, e anche Albert Einstein era un buon amico. Ma nessuno di loro aveva una mente rapida e acuta come quella di János von Neumann. L’ho affermato diverse volte in loro presenza, e nessuno mi ha mai dato torto.
Solo lui era del tutto vigile.

Leggendo capitolo dopo capitolo questa incredibile prova di Labatut non si può non pensare al grande Marcel Schwob, e in particolare a due opere. Sicuramente, Vite immaginarie, e a seguire La crociata dei bambini. Il primo per la dimensione programmatica della bio-fiction, vero e proprio manifesto su come “romanzare” la vita degli altri, famosi o meno che siano; il secondo per aver saputo come pochi illustrare quello strano episodio del 1212, all’insegna del frammento di Eraclito tra i più oscuri e sorprendenti: Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno.

Scrive Schwob:

Ed è proprio su questo che si fonda l’arte del biografo: sulla scelta. Non deve essere vero; deve creare una congerie di tratti umani. Leibnitz dice che per creare il mondo, Dio ha scelto il migliore tra i mondi possibili. Come una divinità inferiore, il biografo è in grado di scegliere, fra i possibili umani, ciò che è unico. Non deve ingannarsi sull’arte, non più di quanto Dio si sia ingannato sulla bontà. È necessario che l’istinto di entrambi sia infallibile. Pazienti demiurghi hanno raccolto per il biografo certe idee, certi movimenti fisiognomici, certi fatti. La loro opera è sparsa nelle cronache, nelle memorie, negli epistolari e negli scolii. In mezzo a questo arruffio il biografo sceglie ciò che gli serve per dare vita a una forma che non somiglia a nessun’altra. Non serve che essa sia simile a quella che fu creata un tempo da un dio superiore, basta che sia unica, come qualsiasi altra creazione.

La sensazione che si ha leggendo Maniac, è che Benjamin Labatut abbia seguito alla lettera le indicazioni di Schwob, ovvero programmando la sua makina anagramma di maniak ben al di là della bibliografia proposta nelle ultime pagine, esplorando ognuno degli interstizi offerti in quell’immensa documentazione a disposizione.

In altri termini non commette l’errore di molti biografi di credersi storici privandoci, per quella strana ambizione alla scientificità del dato oggettivo, di quanto v’è di più essenziale nella vita e soprattutto nell’arte del romanzo:

E così ci hanno privato di mirabili ritratti. Hanno creduto che solo la vita dei grandi uomini potesse interessarci. L’arte è estranea ad analisi di questo tipo. Agli occhi del pittore il ritratto d’un perfetto sconosciuto, fatto da Cranach, ha lo stesso valore di quello di Erasmo. Non è grazie al nome di Erasmo se quel quadro è inimitabile. L’arte del biografo dovrebbe consistere, piuttosto, nel dare lo stesso risalto sia alla vita d’un povero attore che a quella di Shakespeare. È un bieco istinto che ci fa constatare con piacere la contrazione del muscolo sternomastoideo nel busto di Alessandro, o il ciuffo in testa nel ritratto di Napoleone. Il sorriso di Monna Lisa – per quanto ne sappiamo potrebbe anche essere un uomo – ha un che di ben più misterioso.

Enfant prodige

In ognuna delle tre parti che compongono il polittico immaginato da Labatut troviamo la parola Wunderkind.

“Quindi c’era un alieno in mezzo a noi, un vero Wunderkind, e a scuola tutti parlavano di lui. Dicevano che aveva imparato a leggere a due anni”.

Per il piccolo Von Neumann, che ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della Bomba Atomica prima e nella rivoluzione informatica poi, risuona nel lettore il frammento eracliteo, del bambino preso dal suo stesso gioco, come quando, da adulto bambino è alle prese con il MANIAC, ovvero la loro macchina Mathematical Analyzer Numerical Integrator And Computer.

I protagonisti vengono descritti, raccontati, messi sovente a nudo, da quanti ne costituiscono il vero mondo di relazioni sociali e vitali: qui è la moglie che lo racconta, la prima o la seconda, un collega di laboratorio, un concorrente, l’amico anche se è il più delle volte dai nemici che arriva al lettore il tassello decisivo. Come nella Crociata dei Bambini di Schwob, il nudo fatto si veste delle narrazioni di ognuno dei protagonisti o semplici testimoni dei fatti: il goliarda, il lebbroso, i bambini, il Papa, il mendicante o la piccola Allys.

Sappiamo da Klára Dán Von Neumann, dopo un esilarante scambio di vedute del suo John con Albert Einstein e di cui lasceremo al lettore la scoperta, come per lui la vita fosse soltanto un gioco, un terribile gioco da prendere sul serio. Ed è grazie ad uno dei suoi eccessi che scopriamo la più insostenibile delle verità con cui uno scienziato deve misurare la propria coscienza. Non è allora questione di agire nel mondo con una doppia morale, come nella recente opera cinematografica dedicata a Oppenheimer da Christopher Nolan, ma di ammettere una volta e per tutte che quando si fa una scoperta non è possibile tornare indietro.

 « Quello che stiamo creando» disse «è un mostro la cui influenza cambierà il corso della storia, sempre che una storia continui a esserci! Ma sarebbe impossibile non andare fino in fondo. Non solo per ragioni militari, ma anche perché non sarebbe etico, da un punto di vista scientifico, non fare quel che sappiamo di poter fare, per quanto le conseguenze possano essere terribili. E questo è solo l’inizio! ».

È un passaggio chiave a mio avviso perché permette di capire cose altrimenti insostenibili dal punto di vista etico. Ricordo perfettamente quando in una piacevole conversazione con un mio compagno di liceo diventato medico, in cui gli raccontavo dei miei studi sulla “questione della colpa nella Germania Nazista, mi parlò del suo manuale, credo di fisiologia, se non ricordo male- ma non ne ho trovato conferma in rete- del Favilli, che riportava a proposito delle conoscenze della medicina sull’ipotermia come queste fossero state acquisite sulla pelle dei deportati nei campi di concentramento.

Ricordo allora la stessa domanda – ma non le risposte- sulla legittimità di tali scoperte, su come si potesse “approfittare” di tale abominio. Non è affatto un mistero che il peggiore istinto dell’uomo, nell’esercizio dell’arte della guerra, abbia nella storia prodotto invenzioni micidiali, armi terribili, con il solo scopo di dominare la vita degli altri, ma un mistero rimane su come le stesse abbiano provocato come effetti collaterali beni preziosi per l’umanità. Le prime riprese cinematografiche dei Fréres Lumière, come ci ricorda la studiosa Violaine Challéat  facevano riferimento a scene militari, così l’energia atomica o la stessa Rete Internet, inventata in piena guerra fredda. Von Neumann ci dice che sarebbe perfino non etico rinunciare alla verità di una scoperta, a prescindere dalle idee e azioni che l’hanno resa possibile. MANIAC è figlio delle menti di Los Alamos, l’IA la piena realizzazione dell’avventura.

«Con la creazione della bomba atomica i fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una conoscenza che non possono più perdere». Questo aveva detto Oppenheimer.

Un gioco da ragazzi

“AlphaGo era il parto della mente di Demis Hassabis, un Wunderkind della zona nord di Londra che aveva quattro anni quando vide il padre – un cantautore nonché proprietario di un negozio di giocattoli greco-cipriota – giocare a scacchi con lo zio. Chiese loro se gli potevano insegnare a muovere i pezzi sulla scacchiera, e un paio di settimane dopo nessuno dei due era più in grado di sconfiggerlo.”

Grazie a Labatut scopriamo che a Los Alamos, coloro che avrebbero fabbricato il più grave assalto al cielo da che storia era storia, giocavano spesso a scacchi prima di lasciarsi sedurre da un altro gioco più antico e importato dall’oriente, il GO. E scoprirà il lettore l’incredibile storia della famosa partita dell’Atomica, quella giocata dall’allora campione in carica di GO, Utaro Hashimoto, contro lo sfidante Kaoru Iwamoto, il 6 Agosto del 1945 a Hiroshima.

 

Scena de “Il processo” di Orson Welles
Children play the popular East Asian board game Go, also known as Baduk in Korean, at the 11 World Youth Baduk Championship in Seoul, 2011( PHOTO REUTERS)

Nelle ripetute sfide tra giocatori in carne e ossa e macchine pensanti raccontate con estrema grazia da Labatut – splendidamente tradotto da Norman Gobetti- si rimane davvero incantati come quando si assiste ad un gioco che non si conosce affatto ma che ci coinvolge attraverso l’estrema precisione con cui i giocatori lo vivono. L’illusione- stare nel gioco, in ludum- sembra moltiplicarsi da sé, il gioco vivere di vita propria, come nel racconto poco noto di Walter Benjamin Rastelli racconta.

Rastelli è un mago che ha un solo numero, semplicissimo e meraviglioso che consiste nel far eseguire a una palla movimenti e volteggi con le sole note di un flauto dotato di poteri sovrumani. Quando viene presentato alla corte di un sultano che nulla perdona e molto offre a chi fosse stato in grado di divertirlo accade il fatto. Nessuno sapeva il trucco del mago che consisteva nel dirigere la palla grazie a un nano che in una simbiosi perfetta con la sfera e le note del suo padrone, invisibilmente creava quel gioco. La sera del tanto temuto spettacolo Rastelli, pur avendo percezione di qualcosa di terribile, esegue alla perfezione il suo numero riuscendo così ad avere salva la vita e ottenere un lauto premio dal committente.

Quando all’uscita del palazzo attende il complice nano per felicitarsi accade che al posto di questi si presentasse trafelato un messaggero che quasi lo assale in mezzo alle guardie :

«Vi ho cercato dappertutto, signore, – gli disse. – Ma Voi avevate lasciato le vostre stanze anzitempo, e non mi è stato concesso di accedere al Palazzo». Ciò dicendo mostrò una lettera autografa del nano. «Caro maestro, non siate in collera con me, – c’era scritto. – Oggi non potete esibirvi dinanzi al Sultano. Io sono malato e non posso lasciare il letto».

Appassionante l’ultima sfida all’ultima pietra, tra il Wunderkind Lee Sedol e AlphaGo. Quando la macchina ha sfidato il bambino e ha vinto, quando abbiamo scoperto che Dio stava per tornare sulla terra.

 

 

Il maiale Kras

1

di Giorgio Kralkowski

Le urla si sono quasi dissolte sopra le tegole del casale e al fumo dei camini, si sono infilate tra l’erba alta e hanno forse raggiunto gli uomini nei campi più lontani, appena prima delle acque del fiume, che inghiottono le voci di chi vi parla appena accanto. Adesso al loro posto i fruscii del lavoro, i rumori umidi delle mani e della carne, il tremare del metallo dei coltelli.

I nostri visi si incontrano nella grande vasca del sangue bruno del maiale Kras. Sul liquido scuro e lucido emergono porzioni delle nostre facce bianche, il riflesso delle lampade fioche, la luce grigia dell’alba. Agli odori tiepidi e brumosi della mattina e del sudore si mescolano quelli caldi secchi polverosi della terra e della paglia che si sentono anche in bocca. Il legno già brucia nelle stufe.

*

Nel silenzio di questo luogo lontano, ora che la notte si trasforma in alba, ritornano alla memoria spettri di suoni remoti: in giorni come quelli le urla riempivano i vuoti tra le case e trovavano una fuga solo nel cielo e tra le spighe dei campi. Erano come le urla acute dei bambini sotto una mano aperta, o sotto i colpi di un bastone. Quando iniziai a ricordare i suoni degli anni che erano stati, ero un bambino. Ne avevo appena tre e, seduto sulla paglia in un angolo del casale, osservavo; sette quando iniziai ad avvicinarmi; nove quando iniziai a portare i secchi per raccogliere il sangue. Quando la pelle bianca delle mie mani si bagnò di un rosso vivo ne avevo dieci. A sedici mi venne regalato un coltello. Quell’anno mi dissero che è “importante la prima bestia che si uccide… le nostre mani… il sangue…”.

*

Krzysiek e suo padre, con gli stivali immersi nel vascone, abbracciano i fianchi del grande animale, quasi senza che ve ne sia bisogno, tanto mansueto si mostra alla vista della lama, e così a un colpo in testa che quasi lo stordisce. Alla prima incisione di quella pelle spessa emette uno squittio soffocato. Solo quando il coltello affonda intero nella carne solleva un grido alto, terrificante e umano, per poi lasciar cedere la tensione dei muscoli delle zampe, abbandonarsi in terra e crollare nella polvere e nel silenzio.

Grandi secchiate d’acqua calda vengono gettate in terra. Il sangue ancora sgorga nel vascone e nelle bacinelle e nei secchi. Le vasche vengono scambiate non appena si riempiono e vengono versate in grandi tinozze, e poi da capo. La carne delle zampe posteriori viene trapassata da due ganci e il corpo viene issato a mezz’aria. Il calore di quella che un tempo era stata la vita di Kras sale e si straccia come vapore nelle volte del casale.

*

Kras era stato il maiale più grande che il paese ricordasse: una bestia mostruosa, immensa. Ricordo che arrivava con il dorso poco sotto la spalla di un uomo adulto, ben piazzato e dal petto largo, e aveva la testa grande come quella di un grande bovino, tanto da poter essere montato e cavalcato: occasioni, queste, che non erano mancate, e non solo nei giochi dei bambini, ma anche in quelli degli ubriachi. Di temperamento, si era sempre mostrato mansueto, tanto che era rimasto quasi immobile quando si era trovato di fronte una mano con un grosso coltello.

Si sarebbe detto che attendesse da sempre, che nella propria coscienza di bestia castrata la morte fosse solo un altro punto nell’accidentalità del tempo, o dell’eternità, così come lo era stato il suo venire al mondo tempo prima. Sembrava, o così a me sembrava quando la sera lo riportavo in stalla e mi sedevo in terra di fronte a lui, di scorgere nei suoi occhi neri una saggezza antica, una dimenticata arte divinatoria, un certo sentire innato, ferino: un tempo delle bestie. Sembrava che nel corpo di Kras vibrasse un qualcosa di remoto e intraducibile, e che se anche avesse posseduto le parole, non avrebbe potuto dire.

*

La somma dei rumori affiochisce e gli uomini lasciano i propri lavori per accendere il fuoco con cui bollire la carcassa del grande animale. L’enorme testa pallida e pelosa di Kras viene staccata con colpi secchi e violenti che vibrano sordi sul legno. Inizia a farsi lucida quando viene separata dall’immenso corpo, che già pende per far scolare il sangue. Il sangue viene trascinato in basso da niente più che il proprio peso, la gravità e la sospensione di vene che ormai non seguono più un percorso ciclico, ma sono ora un canale aperto, reciso, interrotto. Al rumore del lavoro si sostituisce lentamente il silenzio.

Sono solo e nella luce acerba di questo grande casale esploro gli occhi dell’animale. Il loro colore emana un peso grave e notturno, che si addentra attraverso cunicoli di tane abissali. Nel trovarmi di fronte all’immensa testa mi invade il pensiero di non aver solo ucciso, ma persino decapitato il nume di una divinità pagana che ha abitato questi campi prima ancora che vi fosse un paese; prima che il ripetersi dei passi segnasse un sentiero, che un sentiero dividesse le distese in geometrie, le geometrie in possesso: in tempi in cui le piante e le bestie erano pur senza lo sguardo, pur senza la parola di un uomo. Prima che si iniziasse a separare, a separarci. La mia schiena e le mie mani tremano al pensiero di aver macellato un antico dio delle colline o delle bestie che fino ad allora, di nascosto, ha abitato il corpo del maiale Kras.

Tra i pensieri sento la grande bocca della bestia aspirare lentamente l’aria del grande stanzone come se caricasse un ultimo respiro. Poi, con voce remota e cupa dice “Grazie…”.

“Per cosa?”, chiedo. Kras temporeggia, esala la fatica del morire in un fiato caldo e umido. “Prima o poi, presto o tardi, sarebbe successo…”, aggiunge e sembra fatichi ad aggiungere altro ancora, sia per la testa mozzata, sia per la vita che lo lascia per versarsi nella paglia e sotto i miei stivali.

“Mi dispiace per le urla… so che tua sorella si spaventa…”. Rispondo di non preoccuparsi, che con un coltello in gola anche io avrei urlato, che a differenza di chi lo aveva preceduto era stato quasi impassibile. “Certo”, ride, “un’altra botta in testa l’avrei preferita… Krzysiek ha la mano leggera, mentre tu, o tuo padre…”, sorride ironico, soffia ancora dalle grandi narici fino a farle vibrare. Un’aria calda umida mi si incolla in viso. Indugia: “Senti Marek, che sapore ho, che sapore ha la mia carne?”. Rimango in silenzio. Un gelo acuto e vivo si intreccia alla mia carne. “Dipende…”. “Dipende da come decide di cucinarti la mamma quel giorno. Se diventerai salumi. Quest’anno, se il tempo sarà buono, è probabile che faremo le salsicce e poi con il resto si…”. “Tu non vorresti conoscere che sapore ha la tua carne?”. Esito.

Dopo aver fatto vibrare una delle sue grosse orecchie, quasi ad assecondare compassionevolmente i miei indugi aggiunge: “Ascolta… come fate queste salsicce? Cosa ne sarà della mia carne?”. “Dipende anche quello. Se c’è tanto grano, e quest’anno ne abbiamo, e se di sangue ne hai buttato abbastanza, bolliremo il grano e mescolandolo al sangue ci faremo una salsiccia scura”. “Anche col sangue?”, “Anche col sangue”. “E…”, le parole sono lente, affaticate, gli occhi socchiusi “…e con le mie viscere, poi che ci fate?”, “Ci facciamo una zuppa, ma prima vanno…”, “Perdonami… il tempo è poco e la mia domanda è più importante dell’immaginare in quali strani modi trasformerete il mio corpo. Perdonami, e dimmi Marek… che sapore ha la mia carne? Tu che puoi sapere, mentre sai che io non potrò mai. Dimmi se non la mia, tu puoi conoscere che sapore ha la tua carne?”

L’eco della domanda arriva fioca alle mie orecchie. Il mio corpo si fa inconsistente e così le cose del mondo intorno, che non sono più materia che io possa toccare. L’occhio scuro della grande bestia, in cui il mio viso si riflette in una sembianza appannata e tremula. Sulle mie guance scorrono lacrime calde, che cadono e bagnano le mie mani contratte, si mescolano con il sangue secco per scioglierlo ancora. Mi accorgo di singhiozzare, di un rumore lontano, ovattato, delle mie labbra che tremano. Ai singhiozzi, al vuoto cavo e compresso dei miei polmoni, a un pianto disperato, si mescola un canto basso e continuo che sembra abitarmi da un tempo eterno, anteriore a qualsiasi liturgia che abbia mai scandito durante una messa, a ogni parola che abbia mai ascoltato, a ogni parola che sia mai esistita:

“Nel volume delle viscere mancano le pagine che spiegano a che temperatura vanno mantenute, che tempo farà domani, dove mirare lo sguardo, se oggi sono preda o cacciatore, in quali sentieri… e una noticina scritta a matita: ‘corri più piano, ti inseguirò più piano’. Quali impronte, quali paure seguire, quali abbandonare e come dovrò vestire il mio corpo quest’oggi, a che cottura la mia carne? Devo avvolgerla nella paglia, bagnarla nell’acqua appena calda, prepararla per quando un giorno tornerà a non essere più mia? La terra, la terra, il corpo, la terra. Mangiare fiori, queste erbe che mondino i miei intestini. Provare se le punte delle mie dita sanno ancora della calendula di qualche estate passata?

Quanto del mio sangue cadrà nel mondo dai tagli che si apriranno sulle mie mani, dai morsi che involontariamente masticheranno la carne delle mie guance? Se un giorno le bestie le mangeranno, quando bruceranno, in quale terra mi consumerò? Potessi versarle in un grande catino, tenerle rosse fra le mani, essere una volta solo un corpo, un diavolo nudo. Devo guardare nel buio delle loro pieghe dove è caldo, ma mi è difficile piegare la testa abbastanza. Il centro, il centro, il centro che manca. Quando sarò terra scura, quando ogni pianta crescerà sul mio corpo, quando non sarò più e sarò pianta.

Masticare la mia carne, che il mio corpo corrisponda due volte al mio corpo, questo mai se conosco le parole. Se non conosco il mio sapore chi sarò domani? Esisterà un rituale, un vecchio rituale dimenticato, nel quale si sopravvive al giorno, per il giorno dopo, mangiando il corpo che si è abbandonato la notte prima, appena ci si addormenta, il momento esatto esatto. Verrai mangiato, avrai l’onore, conoscerò il sapore della tua carne e saprò di te, non conoscerò il sapore della mia carne e non saprò di me. Ho scritto questo corpo in una lingua di carne che non parlo, che mai saprò leggere. Non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, si può mai tornare indietro? Il centro, il centro, il centro che manca…”

La voce si spegne e con lei il mio respiro. Aspiro in un rantolo l’aria che ha abbandonato il mio corpo nello spazio di una continua esalazione.

*

Io sto piangendo. Singhiozzo, montando da un lamento a un pianto disperato, mentre la carne del mio corpo contratto rilascia la morsa delle dita, e poi del petto, e delle gambe e frana pesante addosso alla testa della bestia. Rimane tremula l’immagine della pelle della grande testa pallida dell’animale. Poso una mano sulla grande fronte per sentire che scotta come quella di un grave affebbrato e la accarezzo e cingo le mie braccia intorno al grande capo fino a sentire le dita congiungersi e la mia guancia bagnata sul grande animale, balbettando e ingollando aria in polmoni fino a quasi sentirmi soffocare.

Tra il rumore del mio pianto sibila un ultimo rantolo che raccoglie l’aria per un’ultima frase: “Ti disperi tanto ed è così semplice, che non si può dire, che semplicemente è. Più grande di noi, e di noi poco importa, vivi sapendo che anche tu scomparirai. Sei carne e sarai terriccio caldo, e sarai stelo e sarai fiore. Esso era prima che fossimo, sarà quando non saremo più. Non saremo noi a rimanere. Nemmeno io capivo nel tempo in cui ero uomo”. Mentre la mia vista si schiarisce e il mio pianto esausto si spegne, Kras ha smesso di ascoltare, ha abbandonato gli occhi e di lui rimane solo una grossa testa pelosa, abbandonata in un grande e serafico sorriso. Così si separa dalla vita, e da me.

*

La neve riflette il sole restituendo il colore dell’ambra più chiara. L’alba rossa impallidisce per mescolarsi all’azzurro del cielo. Krzysiek torna con gli stracci, altri secchi, la scopa. Gli altri uomini trasportano la legna su un piccolo carretto cigolante. Il casale va pulito, la carne tagliata, spartita e messa al sicuro. Da un tempo di cui nessuno ha ricordi, nel nostro paese, e non negli altri, del maiale si stacca la testa dal corpo restante e si posa su fascine e sterpaglie, per poi accendere un grande falò.

Accendiamo un fiammifero e il fiammifero accende la paglia e la paglia accende i rami e i rami avvampano in un primo fuoco, che lentamente scioglie la poca neve su cui posa la pira. L’odore tiepido del legno che brucia riempie le mie narici. Il fumo si attarda basso sopra i tetti delle case. I galli iniziano a cantare.

Guardo un’ultima volta la testa di Kras scomparire tra le fiamme. Un pesante collare di fumo avvolge quel che rimane di quel che fino a poche ore prima era stato un immenso animale. Mi chiedo se sono stato io a portarla lì sopra, ma non riesco a ricordare. Guardo ancora i suoi occhi, che prima riflettevano la fiamma e ora iniziano ad abbandonare la propria lucentezza e a farsi prima lattiginosi, poi bianchi come quelli dei ciechi, o dei cani con la cataratta. Bruciano i rari peli del muso e la pelle prima suda e si fa lucida, stillando gocce di grasso, poi scurisce in un rosso opaco. Il vento prende a soffiare, le fiamme iniziano a guizzare alte, per poi inghiottirlo lentamente come i rovi quando crescono sulle cose del mondo. I carboni respirano una luce rossa e materiale per farsi lentamente grigi. Rimango seduto in terra fino a non sentire le guance, fino a perdere lo sguardo e il corpo tra le braci. Il vento accarezza le spighe dei campi. Il fiume scorre lontano. Di tutto rimane un silenzio.

Foto di mitjaC da Pixabay

Rossi-Landi: programmazione sociale e poesia

2

È da poco uscito per Biblion edizioni Maestri contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, un volume di saggi a cura di Paolo Giovannetti e mia. L’iniziativa è nata da un seminario organizzato alla Statale di Milano il 10 febbraio 2023, grazie al contributo importante di Laura Neri. In quell’occasione, ci dividemmo per gruppi: Laura Neri, Stefania Sini e Lorenzo Cardilli intervennero su Franco Brioschi, Cecilia Bello, Stefano Colangelo, Massimiliano Manganelli e Chiara Portesine su Guido Guglielmi, Simona Menicocci, Ezio Partesana, Francesco Maria Terzago ed io su Rossi-Landi. Oltre a Paolo Giovannetti, era presente nel ruolo di moderatore Giorgio Mascitelli.

Di Andrea Inglese

 

Una filosofia del linguaggio pionieristica

A Ferruccio Rossi-Landi si confà perfettamente il titolo del nostro incontro, e nel duplice significato di essere controcorrente – fuori dalle mode e dalle tempistiche intellettuali del suo paese – e contro in senso teorico e politico, in quanto difende una concezione “militante”, seppure minoritaria, del sapere sull’uomo e il linguaggio. Si batte, insomma, non solo contro un modello di sapere ma anche di società, che quel sapere legittima. A ciò si aggiunga una pratica precoce dell’interdisciplinarità e del dialogo serrato tra filosofia e scienze umane (linguistica, semiotica, economia).

Rossi-Landi è stato dunque un pioniere nell’ambito della ricerca intellettuale. Si trova a Oxford l’anno stesso della morte di Wittgenstein (1951). E di Wittgenstein coglie tutta la portata critica nei confronti sia del positivismo logico che della successiva filosofia analitica. Del 1961 è il suo primo libro, Significato, comunicazione e parlare comune, in cui propone una lettura critica dei presupposti fondamentali della filosofia analitica. Ora, un tale lavoro non poteva essere recepito dalla filosofia italiana, ancora ignara del dibattito analitico e non ancora arricchita del confronto con la linguistica e la semiotica, come avverrà invece durante la temperie strutturalista. Il pensiero di Rossi-Landi continua a evolvere sul filo di un dialogo tra il secondo Wittgenstein e Marx. È del 1966 un suo articolo dal titolo “Per un uso marxiano di Wittgenstein”. Ed anche questa nuova direzione di ricerca lo colloca, nel panorama italiano, in una posizione assai solitaria. Ma la singolarità del suo percorso è riscontrabile fin nei suoi lavori più tardi, come Metodica filosofica e scienza dei segni del 1985, pubblicato l’anno della sua scomparsa.

Un piccolo esempio non tanto dell’inattualità di Rossi-Landi, ma del fatto che ancora non sia stata assimilata la sua lezione, è la smilza pagina che gli dedica Wikipedia. Di certo, il suo isolamento intellettuale e l’originalità di una ricerca in perpetua evoluzione hanno favorito anche il formarsi di alcuni nodi irrisolti nel suo pensiero. Ne sono testimonianza, oggi, studi di giovani ricercatori, che hanno come ambizione di riconsiderare i fondamenti teorici del suo pensiero in un’ottica critica e di ulteriore chiarificazione. A questo proposito è importante citare almeno la recente monografia di Giorgio Borrelli dal titolo Ferruccio Rossi-Landi. Semiotica, economia e pratica sociale (Edizioni dal Sud, 2020). Essa conferma che, seppure con ritardo, esiste un nuovo interesse per il nostro autore e non solo da un punto di vista puramente storiografico, ma anche teoretico e militante.

Per quanto mi riguarda, non ho certo le competenze per avanzare valutazioni sulle sue tesi maggiori, né posso spacciarmi per uno studioso della sua opera. Agirò, però, con l’opportunismo metodologico che caratterizza spesso il lavoro di riflessione sulla letteratura, ossia metterò in rilievo alcuni punti del pensiero di Rossi-Landi, sperando che risultino utili per chiarire aspetti importanti della pratica poetica contemporanea.

 

Ideologie letterarie e olismo antropologico: Rossi-Landi e Descombes

Se la lirica si è imposta come genere dominante della poesia moderna, nulla ci dice, stando almeno alla situazione italiana, che questo dominio si sia inequivocabilmente esaurito, nonostante i più svariati annunci di un oltrepassamento di portata storica. “Dopo la lirica”, insomma, il lirismo sembra tutt’ora vivo e vegeto come anche il quadro ideologico che lo giustifica. Così è, di conseguenza, per la contestazione del lirismo e per alcuni dei suoi presupposti teorici. Pratiche di poesia anti-lirica o semplicemente non lirica sono tutt’ora rivendicate, e spesso attraverso un inevitabile riferimento alla tradizione novecentesca delle avanguardie. Se siamo d’accordo nel riconoscere questi tratti molto generali del paesaggio poetico attuale (almeno in Italia), è importante sottolineare che la partizione conflittuale tra postura lirica e postura non-lirica trae le proprie risorse ideologiche da ideali complementari e, spesso, intrecciati indissolubilmente.

Nel paradigma lirico, l’enunciato poetico deve realizzare una restituzione (verbale, ritmica, musicale) di un’integrità o di una totalità perduta, quella dell’esperienza individuale e autentica, del vissuto silenzioso che precede l’impoverimento imposto dal discorso ordinario, attraverso cui la persona comune è costretta a esprimere ciò che gli accade e la sua visione del mondo. Nel paradigma alternativo e minoritario, che fa riferimento alle avanguardie, il valore dell’enunciato poetico pertiene al suo carattere emancipatore, ossia alla sua possibilità di affrancarsi, attraverso procedimenti verbali più o meno innovativi – sia di tipo grafico e visivo, che orale e performativo –, dalle costrizioni ideologiche e culturali di una società data. Questi ideali – integrità ed emancipazione – si presentano sia in modo intrecciato che separato sul piano delle poetiche. Possiamo avere una poesia lirica, che predica l’emancipazione dagli stereotipi veicolati dalla lingua comune così come una poesia sperimentale o di ricerca che persegue l’utopia di un “realismo integrale”. A monte, però, agiscono dei costrutti ideologici più complessi (e anche più confusi) che legittimano questi ideali, e la loro influenza sulle pratiche di scrittura.

Se consideriamo il paradigma lirico, è inevitabile fare riferimento all’espressivismo nelle sue forme per lo più ingenue[1], ossia a un complesso di idee basato sulla partizione tra individuo-esperienza-interiorità, da un lato, e società-linguaggio comune-esteriorità, dall’altro. La versione ingenua dell’espressivismo presuppone che l’individuo poetante possegga una qualche forma di esperienza privata e interiore, da salvaguardare rispetto alla traduzione che il linguaggio comune finisce per farne, spogliandola della sua ricchezza originaria. Se prendiamo in conto, invece, le forme contestatrici del paradigma lirico, legate a gesti di rottura avanguardistici o sperimentali, ritroviamo spesso una sorta di rovesciamento ideologico degli ideali espressivisti. In tale prospettiva, è l’esteriorità della lingua a costituire il soggetto – e quindi l’individuo poetante –, non lasciando ad esso nessuna riserva interiore d’autenticità, ma anche nessuna zona mentale immune dalla penetrazione dell’ideologia. Si rischia d’imbattersi, qui, in una versione più o meno riduttiva sia di certi assunti strutturalisti che post-strutturalisti.

Più in generale, nel piccolo universo delle ideologie letterarie, si riflette un fenomeno che, pur avendo caratterizzato la crisi della modernità, continua a ripresentarsi come nuovo e assillante nell’epoca attuale. La società contemporanea sembra perennemente minacciata da una duplice e contraddittoria condizione: da un lato, la rottura del legame sociale, l’atomizzazione dell’io e la conseguente diffusione di un pernicioso narcisismo di massa; dall’altro, un controllo e un condizionamento sociale illimitati, che espongono il singolo senza difese al dominio delle istituzioni e dei centri di potere economico e tecnologico. Il caso delle piattaforme digitali è da questo punto di vista esemplare. Da un certo punto di vista, non vi è dispositivo sociale in grado di inverare nel modo più diffuso, democratico e capillare gli ideali espressivisti: attraverso le finestre dei “social”, ognuno ha la possibilità di “scegliere se stesso”, ovvero di costruire un’immagine e un discorso che siano la più libera e autentica espressione di sé, mettendo in secondo piano la lunga lista delle proprie “appartenenze”. Non a caso, le piattaforme sono anche accusate di accrescere le posture narcisistiche degli individui, rendendo questi ultimi sempre più ciechi nei confronti della diversità di condizioni, esperienze e prospettive presenti nella società. Le finestre di Facebook e Instagram banalizzano e rendono in qualche modo operativo l’imbroglio concettuale del solipsismo: ”l’unico mondo che esiste è il mio mondo”. D’altra parte, queste oasi di libertà selvaggia, dove i desideri dell’individuo trionferebbero su ogni vincolo collettivo, si rivelano, in realtà, sfere opache sottoposte a forme di condizionamento e sfruttamento ampiamente inconsapevoli. Ogni giorno, attraverso la volontaria “connessione”, non accediamo soltanto a strumenti di comunicazione multimediale di cui non abbiamo deciso architettura e funzioni, ma forniamo ininterrottamente dati sul nostro comportamento che potranno essere utilizzati, nel migliore dei casi, per arricchire grandi aziende, e nel peggiore, per accentuare il controllo o il condizionamento nei nostri confronti, da parte di soggetti terzi (privati o statali).

Queste prospettive simultanee e antitetiche sembrano riconducibili alle due opzioni ideologiche, di cui si sono serviti studiosi, critici e poeti nel corso della seconda metà del Novecento: ideali espressivisti e difesa dell’autenticità individuale versus sparizione del soggetto e onnipotenza delle strutture linguistiche impersonali. Su questo gioco di specchi tra l’espressivismo come quadro ideologico del lirismo e lo strutturalismo o post-strutturalismo come quadro ideologico di certo avanguardismo, si è espresso anche Italo Testa nel suo recente saggio “Teoria della poesia”, inserito nel volume Teoria della letteratura a cura di Laura Neri e Giuseppe Carrara (Carocci, 2022, p 204).

È pur vero che in una certa misura una concezione meramente soggettivista e psicologista dell’espressivismo sembra divenire egemonica in una certa fase della teoria della poesia moderna e contemporanea, finendo per generare una reazione oggettivista, un partito preso delle cose che ne ribalta gli assunti, e finisce per sfociare nella «morte del soggetto» strutturalista.

Ora ciò che ci permette di mettere fuori gioco sia il quadro espressivista sia quello riduzionista che gli si oppone è una filosofia del linguaggio come quella di Rossi-Landi, che si accompagna a una più generale concezione antropologica. Fin dalla sua prima opera del 1961, Significato, comunicazione e parlare comune, egli considera il fatto linguistico come un fatto sociale globale. Ciò significa considerare che la comunicazione di significati è una pratica sociale, che si apprende e si esercita all’interno di un intreccio di quelli che Wittgenstein chiamava giochi linguistici e forme di vita. Questo intreccio costituisce una totalità, un orizzonte comune a tutti i parlanti, anche se si articola attraverso una gran ricchezza di pratiche e di universi discorsivi particolari. (Alle spalle di Rossi-Landi vi sono i concetti di “spirito oggettivo” hegeliano, di “cosmologia” secondo Charles Sanders Peirce, di “prassi” secondo Marx e di “semiotica” secondo Charles Morris.)

Secondo quest’ottica, il linguaggio è quindi un sistema inseparabile di segni verbali e segni non-verbali, di attitudini comportamentali e di modelli d’enunciazione. Impossibile, quindi, presuppore forme di “privatezza” o d’“interiorità” dell’esperienza individuale che precedano il formarsi del “soggetto umano” entro le strutture sovrapersonali di una società storicamente data. Il concetto stesso d’intersoggettività è messo in crisi, in quanto esso implica l’esistenza di singole esperienze soggettive, che si troverebbero poi nella condizione di accordarsi e d’istituire significati comuni. In altri termini, è respinto il pregiudizio contrattualistico che sta alla base della varie forme di “individualismo metodologico”, ancora in uso nelle diverse scienze umane. Scrive Rossi-Landi, in Semiotica e ideologia (Bompiani, 1972/2000, p. 24):

quando gli individui si mettono a parlare non esprimono affatto un proprio accordo, non concorrono affatto in un contratto, non aderiscono ad alcuna convenzione, non stringono alcun patto; bensì soltanto imparano una tecnica comunitaria cui partecipano attivamente quali erogatori di lavoro linguistico, ma che subiscono in modo pressoché totale per quanto riguarda le modalità tecniche.

Il concetto di “lavoro linguistico”, che permette agli individui di produrre e scambiare “enunciati”, è quindi inseparabile non da proprietà della mente, della coscienza o del cervello, ma innanzitutto da “tecniche comunitarie”, il cui esercizio ovviamente presuppone determinate condizioni biologiche, ma che non è in alcun caso riducibile a esse. Le tecniche sono pratiche di significazione, che permettono a un individuo di produrre un significato (verbale o non verbale) per un altro individuo. Questo implica che l’istituzione di una certa tecnica precede i due individui (e i loro eventuali “stati mentali”) nelle circostanze dell’interlocuzione, ed è trasmessa a entrambi dalla società in cui vivono. Una tale concezione della comunicazione linguistica ha conseguenze radicali: – cito sempre da Semiotica e ideologia – 1) “In nessun caso il lavoro linguistico va inteso come attività interiore del soggetto, come ‘atti intenzionali’ od ‘operazioni mentali’ che si svolgerebbero necessariamente nella psiche conscia o inconscia dei singoli individui realisticamente intesa (…)” (p. 35); 2) bisogna respingere, a sua volta, “un pregiudizio individualistico di tipo idealistico o spiritualistico, secondo il quale gli individui sarebbero preformati alla loro convivenza sociale” (24-25).

Rossi-Landi difende quella che filosofi contemporanei come Vincent Descombes definiscono una concezione olistica della mente e della vita sociale, precisando che i due termini sono qui sinonimi: vi è “mente”, laddove vi è “società”, ossia un mondo di significati comuni, e non semplicemente intersoggettivi. In Les institutions du sens (Minuit, 1996, p. 333), Descombes formula il concetto di olismo antropologico e riconduce le “tecniche comunitarie” di Rossi-Landi agli “usi”, con riferimento alla sociologia francese di Marcel Mauss:

Questi usi sono delle istituzioni nel senso di Mauss, sono della maniere di fare e di pensare, di cui gli individui non sono gli autori. Gli individui sono certamente gli autori delle frasi che costruiscono, ma non sono gli autori del senso di queste frasi, ed è precisamente quel che si vuole dire, parlando di un significato impersonale degli enunciati.

Tale concezione olistica permette anche di delucidare una delle questioni che sono cruciali per le scienze umane, ma anche per quelle naturali, ossia l’ominazione, la formazione dell’animale uomo, in quanto animale “sociale” e “parlante”. Scrive Rossi-Landi in Linguistica ed economia (Mimesis, 2016, p. 36-37):

l’ominazione con tutti i processi che la compongono va intesa come affatto antecedente all’uomo. Assumere che, in generale, ci sia nell’individuo umano qualcosa di già formato significare negare l’interpretazione storico-materialistica dell’ominazione. Ciò vale quando l’elemento assunto è di tipo spirituale come quando è di tipo biologico: sia che lo riduca a qualcosa che sta al di fuori della storia perché lo sovrasta, sia che lo si riconduca a qualcosa di precedente alla storia e di estraneo ad essa. Studiare l’ominazione in senso storico-materialistico significa invece ricondurre l’uomo a processi comunitari che lo precedono ma poi anche lo accompagnano come uomo in generale […].

 

Programmazione sociale e autonomia individuale

Ora, se una tale impostazione olistica mette fuori gioco l’espressivismo ingenuo e i suoi pregiudizi contrattualistici e mentalistici, essa è confrontata alla difficoltà di rendere conto, da un lato, dell’integrazione del nuovo venuto in una totalità di senso connessa a una data società e una data lingua, e, dall’altro, della capacità di quest’ultimo di esercitare, nel corso di questa integrazione, un’autonomia e persino una critica nei confronti delle norme acquisite. Si tratta di concepire come possono convivere il carattere sociale e globale dei significati, e nello stesso tempo la capacità di gruppo o individuale di metterli in discussione, senza fare riferimento a un’interiorità di tipo extrastorico (naturale, biologico, pre-sociale) o sovrastorico (spirituale, razionale – in senso kantiano -, ecc.).

Per quanto riguarda il processo di integrazione, Rossi-Landi parla di programmazione e di programmi. In Ideologia (Isedi, 1978, p. 198), scrive: “Gli individui imparano cioè a eseguire programmi che sono stati elaborati da precedente lavoro umano sociale. Si diventa membri della società in quanto, anche senza saperlo, se ne accettano i prodotti e si impara ad adoperarli”. È il necessario apprendimento dei “programmi” che permette sia all’individuo di interagire con la società già costituita, sia a quest’ultima di conservare la coesione dei gruppi sociali e dei valori. Il rapporto dei singoli gruppi sociali alla programmazione non è, però, privo di conseguenze sul piano ideologico e politico. Il fatto di aver sottolineato questo aspetto è probabilmente l’apporto più importante di Rossi-Landi alle concezioni olistiche del sociale. In questo quadro concettuale, egli inserisce il concetto (storico-materialistico) di “classe dominante”, “come la classe che possiede il controllo dell’emissione e circolazione dei messaggi verbali costitutivi di una data comunità” (in Semiotica e ideologia, pp. 205-206). La programmazione sociale, quindi, è sempre ideologica, in quanto favorisce un gruppo sociale (la classe dominante[2]) a scapito di un altro (la classe dominata). Ciò significa, allora, che la partecipazione degli individui alla comunicazione (il loro specifico lavoro linguistico per produrre enunciati) è inevitabilmente alienato.

Giunto su questo terreno, il pensiero di Rossi-Landi sembra preso in un movimento contraddittorio: è indispensabile accrescere la consapevolezza del condizionamento sociale, ossia del peso della dominazione di classe, additando ogni aspetto della vita sociale e discorsiva in cui essa è presente, ma, nello stesso tempo, è necessario elaborare un quadro concettuale che implichi la possibilità per individui o gruppi sociali di emanciparsi da essa. Ritroviamo il rischio di ogni enfasi messa sul potere delle strutture sovrapersonali – sistemi semiotici o dispositivi specifici di “fabbricazione” della soggettività di tipo foucaultiano. Come si sfugge, in tale prospettiva, all’alienazione diffusa, conquistando una forma di autonomia individuale? Rossi-Landi cerca di sciogliere questo nodo, affermando che, nonostante ogni interazione verbale o non-verbale sia frutto di programmazione sociale, è possibile concepire programmazioni innovative, e soprattutto programmazioni liberatorie. Non è, però, così chiaro come un soggetto individuale o collettivo passi dalla semplice esecuzione di un programma ereditato, a un programma liberatorio e di rottura. Ma questo è un problema tipico di una concezione olistica del mentale (e della società). In un saggio dedicato a Descombes (“L’apport de la philosophie de Vincent Descombes aux sciences sociales”), inserito in un libro collettivo del 2020 (Le social et l’esprit, a cura di F. Callegaro e J. Xie, éditions EHSSS, p. 21) Alain Ehrenberg, Irène Théry e Philippe Urfalino lo individuano lucidamente: “Come conciliare la constatazione di un’iscrizione del pensiero individuale nell’universo sociale che lo precede e lo oltrepassa (…) ?” Come insomma lasciare uno spazio di autonomia all’interno di pratiche non verbali e verbali interamente condizionate da un sistema sociale e dalla sua ideologia?

M’interessa considerare a questo punto se, in Rossi-Landi, la poesia possa svolgere un qualche ruolo di emancipazione, di apertura oltre la programmazione sociale ereditata. D’altra parte, la principale dimensione politica insita nella poesia risiede proprio nella pretesa di aprire uno specifico spazio – ritualizzato finché si vuole – in cui sia possibile verificare un’esteriorità almeno relativa del parlante rispetto al codice discorsivo a cui è sottoposto. Ora, come già ricordato all’inizio, tale pretesa attraversa, dalla modernità in poi, sia il campo del genere lirico sia quello delle rotture avanguardistiche. Nel saggio introduttivo al suo recentissimo libro, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale (Interlinea, 2023, p. 8), è ancora Italo Testa, con riferimento ad Adorno, a ricordarlo: il dire poetico autorizza la speranza in un mondo che ancora non c’è (e che esso comunque non può realizzare): “Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo (…)”.

Perché questa ipotesi di lavoro linguistico specificatamente “poetico” abbia senso, bisogna capire come sfuggire al condizionamento storico-ideologico della lingua, che secondo Rossi-Landi “raggiunge un punto in cui è il linguaggio che si serve di noi” (in Linguistica ed economia, cit., p. 275). Se, insomma, è la lingua dei dominanti che ci parla, non solo ogni forma di critica radicale e contestazione della società esistente è compromessa, ma persino quella “distanza dal mondo”, che la pratica poetica cerca di mettere in scena, di ritualizzare. Ma proprio quando il nostro autore nega al parlante comune un contributo di tipo “creativistico” (nato nella sua libera interiorità), anche valorizza circostanze in cui può avvenire una “messa a distanza” del mondo. Quest’ultima si realizza in un primo tempo non attraverso una “magica” capacità di saltare al di fuori della lingua e dei significati comuni, contrapponendo loro qualcosa di più autentico, intimo, privato, o un semplice gesto di negazione indifferenziata. Come dice Rossi-Landi, il primo passo verso l’emancipazione consiste in un “accrescimento della programmazione umana” (in Ideologia, cit., p. 199) ossia in una presa di coscienza di tutto quanto è implicito e inconsapevole nel lavoro linguistico ordinario. L’autonomia del parlante comincia, ad esempio, con l’esplicitazione dei modelli di enunciato che egli ripete e riprende. Ma questo processo di “accrescimento della consapevolezza” non si fa a partire da un qualche slancio espressivo individuale o in virtù di qualche innata chiaroveggenza dell’intelletto, ma attraverso uno specifico e ulteriore lavoro linguistico sui significati e i modelli di enunciato condivisi socialmente. Scrive Rossi-Landi, in Linguistica ed economia (cit., p. 102):

Per diventare consci dei programmi per l’uso degli artefatti linguistici dobbiamo studiare il funzionamento delle cose che sono già state prodotte. Il singolo lavoratore linguistico raramente procede dai programmi per l’uso ai modelli di produzione, passando sugli artefatti a ritroso, sebbene questo non sia impossibile. Di solito accade solo nella ricerca, nell’invenzione di parole nuove che soddisfano un nuovo bisogno sociale, e nel caso della cosiddetta “creazione” poetica (modificazioni riportate a programmi, o anche ad alcuni modelli di produzione).

Ha quindi ragione chi, nell’universo del consumo letterario, denuncia la poesia come un genere “sbagliato”, elitario o autoreferenziale, in quanto l’enunciato poetico inceppa, rallenta, a volte rende impossibile il normale sviluppo della comunicazione, chiedendo al lettore una complicità in questa operazione di allontanamento da tutto quanto è percepito nella programmazione linguistica come “familiare”, “naturale”, “ovvio”. D’altra parte, la voce “ideologica”, accordata alla concezione dominante di letteratura, dicendo quel che dice, va anche incontro a una contraddizione. Da un lato, si addita l’incresciosa situazione del prodotto “poetico”, che non è una merce letteraria di consumo facile e familiare (friendly, come dicono gli anglosassoni) come invece lo è il romanzo, dall’altro, si denuncia spesso il fatto che “tutti sono poeti”, tutti scrivono, e quindi nessuno legge la poesia. Se questo è anche solo in parte vero, significa che, nonostante le riserve dei critici e degli editori, la “poesia” fa parte di un programma sociale di comunicazione, è qualcosa di condiviso nelle sue linee più generali, anche se i suoi prodotti più “lavorati” (secondo procedimenti di esplicitazione critica) non sono a volte neppure riconosciuti come legittimi frutti di questo programma.

Vediamo di trarre, ora, qualche conclusione da questo percorso attraverso Rossi-Landi e l’olismo antropologico. In primo luogo, sia i testi poetici inscritti nel paradigma lirico sia quelli inscritti in quello delle avanguardie, fanno riferimento a tradizioni, ossia a forme di programmazione sociale, che implicano, a partire dal discorso e dai significati comuni, uno specifico “lavoro linguistico” del “poeta”. Quest’ultimo si trova di fronte a dei programmi “inscatolati” gli uni negli altri, e quindi non solo lavora sui significati comuni, ma anche sugli specifici modelli di enunciato che vengono dalle tradizioni poetiche a cui ha accesso storicamente. Lo “stile” individuale, allora, è semplicemente uno specifico lavoro linguistico, atto a individualizzare l’enunciato poetico, non certo il riflesso di una singolarità biologica, che, in modo misterioso, si tradurrebbe direttamente nel linguaggio. Opporre, allora, la “scrittura” allo “stile” in un’ottica barthesiana, significa semplicemente indicare un diverso orientamento del lavoro linguistico. Non si tratta, quindi, di annunciare la sparizione del soggetto, quanto di sospendere – grazie a un’accresciuta consapevolezza – una serie di automatismi che il perseguimento dello stile personale ha sedimentato nel codice lirico. È su questo terreno che, per un critico attento alla contemporaneità come Gianluca Picconi, si gioca oggi la possibilità di una poesia di ricerca e in particolar modo di un’attitudine “non-assertiva”. Scrive Picconi in La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività (Tic Edzioni, p. 22): “La scrittura non-assertiva potrebbe essere allora il tentativo di determinare il passaggio, in poesia, da stile a scrittura: eliminazione delle componenti individuali irriflesse e istintive, per lasciare spazio a una progettazione capillare ma disindividualizzata dell’oggetto letterario. Disindividualizzare, in particolare, la funzione del testo più cogente alla lirica, ossia l’autore”. Dobbiamo solo precisare, in virtù del discorso fatto fino ad ora, che quelle “componenti individuali” sono “irriflesse e istintive”, come lo sono tutta una serie di attitudini inscritte in un dato programma sociale, attitudini cioè non ancora sottoposte a esplicitazione e distanziamento critico.

Ciò che oggi cerchiamo di definire come il campo della poesia “di ricerca”, è un tipo di lavoro linguistico, interno al programma moderno della poesia, ma che opera simultaneamente su almeno due fronti: quello degli automatismi linguistici del discorso ordinario e quello degli automatismi linguistici insiti nella tradizione del genere letterario a cui fa riferimento. Se la poesia di ricerca e la poesia lirica condividono, in fondo, gli ideali moderni dell’emancipazione, la prima considera che l’affrancamento deve realizzarsi anche rispetto ai caratteri inevitabilmente ideologici (e quindi storici e convenzionali) connessi con lo specifico discorso poetico. Così è stato con la grande crisi della metrica tradizionale, tra fine Ottocento e primo Novecento; così è oggi, ad esempio, con la crisi (o la cancellazione) della distinzione tra verso e prosa nelle scritture poetiche contemporanee. Una tale situazione non sancisce la fine della poesia come istituto sociale ancora prima che letterario – del resto, non è certo un gruppo di poeti, pur talentuosi e innovatori, che potrà farlo. Essa mostra, semmai, che il processo d’individualizzazione dell’enunciato poetico può avere tutt’ora un senso, ma si realizza attraverso prosaici procedimenti o dispositivi, che poco hanno a che fare con la singolarità biologica del poeta, e molto, invece, con lavorazioni linguistiche specifiche che ambiscono sia a modificare il programma sociale della poesia sia i modelli di enunciati che essa veicola. Anche la poesia di ricerca, quindi, essendo frutto di lavoro linguistico, implica un’intenzionalità soggettiva, e non si realizza in forme anonime o de-soggettivate – questo potrebbe avvenire nei casi di poesia realizzata attraverso l’Intelligenza Artificiale, somma espressione di automatismi linguistici. Quello che rischia di sparire dall’orizzonte è allora soltanto il presupposto ideologico di ogni lavorazione su programmi e modelli linguistico-letterari, ossia quella singolarità extrastorica – sostrato biologico o psicologico – di un autore, garante di uno stile fatalmente unico.

 

[1] Una forma non ingenua di espressivismo è quella elaborata dal filosofo canadese Charles Taylor, che cerca di comprendere gli ideali espressivisti attraverso una genealogia della modernità e di fornirne una descrizione, che integri gli apporti della “svolta linguistica”. L’espressione di sé è allora un’articolazione personale, realizzata attraverso il linguaggio comune, di modelli, norme, valori ereditati dalla società (moderna) in cui viviamo.

[2] Oggi possiamo complicare lo schema marxiano classe dominante-classe dominata, inserendo altre partizioni e subordinazioni sociali: di genere, di orientamento sessuale, relative al gruppo etnico.

ADDIO ALL’INVERNO

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di Cécile Wajsbrot

(NdR Il testo che segue, letto dall’autrice lo scorso agosto all’Accademia delle Arti di Berlino, è apparso nel numero 21 della rivista Journal der Künste, periodico della stessa istituzione. La traduzione è di Stefano Zangrando)

1552 – Pantagruele e i suoi compagni raggiungono il confine con il mar Glaciale, quando ad un tratto odono delle grida. Tutt’attorno non vedono nulla e nessuno, ovunque c’è solo l’oceano. Sono terrorizzati, alcuni vogliono fuggire. Il timoniere, tuttavia, li riporta alla calma. Quelle che sentite sono le parole di una battaglia che ha avuto luogo lo scorso inverno, parole che il freddo ha congelato. Ora che il tempo si è fatto più mite, le parole si scongelano, ma i combattenti sono spariti da un pezzo.

Fine del XXI secolo – In conseguenza del riscaldamento globale la calotta di ghiaccio del Polo Nord si è sciolta facendo salire il livello del mare, il Giappone è stato sommerso, Venezia inghiottita e a Parigi regna un clima tropicale per la gioia dei flâneur nel Giardino delle Tuileries, divenuto una foresta di bambù. Al Grand Palais si tiene la Conferenza Annuale per la Stabilizzazione del Clima –  la cui comunicazione è affidata a una nota società, Panem et Circenses. Ma le cose si complicano, perché sono in ballo grossi interessi economici.

1999 – Il romanzo Greenhouse Summer di Norman Spinrad, tradotto in italiano con il titolo Condizione Venere e dal quale proviene questa visione degli effetti del riscaldamento globale, esce nell’anno della tempesta Lothar, che subito dopo Natale distruggerà gli alberi delle Tuileries, quelli dei giardini di Versailles e delle foreste della Francia occidentale – centoquaranta milioni di metri cubi di bosco abbattuti. A Parigi il vento soffia fino a 200 chilometri orari.

Agosto 2023 – E noi qui, oggi, più avvezzi alle immagini della catastrofe che alle parole che la designano. Alberi sradicati, strade squarciate, dighe distrutte, onde colossali, paesaggi alluvionati, città devastate. Le immagini che scorrono sempre più spesso sui nostri schermi rendono pressoché inutili i commenti fuoricampo. Eppure le parole hanno qualcosa da dire. Noi che scriviamo lo sappiamo bene.

1816, l’anno senza estate – In una lettera alla sorellastra, Mary Shelley descrive la propria ascesa sulle Alpi, «nel pieno di una violenta tempesta di pioggia e vento». Pochi giorni dopo, la vista sul lago di Ginevra si ammanta di neve. Fra l’aprile e il settembre 1816 piove per trenta giorni. In quell’estate Byron, Shelley e Mary Shelley, costretti in casa dal maltempo, per combattere la noia decidono di scrivere una storia di fantasmi ciascuno. È l’atto di nascita di Frankenstein.

Aprile 1815 – Il Tambora, un vulcano indonesiano, erutta. Piogge di pietra pomice, immense colate di lava, una colonna di fumo alta quarantaquattro chilometri, i corpuscoli di polvere giungono a cadere nell’emisfero nord-americano e nel nord dell’Europa. Nell’estate 1816 le temperature calano di mezzo, quando non di un intero grado, provocando cattivi raccolti in Svizzera e Germania, e carestie che provocano agitazioni. Le tinte irreali dei cieli di Turner hanno forse la loro sorgente nelle condizioni climatiche provocate dall’eruzione.

2050 – Il passaggio a nord-ovest, il passaggio a nord-est cercato a lungo e che ha provocato tanti morti, naufragi e spedizioni, il passaggio tra Siberia e Alaska: tutto questo è sempre navigabile. In estate l’Artico è libero dal ghiaccio e la spartizione delle acque e delle risorse ha portato tensioni e conflitti fra i paesi dell’estremo nord.

1866 – In un lungo preambolo a I lavoratori del mare intitolato L’arcipelago della Manche, Victor Hugo nel capitolo venti scrive: «Il mare edifica e demolisce; l’uomo aiuta il mare non a costruire, ma a distruggere […]. Tutto sotto di lui si modifica e cambia, ora in meglio, ora in peggio. Qui trasfigura, lì deturpa». Victor Hugo sa che l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, anche se questa parola non esiste ancora. E dopo un passaggio che glorifica il progresso, avverte: «Tuttavia non dovremmo sopravvalutare il nostro potere. Ciò che facciamo non va oltre la superficie. L’uomo veste o sveste la Terra, un disboscamento è un indumento dismesso. Ma rallentare la rotazione del globo sul suo asse, accelerarne la corsa intorno alla sua orbita […], modificare la processione degli equinozi, cancellare una goccia di pioggia, giammai […]. L’uomo può cambiare il clima, ma non la stagione».

Oggi – Già allora, si è tentati di dire leggendo queste frasi di Victor Hugo – e ogni volta che qualcuno dà prova di preveggenza o di lucidità. Già allora – Aldous Huxley che negli anni cinquanta del ventesimo secolo ci mette in guardia dai rischi della sovrappopolazione. Già allora – queste righe tratte da Primavera silenziosa di Rachel Carson, scritte nel 1962: «L’aggressione più allarmante compiuta dall’uomo nei confronti dell’ambiente è la contaminazione dell’atmosfera, del suolo, dei fiumi e dei mari con sostanze pericolose e persino mortali». Già allora, diranno gli esseri umani nel 2065, se ce ne saranno ancora, leggendo i libri di coloro che al volgere del XX secolo, o all’inizio del XXI, avevano messo in guardia dagli effetti dannosi dei gas serra, e ascoltando le voci di coloro che chiedevano di mettere al bando il diesel, di chi sperava di limitare il riscaldamento medio globale a meno di due gradi, mentre avrà raggiunto già i cinque o sei. Già allora, diranno se avranno accesso ai documenti delle conferenze sul clima tenute a partire da quella di Rio nel 1992. Lo sapevano, diranno, e sospirando aggiungeranno: perché non hanno fatto niente?

Da sempre – la metafora guida l’immaginazione. I paesaggi dei dipinti e dei libri nascono da estrapolazioni dai paesaggi reali che attraversiamo. Li interpretiamo, ne carichiamo le tinte, li rendiamo puri. Un inverno particolarmente freddo dà inizio a un’era glaciale, il cielo scuro di un paesaggio nevoso diviene di un verde singolare. La guerra fredda, l’acqua raffreddata dei reattori nucleari, produce infiniti paesaggi ghiacciati che perfino gli eroi più intrepidi dei film catastrofici domano solo con grande fatica.

Nel XXI secolo potremo ancora scrivere l’inverno, sapremo ancora leggerlo, comprenderemo ancora i dipinti e i libri che lo illustrano? Consapevoli come siamo di una possibile scomparsa della specie umana in un futuro che non si calcola più in millenni o secoli, ma in decenni, rassomigliamo, torniamo simili agli Aztechi che di notte vegliavano colmi d’angoscia spiando la riapparizione del sole. La notte del mondo incombe, e il passato ci mostra la via del futuro. È la paura che estende il proprio influsso. Con gli occhi spalancati osserviamo ciò che accade oggi, sappiamo, e anticipiamo – nelle previsioni scientifiche come nei racconti di science fiction. Sappiamo – e allora, che cosa faremo?

L’orgoglio della modestia

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di Gianni Biondillo

È fin troppo facile non apprezzare l’architettura del Movimento Moderno. Non un orpello, non un fregio, un linguaggio formale all’apparenza basico, senza fronzoli, senza inventiva. Finestra ritagliate su pareti bianche, tetti piani, pilastri senza capitelli. Di tutt’altra pasta le architetture coeve o di solo pochi anni prima: colonne in pietra, archi, sculture magniloquenti, balconi in ferro battuto. Una bellezza esibita, ricca, enfatica. Sarebbe facile, dicevo, ma sarebbe ingeneroso. Senza contestualizzare ci rifugeremmo in una lettura della cose puramente estetica e nostalgica: com’erano belle le architetture del passato, come sono brutte quelle della modernità! Ma quella generazione di artisti, che sapeva benissimo progettare usando gli stili dell’eclettismo, aborriva quel modo di pensare l’arte non per ragioni estetiche ma per ragioni etiche. Progettare case per ricchi era di certo più proficuo per la loro carriera professionale. Solo che le risorse a disposizione – artigiani, materie prime, tecnologie – erano infinite unicamente per chi se lo poteva permettere. Quella generazione comprese che era immorale progettare palazzi di una ricchezza esibita e volgare, quando la massa popolare, il proletariato, i poveri, vivevano nelle nostre città in condizioni abitative disperate, al limite della sussistenza.

Il tema era, a parità di risorse a disposizione, progettare una casa decorosa per tutti. Indipendentemente dal censo o dalla classe sociale. Era una questione etica, appunto. Il tema dell’existentzminimum, tanto dibattuto in quegli anni, voleva definire quali fossero le condizioni essenziali di un nucleo famigliare affinché non mancasse nulla alla loro civile convivenza: acqua corrente, bagni, igiene, riscaldamento, luce naturale, ricambio d’aria. Cose che i ricchi, quelli che riempivano di fregi le facciate delle loro case, avevano già, ma che alla stragrande maggioranza delle popolazioni urbane mancavano. Quindi, piuttosto che baloccarsi con l’ennesimo esperimento formale, bisognava cambiare il gusto sia delle classi dirigenti che di quelle popolari. Avere, come ebbe a scrivere Lionello Venturi, l’orgoglio della modestia. Concepire il progetto come il luogo dove la qualità fosse a disposizione di tutti e non di pochi eletti. Usare materiali di facile reperibilità, di basso costo, replicabili, e concentrare tutti gli sforzi per estrarne bellezza, attraverso la funzionalità. È la base dell’idea del design che accompagnerà l’intero novecento: immaginare una lampada, un piano cottura o una poltrona, utilizzabili sia dal borghese che dall’operaio. Una vera e propria democrazia delle risorse estetiche.

Il razionalismo, insomma, non era contrario alla tradizione ma al tradizionalismo. La mostra fotografica sull’architettura vernacolare di Giuseppe Pagano alla VI Triennale lo dimostra in modo palmare: non erano gli stili del passato che lo interessavano, ma come, in una ristrettezza di risorse, la cultura popolare avesse trovato le più razionali soluzioni tecnologiche, trasformandole in soluzioni formali.

Nel secondo dopoguerra, le seconde e terze case, le borgate abusive, le palazzate abusive e le villettopoli cresciute indiscriminatamente, sono state molto più devastanti sul nostro paesaggio così fragile che le tanto vituperate periferie urbane. Il “Piano Fanfani”, quanto meno, voleva dare una casa a tutti, pensandola come un diritto. Oggi il valore d’uso è stato soppiantato dal valore di scambio. Si costruisce non per fare case ma per fare cassa, in una nazione dove non c’è bisogno di costruire più nulla. Oggi le più avvedute avanguardie, memori della lezione etica dei maestri, non progettano il nuovo ma rimettono in gioco e riqualificano il già esistente. Piuttosto che sfoggiare ennesime, leziose torri tortili in vetro e acciaio, ammantate di un peloso greenwashing, occorre tornare all’orgoglio della modestia. Porsi eticamente in una realtà dalle risorse scarse, sfidando dal punto di vista della progettazione una realtà ipercostruita. Progetto sostenibile, stop al consumo di suolo e cubatura zero dovranno essere i nuovi imperativi. E chi se ne frega del bello stile.

(precedentemente pubblicato su Il Corriere della sera-Design del 22-11-23)