Narrano le cronache non scritte di Trizzulla, paese dell’entroterra madonita, che all’indomani della legge Merlin l’arrivo del nuovo parroco don Basilicò fu accompagnato dalla presentazione d’un prodigio: la nipote Lina, meglio nota alla memoria dei fedeli come l’Ovarola o la Moglie del Serpente. Appena salito sul pulpito l’ecclesiastico liquidò i convenevoli di rito con l’apocalittico annuncio: la giovane, ricevuta in sogno la conoscenza biblica del biblico rettile, aveva ottenuto il carisma di porre fine all’altrui procreazione sessuata. “Partenogenesi la chiamano gli scienziati. Ma io vi dico che il Serpente si è congiunto in Spirito alla mia diletta parente per lasciare un segno dell’imminente redenzione cosmica. Il nostro gregge non avrà più bisogno di sporcarsi le coscienze per dare la vita”. La vita, assicurava il teologo, sarebbe sgorgata grazie alla fede degli aspiranti padri che, uniti in preghiera alla devota erede, avrebbero fatto ritorno a casa con un uovo. Un uovo comparso ex nihilo come lógos spermatikós dall’oscurità feconda della Santa che, se usato con temperanza teologale per soffocare i tormenti labiali del Dio di carne celato all’ombra crurale delle pretendenti madri, le avrebbe ingravidate. Prima o poi. Prima gradita una libera offerta di 4.000 lire. La resistenza eretica da parte maschile fu spenta quando Lina si rivelò: contorta nelle sue forme emiliane, limpida come solo l’afa, era la migliore puttana mai apparsa a Nord dello stretto di Magellano.
La risposta degli accaniti ospiti del Caffè del Corso non si fece attendere: occorreva un piano d’azione e, nel codice militare dei digestivi alcolici o dei calici d’acqua e zammù, ciò equivaleva a mandare in avanscoperta Totino Baiamonte. Totino era un artista e aveva esplorato il mondo. Demiurgo dei fregi del carro di San Calemonio abate – patrono di Trizzulla che, nel 1141, era riuscito a scongiurare un’epidemia di herpes zoster trucidando dozzine di massari sospetti – aveva acquisito maestria nella lavorazione della cartapesta dopo essersi trasferito per qualche tempo a Viareggio. E delle donne del continente non aveva mai smesso di millantare le più mirabolanti prodezze in favore della sua virilità titanica. Tanto più inverosimili in quanto le notti toscane, nella memoria dell’affabulatore, restituivano la scena di lunghe degustazioni di rosolio al rosmarino a casa della zia emigrata. In verità l’espatriato aveva compromesso l’onorabilità della cugina Agata e, per questo, si era affrettato a isolarsi nell’isola, lasciando in pegno una promessa riparatoria. Ma il segreto fu protetto e lo scandalo impedito grazie all’impegno da lui profuso nel ruolo di sensale nel fidanzamento in casa (quantunque a distanza) tra Agata e Arcangelo Marinaro, virgulto della premiata merceria “Saro Marinaro & Figlio”.
Come Achille, di cui forse era pure discendente, Totino aveva una gloria da preservare e, indossato il completo bianco d’ordinanza, opportunamente inzuppato di colonia Vallý, acconsentì a farsi accompagnare fino alla porta della Chiesa Madre dagli sguardi ammirati dei suoi Mirmidoni trepidanti. “Che è sto profumo di zagara? Ah, sei tu?”, disse Don Basilicò, per niente sconvolto. “Voscenza, posso avere udienza con la Vostra purissima nipote?”. Il pellegrino stava per giustificare il motivo del suo buen camino di trenta metri quando il prete, incurante del dato che il visitatore non avesse moglie, lo invitò ad accomodarsi nella camera dell’ex perpetua. Difficile descrivere l’eternità, se non come assenza di tempo. Ma il tempo smise di battere davvero nel cuore di Totino dopo che apparve Lina, ammantata di soli simboli alla maniera della verità gnostica, nuda di tutto e del tutto. Quando, genuflessa ai suoi piedi, questa verità sensibile cominciò a scuotere la testa come davanti al muro del pianto, a piangere fu lui, Totino, che finalmente avrebbe vissuto la gioia di spiattellare un segreto autentico.
Era Maggio. E un anno passò veloce, schiacciato da una smania di metafisica generazione da parte di tutti gli uomini in età d’erezione, seconda soltanto a quella di Dioniso disceso in India. Per le consorti non fu un gran problema: a parte la seccatura di vedere i mariti titillarle per qualche secondo con un uovo in mano, beneficiarono di una consistente riduzione delle prestazioni appaganti il solo immaginario dei loro baffuti passionnés, unita a un forte incremento del numero di frittate settimanali. Un evento pubblico molto sentito fu invece il ritorno in Sicilia di Agata, convolata a nozze con Arcangelo proprio a inizio estate. Fu un matrimonio che imbavagliò molte malelingue, ree di avere sbandierato la fondata insinuazione che il rampollo in fondo in fondo fosse un po’ troppo francese. La ragazza dal canto suo, avendo ormai raggiunto la veneranda età di ventisette anni, sapeva che, se anche il coniuge transalpino l’avesse sfiorata con il pensiero, cioè con l’unico contatto tattile di cui poteva essere capace, non avrebbe obiettato nulla di fronte alla scoperta della sua natura illibata quanto quella di un pacchetto vuoto di sigarette Macedonia. Questo equilibrio entrò presto in crisi a causa del patriarca Marinaro che reclamava con urgenza un nipotino a cui lasciare in eredità il nome (Saro, proprio Saro, non Rosario nè Baldassare). Il vegliardo era un uomo intensamente religioso che a compieta alternava i grani del rosario alle bestemmie e, preferendo giocare d’anticipo, obbligò il figlio a recarsi dall’Ovarola.
Istruita da Don Basilicò la Moglie del Serpente, tutta contenuta in uno scialle nero, ebbe modo di manifestare la sua sapienza cabalistica. “Mi astegno [mi astengo] dal darle troppo speranze, in questi giorni sono stata ammaraggiata [ho avuto la nausea, come in preda al mal di mare]. Preghiamo, hai visto mai che l’uovo spunta lo stesso”. Saro Marinaro però aveva fatto fortuna con i filati intrecciati all’ostinazione e non era certo uomo da mollare la presa. Ecco allora che anche Agata fu costretta a partecipare alle riunioni, nella speranza di un travaso di fertilità per osmosi.
Gli incontri tra le due donne, l’inseminata dall’Angelo refrattario e l’impenetrata dall’Arcangelo trizzullario, divennero frequenti durante il viaggio di quest’ultimo a Bruges, dove si teneva l’Esposizione Universale di merletti. Il Prestigio, il Portento, il Miracolo accadde al suo ritorno: Agata aveva ricevuto in dono l’uovo e, nell’ordine straordinario delle cose, il suo uovo cresceva di settimana in settimana. L’organizzazione delle megere del paese fu teutonica, simile a quella del servizio d’ordine della live di Nilla Pizzi a Pompei, e una processione di Pateravegloria emananti come l’Uno plotiniano dalle rigorose gonnelle impregnate di naftalina fu preposta a separare la Benedetta dalla corruzione dell’universo esterno. Ingresso privilegiato nelle stanze familiari di Palazzo Marinaro restò consentito a Totino, incaricato di farsi carico dell’occorrente utile ad allietare la cova. L’iniziativa della Chiesa fu annunciata nel corso di una funzione domenicale in cui Don Basilicò comunicò di avere affidato a Totino la realizzazione di una piccola coppia di Telamoni atta a sorreggere l’uovo che, conti alla mano, ne era convinto, si sarebbe schiuso il 20 Aprile, Festa di San Calemonio abate (e per coincidenza della nascita di Adolf Hitler).
Nel giorno della celebrazione la piazza era gremita e in tripudio. Da Privitera, da Cacciapuoti e addirittura dall’esotica Ninnibòva le masse erano accorse per non perdersi l’evento. Al centro stava un palchetto con sopra i Telamoni e sulle loro spalle, con timore adagiato dai pompieri in livrea, l’uovo che, borgesianamente fantastico al punto da sembrare quasi di cartapesta, era ormai alto circa un metro e mezzo; un separè circolare copriva parte del femminil gamete e all’interno di esso mamma Agata provvedeva alle sue amorevoli cure sussurrando parole tranquillizzanti. Un coro di voci bianche dava il ritmo a Don Basilicò per stringere le mani con la dovuta solennità alle autorità convenute, il Sindaco, il Maresciallo dei Carabinieri, il Barbiere, e accanto a lui l’Ovarola dispensava sorrisi educati, spostando con la dovuta discrezione le molte mani venute a pizzicarle il culo. Totino osservava compiaciuto l’opera prodotta, Arcangelo non si tratteneva dalla felicità saltellante abbracciando ogni due per tre Iano, il figlio del macellaio, Saro Marinaro imprecava contro una colomba di pace, colpevole di aver cagato sulla sua giacca di lino color sorbetto al limone.
Gli angioletti avevano appena intonato lo Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, quando successe. Coloro condannati a vedere per speculum in aenigmate instillarono il dubbio di una porticina tratteggiata che venne giù come pan di zucchero. Ma non fu così. A prorompere fu una paffuta bimbetta di forse tre anni, brutta come l’herpes zoster e avvolta da una tunica bianca recante le insegne del mite patrono (la frusta e l’argano) che, messo piede sul palchetto, allungò il braccio indicando Totino e urlandogli “suca”. I sostenitori del materialismo dialettico spiegarono l’accaduto adducendo come prova che la bambina fosse la figlia del peccato consumato da Totino e Agata, e che questa, ricompensata con i denari della famiglia acquisita la permanenza della piccola presso l’Ordine delle Carmelitane col Tacco, capillarmente presente in molti anfratti delle Madonie, avesse escogitato il trucco per giustificarne la legittimità agli occhi del popolo. O almeno a quelli del suocero che lanciò comunque una santiata quando scoprì che il proprio sangue si sarebbe chiamato Sara. Per coloro la cui fede rimaneva un fragile vaso di terracotta custodito in Timore e Tremore quel che seguì, invece, fu un’assurda conseguenza: il timore di Don Basilicò a trasferirsi in missione in Congo per volontà inappellabile della Curia romana (poi ammorbidito nel ‘65 a seguito della sua fortunata partecipazione al colpo di Stato di Mobutu); il tremore di Lina, l’Ovarola, che qualcuno scovò in un club di Parigi intenta a fare con un serpente “cose che non si vedevano nemmeno ai tempi di Tiberio”. Ma quale che sia la verità, se un viaggiatore oggi si reca a Trizzulla e lancia un roboante “suca”, la risposta può essere soltanto una: “Sempre Ubbidito Calemonio Abate”.
(Proponiamo un estratto da Storie di coscienti imperfetti, la nuova raccolta di racconti di Giacomo Verri, pubblicata da Wojtek, 2024)
Perciò fu l’inserviente, entrando in camera, a farglielo notare. Signora, cos’è capitato?, disse ridendo. Lei non s’era accorta di nulla. A dire il vero, qualcuno aveva appoggiato sul tavolino da notte il bicchiere con le medicine da prendere a colazione; ma solo quello aveva notato Adelina Gioniso, e non sapeva se si trattasse della stessa persona che aveva fatto il resto; per lasciare le pastiglie non avevano di certo acceso la luce e, comunque, lei dormiva ancora. Che cafonaggine, andare e venire dalla stanza di una vecchia signora assopita e inerme. Più volte s’era immaginata qualcuno del personale aprire i suoi cassetti, rovistare tra le cose che le erano rimaste – le uniche di una vita intera, per la miseria –, le foto dai colori sbiaditi di quando erano stati in Zaire a prendere Elsa, i biglietti che le aveva scritto Silvio mille anni prima, vecchi gioielli che non metteva più, il cappellino della sua dolce Mila. Maledetti! Lo diceva nella sua testa senza pronunciarlo a voce alta; ma, poniamo che di lì a qualche anno si fosse trasformata in una di quelle vecchie incapaci di tenere a freno la lingua, le sarebbe piaciuto allora togliersi il capriccio di coprire d’insulti quella gente che non faceva altro che spingere sedie a rotelle, chiederti se sei andato di corpo e, se non sei più in grado di farlo, imboccarti col cucchiaio e ripulirti la bocca e il mento.
Che le è successo ai capelli?, ripeté la ragazza. Non era di quelle che le stavano più antipatiche. Adelina si toccò la testa, sporse il labbro, chiedendosi se la stesse prendendo per il culo. Non so, disse. Dev’esserci uno di quegli specchi rotondi là dentro. Indicò un cassetto del comò di pessima qualità appoggiato sulla parete di fronte.
La ragazza frugò finché non l’ebbe trovato.
Dai qua, aggiunse Adelina facendo segno con una delle mani scarne e nodose. Ciò che vide non le piacque ma nemmeno la turbò; più di tanto brutta non poteva diventare e questa certezza le offriva un’indubbia superiorità sulla schiera di giovani donne che a turno le stavano tra i piedi. È vero quello che dicono?
Cosa? Cosa dicono?, domandò la ragazza, fingendo di non aver capito. Dato che ora stava aprendo la tenda per far entrare il sole, si era dovuta voltare e Adelina le notò un’ombra di paura negli occhi.
Dicono che sia scappato approfittando del viavai delle pompe funebri, aggiunse Adelina. Si riferiva a Sebastiano – come faceva di cognome? –, scomparso da due giorni, e lei continuava a pensarci, a quel vecchio testardo. A quanto pare sarebbe dovuto morire cinquant’anni prima per un tumore – sosteneva lui – ma poi la diagnosi si era rivelata scorretta e così era sopravvissuto alla moglie – una ex puttana, dicevano altri – e pure alla seconda moglie, se era una moglie, e forse anche al figlio.
Probabilmente è così, rispose la ragazza, riavvicinandosi per darle il termometro – da quando era iniziato quel casino, misuravano la febbre a tutti i vecchi tutti i giorni –, e forse sorrise ma Adelina ne dubitò; mezzo volto era coperto dalla mascherina chirurgica, e come se non bastasse portava quegli occhiali grandi e spessi che facevano il resto.
La ragazza soffiò aria col naso, come se ce l’avesse un po’ chiuso o non riuscisse a respirare là sotto. Mi sembri impaurita, le disse Adelina. È così? E poi aggiunse, dato che quella non apriva bocca, Si può sapere come diavolo ti chiami?
Patrizia, rispose in tono affaticato.
Va bene, Patrizia, disse Adelina cercando di tener stretta l’ascella attorno al termometro. Tu hai paura. Non hai bisogno di dirmelo. Fece una pausa e poi disse ancora, Ritira questo dannato specchio. Ormai non ci posso fare niente.
Quando Patrizia se ne fu andata, si chiese se fosse ancora possibile vivere senza paura. Lei non ne aveva, alla sua età, figuriamoci – ormai sfiorava i novanta – e comunque non lo avrebbe ammesso. Ma quella donna – quanti anni avrà avuto, trentacinque, quaranta? – doveva davvero averne.
Adelina non s’era fatta mettere la televisione in camera, perché sarebbe finita per non uscirne più; preferiva seguire i telegiornali in sala comune, accanto alla mensa, con un gruppetto di altri ospiti della casa di riposo. Nella maggior parte dei casi era gente con cui non aveva mai parlato né le interessava farlo. Ci fosse almeno un bel gattino da coccolare, pensava a volte, ma niente. Comunque i figli e i nipoti che venivano a trovarli sostenevano che in quella sala facesse terribilmente caldo. Può darsi. E lei stessa era convinta che il volume della televisione fosse tenuto a un livello demenziale tanto era alto. Ma adesso nessuno poteva uscire dalla propria stanza, sgranchirsi le gambe, fare quattro chiacchiere con altri vecchi rottami come lei, figurarsi stare tutti appiccicati in sala comune. Aveva capito che il virus colpiva soprattutto loro, la gente di una certa età, i nonni. Perciò che diavolo di paura doveva avere Patrizia?
Più tardi si appisolò e sognò se stessa giovane, diciamo più o meno all’epoca in cui avevano preso Elsa. Da qualche tempo le capitava di addormentarsi nel corso della mattina per poi riscuotersi di colpo per un rumore, una sedia trascinata a terra o lo zoccolo di una di quelle infermiere che urtava la gamba di metallo del letto; si trattava di risvegli volgari, come uno sbadiglio fatto senza metterci davanti la mano.
Ora sognava di trovarsi a cavallo della sua vecchia bicicletta forse per portare un messaggio a qualcuno. Di sicuro c’era un’urgenza ma non sapeva quale. Però, mentre stava lì a darci dentro sui pedali, si ripeteva nella mente una cosa curiosa che aveva letto da qualche parte e che riguardava la ragione per cui si usa il punto interrogativo. Da dove diavolo saltava fuori quel fronzolo ricurvo?
Stava arrivando comunque; c’era un’ultima svolta e un pezzo di strada in salita. Quel posto non era Giave ma le suonava famigliare lo stesso. In fondo al sentiero una gabbia. Ecco la meta. Accanto alla gabbia – la loro gabbia di un tempo – suo marito. Silvio. Dovevano dare da mangiare alla leonessa.
Adelina aprì improvvisamente gli occhi e si leccò le labbra perché erano secche. Be’, che diamine ci fai qui? Luca Sulfo era entrato in camera, l’aveva spiata mentre dormiva e ora stava lungo disteso sotto le sue lenzuola. Siamo due vecchi, disse lei. I vecchi non dovrebbero stare così vicini. Poi c’è quel maledetto virus.
Hai paura di morire?, domandò Luca.
Falla finita, disse Adelina.
Se li avessero scoperti sarebbe di sicuro scattato l’allarme; da giorni era più che vietato avvicinarsi gli uni agli altri, figurarsi vedere quel vecchio topo coricato nello stesso letto con lei.
Quanti ne sono morti oggi?, disse Adelina. Sapeva benissimo che erano undici dall’inizio dell’emergenza, lo chiedeva per spaventarlo anche se non era certa di volerlo mandare via. Comunque sì, disse, Ho paura di morire. Che domande.
Ma guarda, disse lui. Quello che sento mi piace. Le aveva appoggiato la mano sulla pancia, una vecchia pancia molle e priva di elasticità. Aveva il buon garbo di metterla al posto giusto, la mano, né troppo sopra né – per fortuna – troppo sotto, dove iniziava il bordo del pannolone. Gesù santo, quell’uomo era un cavaliere.
Ho sognato mio marito, aggiunse lei.
Quando?, domandò Luca.
Un attimo fa, sai. Mentre dormivo e tu ti facevi strada come un ladro nella mia camera. Toccò con la propria la mano di lui.
E?
E niente. Entravamo nella gabbia della leonessa.
Una storia che Luca Sulfo conosceva perfettamente. Adelina e suo marito l’avevano comprata a un costo irrisorio, alla fine degli anni Settanta, da un tizio dello Zaire che trafficava animali esotici. A quell’epoca le leggi lo consentivano, almeno così diceva Adelina. Non ci crederai, gli aveva raccontato una volta, Ma per qualche tempo se n’è stata in centro a Giave, a casa di un amico, sul terrazzo. Poi però, quando non poterono più tenerla libera, sistemarono la gabbia lungo la strada così che tutti potessero vedere Elsa passando in auto; e ce n’era di gente che si fermava, altroché se ce n’era. Mentre i vicini, quelli no, erano stati orribili, gliene avevano fatte di tutti i colori. Oddio, diceva Adelina con una certa fierezza, Negli occhi di Elsa splendeva qualcosa di vecchio come l’Africa. Una cosa che non ho mai visto dentro a degli occhi umani. Poi Silvio, un giorno, era stato ferito, dopo la morte dei cuccioli. Quando lei si accorse che qualcosa non andava, si precipitò alla gabbia e trovò un disastro. Forse non avremmo mai dovuto prenderla, ripeteva spesso, Ecco tutto.
Okay, disse lui. Quindi hai sognato l’incidente?
Elsa ci fissava, raccontò Adelina, E Silvio voleva che lo seguissi in un angolo. Vedi tu, in realtà non credo che sarebbe stato possibile farlo davanti a quella bestia.
Luca tolse la mano dalla vecchia pancia ma lei frugò sotto il lenzuolo e gliela riprese. Sei calda, disse lui. Potresti avere la febbre.
Dove credi sia finito Sebastiano?
A camminare lungo la ferrovia.
Lungo la ferrovia?
Lo facevamo, prima. Prima che fosse vietato, intendo dire. Si mise dritto, perfettamente supino, accanto alla donna. La porta era socchiusa, dalla camera di fronte proveniva il borbottio di un televisore acceso ad alto volume, ovviamente. Sei calda ma hai i piedi freddi, disse Luca. Lui indossava le calze ma la temperatura della pelle di Adelina oltrepassava la stoffa.
Credo di aver fatto questo pensiero, disse lei. Luca si voltò a guardarla, in attesa. Ora provo a dirtelo, ma tu non ridere, siamo intesi? Adelina Gioniso si sistemò cercando di portare le spalle e la schiena un po’ più su. Disse, Se questo fosse l’inizio di una pandemia permanente? Luca intrecciò le dita e le appoggiò sul petto. Va’ avanti, fece. E lei continuò, Potrebbero non trovare mai un rimedio, un… come si chiama, una terapia. Il virus potrebbe modificarsi eludendo ogni risorsa dei medici. Potrebbe essere un virus più intelligente degli altri, una canaglia, uno che ce la farà pagare e porterà tutti a… non so. Morire soffocati? Un sasso che sprofonda dentro un lago fu ciò che le venne in mente, compreso il cupo suono dell’acqua che ne inghiottisce il peso.
Luca cercò di mantenere un respiro lento e profondo. Non è mai successo, disse.
E lei disse, Può sempre succedere, può sempre accadere qualcosa di nuovo su questa maledetta Terra. Quel virus potrebbe modificarsi molto più velocemente di quanto noi saremo in grado di porvi un argine. Adelina rise un po’, poi aggiunse, Cribbio. E ancora, dopo aver dato un’occhiata alle mani di Luca, Santo Dio.
Le venne da starnutire ma non starnutì. Si sentiva strana, aveva ragione Luca. Quella cavolo di Patrizia le aveva detto se aveva la febbre? Non lo ricordava. Ma se l’avessi avuta me l’avrebbe detto, diamine. Mi avrebbe chiusa qui dentro a chiave. Sorrise. Lui aveva lasciato nel letto un ovale di calore che durò qualche attimo, poi si confuse col suo. Adelina provò ad alzarsi, con fatica appoggiò i piedi a terra e li infilò nelle ciabatte di stoffa da signora anziana con la suola di gomma e la chiusura in velcro. Le trovava orribili ma comodissime. Perché diavolo non mi hai chiesto di aiutarti?, avrebbe detto lui se fosse stato ancora nei paraggi.
Con l’ausilio del bastone a quattro piedi andò in bagno, appoggiandosi con una mano alle pareti, poi con l’intero avambraccio cacciò il pollice nell’elastico del pigiama e trascinò giù le braghe, quindi slacciò quel maledetto pannolone e lo lasciò cadere a terra. Era gonfio e pesante. Dunque ti sei ridotta così, signora Gioniso, pensò dandosi un’occhiata allo specchio. Infine sedette sul water e fece qualche goccia di pipì, poca roba, a dire il vero. Quindi strappò un po’ di carta igienica e la tenne in mano, senza usarla.
Mentre stava lì ferma, ripensò a Patrizia. Certo non avrebbe mai saputo come faceva di cognome perché in quella stupida casa di riposo bisognava fare finta di essere amici e darsi del tu. Una cosa idiota, no? Senza parlare di quell’urlarci nelle orecchie come fossimo tutti sordi. Io non lo sono, perlomeno. Le tornò in mente un episodio. L’anno prima erano venuti i ragazzi del liceo di Giave a presentare i loro esperimenti scientifici; c’era stata una ragazza tutta vestita di rosa – mio Dio – che aveva colpito col martello un diapason, e poi un altro diapason, accanto al primo, aveva iniziato a vibrare; l’esperimento consisteva proprio nel percepire il suono del secondo diapason. Adelina c’era riuscita, eccome, ma molti altri no. Rimasero intontiti coi loro bastoni, le ciglia spettinate, chiedendo che l’esperimento fosse ripetuto perché non avevano capito un accidenti; dunque la ragazza tutta rosa lo rifece ma quelli avevano continuato a non sentire nulla di nulla, e la stupida stava per mettersi a piangere, che ebete. Quanto a Patrizia, okay, lei non è male, ma è una donna scialba. Sì, credo sia una donna poco interessante, pensò, mentre finalmente infilava la carta igienica tra le gambe per darsi un’asciugata.
Eppure loro comandano e noi zitti. Non si fa questo, non si fa quello, il pranzo è all’ora tale e alle nove a letto. Per non parlare di quando si poteva ancora uscire: ti toccava snocciolare per filo e per segno un sacco di informazioni, dove saresti andato, con chi, per quanto tempo. Oddio, disse Adelina Gioniso, mentre cercava di tirarsi su dal water.
Prima di spegnere la luce diede un’occhiata al pannolone gettato a terra e poi chiuse la porta. Se l’era già tolto in passato e l’aveva lasciato lì, senza buttarlo. Che storia era quella?, le avevano detto; e dopo i rimproveri lei aveva promesso di non farlo più. Ma aveva aggiunto, In cambio vorrei poter dormire con un’altra persona qualche volta. L’infermiera aveva sorriso, Vuole qualcuno in camera con lei? E Adelina aveva scosso la testa, No, diamine, Desidero solo coricarmi nello stesso letto con un uomo, stringergli la mano e addormentarmi.
Ovviamente non si poteva fare. Da bambina aveva domandato a sua madre perché lei dovesse stare da sola, mentre loro, i genitori, erano in due nel lettone. Dormirai per il resto della vita con qualcuno, le aveva risposto, Quindi accontentati. Non era vero. S’era messa sotto le coperte con suo marito sì e no per trent’anni, qualcuno di più, poi basta.
D’accordo, disse dopo qualche secondo, Diamo un’altra occhiata. Fece perno sul bastone, allungò il viso nello specchio sopra il comò, girò la testa a destra e a sinistra piegandola in basso per vedere meglio. Qualcuno le aveva tagliato i capelli, quella notte, e non è che il lavoro fosse venuto un granché.
Credi che la tua vita valga di più di quella che sta vivendo quella donna, vero? Luca Sulfo era riuscito a tornare da lei, nel pomeriggio. Stava in piedi, accanto alla porta chiusa, tenendo vicine con la mano le ali del cardigan sbottonato.
Può darsi, disse lei. E grossomodo le pareva di non avere altro da aggiungere, ma si sforzò di farsi venire in mente il viso di Patrizia – se doveva formulare un giudizio tanto severo, era giusto che almeno l’aspetto di lei ce l’avesse presente – senza riuscire però a immaginarselo, tranne che per una leggera asimmetria che le dominava gli occhi, dietro le lenti. Credo che abbia paura di qualcosa, fece Adelina, poi rettificò, O forse è solo triste.
Luca sorrise, ponderò per un attimo le parole della vecchia amica, e infine disse, Cara mia, tu sai osservarla, la gente.
La responsabile dell’area assistenziale riunì gli inservienti, compreso il personale delle cucine, nella sala comune, tutti rigorosamente a un metro di distanza gli uni dagli altri con le mascherine e i guanti, e disse loro che c’erano notizie del fuggiasco. Delle brutte notizie. Il cadavere di Sebastiano era stato trovato quel pomeriggio alla stazione di Giave. Patrizia Chitti avvicinò, fino a farle incontrare, le punte degli zoccoli che indossava ai piedi. E bravo Sebastiano, pensò, immaginando il silenzio della stazione, i binari invasi dalle erbacce perché a Giave il treno non arrivava più da almeno… quanti anni?
Non credo sia il caso di andare a spifferarlo a tutti gli ospiti della casa, aggiunse la responsabile. Ne abbiamo abbastanza, qua dentro, di morti.
Alcuni annuirono e molti pretesero informazioni aggiuntive. C’era da biasimarli, dopo tutto? Un po’ di morbosa curiosità era quello che ci voleva, pensò Patrizia. Per sopravvivere tra quelle mura. A lei, poi, da giorni capitava di essere terrorizzata non da quanto le accadeva attorno ma da ciò che succedeva dentro la sua testa. Per un sacco di tempo – troppo tempo, maledizione – non aveva fatto altro che vivere tra quelle persone anziane con crudele leggerezza, come se non avessero niente da dirle, niente da insegnarle. A volte alzava la voce con qualcuno di loro – mai con Adelina, che probabilmente ci aveva visto giusto –, insofferente per i tempi rallentati con cui sembravano vivere.
Si sentiva in colpa, ecco. Adesso che morivano uno dopo l’altro – come i cattivi di un film –, si sentiva tremendamente in colpa ed era atterrita, perdio.
Nei giorni successivi i controlli divennero più serrati ed era impossibile uscire dalla propria camera e, tanto più, recarsi in quelle altrui. Be’, è una cosa triste, ripeteva Adelina ogni tanto. Non stava per niente bene, le mancava il fiato e si sentiva debole. Se le cose fossero continuate così, l’avrebbero spostata nell’ala dei non autosufficienti. Una seccatura che voleva proprio evitare.
Luca le mandò un messaggio sul telefonino. Non lo usava quasi mai, tranne che per chiamare sua figlia. C’era scritto, Ciao. Lei rispose, Ciao, e lui continuò con, Non ci vedremo per un pezzo, e la frase era accompagnata da una faccina sorridente, vagamente idiota.
Lei scrisse, Non sto bene, senza aggiungere altro. Poi attese qualche minuto senza che arrivasse una risposta. Alla fine Luca replicò, Hai informato i tuoi?
I tuoi chi?, scrisse con rabbia Adelina.
I tuoi cari. Altra faccina sorridente.
Lei si risistemò la dentiera in bocca. I tuoi cari, suonava come un annuncio funebre. I tuoi cari, un corno. Pensava a come formulare la risposta, una cosa del tipo, Tanto non possono venire a trovarmi, loro sono in un mondo, io – noi – in un altro, non ci vediamo da settimane – era vero, cribbio –, non so neppure se mi pensano. Sì che la pensavano! Adesso, con quello che stava accadendo, certo che la pensavano. Più di prima, probabilmente. Le mancava Roberta, ma dopo cena le avrebbe sicuramente telefonato, come faceva ogni giorno. I nipoti invece… loro davvero non si facevano mai sentire.
Fissò ancora un attimo lo schermo del telefonino, quindi scrisse, Tutto è difficile come guardare dentro i sassi, ma poi cancellò la frase perché sarebbe stato troppo complicato spiegarla, dirgli che quando era piccola scendeva con lo zio lungo il fiume Sesia a scagliare sassi contro altre pietre finché non si spezzavano, e dentro sembravano più belli e più preziosi rispetto a come apparivano da fuori. Voleva dire che, se oggi i loro figli avessero potuto fare una visita, li avrebbero trovati anch’essi più preziosi, e infinitamente più fragili.
Alla fine scrisse solo che sì, li aveva informati. Mise un punto e aggiunse, Non so ancora chi mi abbia tagliato i capelli.
Così arrivò la domenica e nella notte era cambiata l’ora, da quella solare a quella legale. Si era dormito di meno ma Adelina non se ne accorse neppure; in questo posto non ti accorgi di nulla, di quale temperatura c’è fuori, se fa bello o brutto, se l’aria è umida; figuriamoci se cambia l’ora. È tutto uguale, fa sempre terribilmente caldo, che sia inverno o estate. Pensò che una volta terminato il virus – se non ci fosse stata quella tremenda pandemia permanente di cui aveva fantasticato – le cose non sarebbero poi cambiate tanto. Le pareva che un dopo, per lei, non ci fosse comunque; non sarebbe uscita da lì, non avrebbe avuto nuovi amici, né nuovi impegni che l’emergenza aveva congelato per qualche settimana o mese.
Fu invasa da una nostalgia violenta e si sentì soffocare quando vide Patrizia. Toccò il petto e cercò di inghiottire un po’ di ossigeno per poterle parlare. Disse, Guarda un po’ quell’aggeggio, e indicò la sveglia elettronica sul comodino da notte. C’è da sistemare l’ora, è rimasta indietro. Dopodiché lasciò andare la testa sul cuscino.
La donna diede un’occhiata fuori dalla finestra – lungo la strada c’era una vecchia lattina di birra schiacciata – poi si voltò e raggiunse il letto di Adelina. Prese in mano la sveglia e sistemò l’ora. Infine toccò Adelina su una spalla e Adelina riconobbe una dolcezza infinita dentro quel gesto. Una cosa che non sentiva da anni, dai tempi dei grossi abbracci di Elsa, da quando aveva sepolto Mila, la sua tenera scimmietta – oh, cara Mila –, o da quando Silvio se n’era andato per sempre. Quella era malinconia pura, signori miei, unita però a un senso di riconoscenza per quanto la sorte le aveva serbato, nonostante tutto. Diamine, la vita non è stata poi così male, pensò, e fu grata di ascoltare la solita voce di Patrizia – una voce fastidiosa, di sicuro poco interessante – che diceva, guardandole i capelli, Dovresti dargli una bella sistemata, non credi?
È in uscita per Tlon EdizioniNon siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger di Peter Sloterdijk. Clonazione, scoperte geografiche e coscienza delle macchine, umanismo e pessimismo, mostri e metafisica sono solo alcuni dei temi che attraversano i dieci saggi che compongono questo affresco di filosofia e storia della cultura contemporanea.
Ne ospito qui un estratto.
***
Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger
I libri, così ha detto una volta il poeta Jean Paul, sono delle lettere un po’ più consistenti inviate agli amici. Con questa frase ha definito con grazia e in modo essenziale, la natura e la funzione dell’umanismo: una telecomunicazione che istituisce amicizie attraverso il medium della scrittura. Ciò che dai tempi di Cicerone risponde al nome di humanitas è, sia in senso lato che in senso stretto, una conseguenza dell’alfabetizzazione. La filosofia, da quando è diventata un genere letterario, acquisisce nuovi adepti scrivendo in modo contagioso di amore e amicizia. Non solo è un discorso sull’amore di sapienza, ma vuole anche riuscire a conquistare gli altri a questo amore. Il fatto che la filosofia scritta possa farsi degli amici tramite i testi le ha permesso di mantenere il suo potenziale di contagio dai suoi inizi, più di 2500 anni fa, fino a oggi. Si è continuato a scrivere filosofia di generazione in generazione come se fosse una lettera a catena, e nonostante tutti gli errori di copiatura, o forse proprio grazie a questi, la filosofia ha sedotto copisti e interpreti con il suo influsso socializzante.
L’anello più importante in questa catena di lettere fu senza dubbio la ricezione degli invii greci operata dai Romani. Solo l’assimilazione romana ha reso comprensibile il testo greco per l’impero e perlomeno mediatamente lo ha reso accessibile alle culture europee più tarde, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Certo gli autori greci si sarebbero meravigliati se avessero saputo quali erano gli amici che un giorno avrebbero ricevuto le loro lettere. Ma fa parte delle regole del gioco della cultura scritta che i mittenti non possano conoscere in anticipo i loro reali destinatari, e ciononostante gli autori si lanciano nell’avventura di inviare le loro lettere a degli amici non ben identificati.
Le spedizioni postali, che noi chiamiamo tradizione, non avrebbero mai potuto venire consegnate, se la filosofia greca non fosse stata codificata su rotoli di pergamena trasportabili. E i Romani stessi non sarebbero stati capaci di stringere amicizia con i mittenti di questi scritti, se i lettori greci non si fossero messi a loro disposizione, aiutandoli a decifrare le lettere venute dalla Grecia. L’amicizia che matura nella lontananza ha dunque bisogno di entrambe le cose: delle lettere e di quelli che le consegnano o le interpretano. Certo se i lettori romani non fossero stati pronti a stringere amicizia con le trasmissioni a distanza dei Greci, non ci sarebbero stati i riceventi, e senza l’entrata in gioco dei Romani con la loro grandiosa recettività, le trasmissioni greche non avrebbero mai raggiunto lo spazio dell’Europa occidentale, abitato ancor oggi da gente interessata all’umanismo. Non ci sarebbero così né il fenomeno dell’umanismo, né una parte significativa dei discorsi filosofici latini, né le più tarde culture filosofiche di lingua nazionale. Il fatto che oggi, qui, stiamo parlando in tedesco di questioni che riguardano l’uomo, lo dobbiamo non da ultimo alla prontezza con cui i Romani lessero gli scritti dei maestri greci come delle lettere inviate agli amici in Italia.
Se prendiamo in considerazione le conseguenze epocali della posta greco-romana, appare evidente la stretta parentela con lo scrivere, l’inviare e il ricevere testi filosofici. Certo il mittente di questo tipo di lettere d’amicizia spedisce i suoi scritti in giro per il mondo senza conoscere i destinatari, oppure, nel caso li conosca, è convinto che la trasmissione delle lettere continui al di là di essi, e possa provocare una molteplicità indefinita di amicizie possibili con lettori anonimi, che spesso non sono ancora neanche nati.
Dal punto di vista erotologico l’amicizia ipotetica tra lo scrittore di libri e di lettere e quelli che li ricevono, rappresenta un caso di amore a distanza. E proprio nel senso in cui lo intendeva Nietzsche, secondo il quale la scrittura è il potere di trasformare l’amore per il prossimo e per ciò che ci è più vicino in un amore per la vita sconosciuta, lontana e a venire. La scrittura non sarebbe solo un ponte telecomunicativo tra dei vecchi amici, che al momento dell’invio della lettera vivono distanti l’uno dall’altro, essa comporterebbe invece anche un’azione di seduzione nella distanza, una seduzione che si spinge verso l’ignoto. Detto con il linguaggio magico della vecchia Europa: la scrittura opera una actio in distans, con lo scopo di stanare l’amico sconosciuto, e di spingerlo a aderire al circolo degli amici. Il lettore che si cimenta con la “lettera più consistente” infatti può intendere il libro come una lettera d’invito e se si lascia sedurre dalla lettura finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono chiamati a testimoniare della ricezione della trasmissione.
Si potrebbe ricondurre così il fantasma comunitario, che sta alla base di tutti gli umanismi, al modello di una società letteraria, i cui membri scoprono, attraverso le letture canoniche, il loro amore comune per dei mittenti che fungono da ispiratori. Nel cuore dell’umanismo così inteso scopriamo una fantasia di setta o di club, il sogno cioè della solidarietà destinale tra coloro che sono stati scelti perché capaci di leggere. Per il vecchio mondo infatti, fino alla vigilia dello Stato nazionale moderno, la capacità di leggere ha significato qualcosa come l’appartenenza a una élite basata sul segreto. Un tempo la conoscenza della grammatica veniva considerata in molti luoghi come il simbolo della fascinazione. E difatti già nell’inglese medievale dalla parola grammar derivò la parola glamour.[1] ciò vuol dire che chi è capace di leggere e scrivere sarà capace di fare anche altre cose impossibili. Gli umanizzati innanzitutto non sono nient’altro che la setta degli alfabetizzati e come in molte altre sette anche in questa vengono in luce dei progetti espansionistici e universalistici. Inoltre lì dove l’alfabetismo divenne fantastico e pretenzioso, nacque anche la mistica grammatica o letterale, la kabbala, animata dall’entusiasmo nell’osservare i tipi di scrittura usati dal creatore del mondo.[2] Dove invece l’umanismo divenne pragmatico e programmatico, come nelle ideologie classico-umanistiche degli Stati nazionali borghesi del xix e xx secolo, il modello della società letteraria si estese sino a diventare la norma della società politica. Da quel momento in poi i popoli si organizzarono all’interno di uno spazio nazionale in associazioni di amicizia forzosa, totalmente alfabetizzate e votate a un canone di lettura vincolante.
Accanto agli autori antichi, comuni a tutta l’Europa, vengono mobilitati ora anche i classici nazionali e moderni, le cui lettere rivolte al pubblico assurgono, grazie al mercato dei libri e alle scuole superiori, a fattori determinanti nella creazione delle nazioni. Che cosa sono infatti le nazioni moderne se non la finzione efficace di un pubblico di lettori che proprio grazie a questi scritti diventano una cerchia di amici affiatati? Il servizio di leva per la gioventù di sesso maschile, e il servizio di lettura dei classici per i giovani di entrambi i sessi, ecco ciò che caratterizza l’epoca borghese classica; quell’epoca dell’umanità armata e acculturata, cui oggi i nuovi e vecchi conservatori guardano con nostalgia, e contemporaneamente senza speranza, del tutto incapaci di elaborare un canone letterario mediatico-teoretico. Chi voglia farsene un’idea aggiornata dovrebbe riflettere su come sono falliti penosamente i tentativi di un dibattito nazionale, tentato di recente in Germania, sulla presunta necessità di un nuovo canone letterario.
In realtà gli umanismi nazionali, amanti delle letture, hanno avuto la loro epoca di fioritura dal 1789 al 1945. Al loro centro risiedeva, cosciente del proprio potere e compiaciuta di sé, la casta dei vecchi e nuovi filologi. Questi si sentivano incaricati di iniziare i nuovi arrivati al circolo di quelli che ricevono le autorevoli “lettere più consistenti”. In quest’epoca il potere degli insegnanti e il ruolo centrale dei filologi si fondano sulla conoscenza privilegiata di quegli autori che erano considerati i mittenti degli scritti che fondano la società. L’umanismo borghese per sua natura non è altro che il mandato di imporre alla gioventù i classici, e di sostenere la validità universale dei testi nazionali.[3] Le stesse nazioni borghesi sarebbero così in certa parte dei prodotti letterari e postali, finzioni di un’amicizia destinale con lontani connazionali, con lettori legati da un comune sentire, lettori di autori semplicemente appassionanti, propri e comuni nel contempo. Oggi quest’epoca appare irrimediabilmente perduta, ma non perché gli uomini non sarebbero capaci di adempiere al loro compito letterario a causa di una disposizione decadente. L’era dell’umanismo nazional-borghese è giunta a compimento perché l’arte di scrivere lettere che ispirino amore a una nazione di amici, anche se venisse esercitata in modo ancora così professionale, non sarebbe più sufficiente a tenere insieme il filo telecomunicativo tra gli abitanti di una moderna società di massa. Attraverso lo stabilirsi mediatico della cultura di massa nel Primo Mondo, la coesistenza degli uomini nelle società attuali è stata posta su nuovi fondamenti: dopo il 1918 con la radio, dopo il 1945 con la televisione, e oggi ancora più con le attuali rivoluzioni della rete informatica. Come si può facilmente vedere, questi fondamenti sono decisamente post-letterari, post-epistolari e di conseguenza post-umanistici. Se per qualcuno il prefisso “post” in queste formulazioni è troppo drammatico, può sostituirlo con l’avverbio “marginalmente”.
La nostra tesi allora consisterebbe nel dire che le grandi società moderne possono produrre le loro sintesi politiche e culturali solo marginalmente ormai attraverso i media letterari, epistolari e umanistici. Ciò non significa affatto però che la letteratura sia alla fine, essa piuttosto si è trasformata in una sottocultura sui generis, e sono passati i giorni della sua esaltazione come portatrice degli spiriti nazionali. Il legame sociale non è più, nemmeno in apparenza, qualcosa che ha principalmente a che fare con libri e lettere. Nel frattempo sono passati a condurre il gioco i nuovi media della telecomunicazione politico-culturale che hanno ridimensionato di molto il modello delle amicizie nate dalla scrittura. È finita l’era dell’umanismo moderno come modello di scuola e di formazione, poiché non ci si può più illudere di poter organizzare le macrostrutture politiche ed economiche in base all’amabile modello della società letteraria.
[1] L’espressione “magia, fascinazione” viene dalla parola “grammatica”.
[2] Che il segreto della vita dipenda strettamente dal fenomeno della scrittura è anche la grande intuizione della leggenda del Golem. Cfr. M. Idel, Le Golem, éd. du Cerf, Paris 1992; nella prefazione al libro H. Atlan si richiama al rapporto di una Commissione insediata nel 1982 dal Presidente degli Stati Uniti con il titolo Splicing Life. The Social and Ethical Issue of Genetic Engineering with Human Beings, i cui autori si rifanno alla leggenda del Golem.
[3] E naturalmente anche la validità nazionale dei testi universali.
È morto Adriano Aprà, uno dei più grandi e instancabili studiosi di cinema italiani. Lo saluto ospitando qui un suo intervento che mi aveva donato qualche mese fa, in risposta a una mia “inchiesta sul visibile” formulata per un libro ancora a venire. Rileggere oggi queste parole mi ricorda quanto avventurosa e vasta sia stata la sua idea del cinema, e il suo amore: «affidiamoci senza paure a questo cinema “extraterrestre”, che non grida ma sussurra, che ci conduce per mano verso lidi inesplorati dove, forse, potremo rivivere.»
***
Caro Giorgiomaria,
le domande che formuli richiedono una riflessione approfondita, che per me è piena più di incertezze che di certezze. Cercherò di risponderti ma in modo indiretto, aggiungendo al visibile anche l’udibile.
Una premessa. Ormai da qualche tempo nel pensare al cinema del futuro si profila un’ombra che mi tormenta: quella della catastrofe irreversibile del nostro pianeta. E dovrei aggiungere imminente, anche se io non vi assisterò, ma sono già testimone di molti segnali premonitori.
Nel 1951 esce un film di fantascienza di Robert Wise, The Day the Earth Stood Still (da noi Ultimatum alla Terra, ma il titolo originale suona “Il giorno in cui la Terra si è immobilizzata”), in cui si narra di un alieno che, in forma umana (un nuovo Cristo?), cerca di convincere i terrestri di scegliere la pace contro la guerra. L’umanità è scioccata dal messaggio ma nel film non sappiamo se lo seguirà. Nella realtà sappiamo che non lo ha seguito.
Nel 1972 viene pubblicato da The Club of Rome di Ginevra per le Edizioni Scientifiche e Tecniche di Mondadori I limiti dello sviluppo (rapporto del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità), in cui, con analisi statistiche approfondite, viene previsto che, in assenza di interventi immediati che hanno a che vedere con il cambiamento climatico, l’aumento della popolazione mondiale, le risorse alimentari, il nostro pianeta collasserà negli anni che stiamo vivendo adesso. Da allora non solo non ci sono stati interventi immediati ma l’umanità ha fatto di tutto per accelerare il collasso, e tutti i provvedimenti che si stanno adottando, e di cui tanto si parla, giungono troppo tardi.
In un altro film fantascientifico di Richard Fleischer del 1973, Soylent Green (2022: i sopravvissuti, Soylent è il nome di una ditta che produce gallette alimentari, di cui quelle verdi, dopo quelle gialle e quelle rosse, sono l’ultimo ritrovato), il protagonista scopre dopo complesse peripezie che le verdi sono ricavate dal riciclaggio dei cadaveri umani.
Non siamo ancora arrivati a questo (ma al suicidio assistito, che è un altro elemento del film, sì).
Fatta questa premessa, che relativizza ogni mia considerazione, sono convinto che il cinema (diciamo per ora digitale) si stia evolvendo sottotraccia, ma visibile per chi si sforza come talpe di individuarlo.
Intanto c’è il cinema espanso, che data da diversi anni, sia in pellicola sia in digitale. Penso, sul versante artistico, al doppio schermo di The Chelsea Girls (1966) di Andy Warhol, agli spettacoli multimediali di Mario Schifano (Grande angolo, sogni e stelle al Piper Club di Roma, 1967) o di Alexander Kluge (ne ho visto uno a Berlino, credo nel febbraio 2002), allo split-screen (più immagini in contemporanea nella stessa inquadratura) inaugurato da Richard Fleischer nel 1968 con The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston), alle istallazioni; sul versante commerciale che cosa sono le pubblicità luminose, semoventi e in continua alternanza che invadono 24 ore su 24 Times Square a Manhattan e altre megalopoli?
Il digitale, per sua natura, non è fatto per riprodurre la realtà. Quelli che in pellicola erano “effetti speciali” in digitale sono effetti normali; l’effetto speciale è appunto la riproduzione della realtà. L’impiego che se ne fa è ancora in prevalenza quest’ultimo, ma in campo sperimentale le cose, anticipate in cinema dalle varie avanguardie, sono ben diverse.
Si sta elaborando la creazione di realtà “altre”. Il videocinema inventa e inventerà altri mondi, sarà multi o pluriverso.
La soggettività che ha fatto capolino nel cinema di ieri, quando ha cominciato a dire “io” e “tu”, e non più soltanto “lui” e “lei”, ha aperto la strada per poter dire non “noi di carne” ma “noi di spirito”: noi che fantastichiamo, immaginiamo, sogniamo.
L’uomo non può fare a meno di immaginare. E il cinema è l’invenzione che meglio riproduce tale bisogno.
Affidiamoci senza paure a questo cinema “extraterrestre”, che non grida ma sussurra, che ci conduce per mano verso lidi inesplorati dove, forse, potremo rivivere.
Assistiamo alla dissoluzione progressiva delle classiche distinzioni fra cinema di finzione, documentario, animazione e sperimentalismo.
Una delle conseguenze è p. es. quello che io definisco, con molta prudenza, cinema “quantistico”: un cinema in cui la linearità e la consequenzialità spaziotemporale vengano superate, in cui l’indeterminazione e l’ondularità della rappresentazione siano fattori fondativi.
C’è poi il problema, per me complesso e ancora poco chiaro, della Intelligenza Artificiale.
Che cosa può apportare al cinema?
Non penso certo all’idea di film “fatti a macchina” sulla base di sceneggiature che tengano conto dei “gusti medi” del pubblico incorporando i big data di ciò che già è stato fatto.
Secondo il manifesto di Lev Manovich (studioso di origine russa, fondatore nel 2007 del Software Studies Initiative presso il California Institute of Telecommunications and Information Technology, Calit2) A Letter to a Young Artist del 20 ottobre 2023 (https://www.academia.edu/109991543/A_Letter_to_a_Young_Artist), «ciò che è interessante riguardo all’arte umana sono i nostri limiti, e le nostre ossessioni»; «bisogna lavorare sulle micro-scale» e scavare, scavare…
Ma quando arrivo ai suoi Software Takes Command (Bloomsbury Academic, 2013) e Cultural Analytics. L’analisi computazionale della cultura (Raffaello Cortina, 2023; ed. or. Cultural Analytics, MIT 2020) o The Digital Humanities Coursebook di Johanna Drucker (Routledge, 2021) mi perdo.
Cerco di ritrovare un filo conduttore. Nel 2017 è stato aperto l’Arctic World Archive (AWA), un bunker scavato a 250 metri di profondità dentro una ex miniera di carbone dell’isola Spitsbergen, che fa parte dell’arcipelago Svalbard in Norvegia (https://en.wikipedia.org/wiki/Arctic_World_Archive). Le informazioni, comprese le istruzioni per poterle decodificare, sono conservate su pellicola 35mm convertita in un immutabile medium di preservazione digitale chiamato piqlFilm, a sua volta racchiuso in un contenitore di sicurezza. Perché su un supporto analogico come la pellicola? Perché, oltre a essere più duraturo (da 500 a 1000 anni, dicono), garantisce la preservazione dei dati da possibili attacchi informatici.
Non so però se i dati conservati, oltre a essere statici, possano anche essere in movimento, come i film. Che però sono comprimibili digitalmente ad alta risoluzione.
Chi saranno i destinatari di tali mega database?
Posto che l’AWA sia stato concepito in vista di una possibile catastrofe ecologica (e per cos’altro sennò?), tutto questo sarà per gli “alieni”, quelli di The Day the Earth Stood Sill o di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg, 1977)?
Potrebbe invece essere più probabile che i prossimi destinatari siano le “creature superiori” prodotte qui in Terra – come profetizzano i “transumanisti” – dall’Intelligenza Artificiale, o altre consimili macchine incorporee, dotate di un “contenitore” non così fragile come il nostro corpo biologico e mortale e, in quanto tali, non soggette agli effetti catastrofici del collasso del pianeta, “immortali”, come suggerisce Mark O’Connell in Essere una macchina (Adelphi, 2021; ed. or. To Be a Machine, 2017).
Caro Giorgiomaria, mi rendo conto della confusione delle mie riflessioni: tante domande senza vere risposte.
Ma è così che mi sento adesso.
Spero tuttavia che possano incuriosire te e i tuoi lettori.
RICORDI ALL’ALFABETO
Incontro con Lamberto Pignotti e Francesco Muzzioli
a cura di Nadia Cavalera
Modena, 12 novembre 2017
NADIA CAVALERA
A come avanguardia? Cominciamo con l’avanguardia. Si direbbe che tu prenda un po’ le distanze dall’avanguardia, anche se a me sembri proprio un poeta d’avanguardia che ne abbia, assolutamente, pieno diritto.
LAMBERTO PIGNOTTI
Bisogna mettersi in testa che cosa può significare questa parola. Cosa si intende in arte per avanguardia? In particolare ovviamente quelle forme d’arte che cercano di prendere le distanze dal gruppo, dal “grosso”, per spingersi in avanti a trovare il “nuovo”. E va benissimo. Se poi come avanguardia si intende qualcosa e poi viene, come dire, omologato e standardizzato anche dalla moda e dal mercato, a quel punto l’avanguardia diventa una cosa che serve per …per i grandi media, per i giornali in Europa e altrove, anche per le riviste d’arte, ma non va bene. Sulla parola avanguardia, avevo preso le distanze da tempo. Già nel primo convegno del gruppo 70 che è stato nel 63, in cui c’era anche Umberto Eco. E sia io che Umberto si dice che non solo è morta l’avanguardia, ma è morta anche l’arte, in quanto l’arte muore nel momento in cui la presenti, cioè appena si prospetta una novità, qualcosa che rompe quella che chiamavo la tradizione o tardizione perché appena il messaggio avviene è come se fosse classificato e quindi?
Se questa cosa l’hai fatta in questo momento, nel momento successivo, in teoria ovviamente ti fa vedere quello che hai fatto. Prendo allora le distanze dall’arte che viene fatta in questo momento come avanguardia, ma prendo la distanza da quello che ho fatto in questo momento io come artista, io come poeta. Cioè quella cosa che tu hai fatto secondo me, ti deve apparire già di antiquariato. Perché? Perché appunto l’arte o la poesia, la cultura eccetera non va considerata come una cosa progressiva, ma come un processo, un processo che contempla dei fatti, che sono in divenire e dei fatti invece in cui ci sono dei ritorni, per cui certe volte (non so, ne parlavamo anche per telefono), ci sono delle situazioni nel passato prossimo o remoto, che sono molto più attuali di quello che viene considerato, fra virgolette, “avanguardia” oggi.
NADIA CAVALERA
Sentiamo la posizione di Francesco.
FRANCESCO MUZZIOLI
L’ho espressa già tante volte… Per me la parola avanguardia ha un risvolto polemico, soprattutto nel momento in cui sentiamo dire da tutte le parti che l’avanguardia è impossibile. Se tutti continuano a dire che l’avanguardia è impossibile, allora bisogna farla. In questo senso mi sento obbligato a sostenerla, poverina, visto che è attaccata da tutte le parti. Proprio così, perché da una parte, il postmoderno dice che non ci può più essere niente di nuovo, tutto è già stato fatto, e dall’altra i neotradizionalisti accusano l’avanguardia di aver aperto la porta al postmoderno rovinando la grande arte del passato. Quindi è presa a cannonate da tutte le parti. Dopodiché è ovvio che avanguardia è una parola che tiene insieme tante cose, tante tendenze anche molto diverse tra loro. Ci sono i futurismi di ogni tipo, italiani, russi, eccetera eccetera, il dadaismo… E anche negli anni Sessanta… è giusto che Lamberto rivendichi la priorità dei verbovisivi del Gruppo 70 sul Gruppo 63, segnalando che non c’è solamente quel nucleo dei Novissimi e degli autori a loro vicini. In quel periodo ci sono anche altri autori che non sono entrati nel Gruppo 63, c’è tutto un discorso più ampio da fare. Dopodiché mi sembra importante che esista un ruolo alternativo nell’ambito dell’arte e della scrittura, che siamo soliti chiamare avanguardia letteraria. Poi certo c’è il problema del postmoderno, c’è questa teoria, portata avanti da più versanti, che dice che ormai il mondo è tutto unificato è non ci sono più sacche di resistenza. Dopodiché la storia è ricominciata. Ma questo mondo così globale è solcato da tante contraddizioni, per cui forse è ancora possibile insinuarsi dentro di esse in modi combattivi. Personalmente io, se vogliamo andare sulla metafora militare,
mi sento di appoggiare non tanto il gruppo che sta più avanti del grosso che sta arrivando, che sta vincendo, quanto invece vedo l’avanguardia nella figura dell’infiltrato, che è stato paracadutato oltre le linee. Paracadutisti che stanno lì in territorio nemico… e non sanno quando gli altri arriveranno.
NADIA CAVALERA
E se arriveranno …
FRANCESCO MUZZIOLI
Quando sbarcherà il proprio esercito? Sbarcherà? E quindi mandano messaggi preoccupati.
NADIA CAVALERA
Bella questa metafora. È proprio rispondente alla realtà.
FRANCESCO MUZZIOLI
L’assicurazione in quei molti non c’è più, il gruppo è diventato arduo da costituire nell’individualismo imperante, però ci sono artisti che separatamente portano avanti discorsi che non sono omologati al resto della situazione.
NADIA CAVALERA
E questo è il bello. Eccoci alla B, il bello appunto…Che cos’è il bello per te?
LAMBERTO PIGNOTTI
Certo… però prima volevo dire che sì, posso condividere quello che Francesco ha detto. La metafora del paracadutista va benissimo. Io qualche volta però, molto ironicamente, mi definisco “genio guastatore” (ho proprio il distintivo). Il genio guastatore, sì, è anche quello che prepara l’avanzata, ma è soprattutto (e questo è molto importante) quello che distrugge i ponti per il “grosso” che sta arrivando. Il grosso per noi, nell’arte, è il sistema, cioè l’ordinamento consolidato.
Allora il problema dell’avanguardia è quello non solo di andare avanti, ma di non farsi raggiungere.
Le volte che l’avanguardia si identifica col nuovo…il nuovo è bellissimo. Però il nuovo è pericoloso perché se ne appropriano quelli della pubblicità, i media, eccetera. La moda in particolare, ha bisogno del nuovo, ma ha bisogno del nuovo come ricetta. Il pericolo nostro, cioè quello che abbiamo relativamente alla poesia visiva e ad altre forme d’espressione, è di essere stati un ufficio studi o un laboratorio di sperimentazione che ha fatto comodo a quelli che venivano dietro. Io qualche volta, anni fa, ho fatto delle trasmissioni televisive su avanguardia e cinema, avanguardia e pubblicità, per la Rai, che avevano coinvolto anche Argan e Dorfles. In quella circostanza siamo andati a fare delle interviste a pubblicitari come Testa, Sanna, Pericoli, Pirella e altri, che hanno ammesso di essere debitori alla Poesia Visiva, perché aveva dato loro delle sollecitazioni, delle suggestioni. Quindi, il problema è quello non solo di andare avanti ma di guardarsi alle spalle. Appunto per questo mi riferisco al ruolo del “genio guastatore”, colui che fa saltare i ponti alle spalle.
NADIA CAVALERA
Ed è difficilissimo. Come fare ad andare avanti e impedire che altri ti vengano dietro…
LAMBERTO PIGNOTTI
Prendendone coscienza! Perché tanto ti raggiungono. L’immagine più aderente è quella non di uno ma di due serpenti che reciprocamente si mordono la coda. Da una parte la comunicazione di massa che attinge all’arte più avanzata, dall’altra la cosiddetta avanguardia che si serve dei media per capovolgere il sistema. Il problema è: chi mangia prima la coda dell’altro?
NADIA CAVALERA
Per questo quelli del Gruppo 63 suggerivano poi di non farsi capire, proprio per ostacolare il sistema nel non farsi comprendere.
LAMBERTO PIGNOTTI
Io ti racconto una cosa mia personale. Quando frequentavo il Gruppo 63 non portavo mai le mie ultime cose, portavo le penultime. Questo accadeva e accade tutt’ora perché l’ostensione non fa parte dei miei interessi, tanto che dimentico di comunicare le mie ultime ricerche. Anche di recente mi capita di trovare reperti di miei lavori inediti e inutilizzati che addirittura dimentico, non per trascuratezza o gelosia ma perché l’agire creativo è sempre un flusso vitale che muove in avanti e indietro.
Hai visto il mio libro New Vita Nova? Ebbene, quel testo stava lì da qualche anno. Cioè ho diversi lavori, anche lontani nel tempo, magari poi li rivedo. Insomma, no? Mi succede qualche volta di fare delle cose che io stesso intuisco, ma non capisco. L’ultima volta quello che ho portato da te, al Premio, io lo avevo lì dagli anni 70. Queste son belle immagini mi son detto e le ho utilizzate.
Però, in qualche modo le ho attualizzate. Certe volte non riesco a farlo. Probabilmente non è un fatto solo mio, credo sia dell’artista in particolare che usa quel che gli capita così spontaneamente.
NADIA CAVALERA
Per intuito?
LAMBERTO PIGNOTTI
Sì e mi sembra strano. Ti faccio un esempio. Ero a Firenze, a San Frediano, fra artigiani e bottegai e mi chiedevo che cosa erano quei profumi di legname, di cere, di vernici, cosa erano quelle vetrine caotiche dei cartolai, dei merciai; mi interessavano senza sapere perché. Poi ho capito, insomma, che invece poteva essere quella cosa che tempo dopo è stata chiamata, variamente, New Dada, kitsch, insomma, il brutto, le pessime cose di buon gusto.
NADIA CAVALERA
Cos’è… Gozzano?
LAMBERTO PIGNOTTI
Mi sorprendo io stesso di sentirmi legato ad una cosa che non so. È una cosa vecchia, mi dico, come mai? Magari dopo un certo tempo puoi anche teorizzare questa cosa. Io posso essere stato incolpato per esempio di avere scritto le Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia nel ‘68, perché quel libro è stato preso come un ricettario per fare poesie visive. Ma non è, non è più la poesia visiva di avanguardia degli anni sessanta. Allora c’era stato il surrealismo, il dadaismo, eccetera eccetera. No, invece la consapevolezza era che quella roba lì, rifatta a distanza di anni, che pure qualche volta era fatta bene, non era stata ancora inquadrata bene. Cioè era stata presa come arte, invece il problema consisteva nel non prenderla come arte. È un altro, un altro codice. Per questo qualche volta io oscillo tra definirmi poeta o artista.
NADIA CAVALERA
Ti senti stretto in una sola definizione?
LAMBERTO PIGNOTTI
No, ma è come per la parola avanguardia, quando la uso mi riferisco a quanto già detto, ma non escludo che la parola significhi la stessa cosa che intende chi ho di fronte. È qualcosa sicuramente che anche a me deve sfuggire. Quando io andavo a fare lezione, avevo ovviamente uno schema, arrivavo lì, e mi accorgevo che quello che avevo scritto il giorno prima non mi soddisfaceva più. Facevo un’altra lezione partendo da quella. Per qualcosa di istintivo, non di consapevole.
NADIA CAVALERA
Sì, ecco ti autoaggiorni in continuazione. È un aggiornamento continuo.
LAMBERTO PIGNOTTI
Ripeto, non lo faccio perché sono un artista ma perché mi annoio.
NADIA CAVALERA
E quindi ti superi.
LAMBERTO PIGNOTTI
Lo facevo con la stessa, più o meno, poesia aggiornata.
NADIA CAVALERA
La spinta è quella.
LAMBERTO PIGNOTTI
Ecco, come ne usciamo? Col superarsi di continuo insisto. E poi quello che ho detto ultimamente, mi sembra, al museo del Novecento a Firenze: tanto l’arte non va capita, va fraintesa.
NADIA CAVALERA
È bella questa. Deve essere sempre uno stimolo per una interpretazione personale.
LAMBERTO PIGNOTTI
Come uscirne? Non so. Ecco perché non mi hanno dato il Premio Nobel.
NADIA CAVALERA
Beh, ci si può pensare ancora. Come funziona il Nobel? C’è qualcuno che lo suggerisce?
FRANCESCO MUZZIOLI
Bisogna essere tradotti in svedese.
NADIA CAVALERA
Tu sei tradotto in svedese?
LAMBERTO PIGNOTTI
No.
FRANCESCO MUZZIOLI
C’erano noti autori che si facevano tradurre in svedese in quanto aspiranti Nobel.
NADIA CAVALERA
Ah, e chi era, chi era? Vorrei saperlo.
FRANCESCO MUZZIOLI
Si dice il peccato e non il peccatore.
LAMBERTO PIGNOTTI
Va bene, nel ‘58 io ho scritto sul Quartiere un articolo “No Bel”, in occasione della consegna del premio a Salvadore Quasimodo, che oggi è stato quasi dimenticato ma non è un poeta così brutto come lo si dipinge oggi. In quell’occasione ho escluso la mia candidatura.
NADIA CAVALERA
Anche tu Francesco prendi le distanze da Quasimodo?
FRANCESCO MUZZIOLI
Insomma, ora non lo so, c’è di peggio.
LAMBERTO PIGNOTTI
Forse la valutazione è stata un po’ ingiusta
FRANCESCO MUZZIOLI
Poi ci sono sempre reazioni al Nobel.
NADIA CAVALERA
Infatti anche Dario Fo non era accettato da tutti.
FRANCESCO MUZZIOLI
Certo. Il buffo è che la questione dello specifico letterario emerge solamente quando si è toccati nel portafoglio, per cui quando vince Dario Fo, allora insorgono “ah, non è letteratura!” Ma allora? Non si discute mai di che cosa sia la letteratura, la si dà per scontata, finché non viene fuori qualcuno che ti porta via il premio!
NADIA CAVALERA
E tornando al bello, allora?
LAMBERTO PIGNOTTI
Beh, guarda, ieri sera ho letto una cosa…
NADIA CAVALERA
L’autoaggiornamento continuo…
LAMBERTO PIGNOTTI
Stavo sfogliando il catalogo di una mia mostra alla Galleria Clivio intitolata Il mondo? Dove? (2017) e ho trovato una mia poesia che dice: “Tornerò indietro per vedere se erano belli quei luoghi che da sempre furono indicati con questo attributo”. E allora mi viene da pensare che bisogna tornare a vedere se quelle cose che sono state definite belle possano ancora reggere….
Accanto alla poesia c’è una fotografia che immortala una ragazza con uno sfilatino di pane che si volta indietro a guardare una grande palizzata di legno alle spalle. E che cosa nasconde? nasconde gli Uffizi. A me è venuto in mente questo rapporto, tornare indietro a cosa? Sì, bisogna tornare indietro per vedere se certe opere, comprese quelle che stanno agli Uffizi, sono belle o no, se quelle che stanno fuori sono meglio di quelle che stanno agli Uffizi. Insomma, io da giovane, d’estate, quando m’annoiavo andavo agli Uffizi, tanto non c’era, non c’era nessuno, mai. Purtroppo, era un modo di fare le vacanze. Non è che andavo a vedere i quadri, andavo a vedere le cornici, oppure i cieli e come erano conservate le cose. Ebbene una volta davanti all’Annunciazione di Leonardo che è una tavola, trovo due forellini con la segatura dei tarli. Vado dal custode glielo comunico e lui venne tranquillamente a pulirla con uno straccio. Bene, quando si trattò di mandare l’Annunciazione a Pechino, la si inviò in un’apposita bacheca sottovuoto spinto. Dove sta la considerazione del bello? Il bello è quello del custode degli Uffizi, il mio, quello della speciale bacheca? L’idea del bello cambia con i tempi, come nel caso di Quasimodo?
NADIA CAVALERA
Tutto è relativo.
LAMBERTO PIGNOTTI
Ma si, sicuramente. Però non ci si può riferire alla relatività con quella frenesia e accelerazione che hanno caratterizzato il discorso sul postmoderno, da cui lo stesso Derrida ha preso le distanze. In un mio saggio critico, a suo tempo, avevo stigmatizzato quell’accelerazione frenetica fin dal titolo che ironicamente si domandava: “e dopo il neo-post-moderno che cosa?”.
NADIA CAVALERA
Beh, potrebbe anche adombrare proprio questo cambiamento, un modo come un altro per indicare il cambiamento. È qualcosa che viene dopo e quindi è qualcosa anche di nuovo.
Bisognerebbe però inventare dei nomi per ogni cambiamento, sarebbe più giusto, altrimenti si rimane nel generico post. A me per esempio non piace l’indicazione generica di neoavanguardia. L’avanguardia è una cosa e deve essere quella sempre. Poi si caratterizza in forme diverse, a secondo i periodi e deve avere un altro nome, secondo me, ben preciso. Ecco, preferisco dire I novissimi, la poesia visiva degli anni 60 nella seconda ondata di avanguardia …
Prima però avevi nominato qualcosa che iniziava con la lettera C. Non ho preso nota e mi è sfuggito. Quale ricordo può cominciare con la lettera C?
LAMBERTO PIGNOTTI
Non saprei…
NADIA CAVALERA
E tu Francesco?
FRANCESCO MUZZIOLI
Beh, a proposito di formule a un certo punto, io ho provato a lanciare la catamodernità.
LAMBERTO PIGNOTTI
È quasi K eh.
FRANCESCO MUZZIOLI
Un po’ certo, sì, però non ha attecchito e quindi ormai ho rinunciato.
NADIA CAVALERA
Il catamoderno è stata un’esperienza importante. Puoi ricordarne i tratti essenziali?
FRANCESCO MUZZIOLI
È derivato dal moderno, ovviamente; però invece del post- il cata- parla del basso, di questa discesa verso il basso. Portare la modernità fino in fondo.
LAMBERTO PIGNOTTI
Forse non ha avuto fortuna perché ricordava catacomba, catastrofe, cataclisma. Come idea, insomma, è quella diciamo, della vecchia talpa di Marx.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì con varie sfumature.
NADIA CAVALERA
Oddio, ma nemmeno a me stanno venendo parole con la C. Passiamo quindi alla D.
La prima parola che ti viene in mente con la D a cosa la colleghi subito?
LAMBERTO PIGNOTTI
Dolce, dolcezza.
NADIA CAVALERA
La situazione più dolce che hai vissuto?
FRANCESCO MUZZIOLI
Hai fatto poemi con i dolci? Eat Art?
LAMBERTO PIGNOTTI
Eat Art…Ho fatto Chewing gum, Ostie di poesia da deglutire e Sweet poems; performance più o meno dolci…Ma nella vita ….le donne forse…Però in realtà ora penso proprio ai dolci. Perché io da piccolo ho sofferto molto della mancanza dei dolci durante il tempo di guerra, quindi ne andavo proprio alla ricerca. Mi fanno schifo, letteralmente, i ragazzi di oggi che li aborriscono, non so come facciano. Per me il dolce era proprio il non plus usa della felicità perché mi mancava. Tipo i bambini che rubano il vasetto della marmellata, o ingoiano lo zucchero a cucchiaiate. Passando ad altre situazioni, sì ricordo il “Dolce stil novo”.
NADIA CAVALERA
E dolce, per Dante, secondo te che accezione particolare aveva?
LAMBERTO PIGNOTTI
L’accezione per lui non era sempre dolce, nel senso che da una parte c’era l’amore dolce della Vita Nova, ma dall’altra non era così dolce quella sua virtuale Beatrice, che insomma, non voglio dire che ne facesse di tutti i colori, ma poi neanche lui ne pensava bene, dato che sogna che lei gli mangia il cuore, cosa che nel Medioevo usava. Pensa a Boccaccio, a quante ragazze gli viene propinato il cuore dell’amante.
Quindi ecco sì il dolce nell’ambito dell’arte, della poesia, anche quella del dolce stilnovo, con varie accezioni.
NADIA CAVALERA
E tu Francesco…
FRANCESCO MUZZIOLI
Dolce, o amaro… Che l’arte debba essere dolce, non so fino a che punto possa dirsi.
Ecco, piuttosto, ci sarebbe da tornare anche sul bello: dolce… bello. Il problema, appunto, di una certa estetica proveniente dal passato, peraltro, perché la si può far risalire fino alla Poetica di Aristotele con, per esempio, la questione dell’equilibrio, l’arte vista come equilibrio, quindi armonia, quindi, appunto, il suono dolce, il suono armonico, la proporzione.
NADIA CAVALERA
Dolce come equilibrio.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì, la sezione aurea, per esempio. La sezione aurea esattamente è una matematica del bello, dopodiché invece è chiaro che la bellezza è storica, che è legata alle culture. Anche i nostri stessi parametri cambiano durante la nostra vita, durante i cambiamenti della società. Da cui la modernità, questa modernità da spingere fino in fondo a un altro tipo di estetica. Io la chiamo l’estetica dello strano. Pensando allo straniamento di Šklovskij che dice appunto che l’arte deve farci vedere le cose, quindi deve rompere l’abitudine. Possiamo dire quello diceva Lamberto sul grosso che è pericoloso. È il senso comune, sostanzialmente. E quindi anche la dolcezza… Che dolcezza c’è in Kafka? Forse sì, c’è, ma sotterraneamente, una dolcezza anche nell’onirismo kafkiano. Però poi chiaramente c’è un’arte che si presenta semmai sotto forma di crudeltà. E in fondo, anche nei confronti del suo fruitore, non c’è benevolenza.
C’è un brano di Kafka che dice che la scrittura deve essere come un’ascia, che rompe uno strato di ghiaccio. Per cui, sostanzialmente, al povero lettore gli diamo, come dire, delle botte sulla testa.
E questo appunto, comporta il fatto che ci sia una resistenza nei confronti di questo tipo di arte, che oggi tendenzialmente si tende a rinchiudere nel 900, per dire poi che il 900 è finito. Evviva, finalmente possiamo goderci un’arte di intrattenimento che però, tra l’altro, quest’arte di mercato, bisogna vedere fino a che punto rispetta quei canoni di bellezza del passato. Perché a loro volta i cultori della tradizione si lamentano, dicono, ma com’è brutta questa narrativa… Come scrivono male questi scrittori…
NADIA CAVALERA
Visto che hai tirato in ballo il 900 puoi darmi, Lamberto, un giudizio sul 900? Un tuo parere complessivo?
LAMBERTO PIGNOTTI
Ma … c’è il primo 900, c’è il 900 dei futuristi, ma c’è il 900 anche degli scapigliati, c’è il secondo 900 dei novissimi, c’è quello della poesia visiva. Ma ad ogni modo, diciamo col senno di poi, che il 900 ha rappresentato forse più specificamente cosa si intenda per avanguardia. Insomma, questa parola di avanguardia prima del 900 non esisteva, quindi in qualche modo…
NADIA CAVALERA
Quindi, potremmo dirlo, il secolo dell’avanguardia.
LAMBERTO PIGNOTTI
Seppur riscattando come abbiamo fatto, la parola avanguardia, perché il concetto di avanguardia, come dire, è un denominatore comune delle ricerche artistiche dei poeti del 900 quindi perché no? Insomma, ecco, uno può dir male del Novecento, accidenti… socialmente e politicamente almeno il Novecento è più quello delle grandi guerre, della rovina dell’Europa; questa Europa oggi avrebbe potuto fare la vita di pacchia se non avesse fatto due guerre mondiali. Invece no, si è proprio autodistrutta masochisticamente con queste due guerre.
NADIA CAVALERA
Allontanando la possibilità di una qualche felicità. E per te cos’è la felicità?
LAMBERTO PIGNOTTI
Beh, quello là, l’amore.
NADIA CAVALERA
In generale quando dici Felicità, a che cosa pensi? La prima cosa è amore?
LAMBERTO PIGNOTTI
Agli amori,
NADIA CAVALERA
Quindi la felicità è legata agli amori.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sì, ma per me possono essere vari i momenti di felicità. Per esempio quello che noi stiamo facendo ora probabilmente non è solo una chiacchierata. Ma una forma d’arte. Anche sorbire o assaggiare il tuo brodo vegetale durante un pranzo d’artista, no? Quindi per me la felicità è varia, tutto ciò che mi piace mi dà felicità. Ovviamente incontrare degli amici come oggi. O piacevoli incontri al femminile.
NADIA CAVALERA
Ieri eri particolarmente felice con l’assessora Guadagnini, palesi avances sul palco.
LAMBERTO PIGNOTTI
No, m’ha fatto piacere di trovare un rappresentante ufficiale della cultura, che sia anche una rappresentante della bellezza. Beh sì io ovviamente preferisco la bellezza femminile, preferisco le veneri agli apolli. E poi penso, ecco che sostanzialmente, quando si parla di bellezza, si identifichi la bellezza, in arte, al femminile. Magari forse sto buttando giù come un’overdose questa mia impressione, ma penso che la bellezza sia femminile.
NADIA CAVALERA
Ma credo che si desuma anche da quei tuoi lavori che hai fatto dal 72 al 78.
LAMBERTO PIGNOTTI
Beh sì, bene o male, ho usato diciamo delle belle ragazze. Ma per un altro motivo.
NADIA CAVALERA
Forse, però, per recuperarle e quindi toglierle dal loro ruolo.
FRANCESCO MUZZIOLI
Le hai anche un po’ cancellate…
LAMBERTO PIGNOTTI
Insomma, sì le ho cancellate…anche perché io preferisco la venere di Milo che non è intera, cioè…
se fosse rimasta integra o intera, praticamente sarebbe stata meno affascinante.
Ecco allora a me piace molto la bellezza imperfetta, cioè odio la bellezza quando è troppo. Quando è, come dire, pronunciata, ostentata, la trovo offensiva per cui in effetti diciamo che non solo nell’arte ma anche nelle donne reali preferisco che non ci sia una bellezza da rotocalco cinematografico.
NADIA CAVALERA
Perché quella è piatta, poco significativa. La bellezza va scoperta.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sì, ecco, a me piace la bellezza espressiva e nell’immagine femminile preferisco quella che è espressiva sì, ma che nella sua espressione abbia un qualcosa di deficitario. Ecco la Venere di Milo è un non plus ultra. Mozzate è meglio.
NADIA CAVALERA
Un’incitazione a sfregiare, le donne vanno mozzate?
LAMBERTO PIGNOTTI
No, ci mancherebbe; nell’arte comunque amo molto le donne intere, amo molto anche Monna Lisa…
NADIA CAVALERA
Potrebbe essere che così, deficitaria, la donna sia più gestibile? Forse una bellezza statuaria blocca? E l’uomo ha bisogno di sentirsi superiore, per affermarsi meglio?
LAMBERTO PIGNOTTI
No, questa è un’interpretazione cattiva. Un oltranzismo pessimista. Può anche essere. È come per una bella poesia, serve talora essere decisamente brutta… un mio verso di centomila anni fa più o meno diceva questo: la teoria potrebbe dar significato alla poesia più brutta del mondo, almeno come estremo di una serie. Cioè se è veramente brutta, rientra nelle cose estreme. È come la maglia nera all’ultimo classificato nella competizione ciclistica del Giro d’Italia. Ambìta da chi non ha alcuna prospettiva di arrivare primo. Almeno si fa notare. Sai quante volte ho notato delle poesie proprio per la loro bruttezza?
NADIA CAVALERA
Un primato nuovo, quello della bruttezza. Bruttezza, Eh? Abbiamo parlato del bello e della bruttezza no.
LAMBERTO PIGNOTTI
La bruttezza non è l’opposto del bello.
NADIA CAVALERA
Può essere ostica.
LAMBERTO PIGNOTTI
I “Novissimi” in particolare esprimono l’idea della comunicazione negata, cioè “io non voglio comunicare con te perché sei uno stronzo”. Invece noi della poesia visiva, non escludevamo la comunicazione. Ritenevamo che si potesse comunicare con la stessa modalità e lo stesso linguaggio dei media ma in maniera diversa.
NADIA CAVALERA
Rivoltargli contro lo stesso linguaggio.
FRANCESCO MUZZIOLI
Per dirgli… sei uno stronzo.
LAMBERTO PIGNOTTI
E qual è la differenza? Fra i novissimi, grosso modo, non tutti (Balestrini era diverso da Pagliarani…) e noi? Il nostro primo convegno “arte e comunicazione” verteva proprio su questo: si può comunicare, solo che bisogna comunicare in modo diverso. La funzione della comunicazione non è intransitiva ma è transitiva. Io non voglio escludere il lettore, ma lo voglio trascinare dentro.
NADIA CAVALERA
Ma poi sono addivenuti a questa posizione anche i Novissimi. Prima erano più intransigenti, poi no. L’ultimo Sanguineti era molto comunicativo.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì. sì, ma dipende, ci sono degli esperimenti che hanno sostanzialmente uno scopo provocatorio per cui sono irripetibili. In parte alcune cose di Balestrini… Per esempio, il suo primo romanzo, Tristano, che è fatto mescolando queste stringhe narrative, per cui certamente tu lì non ti ritrovi nessuna storia, ma semplicemente dei pezzi che non combaciano mai. Oppure sì, forse il Laborintus di Sanguineti, ecco. E su altre cose, certamente tutto Pagliarani non è diciamo che sbatta la porta nei confronti della comunicazione. Io, però, toccherei un punto che per la lettera i andrebbe bene: l’ironia.
NADIA CAVALERA
Ecco, sì sì bene.
FRANCESCO MUZZIOLI
Perché c’è questa definizione di Lamberto come “genio guastatore” nell’utilizzo delle forme della comunicazione di massa, ma vorrei precisare una cosa, cioè che in quel momento il linguaggio della poesia era il linguaggio degli ermetici, sostanzialmente Ungaretti, Montale…
LAMBERTO PIGNOTTI
Il neorealismo anche.
FRANCESCO MUZZIOLI
C’era un po’ di neorealismo ma in poesia cosa conta?
LAMBERTO PIGNOTTI
La distanza sociale.
FRANCESCO MUZZIOLI
Poi, Quasimodo lì che si era un po’ politicizzato, “come potevamo noi cantare”, sì, va bene, ma con gran retorica. Far entrare le comunicazioni di massa a quel punto è effettivamente far compiere alla poesia l’assorbimento di un linguaggio non poetico. C’è un’operazione esattamente di aggiornamento del linguaggio. Però, appunto, questo viene fatto attraverso l’ironia. Questo è anche un distinguo dal futurismo perché il futurismo nel primo 900, dice in fondo la stessa cosa, no? Voi parlate come se andaste ancora in carrozza, ma ci sono le automobili, ci sono gli aerei, ci sono le navi transoceaniche. È vero? La stessa cosa dice il Gruppo 70, il mondo è cambiato, ci sono le merci, c’è la televisione, c’è la pubblicità. Però, mentre il Futurismo è tecnolatrico, loro sono ironici in questa operazione, quindi in questo senso “dite al fruitore che è stronzo” perché gli dite quello che lui vede nelle comunicazioni di massa, ma attraverso questo montaggio straniante e l’uso dell’ironia. Vorrei sentire appunto Lamberto, perché poi l’ironia è pure una forma che può avere diversi modi di presentarsi, no? Ultimamente ho rivisto il nostro noto personaggio immortale quando prende in giro Schulz al Parlamento europeo, e quando il Parlamento europeo si ribella, lui dice, ma voi non capite l’ironia. Quella è un tipo di ironia che serve in qualche modo per difendersi e per dire le cose peggiori, ma con una via di fuga in modo tale da non essere poi sanzionati. L’ironia polemica è un’ironia mordente… Nel caso dei verbovisivi è sottile perché appunto l’immagine è quella, però ritagliata, contrapposta ad un’altra, montata poi insieme alla parola, perché appunto si fa poesia visiva e quindi c’è un’intersemiosi, si usa il linguaggio e si usa l’immagine. C’è un intervento che dovrebbe poi costituire la presa di coscienza, no? ma vorrei sentire Lamberto su questo.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sull’ironia, certo. Anche questa è una cosa che ci differenzia dal primo 900, cioè dal futurismo, che è di per sé serioso, noi no. Ci siamo mostrati, in genere sempre in maniera accattivante, non per nulla io presentando, mi sembra, la prima antologia di poesia visiva, in una delle prime cose scritte parlavo di cavallo di Troia. Bisogna entrare nella Cittadella del nemico, dicevo…
NADIA CAVALERA
Anche la serie dei francobolli credo che rispondessero a questo intento.
LAMBERTO PIGNOTTI
Tutta la poesia visiva, anche quella verbale, tecnologica, no? Essa nasce dalla poesia, prima dal connubio dei linguaggi, “la poesia me lo dice prima, la poesia me lo dice meglio” che era una forma pubblicitaria, non mi ricordo di quale prodotto. Infatti in Nozione di uomo c’è tutta quella parte che si chiama L’industria poetica, che prende proprio origine dagli slogan della pubblicità. Cosa che per esempio non mi è stata perdonata dal Gruppo dirigente di Mondadori che ha fatto le note di copertina. Ne parlano male perché io parlo male della poesia, quando dico “poesia con rispetto parlando”. Ma ovviamente ne parlavo così per far reagire i lettori. Anche qualcosa che ho letto ieri era sul fatto di presentare un tipo di poesia che non è quello, che ne so della televisione.
NADIA CAVALERA
Una spoesia insomma.
LAMBERTO PIGNOTTI
Per esempio Duchamp quando fa i baffi alla Gioconda non è che irride Leonardo, ma quelli che vanno a vedere la Gioconda pensando di trovarla nella forma conosciuta. Ah sì? e io ti faccio i baffi. Questo discorso non era la polemica contro il Rinascimento o contro Leonardo ma contro la massificazione della Gioconda.
NADIA CAVALERA
Per svegliare il pubblico, lo spettatore.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sì, certo, certo sì.
NADIA CAVALERA
Toglierlo dall’assuefazione.
LAMBERTO PIGNOTTI
Quanto ai premi Nobel a Fo e Bob Dylan, in effetti, posso dire che non sono piaciuti neanche a me, però è vero che si è svecchiata l’idea di letteratura. La letteratura non è solo quella cosa che sta nella pagina o nel libro, ma può essere altro. Non amo né Bob Dylan, né Dario Fo, fino a un certo punto. Dario Fo mi piaceva per una cosa, perché era nato nel 1926 come me. Certo ha scritto e recitato delle cose favolose, no? Quei suoi linguaggi inventati sono strepitosi. No, la letteratura di Fo diventa un’altra cosa, diventa canzonetta, diventa sberleffo e quindi bene, in questo senso.
NADIA CAVALERA
C’è lo svecchiamento, comunque.
LAMBERTO PIGNOTTI
Quanto all’ironia di cui si parlava prima, non si tratta solo di ironia, ma di autoironia.
Era un concetto che non piaceva molto a Vittorio Sereni e ai redattori di Mondadori nel cui ambito però sono usciti prima gli scritti sulla “Poesia tecnologica” e poi due miei libri. Da Sereni, Vittorini, Montale e altri, ho ricevuto nel ‘61 anche un premio il “Cino del Duca”, che era di un milione di lire.
NADIA CAVALERA
Però…e che hai comprato con quel milione?
LAMBERTO PIGNOTTI
Comprai la Treccani che costava mezzo milione, e poi mezzo milione l’ho investito in titoli pubblici.
NADIA CAVALERA
Ah, quindi li hai investiti innanzitutto in cultura.
LAMBERTO PIGNOTTI
La Treccani, per me era cosa sacra. La Treccani è legata ad un altro ricordo, alla Biblioteca Nazionale di Firenze in cui si potevano incontrare verso la fine della Seconda Guerra Mondiale e subito dopo, le “Parole in libertà” Futuriste, i collages cubisti e dadaisti, dei libri sul neo-positivismo, certe pagine dell’Ulisse di Joice, dei testi di psicanalisi, qualche riproduzione dei pittori surrealisti. Confesso di aver scritto sui muri “viva la psicanalisi, viva il surrealismo”.
Correvano gli anni ‘42, ‘43, ‘44…arrivai alla Biblioteca Nazionale di Firenze a diciassette anni, un anno prima che vi potessero accedere gli studenti. Mi ero fatto fare un permesso da un mio professore, Luigi Fallacara, un poeta che compare fra i nomi del primo Novecento, a partire da Lacerba, e siccome ero anche piccolino di statura quando entrai mi fermarono gli addetti. Fu così che incominciai a sfogliare libri. Per farla breve, mi sono trovato sottomano le opere sia delle avanguardie letterarie e artistiche, sia i primi saggi che arrivavano su quelle stesse avanguardie. Ricordo, ad esempio, un libro illustrato bellissimo uscito nel 1938 di Christian Zervos proprio sulle avanguardie, Histoire de l’art contemporain. Queste le mie fonti di ispirazione. Si, erano gli anni in cui Alberto Arbasino ha poi sostenuto che bastava un salto a Chiasso per informarsi; ebbene io questo salto lo facevo quasi ogni giorno nelle biblioteche di Firenze: La Nazionale, ma anche la Marucelliana. Avendo questi supporti e queste inclinazioni scrivevo anche parole di un insolito tipo e facevo un atipico genere di “disegnini”. Li chiamavo “disegnini”. Soprattutto nell’estate quando mi annoiavo, tratteggiavo certe cose che poi ho scoperto essere post-surrealiste, post-dadaiste, post-futuriste… Parallelamente ho cominciato a buttar giù delle frasi che potevano anche sembrare, o erano poesie…
NADIA CAVALERA
I tuoi primi passi nella poesia…
LAMBERTO PIGNOTTI
Ma nel ‘44 ero stato chiamato alle armi come tutti i ragazzi che avevano 18 anni. Allora, c’era la Repubblica di Salò. Io non mi presento. Renitente alla leva mi rifugiai nello studio di mio padre, posto all’interno di un ex conventino, dove si erano rifugiati altri pittori, scultori, artigiani; erano tutti antifascisti. Si trattava insomma di un covo di partigiani; vi si stampava clandestinamente «L’Unità». La fortuna volle che abbandonassi quel posto tre giorni prima che facessero irruzione i fascisti. Il tutto si trasformò in una vera e propria strage, testimoniata da una lapide. Ne ricordo ancora la data: 17 luglio 1944. Diverse persone furono coinvolte, tra cui un bambino di nove anni. Per la cronaca in quei giorni, in quel conventino, si trovava con il padre e lo zio, anche la giovane Oriana Fallaci che faceva la staffetta partigiana.
Come si può dedurre da quello che ti sto dicendo, mi faccio poco scrupolo di obbedire alla consecutio temporum, alla successione e all’ordinamento di tempi e avvenimenti. Come al solito tendo a procedere di palo in frasca, accostando parole che si facciano vedere e immagini che si facciano leggere.
NADIA CAVALERA
Suggestivo.
FRANCESCO MUZZIOLI
Forse però possiamo aggiungere una cosa alla lettera F, il fumetto; perché giustamente tu ricordavi i francobolli, e c’è una tecnica che Lamberto ha usato ricorrendo al fumetto, dove non è più importante che l’immagine sia presa dalla pubblicità, dal linguaggio moderno, ma a essere decisiva è la forma fumetto. Mediante il fumetto, il linguaggio che si aggiunge e che fa parlare l’immagine (ovviamente muta di per sé) lo fa con funzioni di abbassamento parodico. Questo straniamento che abbassa il livello della comunicazione lo ricordo non solo nei francobolli, ma anche nella Biblia Pauperum, che mi colpì molto quando la vidi in una presentazione.
LAMBERTO PIGNOTTI
Ah se lo vuoi ho le copie, posso fartele avere.
FRANCESCO MUZZIOLI
Ringrazierei molto, perché effettivamente lì c’è il testo sacro spiegato ai semplici e con questi momenti straordinari demistificanti al massimo. Tant’è vero che poi, dopo avere assorbito il Pignotti, a me capita spesso di trovarmi nelle pinacoteche e di vedere l’arte, soprattutto quando è abbastanza banale, soprattutto in certe immagini sacre con espressioni molto artefatte, con gli occhi dei fumetti pignottiani. Ti ho introiettato in un certo senso e ti ringrazio per questo perché è una medicina, appunto rispetto all’arte troppo stereotipata e vanagloriosa.
NADIA CAVALERA
L’argomento mi interessa molto. Come hai trattato i primi versi della Genesi?
LAMBERTO PIGNOTTI
Non mi ricordo più… ma tutto cominciava con un messaggio pubblicitario.
NADIA CAVALERA
Neppure la nascita dell’uomo?
LAMBERTO PIGNOTTI
No, ma c’è Dio padre come regista e Cristo come uomo politico che parla al popolo.
NADIA CAVALERA
C’è l’ironia, anche nei riguardi della fu pop-art, credo.
LAMBERTO PIGNOTTI
I fumetti e le foto a me servivano in quel libro per dire che è una forma di narrazione, perché in genere si concepisce l’arte visiva come qualcosa di statico.
Ogni quadro sarebbe, è inteso, come una storia fermata nel tempo, invece cosa prospettano e hanno di bello il fotoromanzo e i fumetti? La narrazione. E quindi mi interessa sì la poesia visiva, ma anche la narrazione, per questo sul romanzo ho detto diverse cose, già dal 1965, quando le portai a Palermo.
FRANCESCO MUZZIOLI
Al convegno sul romanzo sperimentale.
LAMBERTO PIGNOTTI
La narrazione è tante cose, non solo il romanzo. In uno dei miei pseudo fotoromanzi appare Marx che dice “sì, sì, verrò”. Durante il ‘68 a Berlino in un Manifesto venne usato Marx in una maniera simile alla mia. Probabilmente non era conosciuta quella mia opera, però è andata così…
NADIA CAVALERA
Coincidenze che sorprendono. L’arte è nell’aria, come già la poesia per qualcuno. E deve stimolare la meraviglia nello spettatore, nel fruitore. Che altro? M…M come meraviglia… La tua più grande meraviglia.
LAMBERTO PIGNOTTI
Quando mi è apparsa quella che sarebbe poi diventata mia moglie.
NADIA CAVALERA
L’avevo immaginato.
LAMBERTO PIGNOTTI
L’ho conosciuta a casa di amici. Vado a casa loro e trovo questa ragazza, carina, ci siamo messi a parlare, lei sapeva già del gruppo 63, e poi era molto ironica. Mi ha colpito insomma. Ecco, questo è il momento. E poi ovviamente dopo qualche tempo, ci siamo rincontrati. Quindi ci siamo trovati bene e frequentati. Pensa che le prime volte che andavo con lei in albergo, seppure non si usava, le chiedevano la carta d’identità perché pensavano fosse minorenne. Sembra più giovane della sua età. Allora io avevo 45 anni, lei ne aveva 30. Sembrava una ragazzina, appunto una minorenne. Ancora oggi è molto giovanile.
NADIA CAVALERA
Credo di averla vista una volta a Bologna ad un convegno sul gruppo 63. E tu, Francesco, vuoi ricordarci il tuo incontro con Carmela?
FRANCESCO MUZZIOLI
Dovrei parlare? Dell’incontro con mia moglie?
NADIA CAVALERA
Certo. Non ne sappiamo nulla.
FRANCESCO MUZZIOLI
Noi ci siamo conosciuti in una biblioteca, giusto per rimanere in tema. Sì, però, vorrei parlare anche di un altro incontro, quello con le avanguardie, mi sembra interessante, perché spesso quando appunto vedo che nel pubblico si è lontani da questo tipo di testo, mi chiedo sempre, ma io come ho fatto? Come è successo? Come mai? E quindi ricordo che fu attraverso la televisione. Perché io da giovane, a scuola mi ero un po’ fissato, diciamo sugli ultimi autori, perché a scuola non si studiano mai. E il mio ultimo era Ungaretti. Io stavo lì, diciamo nell’ultima classe del liceo con quest’Ungaretti, quando a un certo punto vedo L’Approdo, una trasmissione televisiva. All’epoca c’erano delle trasmissioni culturali in orario abbastanza accettabile. Dove c’era la presentazione dei Novissimi e lì ho avuto questa rivelazione: ma allora c’è qualcuno dopo Ungaretti. Poi naturalmente ci sono stati tutti gli eventi del 67, del 68, naturalmente.
NADIA CAVALERA
Che anno era quando hai visto questa trasmissione?
FRANCESCO MUZZIOLI
Non ricordo più bene, sarà stato forse proprio il 67, nell’ultimo anno del Liceo. Poi è necessario che questi incontri casuali fruttifichino, ci vuole una spinta che porti a voler capire delle cose. Che attorno ti dicono che non vanno bene, no, e tu per tigna ti metti da quella parte, dalla parte sbagliata sostanzialmente.
NADIA CAVALERA
Ci vuole la predisposizione ad un’altra collocazione.
FRANCESCO MUZZIOLI
Ci sarebbe, alla lettera R, la parola rivoluzione. Oggi si parla di rivoluzione, l’anniversario della rivoluzione, ma purtroppo tutti i nostri problemi stanno nell’assenza di una rivoluzione anche per i giovani, cioè come fanno ad appassionarsi? Noi abbiamo avuto questo secondo momento, che poi si è rivelato anche questo poco rivoluzionario, è stata una rivoluzione fallita, però indubbiamente lì abbiamo maturato questa utopia. Quando manca questa spinta, la prospettiva del futuro, gli impulsi si possono incanalare. Oggi per i giovani qual è? Cambierà questo sistema? Loro non ci credono più. Mi pare che questo sia un punto importante anche per le avanguardie artistiche. Come fanno senza spinte rivoluzionarie? Dopodiché poi è vero che, nella storia, rivoluzione sociale e rivoluzione artistica non si sono mai incontrate, forse non si possono incontrare.
LAMBERTO PIGNOTTI
C’è stata l’esperienza di Majakovskij…
FRANCESCO MUZZIOLI
Majakovskij si è suicidato però, e all’inizio pure lì… I dirigenti gli dicono: gli operai non vi capiscono. C’è un brano dove Majakovskij risponde all’Ufficio della Cultura e dice che mettere gli operai in grado di capirlo è una operazione politica.
NADIA CAVALERA
Ma ci può essere una rivoluzione pacifica.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì, indubbiamente, ma è ancora più difficile.
NADIA CAVALERA
Perché la rivoluzione può essere una risoluzione temporanea che sembra efficace ma poi tutto rientra. Come invece creare una rivoluzione che possa essere pacifica? Non fare dei morti e basta. Una rivoluzione che possa anche stabilizzarsi in una realtà accettabile?
FRANCESCO MUZZIOLI
Il problema della democrazia, come tu sai (sei intervenuta di recente in maniera polemica su questo tema), è di superare i propri limiti, altrimenti se tutti sono uguali, ma alcuni più uguali di altri è una democrazia sbagliata. Forse perché il demo è poi questa società ristretta…
NADIA CAVALERA
È ristretta molto ristretta ma c’è democrazia oggi?
FRANCESCO MUZZIOLI
Democrazia e rivoluzione. Occorre metterle insieme.
LAMBERTO PIGNOTTI
No, io vorrei riallacciami al discorso di prima. Brutalmente, volevo dirti che io non sono rivoluzionario, non credo alla rivoluzione violenta. No, davvero. Penso a tutto il 68, tanto per dire. Io credo alla rivoluzione del linguaggio, per me solo questa è valida. Non credo alla rivoluzione messa in scena da quei nostri amici come Fortini, Raboni che si prestavano ad iniziative per far finta di fare rivoluzione. No assolutamente a quella rivoluzione, con l’orario, che dice sì, ci sto fino ad un certo punto, ma all’una e mezzo, arrivederci e grazie, torno a casa. No, no. Il poeta fa la sua rivoluzione col linguaggio.
NADIA CAVALERA
Bella questa descrizione. Impiegati della rivoluzione col cartellino. Meglio puntare è vero sulla rivoluzione del linguaggio.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sarà un caso che i poeti più rivoluzionari del 900 sono di destra? Marinetti, Pound, Celine sono di destra, però fanno la rivoluzione. Perché se tu riesci a far parlare diversamente il cosiddetto popolo, quella è la rivoluzione. Cioè devi far cambiare se vai come intellettuale, poeta. A questo proposito avrei tanto da dire, ma si svicolerebbe un po’ troppo. Solo questo. Nel 68 avevo dato luogo a Firenze, a una serie di manifestazioni sperimentali a cura dell’Associazione degli Artigiani, dal titolo “Situazione 68”, da farsi nel dicembre di quell’anno, una letteraria e una pittorica. Quella letteraria era diretta da Anceschi, quella pittorica da Dorfles. Avevano aderito tutti i poeti sperimentali (Balestrini, Sanguineti, Leonetti, Di Marco, Giuliani)…. e gli artisti più avanzati (Kounellis, Paolini, Mattiacci, Fabro, Ceroli…).
Ma è arrivata l’estate calda del ‘68 e si ritirarono quasi tutti. E chi venne, venne a dirne male perché disse, la rivoluzione è quella che si fa in piazza. Io ce l’ho ancora questi documenti di “Situazione 68”, manifestazione che doveva dare l’idea di quello che si intendeva o si poteva fare. Erano stati coinvolti, come ho detto, i maggiori poeti e i maggiori pittori del momento, e altri che poi sarebbero venuti fuori. Avevano aderito tutti e invece poi per certi finti barricaderi non si è andati avanti. Per me ad ogni modo la rivoluzione deve essere quella che fa cambiare, come dire, la weltanschauung o lo Zeit Geist, come chiamarla?
NADIA CAVALERA
Bene, e questa infatti è la filosofia alla base del mio progetto etico-linguistico, per il quale propongo di cambiare la parola umanità con umafeminità per garantire la presenza della donna (con -fem) nella parola che indica l’insieme delle donne e degli uomini. Ma tu non usi molti neologismi, mi pare.
LAMBERTO PIGNOTTI
Beh sì, nella poesia tecnologica, ce ne sono.
NADIA CAVALERA
Più che neologismi, mi sembrano nomi presi dal quotidiano che prima non comparivano nelle poesie e che invece compaiono nelle tue.
LAMBERTO PIGNOTTI
Dal quotidiano ho preso la classica coppia di “maschio e femmina” e l’ho trasformata, nel titolo di un mio libro “femminista” in Marchio & Femmina. Io ho sempre odiato la figura maschile tradizionale. Sarà che sono cresciuto con le donne. L’estate andavo a Forte dei Marmi da mia zia che era una seconda mamma. L’aiutavo nelle faccende e facevo parte di una banda di bambine che andavano a rompere le scatole ai maschi. E forse le due guerre mondiali, se fosse dipeso dalle donne non ci sarebbero state. Così la società fatta dalle donne non sarebbe stata così aggressiva. Io non solo non sono aggressivo, ma neppure competitivo.
NADIA CAVALERA
Non tutti gli uomini sono aggressivi per fortuna, ma quelli che dettano le leggi sì.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sto sulla difensiva, faccio contropiede e controllo l’avversario. E così sin da piccolo. Io non ho mai corso con gli altri, non ho mai fatto caso agli altri. Facevo i miei giochi e poi erano gli altri che finivano col fare i miei. No, io non andavo a fare i loro giochi. Me li inventavo i giochi.
NADIA CAVALERA
Eri un trascinatore, insomma.
LAMBERTO PIGNOTTI
Siccome i miei studi li finanziava la zia, alle superiori io ho fatto ragioneria, e sono un ragioniere, poi dottore commercialista, ma non so fare le somme. In questa sezione di ragioneria, siamo partiti in 44 e il secondo anno eravamo 16. Questi 16 hanno cominciato a leggere Ungaretti, a sapere cosa era il futurismo e non si faceva nulla di finanziario. I docenti, per fortuna erano intelligenti.
NADIA CAVALERA
Li trascinavi tu in questo discorso?
LAMBERTO PIGNOTTI
Il termine “trascinatore” mi sembra eccessivo. Non posso negare però che certe mie idee, che certi miei comportamenti hanno avuto particolare attenzione. Ho avuto l’attenzione spesso da persone che avevano idee diametralmente opposte alle mie. Emblematica in tal senso è stata per me la stima di Argan. Durante gli anni scolastici, a cui prima accennavo, avevo la stima affettuosa del mio temutissimo professore di matematica, materia in cui non sono mai stato capace di fare un compito scritto. Trascinatore forse no, ma neppure competitivo. Non sono competitivo, e neppure aggressivo e se corro, non è perché devo vincere. Mi farebbe anche piacere, ma lo faccio per mettermi alla prova. L’unica gara che io concepisco è quella del primato dell’ora, vincere contro me stesso. Di cosa fa quell’altro non me ne frega nulla o quasi. Anche con le ragazze era la stessa cosa. Se a me piaceva una ragazza, che piaceva anche a un altro, lo lasciavo fare. Se è più bravo di me, pensavo con un certo fastidio, se la prenda lui. Non insistevo. Peraltro ho sempre evitato di essere il primo della classe…
NADIA CAVALERA
Sei in gara solo con te stesso. Bella questa immagine di te solitario intento a eseguire i tuoi giochi, e questi compagni di classe che facevano più letteratura che matematica…Stavi dicendo che in classe si faceva più letteratura, che matematica. Avevi un percorso segnato.
LAMBERTO PIGNOTTI
Sì, ma era una classe particolare in tempo di guerra, si poteva fare un coretto ritmato sui banchi e ballare il tip tap sulla cattedra. Mio padre poi era pittore, e qualcuno si era messo a dipingere come lui; venivano a casa mia, che allora diventava una specie di centro studi alternativo.
NADIA CAVALERA
È rimasta una domanda, sospesa sul collezionismo. Che cos’è per te il Collezionismo? Come mai c’è quest’ansia collezionista anche in te? E che io condivido (forse si vede anche dai lumi e gattini intorno).
LAMBERTO PIGNOTTI
Mi interessano le cose curiose, non però il collezionismo.
NADIA CAVALERA
Che cosa ti incuriosisce?
LAMBERTO PIGNOTTI
Mazzi di vecchie carte da gioco, dischi a settantotto giri, libri d’artista, libricini minuscoli magari della dimensione dell’unghia di un pollice, oggetti in forma di libro, carillon; ma sono partito dai santini perché mia nonna aveva un libro di preghiere dove c’erano questi santini. Mia nonna era una che stava tutto il giorno a leggere di arte in Toscana. Peraltro mi chiamo Lamberto, perché a Firenze c’è Via dei Lamberti, via Lambertesca e cose così…è un nome tradizionalmente fiorentino.
NADIA CAVALERA
Una nonna molto legata alla storia della città.
LAMBERTO PIGNOTTI
Certo, ma…
NADIA CAVALERA
Parlavamo di collezionismo.
LAMBERTO PIGNOTTI
Ah, ecco allora la prima forma di collezionismo sono state le immaginette devozionali. Ma guarda quanto sono belle mi dicevo…
NADIA CAVALERA
I santini. E quanti ne hai?
LAMBERTO PIGNOTTI
Non è la quantità che conta. Ho dei santini, alcuni veramente belli a vedersi, proprio belli, altri li vedo legati all’inizio della storia delle avanguardie. Il collage e il fotomontaggio nascono dai santini. C’erano monache che facevano questi lavori, incollavano di tutto, non solo carta, ma anche perline, pagliuzze dorate, stoffe e piccole fotografie. È nell’ambito del dadaismo che il fotomontaggio è diventato una forma d’arte, derivato da certe stampe popolari, che le avanguardie, appunto, guardano con altri occhi.
NADIA CAVALERA
…erano oggetti normali, comuni, insomma, che vengono trasformati in oggetti artistici.
LAMBERTO PIGNOTTI
A guardarli oggi certi santini sembrano anticipare addirittura l’arte povera, il concettuale…Io conservo un santino con dei fiori secchi incollati che dicono raccolti sull’orto di Getsemani, un altro con listarelle di legno che dicono di provenire dalla croce di Cristo. Per l’occhio del fedele la cosa non è simbolica, ma reale. Dipende dalla lettura che se ne fa. Non solo nei santini l’arte sacra può essere letta come pornografica: le estasi e i tormenti di qualche santa vergine seminuda sconfinano alquanto in amori sacri e profani.
NADIA CAVALERA
Ma io non li conoscevo sotto questa forma. Li devo riconsiderare. Ma passiamo per concludere alla lettera V. V come valore? LAMBERTO PIGNOTTI Valore, direi ma non mi evoca niente. NADIA CAVALERA E Venezia? LAMBERTO PIGNOTTI
Niente. Ciao Venezia…. Niente, non so.
NADIA CAVALERA
Francesco cosa ti evoca la lettera V?
FRANCESCO MUZZIOLI
Io direi Voce. La voce ci porta a considerare l’altro ramo dell’opzione verbovisiva che è la poesia sonora. NADIA CAVALERA
La voce. Sì, è vero, voce.
FRANCESCO MUZZIOLI
La poesia sonora è l’altro ramo, parallelo alla poesia visiva. Forse Lamberto l’ha praticata meno, attraverso la performance, però, è stato anche vicino ai poeti sonori. Anche la poesia sonora è stata eminentemente sperimentale, sia nel versante del vocalizzo puro e dell’uso delle parti meno significative della parola, sia nell’avvicinarsi al teatro. Credo che la lettura a voce sia diventata un veicolo possibile della poesia. La poesia se resta nel libro ormai è, come si dice, lettera morta e quindi certamente i poeti penso siano stimolati alla recitazione; certo la lettura a voce può essere fatta (e spesso è fatta, effettivamente) in modi banali, però è comunque un veicolo importante. Attraverso il video, per esempio, si potrebbero certamente realizzare delle presentazioni utili a farla vivere, nella voce, la poesia.
NADIA CAVALERA
Molto praticata dagli anni 80 in poi. Penso di sì, potrebbe essere quello l’aggiornamento della poesia futura.
FRANCESCO MUZZIOLI
Dopodiché, succede che gli attori fanno un servizio ai poeti non sempre buono, perché quando l’attore va a leggere la poesia, siccome non è pagato, non l’ha mai provata. Aggiunge la sua tecnica e non sempre capisce quello che sta leggendo. Appunto, si dovrebbe passare attraverso gli autori… E forse gli autori stessi, stanno guadagnando in vocalità, mi sembra. Si torna all’origine. Perché la poesia nasce certamente orale, nasce insieme alla musica.
NADIA CAVALERA
Magrelli, se non ricordo male, sarebbe contrario, lui dice che la musica è una protesi della poesia, che la poesia dovrebbe già contenere praticamente musicalità all’interno.
FRANCESCO MUZZIOLI
Sono d’accordo ma diciamo che la musica potrebbe funzionare da supporto.
NADIA CAVALERA
Certo, si dovrebbe ritornare alle origini. Poesia e musica.
John Samborn e Gianni Toti, 1987. Archivio La Casa Totiana gestione Poetronicart
FRANCESCO MUZZIOLI
Sì, attraverso il video si potrebbe andare verso una sorta di arte totale, come ha fatto Gianni Toti con i suoi esperimenti di videopoesia, in anni, tra l’altro, in cui quella cosa era molto pionieristica. Quindi forse potrebbe essere un modo anche per impattare un pochino sul pubblico. Che ne dici, Lamberto?
LAMBERTO PIGNOTTI
Personalmente non pratico quella che viene definita poesia sonora. Ho fatto però delle letture con Gianni Fontana e Tomaso Binga. Al tempo del Gruppo 70 ho registrato in cassetta delle “poesie auditive”, con voci, rumori, musiche di consumo e messaggi pubblicitari, in cui appariva anche la voce del Papa Paolo VI, e anche quella di Celentano. Con il Gruppo 70 abbiamo fatto per alcuni anni, dal ‘65 in poi uno spettacolo chiamato Poesie e no che cominciava con la sigla dell’Eurovisione. L’abbiamo fatto anche a Spoleto, nel 1966, nella stessa Piazza in cui recitò Ezra Pound. Questo spettacolo, che non rientra nella poesia sonora, lo abbiamo eseguito in diverse sedi, anche all’estero, anche alla Rai. Da una trasmissione radiofonica ho registrato anche delle mie poesie lette da Vittorio Gassman in modo deludente perché non aveva capito dove stavano le virgole. Ad ogni modo io penso che la lettura di una poesia sia preferibile, non quella di un attore, ma quella del poeta che l’ha scritta. Lui sa dove spezzare la lettura, dove riprendere fiato, dove fare una pausa. Del resto la poesia è nata con i gesti, con la vocalità, magari con qualcosa che oggi è definito performance. Qualcosa che un tempo la Pizia o la Sibilla cumana, andavano cantando e scrivendo sulle foglie affidate al vento…
NADIA CAVALERA
E al vento affidiamo noi queste parole di ricordi perché li semini lontano a rigenerarsi ancora. Grazie.
Quasi otto anni sono passati dalla pubblicazione di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, e quindi certamente più di otto dalla sua ideazione. In questi otto anni i lettori di Ida Travi, anche quelli più fedeli, hanno ovviamente pensato anche ad altro. Pure l’autrice, non c’è dubbio, non si è occupata solo di questo. Però, altrettanto indubbiamente, il mondo dei Tolki ha dovuto essere centrale in lei, come una specie di ossessione che ritorna, che ritorna a parlare.
Chi ha mai visto Ida Travi recitare le proprie composizioni ha certamente presente quello stato di estrema concentrazione, occhi chiusi, voce come trattenuta rispetto al grido, una trasmissione di emozione fortissima da lei a noi. Voglio credere – e non penso di essere così lontano dal vero – che uno stato simile a quello caratterizzi i suoi momenti di creazione. Solo che non è lei a parlare a noi, in quei momenti; sono i suoi personaggi che parlano a lei: è Inna, è Katrin, è Dora.
In realtà non è detto del tutto che sia così, ma la sensazione è che, in tutti i componimenti, il personaggio che parla, che dice io, sia una donna. Gli uomini ci sono in questo mondo: anzi, se percorriamo i nomi di persona che attraversano tutti i cinque volumi, gli uomini sembrano essere maggioranza. Però sono coloro cui ci si rivolge; sono i compagni, gli interlocutori. La voce che parla è comunque femminile, come femminile è la sua attenzione ai dettagli, alla casa, all’ambiente, agli affetti.
Detto questo, Sunta non è Dora e non è Katrin e nemmeno Inna. Ciascuna di loro ha i suoi specifici problemi e le sue relazioni, e i suoi particolari sentimenti. Ma sono loro che noi possiamo percepire da dentro, con cui possiamo vivere quella loro esistenza che ricorda la nostra, eppure le è al tempo stesso differente, estranea. Gli uomini sono altra cosa: sono quelli che collaborano, che agiscono, che subiscono, che devono crescere. Ed è proprio la sensazione di essere a contatto diretto con queste vite sensibili che parlano da dentro, che parlano nell’emozione e nella quotidianità, a caricare di fascino il discorso.
Non è mai chiaro del tutto che cosa distingua il mondo dei Tolki dal nostro. Forse c’è stata una catastrofe, in passato, a marcare la cesura, come suggerisce Alessandra Pigliaru nelle sue note ai diversi volumi, o forse no. Di fatto ogni tanto si accenna ad automobili, al bus, allo schermo, elementi tipici della nostra quotidianità; ma non sembrano realtà centrali o importanti. Magari i Tolki sono solo una comunità un po’ isolata; magari il loro isolamento è solo psicologico. Eppure sembrano vivere una dimensione un po’ primitiva; o magari forse è solo che ciò che è più moderno fatica a entrare nei discorsi delle donne che si esprimono pagina dopo pagina. Ci sono i campi, l’insalata, l’asino, il bambino, la neve, la terra, il casolare, la campana, il vento, la farina, il lupo… Un mondo di campagna, insomma.
Però c’è comunque qualcosa che non quadra. Attraversa tutte le cinque raccolte la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere; che si viva, insomma, sull’orlo dell’abisso. Non se ne parla mai, in verità. Il discorso è sempre legato al dettaglio, alla situazione del momento, alle piccole paure o necessità del presente. Ma è forse il tono a tradire la potenzialità della tragedia: non quello che le parole dicono, insomma, ma il modo in cui lo dicono. Questo grande non detto che traluce attraverso i discorsi del quotidiano è alla fine più forte di loro, e finisce per essere il tono complessivo, il mood attraverso cui il lettore percepisce ogni cosa.
I Tolki sono stati battezzati così perché sono esseri fatti di sola parola: they talk, insomma. Ma la parola, in generale, non consiste solo di quello che essa dice; è fatta anche di silenzi, di omissioni, di ripetizioni. E questo basterebbe per caratterizzarla in questo contesto. Se poi, però, abbiamo avuto la ventura di ascoltare anche il suono della voce dell’autrice quando recita i propri versi, ecco che la parola acquisisce pure una dimensione di fiato, di vento, di lontananza. Queste poesie sono piene di interlocuzioni: è come se ci fosse sempre qualcuno che si sta rivolgendo a qualcuno lì presente. Questo crea una fortissima sensazione di immediatezza, di essere lì, che tutto stia succedendo ora. La parola, quella che caratterizza i Tolki, quella che li fa essere, secondo la intrigante espressione lacaniana, dei parlêtre, non è la parola della poesia, e nemmeno quella della letteratura in genere: è scritta, ma suona come parlata; è pensata, ma suona come spontanea, presente, non meditata; sulla pagina è muta, ma ha ugualmente tono, suono, intonazione.
È per questo che questi versi si possono permettere di usare parole ormai difficilissime in poesia: luna, vento, cuore, fiore… Parole il cui abuso ha in generale reso banali, inutilizzabili. Gettate nel tempo presente di queste enunciazioni, pronunciate da persone che non sembrano poter avere nessuna consapevolezza di nessuna letteratura, straniate attraverso una sonorità diversa da quella che normalmente le accompagna, queste parole proibite riprendono vita, riprendono senso, trovano colore: insomma possono nuovamente essere dette, e le si dice senza nessun pudore, e senza aver ragione di preoccuparsene.
Questo è – io trovo – una delle prove della qualità della scrittura di Ida Travi: ridare alla poesia la possibilità di nominare i sentimenti, ridonando peso a parole che l’avrebbero perso – e che continuano altrove a essere deleterie, esteticamente devastanti, quando utilizzate senza le necessarie precauzioni.
Sicuramente, anche la natura incerta di questo mondo contribuisce a costruire il quadro di riferimento in cui queste parole riprendono la loro forza primitiva. Ho provato talvolta, leggendo i cinque libri della saga, la sensazione di essere una sorta di antropologo intento a studiare, magari a spiare, la vita delle persone che la abitano. Questi discorsi immediati, emotivi, profondi senza la volontà di esserlo, non si rivolgono a noi, ma a qualcun altro dello stesso mondo, a volte esplicitamente nominato: Olin, Zet, Katrin, Kiv. Per questo è come se li sentissimo un po’ per caso, come quando in treno o sull’autobus ci arriva all’orecchio una conversazione tra sconosciuti: il più delle volte essa è fatta di dettagli irrilevanti per noi; e invece di quando in quando ecco che qualcosa ci cattura: non conosciamo niente delle persone e delle situazioni cui si fa riferimento, ma c’è quel dettaglio di umanità comune che nella sua diversità ci tiene lì, ci interessa.
Se invece di essere una sola conversazione a catturarci, ve ne fosse un’intera serie, e collegate tra loro, ecco che finiremmo per cercare di ricostruire una rete di rapporti, di vite vissute, di modalità di relazione. Ci ritroveremmo insomma a tentare una sorta di ingenua antropologia. Che è proprio quella in cui, inevitabilmente, ci immergiamo leggendo questi libri. Chi sono i Tolki? Che relazione intrattengono con noi, con la nostra società? Indubbiamente essi ci sono simili; sembrano provenire, per certi versi, da qualche piega del nostro passato antropologico. Per altri versi tuttavia essi ci sono troppo simili per arrivare così da lontano. Siamo noi, insomma; o quasi-noi. Di nuovo: c’è davvero stata una catastrofe tra loro e noi? Stiamo davvero leggendo una sorte di Cronache del dopobomba? Probabilmente sì. Altrettanto probabilmente no. Forse è solo la tensione costante che pervade la voce che dice io a produrre la sensazione di un pericolo incombente, di una difficoltà costante.
Ma è così, ugualmente, che queste piccole vicende, nella loro banalità, diventano il tono della nostra stessa inquietudine, della nostra stessa quotidiana incertezza. Ed ecco che io posso essere Dora, Inna, Katrin… Posso sentire la bellezza delle piccole cose che colpiscono la loro attenzione, aver paura per il bambino, desiderare Usov, vivere insomma quelle vite un po’ come se fossero la mia.
Proprio in questo modo la saga dei Tolki finisce per assumere l’aspetto di un’epica. Non un’epica eroica e gloriosa, certo – ma qualcosa di glorioso comunque emerge in questa quotidiana resistenza vitale, in questo perseguire gli affetti, i piccoli doveri, le relazioni con il mondo circostante. Cinque volumi per esplorare il mondo dei Tolki possono apparire tanti, ma se ci si rende conto che si tratta di un’epica si capirà anche quanto sia necessaria un’immersione, una presa prolungata di respiro per riuscire a vibrare davvero con quella frequenza. Non l’eroismo vittorioso, ma l’inquieta persistenza è forse l’unico motore possibile di un’epica del presente, di un’epica in cui noi cioè ci possiamo veramente riconoscere, senza che qualcosa appaia falso, posticcio, eccessivo.
Per otto anni i Tolki hanno respirato e sussurrato con continuità nel presente della loro autrice, uscendo uno dopo l’altro alla luce del discorso, o rientrando per un po’ nell’ombra o nel silenzio della memoria. Adesso che l’autrice è forse uscita da questa fertile ossessione, potrebbe valere la pena ripartire noi da capo, rileggerci tutta la saga, riviverla da dentro nel suo respiro, nelle sue voci, nelle sue voci.
*In occasione dell’uscita de I Tolki, di Ida Travi, che raccoglie in un solo tomo di oltre 450 pagine gli otto volumi della saga omonima, ho pensato di riproporre qui la postfazione che avevo scritto, su invito dell’autrice, al quinto volume, Tasàr, che all’epoca sembrava dover essere l’ultimo. In seguito, inaspettatamente, ne sono usciti altri tre. Ma la mia postfazione alla saga, a parte qualche dettaglio cronologico, continua a esprimere quello che questo lavoro evoca in me. Gli anni non sono più otto, bensì quattordici, i volumi non più cinque, bensì otto, ma la sostanza evocativa non è cambiata, e i volumi successivi sono stati una sorta di naturale espansione dei precedenti. Ora c’è il tomo complessivo pubblicato da Il Saggiatore. L’occasione per un’immersione totale, avvolgente, una discesa prolungata (o ricorrente) nell’oceano del mito, della parola dentro il mito.
È nato un bambino sulla terra,
tutti hanno descritto
l’evento come consueto.
Un essere piccolo scaraventato
su un globo sparso in un
indefinito spazio nero:
una catastrofe vista da fuori
diventa un miracolo.
Tutto il senso si racchiude
in una stanza di ospedale.
Il nascituro numero due
del venti aprile duemilasedici
non proviene dalla matematica.
L’unico comandamento a cui
appellarsi, è che l’uomo
assomigli ad un fiore.
Il fiore non reclama il diritto
di possesso, ma di dono.
Da “La prima notte al mondo”
La prima notte al mondo
ho piazzato una tenda al Polo Nord.
La luce lunare splendeva ovunque
e il ghiaccio si scioglieva
solo in determinati punti.
Ero spoglio e sotto di me
le foche nuotavano aspettando
il mio essere cacciatore.
Il silenzio d’altronde
non si può ricordare.
*
L’istante in cui il coltello
taglia il ghiaccio è questo.
Il vento assente.
Costruisco un’abitazione
le fondamenta si sciolgono.
Intorno c’è gente,
sembra non esserci, in effetti
si percepisce il vapore appena.
Muovo i primi passi
è una fatica immane
così rinuncio
alle braccia di mia madre.
*
Come si costruisce una casa?
Nel Dna ci sono le informazioni sufficienti
ma decido di aspettare. Mille anni circa.
Sullo sfondo ci sono dei cani
mi proteggono, l’erba spunta
fra i blocchi di ghiaccio
l’odore è proprio quello
di una casa. Gli istinti
non sono affinati
e viviseziono il rumore
in un suono.
*
Ho sognato un adulto:
tutti lo volevano cacciatore.
Sbadato si è portato un libro.
Di poesia. È stato sbranato dai lupi.
Rimasto sepolto tra la neve
è divenuto scheletro
nel totale sconcerto
chi l’ha trovato per primo
ha sorriso nel raccogliere
un libro bagnato.
Di poesia.
*
D’estate, la notte al Polo Nord
non esiste.
I cacciatori partono con le slitte
restano nei deserti bianchi per mesi.
Scelgono un lago ghiacciato
bucano il loro guscio,
finché dei pesci vengono a galla.
La sera accendono un fuoco
e lì
decidono che non potevano
essere altro.
*
Fuori c’è la notte,
spazio per le visioni.
Nel ghiaccio un uomo
pratica tre buchi simmetrici.
Suda molto ed è strano:
per quattro ore lavora
senza pensare. Sa cosa fare,
lo fa tutti gli anni
da quando ha memoria.
Fu l’ennesima volta
che non si accorse
dell’universo intero
*
Ci sono diversi nomi
per i differenti tipi di neve.
Per costruire gli igloo
bisogna usare la neve dura,
la più resistente.
I primi nomadi del Nord
prima di accamparsi,
sceglievano i blocchi di ghiaccio
tra le visioni. Ogni storia
è affascinante se alla fine
hai le lacrime agli occhi.
*
Ho disposto ventiquattro cubi di ghiaccio,
ho scelto gli occhi e anche il luogo.
Mio padre in sogno
mi esorta a costruire un igloo.
Mi sento di vivere nel tempo:
nel millequattrocento avanti cristo o
nel quattromilatrecentoventi dopo cristo,
non importa.
Avrei fatto lo stesso.
_____________
Luigi Finucci è nato a Fermo nel 1984. Dopo il diploma ha vissuto tra Urbino e Firenze per poi tornare a Fermo, dove attualmente risiede. Scrive poesia e libri per bambini. La prima notte al mondo è appena uscito per Seri editore, con una prefazione di Silvia Secco.
Queste scritture sono puntellate su due nuclei formali: il primo è lo “script”, diciamo così, e cioè quella scrittura esplorativa, orizzontale, che registra e ordina il visibile in modo radente, e che qui mi sembra giustamente anche più “politico”, perché va a toccare paesaggi del disastro, rovine o magnificenze commerciali e istituzionali. Costante in questo ritmo dello script è l’adattarsi progressivo della visuale, che trovo essere il perno motore di tutto il comporre. Il secondo nucleo è la “proposizione” alla Wittgenstein, che nel suo presentarsi ogni volta, persino nel paratesto, come sequenza, si disconnette sottilmente, in realtà, via via dall’appiglio logico, e fa nascere una sua nuova logica “innestata”, non intrecciata, che si impone pian piano smontando le consequenzialità del discorso ordinario. O usandone, anche qui politicamente, le valenze, se posso usare una metafora chimica a me poco consueta.
***
Facilitazione
Perché la gente non si ammazzi lì ci mettono le transenne, ci mettono le barriere, delle barriere, fanno in modo che non si buttino, che ci pensino, è difficile scavalcarle, scavalcare i muri, fanno anche dei muri, dei muretti bassi, per le galline, per i movimenti degli animali piccoli ma
sono deterrenti – come dicono – per chi vuole buttarsi, per la gente, se volesse casomai ammazzarcisi, non è detto che non ci riesca comunque, allora
mettono delle reti, delle reti solide, quelle della conigliera, poi per gli animali più grandi, un gibbone, due gibboni, mettono quelle che possono, alte, alzano, alzano le reti in modo che siano alte, fanno degli sforzi, in modo che ci sia anche una distanza da dove si cade, uno spazio, come un gioco, un lasco, una specie di fossato che scavano, o possono non scavarlo, magari c’era già prima e loro ne approfittano, allora
vanno molto indietro e allineano delle punte respingenti, altrimenti del filo spinato, o elettrificato, oppure sia spinato sia elettrificato, entrambi, in modo che la gente non possa ammazzarsi, che se vuole buttarsi giù si prende la corrente, la scossa, salta in aria, frigge lì brucia, non si butta e non può buttarsi, viene respinta, si attacca, come la pelle del pollo al tegame, mettono un militare:
mettono un militare ogni sette dieci metri, con la baionetta, il fucile, la mitraglietta, la beretta, fa la staffetta, per fare la guardia, perché spari se loro si provano, se provano ad avvicinarsi, i piantoni gli sparano, gli sparano perché non si ammazzi, non si ammazzino, questi e quelli, uno non si butti giù, non ci pensi, per fare smettere la gente smettere di pensare queste cose bisognerebbe entrarle nel cervello, per risparmiare tutti i muri, ringhiere, grate, i cordoni, i fili, i soldati, sarebbe più facile, forse è più facile.
Precisazioni
c’è uno spazio apposito, intorno c’è come uno spazio uno spazio che ti permette di appenderlo
c’è anche un buco in maniera che così puoi appenderlo e quando lo acquisti è tutto sagomato i profili sono ben delineati
è funzionale ci sono le rigature ci sono delle strisce poi ha anche un aspetto elegante perché ha le strisce e tutto quello che ha le strisce di solito è elegante anche se sono strisce sgargianti il fatto che siano strisce dà sull’eleganza
poi c’è anche una maniglia che permette di afferrare saldamente la presa e di non perdere la presa perché è importante non sfugga in questi casi e che la maniglia lo permetta
attraverso la maniglia è possibile operare un’apertura si apre da una parte e ci sta anche una versione per mancini si apre dall’altra parte
comunque se non si vuole aprire si può prendere e appendere e infatti come detto viene fornito con un buco dove si fa passare il chiodo è molto funzionale e quando si indossa può funzionare da entrambi i lati, può anche non funzionare, e non essere indossato
quindi viene fornito insieme a una garanzia personale e ci sono tutte delle simmetrie come dei quadrati, quindi è così, e se ci sono dei quadrati c’è anche molta eleganza perché come le strisce anche i quadrati sono un grande segno di eleganza e di ordine i romani avevano infatti l’opus quadratum
N.
È seduta in giardino composta
Non è un giardino
È un orto
Ci sono piante da frutto
Con i loro frutti
Non la vedo seduta
Sta dietro lo steccato in piedi
Osserva i polli i pulcini le galline
No sono oche
Osserva le oche
Fanno un verso impettito
E vanno impettite da un capo all’altro
Quasi veloci per il becchime
Non sono veloci
È la loro andatura
Non so se è la loro non si può dire
Potrebbe essere il passo del video
È l’andatura che hanno oggi
Neanche questo è certo
Se fosse la stessa di ieri
Chi può mai dirlo non eravamo qui ieri
Non saremo qui domani
Lei dallo steccato lancia bocconi
Era prevedibile
Qualcosa
Le oche si avvicinano
Non sembra anzi le sfuggono
Hanno paura allora
Forse e non sono bocconi ma sassi lanciati
Ha in sé dello schietto sadismo forse
Sembrava seduta con le gambe accavallate
Invece è ritta allo steccato osservando lo spettacolo
Alle volte la vita fa le cose per bene. Basta non forzarla e rimanere all’erta. Quella sera, con Pierre e Alice, eravamo andati a cena in un rifugio arroccato sulla montagna, un posto sorprendente che adoravo sin dall’infanzia e che piaceva molto anche a mio marito. Mezz’ora di auto, poi mezz’ora a piedi nei boschi. Una vista mozzafiato sui tre rami del lago, compreso l’essenziale: lo studio. Alla baita avevamo incontrato i Bondelli – marito, moglie e tre ragazzini scatenati – che avevano deciso, per completare l’avventura, di dormire lì, c’erano alcune camere a disposizione dei clienti. Alice, ispirata, chiese di poter restare: «Per favore mamma, papà, dev’essere magnifico! Mario mi ha detto che di notte vengono a bussare gli orsi». Pierre accolse la richiesta con entusiasmo. Io avevo troppo mal di schiena per dormire in un letto non mio e ultimamente soffrivo spesso di insonnia, proprio non potevo, sarei tornata a prenderli la mattina dopo. «Per la prima colazione!». Mi scaraventai giù per il sentiero che scendeva ripido tra i pini, poi guidai a tutta velocità, concentrata, fino a casa, mandai un sms, arrivo, mi sciolsi leggendo la risposta immediata, ma come hai fatto? sei meravigliosa…, mi lanciai sotto la doccia, mi pettinai e truccai, via i jeans e le mutande di cotone, infilai biancheria di pizzo e un vestito in crêpe di seta celeste che, più che vestirmi, mi denudava e mi precipitai verso la darsena.
La barca non c’era.
Fissavo l’acqua, inebetita. Non era possibile. Non era semplicemente possibile.
«Pierre! Stavi già dormendo? Scusami… e Alice? Tutto bene. Ascolta… è scomparsa la barca. Ah, l’hai prestata ad Antonello. Per andare a pescare di notte. Certo che hai fatto bene. Come? Ma no, non volevo prendere la barca a quest’ora, figurati, è solo… ho fatto un giro in giardino, ho visto che non c’era e mi sono domandata… No, no, hai fatto benissimo. E… quando ce la riporta? Domani a mezzogiorno? Perfetto! In tempo per andare tutti insieme a fare il bagno».
Imbecille.
Erano le undici passate. L’ultimo traghetto si accostava alla riva di fronte sotto i miei occhi pieni di lacrime. Avevo davanti a me una notte intera e la distesa calma e silenziosa del lago. Stavo lì in piedi in fondo alla scalinata di pietra. L’acqua mi accarezzava le caviglie e sembrava tiepida, nel fresco della sera. Avanzai di un passo scivolando nel lago fino ai polpacci, poi alle cosce, la seta incollata alla pelle. La luce della casa di Francesco tremolava nel buio davanti a me come una promessa. L’acqua era densa, mi avvolgeva dolcemente fino al ventre, poi fino al seno. D’un tratto sentii il cuore battere di eccitazione. Mi sfilai il vestito, lo gettai sui gradini e, dandomi un po’ di slancio, mi abbandonai all’acqua come in una vertigine. E mi misi a nuotare.
Avanzavo piano nella baia allontanandomi sempre di più dalla riva, dalle case, dalle luci, verso il largo. Euforica. La notte era silenziosa, sentivo soltanto lo sciabordio provocato dalle mie bracciate. Avanzavo tranquilla nell’acqua nera e spessa che ogni mio movimento trasformava in schiuma iridescente sotto i raggi della luna piena. Dieci, quindici minuti, mezz’ora… Le forze scemavano, ma ero fiduciosa, sapevo di poterne ancora attingere dentro di me. Certo, c’era il rischio che una barca non mi vedesse – puntino scuro nell’oscurità – e mi investisse, mi maciullasse. Un pericolo mortale, ma quante erano le probabilità che la traiettoria di una delle rarissime imbarcazioni notturne incrociasse la mia? Una su mille e non c’è vita senza rischio, non c’è vera bellezza senza pericolo. Mi sarei comunque perduta. Tra le braccia di Francesco o in fondo al lago. Non importa. Mi allontanavo da tutto, affondavo sotto la superficie, svanivo nell’abbraccio dell’acqua, mostro lacustre o pesce o sirena, ormai ero una cosa sola con quel lago scuro e vivo, ero libera, in comunione con l’universo. D’un tratto mi sembrava tutto così semplice, e la frontiera che separa la vita dalla morte e la terra dal cielo così sottile. Stavo per scoprire il mistero dell’esistenza, sarebbe bastato allungare la mano per afferrare la risposta.
Francesco mi aveva visto a un centinaio di metri dalla riva. Aveva scorto «una forma che si muoveva nell’acqua e si dirigeva verso lo studio» e pur credendosi vittima di un’allucinazione non aveva tardato a capire. Si era precipitato sul pontile e tuffato nell’acqua vestito per venirmi incontro, nuotando con tutte le sue forze.
«Sei matta!».
Ridevo. Ce l’avevo fatta, ero con lui.
«Stai bene? Ce la fai?» e con un braccio mi aveva cinto la vita, per sorreggermi.
«Sto bene, benissimo, non preoccuparti!».
«Sei matta…».
«Non avevo la barca».
E ci eravamo baciati, senza fiato, ancora al largo, soli in mezzo al lago deserto, nel bagliore opalescente della luna, ci baciavamo e ridevamo e nuotavamo verso lo studio che scintillava sulla riva.
*
Carlotta Clerici, originaria di Como, vive a Parigi. Regista e autrice, ha messo
in scena e pubblicato una decina di testi teatrali, tutti scritti in francese, uno dei
quali, Ce soir j’ovule del 2010 (presentato in Italia con il titolo Stasera ovulo),
continua ad avere una circolazione internazionale. Uscito in Francia nel 2017, Elogio della passione (Ventanas 2023) è il suo primo romanzo.
Hay un tigre en la casa que desgarra por dentro al que lo mira
(Eduardo Lizalde)
Numero nascosto, privato. Ma si può fare? Lo sapevo appannaggio di certe istituzioni. Un lusso del potere, insomma, qualcuno se lo può permettere. L’hanno fatto, ora. Ma chi, e perché?
Cerco con angoscia la risposta sulla faccia di questi due. Un uomo e una donna, a una prima occhiata totalmente sconosciuti. Me l’avranno mandata personalmente, la fotografia? Insieme, o uno solo di loro? Il fatto di non riconoscerli subito mi inquieta. Ma il peggio sta alle loro spalle: posano davanti alla casa dove sono nata e ho trascorso parte dell’infanzia. Casa mia, la prima. Da molti anni non sono più passata di lì, mi sono trasferita altrove. Ormai esiste solo nella distorsione del ricordo e in sogni ricorrenti, con orchi e assassini ad attendermi negli angoli più bui e la tavola da pranzo sempre apparecchiata.
Solo una fotografia, senza commenti, una firma. Tramite cellulare, messaggio con numero criptato. Una fotografia con due estranei mano nella mano, gli occhi fissi all’obbiettivo, l’espressione provocatoriamente neutra. E sullo sfondo, quella mia prima casa. Un piccolo condominio da cui il mattino uscivo assonnata nella nebbia: le scarpette tra le foglie sfatte, il montgomery aperto sul grembiulino bianco, l’incarto traslucido della focaccia nella tasca esterna della cartella. La casa dei primi Natali e del barboncino nero.
E questi due piazzati proprio fuori dal portone, nel mezzo. Piuttosto bassi, entrambi, la mezza età superata da poco. Aspetto e abiti anonimi. Mi guardano insistentemente, mano nella mano, e non riesco a ricordare chi siano. Cosa stanno cercando di dirmi, cosa vogliono da me? Avverto solo la violenza del loro stare lì, insieme, la minaccia.
Uscendo dal cinema mi annodo la sciarpa e mi incammino verso la stazione della metropolitana più vicina. Infilo la mano in borsa per cercare il portamonete e un foglietto cade in terra. Mi piego a raccoglierlo.
Eccoli lì, ancora. Mi sollevo piano, con la fotografia tra il pollice e l’indice, la mano che mi trema. Sempre loro, vestiti allo stesso modo. Stavolta lui la tiene per la vita, lei gli poggia un braccio sulla spalla. Entrambi insistono a fissarmi.
La casa alle loro spalle però non è più la stessa. Non più la mia prima casa, stavolta hanno scelto quella dei miei nonni materni, in campagna. La casa dei raduni di famiglia e delle vacanze. C’è il piazzale con la ghiaia, tigli e castagni attorno, lo scalone che sale all’entrata principale. Loro due siedono in cima, su uno degli ultimi gradini. La stessa vacua intensità dello sguardo. Qualcuno mi deve avere infilato la fotografia in borsa durante la proiezione, oppure mentre entravo o uscivo dalla sala. Mi avvicino a una vetrina illuminata per osservare meglio i dettagli. Appoggiato accanto all’ingresso, c’è perfino il bastone che imbracciavo per andare a funghi con mia nonna. Chissà se lo sanno, questi due, che la nonna la mattina mi portava con sé a cercare funghi nel bosco. Se sanno delle partite a carte, delle canzoni e del minestrone.
Imperscrutabili, due sconosciuti, a quanto pare, tenacemente avvinti da un gioco che mi sfugge. Più mi guardano, più mi sento in pericolo. La mano di lui poggiata sul gradino di pietra è piccola, delicata. Al polso langue un vecchio orologio con il cinturino troppo largo, inabile al tempo. Lei è magrissima, il braccio sollevato evidenzia la gabbia friabile del petto, l’uccellino impagliato che vi è rinchiuso.
Non mi ero mai sentita realmente a mio agio in quel suo appartamento da scapolo seriale, la tela di un ragno bulimico intrappolato assieme alle sue vittime. Tutto pretendeva di essere lì in mio onore: il nudo a carboncino che lui diceva di aver comprato pensando a me, i fiori sulla cassettiera in camera, l’amaca nella terrazza. Ma c’era soprattutto la sua solitudine, palpabile, ad aspettarmi, e ugualmente, ovunque la mia assoluta estraneità. Come se fossi capitata sul set cinematografico sbagliato: Pinocchio tra i dinosauri di Jurassic Park, o viceversa un tirannosauro nel paese dei balocchi.
Chissà perché questi due ora hanno scelto proprio di piazzarsi nell’atrio di quella mia telenovela datata, accanto alla guardiola inutilizzata del custode, la porticina sghemba e polverosa.
Mi raggiungono dal volantino agganciato al tergicristallo della macchina che ho appena posteggiato fuori dalla farmacia. Di colpo sento freddo, salgo in macchina e richiudo la portiera. Appiano sul cruscotto il volantino recuperato, passo e ripasso il palmo della mano destra.
Se ne stanno lì in piedi, sempre nel mezzo, abbracciati, la faccia rivolta verso di me. Anonimi e solidali: l’accoppiata in vetta alla torta nuziale, vorticante nello scrigno carillon. Gli occhi a me, sempre a me.
Ho molto amato l’uomo che viveva nell’edificio in cui si sono introdotti, malgrado tutto, ancora mi capita di piangerlo. Qual è il legame con questi due, supposto che ce ne debba essere uno? Con che criterio scelgono i luoghi da cui affrontarmi? Ricordassi almeno qualche cosa di loro. Ma forse quel che più conta qui è la parte, il ruolo a cui, come coppia, sembrano condannati: prigionieri dello zucchero glassato, nel loop del carillon. Con quello sguardo così osceno. E insieme straziante, il guaito di due cani tutt’occhi. Come posso placare il loro desiderio, alleviare tutta questa pena? Cosa posso, così spaventata che sono, se continuano a spaventarmi? Mi guardano, mi guardano. Mi gridano senza pace, all’unisono, dell’intimità violata. La mia e la loro.
Quando anni fa mi sono trasferita all’estero, avrebbe dovuto essere per qualche mese soltanto. Come spesso accade, non sono più rientrata. Nel frattempo, là da dove venivo è cambiata ogni cosa, la morte ha fatto visita a tutti quelli che più soffrivano la mia mancanza. Mi ha preceduta, come il lupo nel letto della nonna di Cappuccetto, e ora ad attendermi rimane solo un vuoto troppo grande – che orecchie, che occhi, che bocca… – malamente camuffato. Qui, intanto, mi sono fatta una vita. Si dice proprio così, come se ci fosse concesso fare altro.
Sul lungofiume, rientrando a casa, mi ritrovo a contare i corvi e i gabbiani fermi sulla spalletta. Ogni tanto mi fermo per approfondire la conoscenza di qualcuno meno pauroso. Inclina la testina, le penne in un’armatura vibrante, volta di scatto il becco verso il vento, l’acqua increspata dalla corrente. Gli alberi sono ormai quasi completamente spogli, posso seguire il corso del fiume fino al ponte di ferro all’orizzonte. Passato il mio portone, la luce gialla delle ultime foglie d’autunno è risucchiata dall’ombra. Un attimo di nero abbaglio e mi dirigo alla cassetta della posta. È un rito che ripeto ossessivamente ogni volta che rientro a casa, più volte al giorno, domeniche comprese. Ormai per posta ricevo solo quello che io stessa ordino in rete, pubblicità, qualche conto, ma mi è rimasta l’abitudine di quando, perennemente in attesa, correvo giorno e notte a controllare se il miracolo fosse avvenuto.
La chiavetta della posta per qualche motivo non funziona, gira a vuoto. Dallo spiraglio della buca intravedo qualcosa, cerco di arrivarci con la punta dei polpastrelli. Insisto, spingo, schiaccio le dita, incurante del dolore provo a distenderle, a fare presa con le unghie. Riesco ad agganciarlo. Esce strappato, un’orecchia piegata. A rovescio, l’immagine sull’altro lato del foglio. Lo giro con un gesto brusco, di scatto, per abbreviare il batticuore sfidando con finta sicurezza l’esito annunciato.
E subito confermato. Mi guardano. Nella mia cucina attuale, qui al terzo piano. Lei siede al mio posto, capotavola, di spalle alla finestra. Lui è in piedi accanto alla macchina del caffè, due tazzine pronte. Mi guardano. La luce dalla finestra si riversa sul tavolo bianco, le sedie di vimini, il pavimento a scacchiera. Irraggia i capelli di lei in un’aureola ambrata e riverbera sul vetro dell’orologio di lui, sui due cucchiaini argentati, il mestolo appeso al gancio, la maniglia del frigorifero. Un ordinario quadretto coniugale, cui la luce regala una pace pittorica.
Non so cosa fare. Se salire, rischiando di incontrarli. Oppure aspettare. O andarmene. Intanto, entro nel cortile e provo a sbirciare la mia finestra. Nessuna sagoma dietro il vetro, non giunge suono. Ma ora potrebbero essere passati in un’altra stanza. In bagno, una volta bevuto il caffè, o in camera da letto: fanno la doccia, si lavano i denti, si infilano sotto le coperte, spengono l’abat-jour, nel buio si girano, sbadigliano. A me gli occhi, gli occhi sempre e comunque a me.
Cosa succederebbe se salissi e ci ritrovassimo realmente insieme? Aggiungerebbero una tazzina del caffè? Schiacceremmo a turno il tubetto del dentifricio, ci passeremmo il sapone? Mi sdraierei nel letto, tra loro, giusto il tempo di riaccendere qualcosa di perduto, per poi sporgermi a contemplare il fiume dalla finestra aperta del salotto, lontana dai sospiri?
Tutto è possibile. Molto più tragico, o molto meno. Anche niente. In ogni caso, sosterrebbero lo sguardo, se veramente ci guardassimo, se li potessi guardare davvero anch’io?
D’un tratto qualcuno dell’appartamento al primo piano apre la finestra per bagnare le piante. L’acqua comincia a sgocciolarmi sulla testa e mi sposto di nuovo nell’androne. Prima di rimettere il foglio al suo posto, rinfilarlo nella cassetta dove l’ho trovato, gli do un’ultima occhiata.
La coppia occupa la mia cucina di luce come una roccaforte, le quattro manine all’erta, pronte a difenderla senza alcuna pietà. Ma io non sono all’altezza di queste sfide, non lo sono mai stata. Sono solo capace di partire. Ripercorro in una carezza lenta la radio sul carrello turchese, accanto al quadernino delle ricette di famiglia, copiate da mia madre lungo gli anni. Il tostapane, e il bollitore, e la piantina di basilico. Lascio tutto quello che potrei ancora credere mio, compreso questi due.
Il portone si chiude, scatta alle mie spalle senza che l’immagine abbia il tempo di fissarsi in alcunché.
*
Mia Lecomte è autrice di poesia e narrativa, traduttrice e saggista. Nata a Milano da padre francese e madre italiana, ha trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza in Svizzera. Si occupa di letteratura transnazionale italofona, in particolare di poesia, alla quale ha dedicato il volume Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona, 1960-2016 (Cesati 2018). Tra i volumi in versi ricordiamo Lettere da dove (Interno poesia 2022), con una nota di Ugo Fracassa, e Al museo delle relazioni interrotte (LietoColle 2016), con una postfazione di Carlo Bordini. Tra le sue traduzioni verso l’italiano: Jean-Charles Vegliante, Rauco in noi un linguaggio (Interno Poesia 2021). Il racconto “instamatic” fa parte di una raccolta inedita intitolata Diario sentimentale di una bambola gonfiabile e altri racconti.
Un viaggio incerto di Caroline Peyron e Il carosello delle ore di Marianna Iozzino in mostra alla Biblioteca Nazionale di Napoli
di Marco Viscardi
A sx, foto di Mariangela Levita; a dx, foto di Ferdinando Kaiser
La sintesi l’ha trovata uno dei visitatori delle mostre, che parlando con una delle due artiste le ha detto: hai liberato le figure. Stavano sul tuo taccuino e ora le hai dato una strada, uno spazio. Le hai fatte danzare. Forse era tutto un gioco di liberazione: davvero la partita era liberare figure e creature. Farle uscire dai libri, consentire loro di invadere spazi indifesi. Non stupisce che in una biblioteca ci siano ben due mostre ispirate ai libri, ma quello che colpisce è il carattere ‘eversivo’ delle due esibizioni. Così Carosello delle ore di Marianna Iozzino fa letteralmente esplodere il magnifico manoscritto del XI secolo delle Metamorfosi a cui si ispira, mentre da Un Viaggio Incerto di Caroline Peyron, inaugurata il giorno tradizionalmente indicato come quello dell’inizio del cammino dantesco, viene fuori da una lettura personalissima, intima della Commedia.
Si associa sempre Virgilio a Dante. Virgilio è il sapere, il dolcissimo padre, la guida umanissima e presente che arriva ai limiti dell’umano per poi sparire, dissolversi e tornare nelle regioni malinconiche del limbo. Virgilio è l’appoggio per sostenere la guerra | sì del cammino e sì della pietate | che ritrarrà la mente che non erra, come leggiamo nei primi versi del canto II dell’Inferno. ‘Cammino’ e ‘pietà’ sono parole profondamente virgiliane, fissano l’esistenza di Enea, la sua difficile missione, il suo sgomento di fronte alla violenza del mondo e delle cose. Violenza che a volte è giustificata dalla grande missione della fondazione di Roma. Quel fuoco finale che rischia di bruciare tutto. Eppure questo incontro di Dante e Ovidio esposti negli stessi spazi, sulle stesse severissime e lucide scansie della Biblioteca Nazionale, svela un aspetto della Commedia forse meno noto ai lettori. Ovidio è ovunque, ovunque sono le sue Metamorfosi, le sue trasformazioni, le sue ibridazioni e i suoi sogni.
L’ultima citazione letteraria di Dante, alle soglie della visione diretta di Dio, viene da Ovidio: Un punto solo m’è maggior letargo | che venticinque secoli a la ‘mpresa | che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
Lascio la spiegazione al più grande commentatore novecentesco del poema, Natalino Sapegno:
il poeta ha accennato all’impossibilità di esporre in modo chiaro e certo il contenuto della sua visione, perché la memoria umana, legata ai sensi, non è in grado di tener dietro al volo dell’intellezione pura; ora viene ad illuminare, di passaggio e rapidamente, la speciale qualità di questo oblio, non determinato, come solitamente accade, da lungo trascorrer di tempo, bensì dall’istantaneo contatto della mente con una realtà che infinitamente eccede le limitate forze dell’uomo: “un attimo solo (un punto) è cagione per me di più profonda, totale, dimenticanza, che non siano stati venticinque secoli per l’impresa degli Argonauti, quando l’ombra della prima nave che solcava le onde marine suscitò lo stupore di Nettuno”.
Il mondo fantastico di Ovidio dà a Dante le parole per fondere stupore e dimenticanza, meraviglia di fonte all’apparizione e dolore dell’oblio, della perdita, della difficoltà del dire.
Il lavoro di Caroline Peyron si intitola appunto Un Viaggio Incerto. Caroline è un’artista francese che vive a Napoli da decenni e che da sempre dialoga con la complessità sociale e intellettuale della città. Il punctum è quell’aggettivo: incerto. Per noi italiani, la Commedia rischia di diventare il testo meno avventuroso che possiamo incrociare. Perfetto e cristallizzato, è il racconto del viaggio dal male al bene, dal peccato alla salvezza, sono questioni capitali, ma che ci appassionano poco perché già sappiamo che finisce bene. Lo diciamo anche a scuola: si intitola Commedia perché inizia male e finisce bene. Ma i grandi lettori stranieri di questa impressionante poesia ci hanno restituito il senso avventuroso del poema, che tocca l’aspetto più incerto dell’esistenza. Quella dimensione da cui nessuno torna, quel confine che i nostri genitori, i nostri amici, i nostri legami attraversano ogni giorno e nel quale entreremo anche noi. In quella luce forse anche noi danzeremo.
Foto di Mariangela Levita
Passare dal male al bene, guardare tutto il male profondo, il dolore, la rabbia, la distruzione della persona e poi vederla lentamente ricomporre, tornare alla luce, riformarsi in una nuova compattezza, in una integrità che per noi, frammentari e narcisi, è impensabile. Questa forse è la Commedia che Caroline ha trasformato in forme di colore, in dischi che dal nero ostinato dell’abisso risalgono alla luce di puro oro del Paradiso. L’artista si è trovata senza Virgilio, la sua guida ha superato il confine, è passata dalla parte degli assenti, lasciando Caroline senza protezione.
Foto di Grazia Famiglietti
Quello che mi è piaciuto dei lavori di Un Viaggio Incerto è la rinuncia alla narrazione, il defilarsi dalla gloriosa tradizione di miniaturisti e degli illustratori, per seguire la strada meno segnata della visione, del diario fatto di linee e colori, sempre più accecanti, ma fra il nero dell’Inferno e l’oro trionfale del Paradiso c’è l’azzurro del Purgatorio. Per correr miglior acque….così inizia la cantica. È il regno della luce, ma non della luce divina che devasta, della luce del sole, del tremolare della marina, del cielo che si strugge nell’ora del desiderio e del tramonto. Una cantica marina, il Purgatorio è un’isola di riconciliazione, ci siamo tutti, qualcuno per poco, altri – e forse fra questi chi sta scrivendo ora – per un tempo più lungo. Riposa lo sguardo, guardando quei dischi, e tutto si riconcilia.
Foto di Grazia Famiglietti
I dischi, o lampi, con i quali Caroline Peyron, squaderna la Commedia non sono solo colore, ma su ognuno c’è un frammento di movimento. Corpi allungati e filiformi, essenze filanti, danzano in questi spazi e se nell’Inferno hanno la gravità del terreno, arrivati al Paradiso sono quasi linee, idee, accomodamento del gesto che li ha eseguiti, compiaciuta calma della fine.
Foto di Grazia Famiglietti
Anche noi che abbiamo assistito all’inaugurazione, siamo stati corpi fra i lavori di Caroline, anche noi ci siamo mossi fra i regni e le cantiche mentre attorno a noi si leggeva il capitolo di Se questo è un uomo in cui Primo Levi spiega, nell’orrore, il canto di Ulisse. Siamo stati parte della Commedia con la nostra incertezza.
Foto di Grazia Famiglietti
Da un altro luogo d’orrore, anche Mandel’stam leggeva Dante. In un passaggio della sua Conversazione leggiamo:
L’esempio è tratto dal sacco patriarcale della coscienza antica, per esservi poi rimesso dentro non appena non se ne ha più necessità. L’esperimento invece, estraendo dalla somma dell’esperienza questo o quel fatto a lui necessario, non lo restituisce poi come si fa con una lettera di credito, ma lo fa entrare in circolazione.
Caroline Peyron e Marianna Iozzino fanno esperimento dei loro testi, liberano le potenzialità, rompono la costrizione dello specchio di stampa. Quest’idea della liberazione me l’ha data un visitatore della mostra e tutte le foto che accompagnano questo testo vengono rigorosamente da visitatori a cui ho chiesto il permesso.
Il libro è il punto di partenza, ma l’oggetto – sia lo struggente manoscritto angioino che il rigoroso, ugonotto, volume della Pléiade Gallimard – è stato percorso e interiorizzato. Emoziona la copia della Commedia di Caroline che la serie delle letture hanno trasformato in libro d’artista, nel quale il disegno ha seguito il testo e occupato il bianco della pagina. Un bianco che per una volta non si è rivelato ostile ma accogliente e generoso.
Foto di Grazia Famiglietti
L’Ovidio napoletano di Marianna Iozzino si è messo in movimento, è stato appunto un carosello. Se nel Medioevo esistevano i devozionali libri delle ore, qui Marianna fa di Ovidio una bibbia laica che scandisce il corso del tempo aggiungendo dimensioni alla razionalità del quotidiano.
Marianna Iozzino è nata in Campania, ma cresciuta a Varese, anche il suo sguardo, in qualche modo, è sguardo dell’altro. La sua è una mostra felice, che mette gioia a chi la guarda: è Medioevo Fantastico rivisto, è gioco di figure araldiche che potrebbero petarci addosso, dall’alto della loro alta fantasia. Oppure indicarci la via dell’incubo, del cattivo ritorno.
È materia. Queste creature si accartocciano, si arricciano ai bordi, si muovono di una vita loro indipendentemente dalla vita di chi le ha create.
Foto di Ferdinando Kaiser
Nella grande sala del mappamondo, queste figure stanno in ironica immobilità, scartando di lato da un enorme quadro che sembra raffigurare solo la fantasia che esplode, l’assenza di confini, il gesto della creazione che non nasce dal niente, ma è il prodotto dell’arte personale, del cammino proprio di Marianna, delle sue abitudini e delle sue relazioni, ma allo stesso tempo ha alle spalle secoli di allucinazione e fiaba, di folklore e immaginazione.
Sono i marginalia, i sogni e i deliri dei miniaturisti che occupano tutto lo spazio, postillando un testo invisibile o forse inciso nella memoria. Ancora una volta lo spettatore partecipa al gioco dell’opera. Noi siamo movimento, metamorfosi, trasformazione. E lo spazio tradizionalmente chiuso della biblioteca si
apre al gioco delle trasformazioni e delle sperimentazioni.
Foto di Ferdinando Kaiser
Anche Marianna non abbocca all’amo della narrazione, del puntuale commento, dell’illustrazione, ma ingigantisce i mostri del margine, dà vita alle figure di contorno, agli abbellimenti, alle figure sinuose che perdono la loro aura aristocratica, il loro essere ornamento ad una dimensione, per farsi festa e pericolo, enigma e ghirigoro. Selva di figure ibride fra le quali resta l’inquietudine, il ricordo dell’oscuro.
Foto di Ferdinando Kaiser
Come per un Viaggio incerto, anche di questo Carosello delle ore vediamo il quaderno di lavoro: la serie dei bozzetti, lo scorrere dei primi tentativi che poi arrivano a una forma che eccelle, che non sta nella pagina, che è carta volante, foglio che come ho già detto prende vita.
Ed è incredibile la coerenza con la quale l’artista consente alle sue figure di occupare gli spazi del nostro quotidiano. Queste grottesche figure faranno compagnia ancora fino al 16 aprile al pubblico di lettori e studiosi che frequentano giorno dopo giorno le grandi sale della Biblioteca Nazionale.
Foto di Ferdinando Kaiser
Strappa da te la vanità ha scritto Ezra Pound in uno dei suoi versi più famosi. Strappare la vanità. Liberarsi del compiacimento e farsi da parte, cedere alla molteplicità senza dominarla. Ho avuto queste parole in testa mentre partecipavo alla mostra di Caroline e ho avuto la fortuna di vedere i lavori di Marianna. Ho pensato a Ezra Pound:
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
Questa non è vanità. Avere, con discrezione bussato,
Perché un Blunt aprisse
Aver raccolto dal vento una tradizione viva
O da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questo non è vanità.
Aver raccolto dal vento una tradizione viva…questa mi sembra l’essenza delle due esposizioni, che sono anche due esplosioni. Questa la cifra che accomuna due lavori diversi di due diverse artiste che non hanno avuto paura a vivere nella traduzione, di guardare la fiamma viva degli ambigui occhi antichi.
L’estraneo è arrivato al porto di prima mattina, in una luce già piena ma ancora mite, portando come un senso di cose ripetute negli anni senza venirne mai a capo. Da lì ha raggiunto a piedi un albergo vicino, dove senz’altro troverà saponette nuovissime e ancora incartate, che non danno l’impressione di un’intimità scabrosa come i saponi a metà nelle case degli altri. È uscito dalla mia visuale girando un isolato, simile a una vecchia contadina in un quadro che non ricordo più dove l’ho visto, lei appena fuori della porta di casa, pronta a girare sul retro del cortile che la casa mi nasconde, dove apparirà forse un pozzo, uno steccato, e poi più lontano una pianura ventosa e un cavallo che si dimena.
…
L’estraneo alloggia da ieri in una palazzina moderna che si affaccia su una piazza vuota. Dovrà prendere confidenza con i muri, gli spigoli, gli elettrodomestici e il loro ronzio. Dovrà superare quella fase iniziale in cui siamo noi i fantasmi di una casa. La piazza rimbomba di tanto in tanto per lo schianto di un pallone su una saracinesca. La luce in certe ore è ovunque. L’ho visto attraversare lo spazio come un’ombra, uno scarto, un rottame alla deriva, come un cruccio irrisolto che riemerge proprio quando la città ci respinge. Questa però non è la sua infelicità, ma la mia, da sempre. Tutta questa luce è sprecata e non illumina niente.
…
È di nuovo sera e la città ha strani incanti, pezzi di altre città che incontri dietro gli angoli, un senso improvviso di altrove e di rinascita. Si accendono le luci del castello sopra la montagna, e per un attimo pare sospeso, si raggiunge la spiaggia dopo chilometri di parco. Le ville liberty non tutte abitate, le foglie per terra e i fiori dai giardini, l’odore atemporale dell’estate. L’estraneo verrà presto qui, calpesterà queste foglie, si chiederà chi abitava quelle ville oggi sfitte.
Lui assomiglia nella mia testa ai corridoi di una scuola in estate, vuoti e pieni di luce, freschi silenziosi inutili, con fogli appesi al sughero della bacheca, gli alunni insieme in un’altra scena lontana, i loro zaini abbandonati sugli scogli o sopra un prato, un qualche numero di autobus a compiere tragitti che non so o non ricordo, e in ogni caso è tardi, mi hanno lasciato sul posto senza neanche un indirizzo e il nome di quell’allegria che adesso mi ferisce giorno dopo giorno.
…
La città percorsa dall’alto su Google Earth presenta una geometria ineccepibile, strade tetti auto posteggiate, gli alberi come un verde spalancato, dei negozi appena la luce sul marciapiede o l’insegna obliqua, non si vedono fioriere o cani.
Gli uomini sono il grande implicito, le macchie di colore riassorbite nella tela. Qualcuno si intravede dal balcone, a un passo dal rientrare. Un altro deformato, cancellato con il dito se allarghi l’immagine. I palazzi si avvicendano con apprezzabile regolarità, poi all’improvviso un’area sterrata. Potessi seguire l’estraneo sulla app, prevederne le intenzioni, spiare la sua nuca. Ma sono immagini prese dal satellite, vecchie di mesi o di anni, comunque in ritardo, come me.
…
Di certo l’estraneo conosce quel senso di disperazione che ti prende verso sera, quando il buio arriva da ogni lato e l’amore non può più proteggerti. Quando pensi alle case e agli appartamenti degli altri, davanti a una fotocopiatrice o ai limiti di un bosco. Eppure dobbiamo guardare senza angoscia l’incubo di cui siamo fatti (tante volte ho creduto di pensare di morire, ma incredibilmente mi sono poi ritrovato al di fuori di quel perimetro gelido).
L’estraneo imparerà che la città che ha girato le spalle al mare in realtà il mare lo costeggia per chilometri, ma lo fa con quartieri dove non ho mai messo piede e che ho piuttosto attraversato in macchina, per uscire dalla città e non per soffermarmi. Questo è bastato ad acquisire una forma se pur larvale di conoscenza dei posti, a intravedere piccionaie esposizioni di ceramiche un sole freddo tra i vestiti appesi una scuola elementare circondata dall’aria e poi murales sul fianco dei palazzi e vicoli che sembrano preludere a nascondigli. Dall’altro lato prati e aiuole mal tenute e riquadri di case perlomeno la vista conducono a un mare che sembra sempre fuori stagione. Per quanto il nome stesso della strada non faccia che rievocarlo, di quel mare non saprei dire altro se non: sta lì.
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Un ritorno momentaneo del freddo sembra quasi fare da custodia al corpo. L’estraneo non può sapere che in un grande giardino elegante c’è uno scivolo che per molti di noi è stato da bambini incredibilmente alto, impossibile da scalare, e a rivederlo oggi sembra invece così poco. Cosa è una città senza un’infanzia dentro? Cosa saprà l’estraneo di quei grandi spiazzi tra i condomìni, quando alzavo la testa e il mondo intero sembrava una vertigine cattiva, e mi mettevo le mani sulle orecchie per non sentirlo fischiare?
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Aprile, pomeriggio tardo. C’è una luce che ormai si estenua quasi fino alla cena. L’estraneo sbuca fuori da una farmacia davanti a una grande piazza con un obelisco al centro e anche lui sembra frastornato e come fuoruscito da una interminabile domenica in famiglia. Lo sente, l’estraneo, l’Estraneo del mondo, le cose come immagini perplesse vacillanti in una luce grigia, e gli odori residuali dei pranzi e il torpore astratto dei pomeriggi e i pasticci che fa la mente (lo abbiamo sempre chiamato amore, questo continuo sfilarci il tappeto da sotto i piedi). Se lo avessi qui davanti, gli direi che a volte vorrei solo nascondermi, che magari mi sveglio e non so dove mi trovo. Che nonostante tutto, è lui la cosa meno irreale che c’è, mentre guardo in alto, attraverso una finestra, una pianta da salotto e una libreria ordinata e un bambino che di certo sta giocando a un gioco senza senso.
(è così facile così facile così facile morire, oppure no)
Ma in questo odore ovunque di fioriture segrete (da qualche parte, in un quartiere appartato di ville e giardini, il glicine spinge fuori il suo blu fervido), non tutto sembra essere fatto per nuocere. Un corso fa come una strana serpentina, costeggia poi una chiesa dove ho passato del tempo, dall’altro lato una ricevitoria una boutique un meccanico, alcuni urlano per euforia o abitudine. L’aria fa come un velo, sono passato mille volte senza lasciare traccia, e nemmeno sulla mappa risulta il mio passaggio (a dire il vero, per anni si è trattato soltanto di un recarsi trasognato a sbagliare taglio di capelli, constatando il prima e il dopo nel riflesso sulle vetrine). L’estraneo si fa spazio nel marciapiede intralciato dalle auto in mezzo a quelle luci e mi sembra quasi indomito a camminare in mezzo a ricordi non suoi.
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La strada di sempre sbuca sul corso che di notte sta nel più completo silenzio. Dietro un cancello si fronteggiano due dragoni di pietra. Si accende la luce bianca di una veranda, fa sembrare più nero il buio sotto i palazzi. Mi prende una improvvisa, la solita desolazione di cose lontane irrecuperabili, mi prende ogni volta che sembrava possibile il presente
(e poi forse non dovrei dirlo proprio qui ma è sempre la stessa cosa, sempre quella sensazione di essere a mia volta seguito da qualcuno che una volta chiamavo Diavolo e oggi non so neanche come, ma ricordo tanti anni fa in un paesino qui vicino all’ora di pranzo e il silenzio e il sole e ogni cosa che sembrava rivolgermi un bisbiglio di minaccia o ero sempre io a proferirla di nascosto, come se tutto in me andasse verso la distruzione di me).
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I dolci del chiostro mandano un odore che ormai fa tutt’uno con la luce ferita dei compleanni.
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Andrea Accardi ha esordito nel 2019 con la raccolta di poesie Frattura composta di un luogo, cui è seguito nel 2020 Frattura composta di un nome, entrambi usciti per Ladolfi e poi riuniti in un volume unico nel 2022. Nel 2021 ha pubblicato il libro in versi Nosferatu non esiste con Arcipelago Itaca. Ha fatto parte per dieci anni della redazione di Poetarum silva e oggi è nell’organizzazione del Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo (San Mauro Castelverde). Una prima parte di Materiali per un report è stata presentata durante il laboratorio di nuove scritture RicercaBo (dicembre 2022). Il testo completo fa parte di un progetto collettivo di scritture intorno alla città di Palermo.
Ieri, 7 aprile, si è tenuta a Kigali la trentesima commemorazione dell’ultimo genocidio del XX secolo, quello perpetrato tra il 7 aprile e il 4 giugno del 1994 da parte del governo di estremisti Hutu contro la popolazione Tutsi e gli oppositori politici Hutu. Parliamo oggi di più d’un milione di persone uccise. “Kwibuka” (“ricordati”) è il nome che le autorità le hanno assegnato a questa commemorazione. Oggi vorrei che lo ricordassimo anche noi italiani, francesi, europei, occidentali bianchi, che abbiamo a lungo guardato in modo approssimativo questo genocidio, come fosse uno dei tanti episodi di quella guerra costante e inspiegabile che attraversa cronicamente il continente africano. Ma non furono massacri qualsiasi, né la manifestazione cruenta di un’ennesima guerra civile. E soprattutto non fu “cosa loro”. Un genocidio è sempre cosa di tutti, di tutta l’umanità. Lo sappiamo, da quando le istituzioni internazionali, per fragili e disfunzionanti che siano, hanno dovuto pensare un mondo dopo l’evento della Shoah. Ma questo genocidio è cosa anche nostra, di europei che hanno dietro di sé i crimini ormai palesi del colonialismo e quelli più ambigui e occultati del neocolonialismo. E nonostante il genocidio realizzato dagli Hutu (etnia immaginaria) contro i Tutsi (idem) sia stato opera di ruandesi contro altri ruandesi, e abbia avuto radici storiche che risalgono al 1963, a incorniciarlo storicamente vi troviamo due potenze europee. La prima è quella belga, che ha prodotto, per le esigenze dell’amministrazione coloniale, una razializzazione immaginaria, per dividere la popolazione colonizzata. Loro hanno inventato i documenti che permettevano di identificare all’interno di uno stesso popolo due gruppi etnici diversi, nonostante condividessero una sola lingua, cultura e religione. La seconda potenza è la Francia, che sostiene il regime al potere prima e durante il genocidio. Lo sostiene politicamente e militarmente. Ed è a conoscenza degli intenti genocidari di quest’ultimo, ancora prima dello scatenamento dei massacri. Al di là delle responsabilità estremamente gravi della Francia nel genocidio ruandese, va ricordata anche la debolezza vergognosa delle stesse Nazione Unite, che nel momento di maggiore scatenamento della macchina di sterminio decide di ridurre al minimo la presenza di caschi blu sul territorio ruandese.
Le responsabilità della Francia sono state riconosciute persino dal presidente Macron, che non ha però interrotto l’assenteismo che da trent’anni caratterizza la presidenza francese in occasione della commemorazione a Kigali. Anche il trentennale del genocidio non ha visto la presenza dei vertici dello Stato francese: né il presidente né il suo primo ministro erano presenti alla cerimonia.
Nel 2024, è uscito La France face au génocide des Tutsi. Le grand scandale de la Ve République (La Francia di fronte al genocidio dei Tutsi. Il grande scandalo della V Repubblica) di Vincent Duclert (Tallandier). Dopo una bibliografia prodotta soprattutto da un giornalismo d’inchiesta coraggioso e controcorrente, è giunto il tempo di primi bilanci storiografici. Duclert è uno storico importante, specialista delle società democratiche e della storia dei genocidi.
Vorrei sottolineare, infine, una cosa, che spesso viene dimenticata, quando si evocano i genocidi del XX secolo e in particolar modo quello della Shoah, centrale per proporzioni e ferocia. Nel caso ruandese, le forze genocidarie, da quelle che istigavano ideologicamente a quelle che eseguivano sul territorio, si percepivano come vittime ingaggiate in una lotta per la sopravvivenza, di fronte a un nemico armato che le minacciava. Il nemico armato era il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), guidato dall’attuale presidente Paul Kagame, che combatteva affinché fosse riconosciuto il diritto ai rifugiati Tutsi, da anni confinati in Uganda, di ritornare nella loro paese d’origine. Questo ritorno implicava anche una partecipazione al governo del paese. “Colui a cui non taglierete la testa, ve la taglierà”, questo era uno degli slogan degli estremisti Hutu, ed esso si riferiva alle truppe nemiche del FPR, che venivano dall’estero (dall’Uganda), ma anche alla popolazione Tutsi interna al Ruanda, considerata un’alleata “naturale” del nemico esterno. I massacratori si percepivano come vittime, sottoposte a una impellente e tremenda minaccia, ed è proprio questo che forniva loro l’alibi per massacrare senza rimorso alcuno i loro simili.
Concludo linkando un articolo mio e di Magali Amougou apparso prima su “il manifesto” e poi su NI nel gennaio del 2006: Revisionismi francesi. Esso riguardava il dibattito francese seguito al primo decennale del genocidio ruandese (2004). I negazionisti e i revisionisti erano ancora nel pieno dei loro sforzi di propaganda, ma già esistevano giornalisti e intellettuali in grado di dissipare la cortina fumogena delle mezze verità e delle menzogne.
Aggiungo una bibliografia, che presentai in un articolo successivo a quello citato. Andrebbe ovviamente aggiornata, ma fornisce uno scorcio significativo di cosa si produsse nel corso del primo decennio successivo al genocidio.
In italiano
Jean Léonard Touadi, Congo Ruanda Burundi. Le parole per conoscere, Editori Riuniti, Roma, 2004.
(Libretto breve, ma che fornisce un’adeguata immagine d’insieme sul genocidio ruandese, inserendolo nelle dinamiche politiche più ampie e regionali, che l’hanno preceduto e seguito.)
Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
(Seria analisi di taglio antropologico sulle “pre-condizioni” del genocidio.)
Libri di testimonianza:
Tadjo Véronique, L’ombra di Imana. Viaggio al termine del Ruanda, Ilisso, 2005.
Hatzfeld Jean, A colpi di machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda , Bompiani, 2004
Boris Diop Boubacar, Rwanda. Murambi, il libro delle ossa, edizione e/o, Roma, 2004.
Gourevitch Philip, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie. Storie dal Ruanda , Einaudi, 2000
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In altre lingue (sopratutto in francese)
1. Guerra civile e genocidio
Alison Des Forges, Leave None to Tell the Story: Genocide in Rwanda, New York: Human Rights Watch, 1999 – trad. francese nello stesso anno
Braeckman Colette, Rwanda: histoire d’un génocide, Fayard, Paris, 1994 [trad. It., Strategia della Lumaca, Roma, 1995] – Terreur africain : Burundi, Rwanda, Zaire : Les racines de la violence, Fayard, Paris, 1996.
Chretien Jean-Pierre (a cura di), Rwanda : les médias du génocide, Karthala, Paris, 1995.
Verdier R., Decaux E., Chretien J. P. (a cura di), Rwanda : un génocide du XXe siècle, l’Harmattan, Paris, 1995
2. Reazioni internazionali
Coret L., Verschave, F. X., L’horreur qui nous prend au visage : L’État français et le génocide, Rapport de la Commission d’enquête citoyenne sur le rôle de la France dans le génocide des Tutsi au Rwanda, avec Laure Coret, 2005, Karthala
Klinghoffer A. J., The international dimension of genocide in Rwanda, Macmillan press, 1998.
Ould Abdallah A., La diplomatie pyromane : Burundi, Rwanda, Somalie, Bosnie…, Calman-Lévy, Paris, 1996
Willame J-C., L’ONU au Rwanda (1993-1995) : la communauté internationale à l’épreuve d’un génocide, Maisonneuve et Larose, Paris, 1996.
3. Inchieste sul ruolo della Francia nel genocidio
Gouteux J-P, La nuit rwandaise. L’implication française dans le dernier génocide du siècle, l’Esprit frappeur, Paris, 2002.
De Saint-Exupéry P., L’inavuable. La France au Rwanda, les arènes, Paris, 2004.
[Presentiamo qui un estratto del saggio di teoria letteraria Grammatica della letteratura (Tic Edizioni, 2024, coll. «Gli Alberi») di Florent Coste nella traduzione di Michele Zaffarano. Nella stessa collana sono già usciti due importanti volumi, di Gian Luca Picconi La cornice e il testo (Pragmatica della non-assertività) e di Jean-Marie Gleize Qualche uscita (Postpoesia e dintorni). I passaggi che ho scelto di Coste contribuiscono a smontare criticamente uno dei miti che nutrono il campo letterario e artistico contemporaneo, quello della “singolarità”. a. i.]
di Florent Coste
traduzione di Michele Zaffarano
Esercizio 2. Singolarità
Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole; l’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili.
(Wittgenstein 1980: 46)
[…]
[2] Per esempio, la singolarità. — Mi fai un esempio di gioco di linguaggio interno al campo letterario? — Allora, càpito su uno dei tanti siti culturali in rete e leggo alcuni passaggi di critica letteraria. Stanno presentando «un libro breve e allo stesso tempo singolare», e organizzano appositamente per me l’«incontro con una voce singolare», ricostruendo «il singolare percorso di un autore inafferrabile». Su un’altra pagina, stroncano un romanzo epistolare appena uscito sostenendo che non funziona perché i personaggi non hanno una loro «voce singolare». Poi mi metto ad ascoltare i discorsi di un artista che discute della propria pratica (in questo caso, è un uomo di teatro, però se fosse un pittore o un poeta, non cambierebbe nulla): «La singolarità non s’impara, è un divenire singolare. La presenza è come l’oro. È rara perché è preziosa, ed è preziosa per la stessa ragione che è rara. Lo stile è uno scarto rispetto al conformismo dei vari apprendimenti» (Mével 2015: 17). In ultimo, metto le mani su un libro un po’ più accademico, a metà tra critica universitaria e studio letterario, e sulla quarta di copertina leggo una difesa della «poesia come messa in valore della voce singolare». In una carrellata sulle scritture romanzesche contemporanee, si parla di come Tizio e Caio scelgano «un lavoro che sperimenta dispositivi formali singolari», di cui peraltro poi non si dirà più niente. — Già solo così, ci sono parecchie cose da chiarire. Il fatto che tutti questi protagonisti del campo letterario sfruttino il gioco di linguaggio della singolarità sembra essere una cosa del tutto normale. Perché a operare è la logica della distinzione: in un campo tanto caratterizzato dalla competitività e così radicalmente fondato sui valori dell’originalità e della creatività, quello della singolarità si rivela un elemento qualificativo decisamente necessario, anche se in sé è solo un significante vuoto; aiuta a smarcarsi, a mettersi in mostra, a ostentare una postura e a collocarsi al di fuori di tutto quello che è comune (Bourdieu 2005). Il termine viene però usato anche dalla critica. E chissà che non sia proprio questo il suo compito, cioè organizzare l’emersione all’interno del campo. — Questo aggettivo qualificativo, però, qualifica davvero qualcosa? Non riflette piuttosto una certa forma di pigrizia nelle operazioni di categorizzazione? Soprattutto, va sottolineato il fatto che il gioco di linguaggio della singolarità ha finito per infiltrarsi anche nei discorsi scientifici e accademici. Questo significa che il discorso teorico dovrà a sua volta riprendere i giochi di linguaggio sfruttati da questi operatori culturali? Si possono davvero riprendere le categorie “autoctone” del campo senza perdere vigore critico?
[3] La singolarità come grandezza. — Qual è la grandezza artistica dello scrittore, o del poeta? O meglio: su quale scala di grandezza punta a farsi valutare? A differenza degli artisti medievali (come i miniaturisti, per esempio), che lavoravano negli spazi collettivi delle botteghe seguendo le regole e sfruttando le competenze tramandate dalle corporazioni, e che collaboravano con i propri datori di lavoro, impegnandosi a portare a termine i propri compiti in conformità con i vari modelli, gli artisti moderni s’inseriscono in un regime di singolarità (e non in un regime di comunità) (Heinich 1996, 2005). Vivono nella «città ispirata» (Boltanski e Thévenot 1991). — Ci siamo ormai abituati a pensare (con un certo schematismo) che, in regime di modernità, il valore artistico sia inversamente proporzionale alla diffusione commerciale, al successo e alla notorietà; l’artista paga la propria singolarità con privazioni, marginalità, e cose del genere. — Può comunque puntare ad altri valori: la grandezza commerciale, se cerca di realizzarsi come autore di bestsellers o ambisce a raggiungere almeno un certo volume di vendite; la grandezza civica, se scrive letteratura impegnata o coltiva ambizioni politiche; la grandezza della fama, quando vuole diventare una star o cerca l’esposizione mediatica; e così via. — Detto questo, non sarebbe meglio relativizzare le scale di valori come quelle appena elencate? La professione di fede nella singolarità non è un mito da smontare? La singolarità non è qualcosa che sarebbe opportuno ridimensionare? Non potrebbero, magari, i sociologi, eliminare drasticamente questo tipo di discorsi sull’arte passando a spiegare le reti (più che le individualità), o le influenze (più che l’ispirazione)?
[6] Il campo letterario nel regime neoliberale. — Il problema non sta tanto nel fatto che l’artista si comporta da artista, perché questo è assolutamente normale. — E poi perché, in fondo, è vero: la singolarità anima e governa il campo letterario in maniera del tutto “naturale”, se vogliamo metterla in questi termini. Quello che però succede all’interno dello spazio neoliberale in cui lo scrittore si trova e da cui non può sfuggire è che il mercato letterario segue una serie di evoluzioni che rendono il regime della singolarità apparentemente più produttivo: la concentrazione oligopolistica dei grandissimi editori (che schiacciano la piccola editoria indipendente), l’aumento del numero di pubblicazioni all’anno, l’aggressione se non il vero e proprio smantellamento della catena del libro e del circuito delle librerie a opera del commercio online, sono tutti elementi che portano a indebolire gli assetti tradizionali dell’economia del libro e a sviluppare strategie e posture capaci di esibire la propria singolarità in un campo ormai sempre più caratterizzato dal regime della concorrenzialità. In ogni caso, anche se calamitata e assorbita dal sistema neoliberale, la letteratura sembra reggere bene la situazione. L’autore lavora a creare una propria immagine mediatica, ed eccolo allora che elabora una propria reputazione, che delinea un proprio carattere o un proprio marchio di fabbrica, che mette la sua “faccia” in gioco (al limite, nascondendosi dietro uno pseudonimo), tutto però senza mai rinunciare a prendere posizione su questioni letterarie o politiche. Insomma, lo scrittore performa sé stesso e lo fa in prima persona.[1] E qui, dobbiamo stare attenti a non fare confusione. Perché singolarità è un termine utile a capire e descrivere le tattiche e le modalità con cui ci si pone all’interno del campo (letterario). Si tratta di un termine critico, vale a dire di un termine che serve a oggettivare e a tenere a distanza (critica, appunto) tutti questi fenomeni. Di certo è un valore che i protagonisti non possono rivendicare con qualche diritto, o dare in qualche modo per scontato, senza doversi raccontare delle storie. Eppure, molti degli attori in campo, che scrivano, che commentino o che lavorino a editare testi, si lasciano catturare dai vari giochetti della singolarità. — E fino a qui, abbiamo ragionato solo all’interno del mondo del libro, oltraggiosamente dominato dalla prosa romanzesca. Passiamo ai poeti? I poeti, così drasticamente minoritari, così lontani e così persi nelle periferie di questo mondo, come si collocano, i poeti? Contribuiscono con forza raddoppiata al regime della singolarità o, al contrario, operano una sottrazione basata sulla riflessione e resistono? Probabilmente sarebbe il caso di cominciare a chiederci come un poeta o uno scrittore possa comportarsi per non andare a ingrassare gli ingranaggi di questo regime della singolarità.
[7] Individualismo, romanticismo, capitalismo. — La questione della singolarità viene a toccare in maniera decisamente più radicale le nuove forme di individualismo contemporaneo che strutturano l’ideologia implicita della letteratura. Di certo, non si può dire che il campo letterario sia particolarmente impermeabile ai valori individualisti. Cerchiamo però di non fare confusione. Quando parlo di individuo, posso intendere cose molto diverse tra loro. Innanzitutto c’è l’individuo, inteso come cittadino astratto, cioè il cittadino titolare dei diritti conquistati dalla Rivoluzione francese che aspira a conquistare la sua stessa autonomia; ovviamente qui parliamo di un principio giuridico-politico fondato sulla nozione di universalità volta a propagare un individualismo dell’uguaglianza. L’individuo, però, lo posso anche intendere in maniera completamente diversa, cioè partendo dai suoi tentativi di tirarsi fuori, di estrarsi dalla folla: l’individuo che entra in rapporti di dissidenza con tutto quello che pertiene al comune, l’individuo che fa un passo di lato per sottrarsi alla massa delle società democratiche, l’individuo che esalta varie forme di elitismo e valorizza le proprie capacità di creazione. Di questo individualismo della distinzione, l’artista è sicuramente ed evidentemente figura paradigmatica. A ben vedere, però, non è nemmeno questo l’individualismo che ci fanno vivere oggi. La società contemporanea conosce in effetti una serie di nuove trasformazioni che sembrano sbocciare dalle rovine del mondo industriale fordista, qualcosa che potremmo definire come «espansione della singolarità» (Martuccelli 2010). A dominare palesemente dopo le sostanziali e profonde trasformazioni della società e del capitalismo (Castel 2019; Giddens 1990) è la personalizzazione delle merci, la modulazione dei servizi in funzione dei vari tipi di pubblico, il consumo fluido e ritagliato su misura, con il marketing che, sull’altro versante, spinge sempre di più verso la vertiginosa complicazione delle tipologie dei fruitori. Pare che non esista ossessione più grande di quella dell’intercambiabilità e della standardizzazione. E che non ci sia sciagura peggiore del non vedere riconosciuta la propria particolarità, o del subire forme diverse di discriminazione (Rosanvallon 2013: 343 e sgg). In altre parole, quello che il singolarismo rivendica sopra ogni altra cosa è che la società non debba o non possa frapporre ostacoli all’espressione di sé. — Insomma: una forma abbastanza incandescente, addirittura hot di liberismo. — Proprio in virtù di questo principio, ognuno di noi dovrebbe portare a risoluzione il proprio «compito di essere» incarnando e scegliendo, con assoluta fedeltà e autenticità, una singolare combinazione di stili, forme e aspetti presi un po’ a prestito a destra e a sinistra. Si deve obbligatoriamente cercare di essere corretti e rispettosi nei confronti della propria persona e del proprio rapporto a sé, cosa che non manca ovviamente di produrre come naturale conseguenza la soffocante e ben conosciuta «fatica di essere sé» (Ehrenberg 1999). Alle intimazioni che ci spingono a essere qualcuno di incomparabile si accompagna poi sempre la ricerca del riconoscimento, del rispetto e dell’equità.[1] Si tratta, insomma, di un individualismo della differenza (totalmente diverso dall’«individualismo dell’uguaglianza» o dall’«individualismo della distinzione»): un ideale romantico dell’autenticità personale e del riconoscimento di sé, recuperato e ventilato dal capitalismo per riuscire a generalizzare e a democratizzare il (peraltro) molto aristocratico diritto a esprimere il proprio «talento».[2] — Ovviamente, sul rovescio di tutta questa situazione, ecco la fede in una società senza classi, una società in cui i determinismi sociali si vanno facendo sempre più complessi, e in cui le disuguaglianze scalano per così dire di un gradino, diffratte a larghissimo raggio in forma di segmentazioni interindividuali o di disuguaglianze intracategoriali. — È proprio questo, che potremmo chiamare singolarismo.[3]
[8] Le aporie del dandy. — Il singolarismo si è così ritagliato dei personaggi preferiti, e tra questi personaggi preferiti troviamo soprattutto il dandy, figura a cui gli artisti moderni hanno spesso ricondotto il valore dei propri gesti fondativi (Bourriaud 2015). Da notare che, così facendo, il singolarismo porta a estetizzare la vita attraverso un’«estensione del dominio dello stile» ben oltre il semplice ambito del testo (Macé 2010, 2016b),[4] oppure attraverso una specie di transfert dello stile che finisce per impregnare l’assieme generale dell’esistenza. Il problema non sta quindi tanto nella strampalata, superficiale e variopinta originalità che possiamo attribuire al dandy, ma alle regole che questo personaggio intende applicare alla propria vita seguendo modalità totalmente ascetiche. In questo, il dandy ricorda molto da vicino quei monaci che vivono nei loro monasteri e si attengono in maniera rigida alle proprie regole di vita,[5] affermando una sovranità quasi “insulare” delle proprie soggettività. «Il dandy non intende dipendere da regole morali comunitarie e si dichiara “l’unico autore dei propri obblighi”. Dopo che si è imposto delle regole, egli si forma dall’interno, emanando delle leggi di cui sarà l’unico destinatario, conformandosi a quell’etica creativa che annuncia queste “mitologie personali” caratteristiche dell’arte del XX secolo. Ecco perché l’artista moderno, seguendo l’esempio del dandy, nel suo lavoro non obbedisce che a regole personali, valide nel quadro di un’etica provvisoria: egli vi aggiunge solo la preoccupazione di una produzione» (Bourriaud 2015: 31). — I paradossi, comunque, rimangono difficili da sciogliere. Immaginare, come per il dandy e per l’artista che a quest’ultimo s’ispira, una legge da applicare a sé stessi e a nessun altro è un po’ come vincolarsi alle diverse mitologie del linguaggio privato. E cosa vuole dire che stabiliamo delle leggi e poi le applichiamo soltanto a noi stessi? Decidere il proprio codice, cioè decidere un codice così singolare che nessuno mai cercherà di condividerlo o sarà tentato di decodificarlo, diventa fatalmente un modo per sottrarsi a qualsiasi tipo di collettività. Ed è ovvio che un modello come questo non potrà mai essere esportato o esteso al di là del campo artistico, perché in quel caso avremmo conseguenze politiche incresciose, francamente difficili da accettare.
[1] Cosa di cui si fa portavoce un erede della Scuola di Francoforte come Axel Honneth (2002).
[2] «Il riferimento all’arte è utile perché ci ricorda che l’individualità per tutti significa di fatto ineguaglianza, non eguaglianza. […] L’individualismo espressivista è quando, in realtà, viene offerta solo ad alcuni la possibilità di mostrare le proprie opere a tutti quanti» (Descombes 2007: 219).
[3] Dumont 1991 e Descombes 2007 sottolineano che se ne può tracciare una genealogia che parte dal romanticismo tedesco.
[4] Rientra almeno in parte in quella «estetica dell’esistenza» investigata da Foucault nel corso delle sue indagini sulle tecniche del sé, a partire dalla filosofia antica e dal monachesimo cristiano.
[5] Sulle comunità idioritmiche del Monte Athos, cfr. Barthes 2002: 37.
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[1] Su tutte queste questioni, cfr. le riflessioni nel corso degli anni di Meizoz (2007, 2011, 2016 e 2020).
Da: Andrea Zanzotto, Notificazione di presenza sui Colli Euganei [da IX Ecloghe, 1962])
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
Quando si lanciarono di sotto, Ada e Michele rimbalzarono.
Per sessantatré anni avevano superato insieme le loro ostili intimità. Le puzze, le macchie, le pelurie. Le ciabatte, le manie, le fisime. Le rinunce, i silenzi, i rumori dal bagno. Si erano trovati presto, per caso, e avevano trasformato quel caso in missione. Michele aveva aiutato lei a salire sul parapetto. Le aveva raccomandato di tenersi forte, perché dovevano lanciarsi insieme. Poi, con fatica, era salito anche lui. Preoccupato che il proprio ginocchio cedesse nello slancio o che Ada perdesse l’equilibrio prima che anche lui riuscisse a salire, aveva agganciato due corde al divano e le aveva poi legate una alla vita di lei e l’altra alla propria. Per fortuna, il parapetto era abbastanza largo e riuscirono a fare tutto con calma, senza tuffi al cuore.
Si erano decisi a farlo la sera prima, quando i ragazzi erano andati via. A letto, nel silenzio, dopo aver lavato i denti e riposto i vestiti, si erano guardati negli occhi minuscoli, aggrediti dalla pelle, e si erano scambiati un sorriso, senza parlare. Avrebbero evitato il dolore che avevano sempre scampato: perdere l’una l’altro, senza scegliere, come avevano sempre fatto. Non avrebbero lasciato fare al caso, che diventava ormai sempre più torreggiante, né sperato, come avevano cominciato a fare senza dirselo, di morire per primi.
Il capodanno era andato bene, le lenticchie erano piaciute a tutti, anche ai bambini. E le girandole, di cui ancora si scorgevano i segni sottili e neri sul pavimento del balcone, avevano fatto la loro parte nei festeggiamenti del quartiere. Sul tavolo, di fianco alle giacche, che avevano riposto con cura nonostante il freddo del mattino, una lettera spiegava le loro ragioni:
Cari tutti,
a un certo punto della vita hanno smesso di chiamarci per nome. Ci hanno prima chiamato papà e mamma, zio e zia, poi nonno e nonna. A noi questo non sta bene. Non è mai stato bene. Noi siamo Ada e Michele. Nient’altro e per sempre; vale a dire, ancora per qualche ora. Non abbiamo bisogno di un altro inutile e falso attributo: vedova o vedovo.
Non state a crucciarvi troppo: vi abbiamo voluto bene. Questo vi basti. Ma vi abbiamo anche odiato. Abbiamo odiato voi figli, solo per il fatto di averci trasformati in altri nomi, diluendo le nostre identità. Non soffritene, sappiamo che non è colpa vostra.
Abbiamo odiato anche i nostri nipoti, perché ci ricordano che siamo vecchi. Bella rogna. Raccontate loro la storia di Ada e Michele come quella di due persone libere, che non vogliono esistere in corpi inutili e stanchi. E non vogliono esistere l’una senza l’altro.
Speriamo apprezzerete il fatto che non vi lasciamo poi molto, neanche buoni consigli.
Ada e Michele.
Michele avrebbe voluto dire di più. Sciorinare le nozioni che aveva imparato in quarant’anni d’insegnamento, ma Ada lo aveva esortato a esser breve, a non girarci attorno, come sempre.
«Ma io voglio dirglielo che non c’è niente di nobile a essere vecchi».
«È una lettera, Miche’, non sono le tue memorie».
«Ma dobbiamo spiegare» — notò la spalla destra di lei che si sollevava, nello sforzo di stringere l’ultima Moka — «la chiudo io?»
«No no, che poi non riesco ad aprirla»
Ada rilassò le spalle e i pensieri, poi si girò a guardarlo, solo con la testa, e gli sorrise. Non pianse nessuno, però: «t’oh, divertiti, stringi più che puoi».
Risero. Poi lui ci riprovò, più per parlarle ancora che per convincerla davvero. Gli piaceva parlare con Ada, sentirsi intelligente e stupido, come se il cervello si contraesse a ogni risposta delle sopracciglia di lei:
«È che non abbiamo detto tutto».
«Miche’, tu quanti anni hai?»
«Ottantadue».
«E io?»
Michele sollevò il beccuccio della Moka, scottandosi un poco:
«Ottanta, quindi?»
«Quindi per dire tutto ci vorrebbero centosessantadue anni».
Lui bofonchiò, al solito, contro quella logica implacabile:
«Dai, hai capito, questi credono che noi pensiamo lenti perché siamo diventati lenti. Non capiscono che la tragedia è questa».
«Quale?»
«Che siamo ancora qui a dirci cose nuove. Che non vogliamo smettere di essere gli Ada e Michele che siamo sempre stati. Che è il ricordo a essere la nostra condanna».
«A morte».
«Eh, a morte, a morte. ‘Sti cazzo di ricordi prima servivano solo a vivere — tipo “la Moka scotta” — e noi li abbiamo trasformati in strumento per pensare. Abbiamo levato alla felicità l’unico luogo possibile: il presente. E ci siamo inventati anche i ricordi del futuro: le illusioni. Siamo la specie più stupida che esista e ci sentiamo anche intelligenti».
Ada lo guardava parlare come si fa con un liceale brillante. Che questo era ancora per lei: un liceale brillante.
«I ricordi non servono a niente, ma ormai ce li teniamo. Ecco: io non li voglio più. Non senza di te».
«Neanche io, Miche’» — si scosse da quella stupida tenerezza — «ma è una lettera di tutti e due. Fosse per me avrei scritto solo nessuno dei due vuole morire senza l’altro».
«Lo so».
Michele versò il caffè nelle tazzine bianche e marroni:
«Vuoi farlo ancora?»
Lei gli concesse un altro sorriso, senza rispondere. Poi lo abbracciò e infilò una mano sotto il pigiama.
Ad aspettare le loro sagome, pronte a saltare dal quinto piano, non c’era nessuno. Non un bambino col naso all’insù che dice “mamma, che fanno quelli?”. Non vigili del fuoco, eroi, o curiosi. Avevano scelto l’alba per questo: volevano essere soli. Nonostante l’attrito con l’aria, sempre più forte in quei pochi secondi, riuscirono a tenére strette le mani, tènere e forti come la prima volta. E caddero. Caddero e basta, senza pensare a niente: finalmente, i ricordi erano solo un ricordo.
Al momento dell’impatto, il marciapiede li respinse elasticamente. I loro corpi, ancora intrecciati nelle dita — e vivi, per quanto ne sapessero — furono rilanciati in aria con gentilezza, disegnando nel cielo due traiettorie oblique, quasi che la terra li rifiutasse. Stranamente, l’orologio di Michele non si fermò, ma continuò a battere i secondi. Era a carica manuale: un tempo virtualmente infinito.
La loro lettera avrebbe assunto tutto un altro significato, senza i loro corpi disarticolati e vividi. Forse erano scappati via. Irresponsabili, pazzi: i figli e i documenti, i nipoti, le chiacchiere. A chi sarebbero finiti gli ori?
A loro due bastava non mollare la presa, continuare a tenersi per mano, per proiettarsi insieme verso quello che non sapevano. Non avevano saputo tante cose, di quello che avevano visto fino ad allora, ma avevano saputo quelle mani, strette insieme. E quella Moka, a volte troppo stretta anche lei, che non si riusciva a riaprire.
Metto avorio e non va
in questa città non c’è
avorio metto oro e non dice
in questa città non c’è
oro metto argento e
non rima
in questa città non c’è
argento metto l’idioma
della pioggia acqua
acquazzone acquitrino
metto paracqua ed ombrelli
metto pioggerella e giungo alla mia città
E non metto
nulla e tolgo
tutto terrazze
e luci balconi
e torri
e restano piogge
Oggi piove come
sempre da così presto
che non so come
iniziò a piovere
magari sia solo una
figura di rituali grifi
d’acqua
che danzano in suono di
gocce fiumi in finestre e
calli
occhi turpi dietro l’alba
e la lunga vetrata
dell’inverno con verdi
mani reumatiche
Dall’acqua
astratta tappeto
d’erba terrazza
d’alghe uscì
questo sogno di
cieli e barche
Io piovo perché amo
piovo verticale il mio
ritorno e non fecondo spighe
a volte piovo chiacchiere
quando non posso piovere
tanta pioggia di tante cose
gocce e gocce di miseria
nella cerimonia del viaggio
sulla memoria dell’acqua
*
da Nel circolo dei pronomi (2003)
Io
io alle sei della sera
con un cero nella mano
lentamente nella mia stessa strada
cerco il dio senza faccia
giocatore instancabile nella scacchiera delle stelle
io graffiando l’alba
disegno un segno astratto
e me lo ruba il vento
io alle 11 della notte
con un filo sulla fronte
trasparente e agile
do le mie droghe di silenzio
e ingrosso il capitale del mio grido
io mi sommo all’altro io
mi metto le sue scarpe
leggo il manuale di diplomazie
mi addormento con l’altro
e mi risveglio senza nulla
mi stanco della mia sostanza d’ore
e spremo le mie economie di tempo
io una somma di espropriazioni
un inventario inconcluso
un punto senza azione e voce
nel circolo dei pronomi
un naufragio di sorti e occasioni
con esibizioni balbettanti
un libro sulle spalle
un peso perpendicolare dal cielo
e un ragno che scende da un
filo nero per la schiena
impiccagioni di equilibri senza spazio
saette costipate dalle stimmate
età che consumano la mia età
in un piatto greco con salsa romana
bilance ebree magneti indigeni
io – andarmene io – venirmi
l’aria tiene armonie di spade
equidistanti distanze spogliate
perdute devoluzioni indolenti
cerimoniosi cervelli lontani
condizioni che mi condizionano
un giro bancario atemporale
con numeri stranieri
la parola è una gomma da masticare
quando perde la menta si sputa
Testi tratti da Lettera all’indirizzo degli uccelli, di Carmen Naranjo, edizione italiana a cura di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli (Edizioni dell’Orso 2023).
Carmen Naranjo (Costa Rica, Cartago, 1928 – Costa Rica, San José, 2012) è figura centrale nella storia letteraria costaricana. Scrittrice, diplomatica e attivista, ha lavorato per le Nazioni Unite, l’UNICEF e altre organizzazioni umanitarie, denunciando la deforestazione, la malnutrizione e lo sfruttamento che affliggono l’America Latina, e promuovendo i diritti dei poveri e delle donne. “Carmen Naranjo ha affondato la penna nella realtà, con rara capacità di suscitare stupore, empatia e compassione nei confronti dell’essere umano, restituendoci la fotografia interiore di un continente così grande da sembrare inconciliabile, così piccolo da sembrare un’isola.” (dall’introduzione)
Tomaso Pieragnolo vive da oltre trent’anni tra Italia e Costa Rica ed è traduttore e poeta; tra le sue raccolte di poesia, finaliste e vincitrici di premi nazionali, ricordiamo Portraits (Passigli 2022), Viaggio incolume (Passigli 2017), nuovomondo (Passigli 2010), L’oceano e altri giorni (Venezia 2005), Lettere lungo la strada (Venezia, 2002), Poesía escogida (Editorial de la Universidad de Costa Rica e Fundación Casa de Poesía, 2009). Dal 2007 traduce per la rivista Sagarana autori del Costa Rica inediti in Italia; tra di loro EuniceOdio, poi pubblicata in volume in Questo è il bosco e altre poesie (Via del Vento 2009) e Come le rose disordinando l’aria (Passigli 2015), con Rosa Gallitelli.
Rosa Gallitelli vive a Padova e dal 1992 tra Italia e Costa Rica, dove ha trascorso lunghi periodi a stretto contatto con le popolazioni native tra foresta vergine e Oceano Pacifico e cooperato a progetti di tutela del patrimonio naturale. Da questa esperienza discende la raccolta poetica Selva creatura leggera (Passigli 2015), Premio Nazionale di Letteratura Naturalistica Parco Majella 2023, Premio Minturnae 2016, finalista Premio Marineo e Morlupo 2016, selezione Premio Marazza 2016. Dal 2007 traduce con Tomaso Pieragnolo per la rivista Sagarana e per varie case editrici autori costaricani in anteprima italiana.
Lettera all’indirizzo degli uccelli è la prima opera di Carmen Naranjo pubblicata in Italia.
Pongo marfil y no va
en esta ciudad no hay marfil
pongo oro y no dice
en esta ciudad non hay oro
pongo plata y no rima
en esta ciudad no hay plata
pongo el idioma de la lluvia
agua aguacero aguazal
pongo paraguas y sombrillas
pongo garúa y llego a mi ciudad
Y no pongo nada
y lo quito todo
terrazas y luces
balcones y torres
y quedan las lluvias
Hoy llueve como siempre
desde tan temprano que no sé
cómo empezó a llover
quizás sea sólo una figura
de rituales grifos de agua
danzando en sonidos de gotas
ríos en ventanas y calles
ojos turbios detrás del alba
y el largo vitral del invierno
con verdes manos reumáticas
Del agua abstracta
alfombra de yerba
terraza de algas
salió este sueño
de cielos y barcas
Yo lluevo porque amo
lluevo vertical mi regreso
y no fecundo espigas
a veces lluevo palabrerías
cuando llover no puedo
tanta lluvia de tantas cosas
gotas y gotas de miseria
en la ceremonia del viaje
sobre la memoria del agua
*
de En el círculo de los pronombres (2003)
YO
yo a las seis de la tarde
con un cirio en la mano
lentamente en mi propia avenida
busco al dios sin cara
jugador incansable en el ajedrez de las estrellas
yo arañando el amanecer
dibujo un signo abstracto
y me lo roba el viento
yo a las 11 de la noche
con un hilo en la frente
transparente y ágil
doy mis drogas de silencio
y engroso el capital de mi grito
yo me sumo al otro yo
me pongo sus zapatos
leo el manual de diplomacias
me duermo con el otro
y me despierto sin nada
yo me canso de mi sustancia de horas
y estrujo mis economías de tiempo
yo una suma de expropiaciones
un inventario inconcluso
un punto sin acción y voz
en el círculo de los pronombres
un naufragio de suertes y ocasiones
con exhibiciones tartamudas
un libro en la espalda
un peso perpendicular desde el cielo
y una araña bajando de un hilo
negro por el hombro
colgaduras de equilibrios sin espacio
saetas estreñidas por los estigmas
edades consumiendo mi edad
en un plato griego con salsa romana
balanzas hebreas imanes indígenas
esos besos
corriendo por tu espalda
yo – irme yo – venirme
armonía de espadas tiene el aire
equidistantes distancias desnudas
perdidas devoluciones indolentes
ceremoniosos cerebros lejanos
condiciones condicionándome
un giro bancario intemporal
con números extranjeros
la palabra es una goma de mascar
cuando pierde la menta se escupe
[Continua quella che vorrebbe essere non tanto un’indagine, ma una ricognizione ragionata e dialogata dell’editoria indipendente di poesia. Abbiamo già parlato diLe Mancuspie, una collana di poesia diretta da Antonio Bux per le edizioni Graphe.it e di Adamàs, per La vita felice editore, diretta da Tommaso Di Dio, Vincenzo Frungillo, Ivan Schiavone. a. i.]
Risposte di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli
Che cosa ti ha spinto a fare l’editore e quale obiettivo ti poni con il tuo lavoro?
Come curatori del progetto Benway Series, la motivazione iniziale è da ricondurre alla nostra dimensione di “autori”: in quanto tali, all’epoca dell’ideazione del progetto (che inizialmente era curato anche da Marco Giovenale e Michele Zaffarano) ci concedemmo la possibilità di cercare altre scritture c.d. “di ricerca” consimili, soprattutto al di là della lingua italiana, e di pubblicarle in Italia in un contesto che non era così ricettivo rispetto a tali opere. Il vettore esplorativo si configurò come un progetto più che altro intellettuale e artistico aperto anche a opere in lingua italiana (rigorosamente tradotte a loro volta per consentire sempre un dialogo più ampio) e a proposte non strettamente legate alla scrittura, o solo ad essa, intendendo l’opportunità che ci siamo concessi come una sorta di factory in continua via di definizione.
Che regime di produzione hai? Ti soddisfa quello che riesci a mettere in opera (numero di titoli all’anno)?
Non abbiamo necessità e vincoli di produzione. Realizziamo i progetti che ci piacciono e ci convincono nei tempi e nei modi di cui siamo capaci, con tutti i limiti e le disponibilità che si possono immaginare per quanto riguarda un progetto indipendente e non finanziato.
Come è nata l’idea di questa nuova collana di poesia?
Vedi sopra.
Come scegli i libri che vuoi pubblicare? Quali sono i criteri che ti guidano? Sei interessato a difendere aree poetiche o correnti specifiche all’interno del panorama contemporaneo?
Fino ad oggi ogni libro è nato dall’appassionamento ad un’idea e alla condivisione di questa idea tra noi (M. Guatteri e G. Marzaioli), l’autore o gli autori e tutti color che possono e/o vogliono collaborare alla realizzazione dell’opera finale. Chiaramente sappiamo di avere un orientamento e di avere in qualche modo segnato un percorso di cui è giusto tener conto, ma non siamo affezionati a scuole o dottrine specifiche. Per quanto la storicizzazione sia inevitabile e anche imprescindibile, riteniamo che sia prematuro farne parte, sempre che qualcuno consideri in tal senso degno il percorso di Benway Series.
Cosa pensi dell’oggetto libro e dell’esperienza di lettura che veicola? È una forma di conoscenza in grado di distinguersi da quelle che circolano attraverso altri media e altri supporti? Come vedi la sua articolazione di vecchio media con i media attuali? Come ti poni nei confronti delle correnti convenzioni editoriali (tipografia, impaginazione, formato)?
Sicuramente il libro è una forma di offerta e di condivisione di idee che si distingue da altri, altrettanto degni. Per quanto in via di estinzione non sarà mai estinto, probabilmente riconfigurerà il proprio posizionamento nella vita quotidiana, al pari della lettura. Per quanto ci riguarda consideriamo che ogni limite è un’opportunità, e per quanto riguarda la minor diffusione del libro cartaceo, l’assenza di eccessive sponde di confronto e dimensionamento consente maggior libertà: siamo sempre più propensi a considerare l’oggetto libro come una vera e propria opera d’arte le cui potenzialità possono essere continuamente definite e ridefinite.
Quali sono i punti critici che impediscono alla tua azione di essere più efficace?
Non pensiamo in questi termini al nostro impegno di editori. Per quanto ci riguarda ciò che facciamo traccia un cammino da fare assieme agli autori con i quali collaboriamo e ai lettori che ci seguono, che siano 1, 10 o 100. La cosa più importante è stare in movimento e farlo assieme ad altri.
Che visione hai dell’editoria media e grande in Italia, soprattutto per quello che riguarda la poesia?
Ci sono e ci saranno sempre fasi e cicli. Alle volte proliferano collane di poesia, alte volte si celebra il funerale del genere. Potremmo enumerare varie e numerose teorie ed opinioni ben note a che si interessa di scritture diverse dalla narrativa, ma sarebbe di scarso interesse per chi legge ripetere quanto già ampiamente dibattuto. Forse una valutazione che potrebbe risultare utile sia per chi scrive che per chi si impegna a promuovere la scrittura, è che bisognerebbe sempre misurarsi con tre dimensioni temporali: quella attuale, quella di domani e quella di sempre. Scrivere, e promuovere scrittura, considerando che ciò che si fa dovrebbe valere per un tempo presente, un futuro e per l‘eternità. Anche solo l’illusione di bilanciare in un’opera le tre misure temporali può essere una prospettiva nella quale inquadrare la propria attività, al di là delle circostanze del caso o dei casi che occupano la vita letteraria.
*
da Louis Zukofsky, 80 Flowers / 80 fiori
Traduzione di Rita R. Florit, Postfazione di Paul Vangelisti
Colorno: Tielleci, 2024. (Benway Series; 16).
First Edition: Louis Zukofsky, 80 Flowers, Stinehour Press, Lunenburg, Vermont, 1978.
Aster
A star tow ash stow
rote crowd mickle mass daisy
frostflower lazytongs lightning aster risk
your fire anneal generous gentle
baited shadow some moss-burn’d summer
evergreen-winter connect a cut clay
aurous quick gnomon he’ll mellow
lucre head purple black study
* * *
Astro
Un astro traino cenere serba
ripetizione moltitudine mucchio ammasso margherita
fiordibrina pinzestesa luminescente astro rischio
tuo fuoco tempri magnanimo mite
adescata ombra qualche muschio-bruciato estate
sempreverde–inverno unisce un taglio creta
aureo rapido gnomone si calmerà
lucro testa viola nero studio
Daisy
Bellis perennis daisy of history
ing lace water-formed a hid
pin-eyed thrum-eyed brehon-rule eve adam
adam eve meadows birth-hymn drupe-studded
strawberry oversell spring-freeze whipperwill storm
pied-daisy rays vogue green-erin discs
may not excel white double-ray largess
sails-gold-discs heritage fort at Montauk
* * *
Margherita
Bellis perennis margherita della storia
merletto forma d’acqua un nascosto
perno-occhiuto sibilo-occhiuto legge-brehon eva adamo
adamo eva pascoli inno-originario drupa-punteggiata
fragola incensata sorgente-ghiacciata succiacapre bufera
margherita-variopinta raggi in-voga dischi verde-irlanda
forse non eccelle bianco doppio-raggio generoso
vele-oro-dischi eredità forte di Montauk
*
da Marlene NourbeSe Philip, ZONG! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng.
Traduzione: Renata Morresi. Traduzione di «Notanda» e di «Gregson vs Gilbert»: Andrea Raos.
Traduzione di «Ẹbọra»: Mariangela Guatteri.
Colorno: Tielleci, 2021. (Benway Series; 14).
*
da Forrest Gander, Essere con / Be With. Con 6 fotografie di / With 6 photographs by Michael Flomen
Traduzione di Alessandro De Francesco.
Colorno: Tielleci, 2020. (Benway Series; 14).
A few days later
their bliss grew
an impenetrable
skin. Then dissolved
itself completely,
the liquid content of
that skin turning
to a sort of jelly
from which erupts
a new creature
whose organs
lack any identity
with what came
before.
Have I lived
something stupid?
Am I the coward
responsible for
nothing?
* * *
Qualche giorno dopo
la loro felicità sviluppò
una pelle
impenetrabile. Poi si
dissolse completamente,
e il contenuto liquido di
quella pelle si trasformò
in una sorta di gelatina
da cui emerge
una nuova creatura
i cui organi
mancano di identità
con quanto era venuto
prima.
Ho vissuto
qualcosa di stupido?
Sono il codardo
responsabile di
niente?
–––––––
da Ron Silliman, Il quaderno cinese / The Chinese Notebook
Traduzione: Massimiliano Manganelli.
Colorno : Tielleci, 2019. (Benway Series; 13).
**
La minuscola precipita nel tubo. Gli arti appena accennati protesi verso l’alto, una scia di cometa; la schiena curva – saranno non più di due centimetri totali – quasi solo una sottile catena di vertebre, come perline d’avorio. Cade senza un grido, trascinata in un abisso di vortice scuro che confluisce in un tubo più grande e poi in un altro e un altro ancora. E poi – si suppone – nel mare.
Non è un brutto posto il mare. Per finirci. E la minuscola è ancora una specie di pesce, dopotutto, un pesce abissale dagli occhi ciechi e dalle branchie amaranto. Fluttuerà sotto alla superficie per qualche giorno, dissolvendosi lentamente, trasportata dalle correnti in un ammasso di pulviscolo simile a plancton in cui altri minuscoli esseri bioluminescenti le viaggeranno accanto, protetti dai loro esoscheletri trasparenti, pronti a impigliarsi nei fanoni di balena.
Dentro a una balena, pensa Eva, la minuscola potrebbe anche viverci.
E la balena non ci farebbe nemmeno caso; non la sentirebbe crescere, non ne sopporterebbe il peso estraneo. Dev’esserci molto spazio, dentro a una balena, tanto che la minuscola potrebbe starsene lì per sempre e questo non modificherebbe la vita della balena, né la sua forma, né la sua libertà.
Eva abbassa la tavoletta e si costringe a restare ancora un poco, finché il carico dell’acqua è completo e il galleggiante galleggia e torna il silenzio. È tempo di andare.
Il corridoio fuori appare luminoso e sgombro.
Dieci passi.
Il parquet è lucido come una lastra di ghiaccio. Si potrebbe camminare velocemente, così velocemente da non rischiare di cadere, di precipitare in un ipotetico sottostante qualora la superficie dovesse creparsi all’improvviso.
Il pericolo ha odore di cera per pavimenti.
Conviene strisciare lungo le pareti, la schiena appoggiata all’intonaco fresco, le mani aperte. A guardare verso l’alto il corpo si fa più leggero, si solleva, il baricentro fluttua senza proiezione terrestre. I piedi scalzi, le dita allargate in raggi divergenti. Le pareti del corridoio trattengono la penombra. Eva desidera rimanere lì, sospesa tra il dentro e il fuori. Da lì potrebbe respirare senza sentire la fame, toccare senza dover vedere.
Un crampo la stringe sotto l’ombelico e d’istinto raddrizza la schiena: è una sensazione passeggera e la conosce da quando aveva undici anni. È cresciuta in fretta, Eva, il suo corpo è cresciuto in fretta, ma tutto il resto, il bisogno di non fermarsi, il disordine dei vestiti indossati un solo giorno e poi accatastati sullo schienale della sedia, i calzini spaiati nel cassetto, i compiti non fatti, i contratti a termine, lo smalto blu sulle unghie. Tutto il resto non cresce. È fatto di una sostanza instabile che non proietta ombre.
Sulla destra, al centro della camera, oltre la cornice della porta, si spande la chiazza bianca del letto sfatto. Eva è tentata di tornare a immergersi nelle lenzuola di cotone, di avvilupparsi in un bozzolo e riavvolgere i giorni fino al suo stato di crisalide, di sentirsi protetta dall’odore di crema idratante, sudore e ammorbidente, di farsi tagliare dalle lame di luce che filtrano attraverso le tapparelle appena sollevate. Ma sa che è venuto il momento di uscire allo scoperto e che c’è ancora modo di programmare gli eventi per far sì che tutto continui a riguardare soltanto lei. E che quel modo è sfilare con passo leggero sopra la superficie cerata del corridoio, zittire il tintinnio delle chiavi infilandole nella tasca interna della borsa, proteggersi con gli occhiali da sole dalla luce feroce del giorno che incombe, trattenere il fiato mentre il gomito cigola abbassando i finestrini a manovella e l’aria rovente dell’abitacolo scivola per convezione all’esterno. Se la vecchia carretta non fosse soltanto un 800 di cilindrata il rombo del motore coprirebbe la pulsazione ritmica dentro le orecchie con un fragore continuo e costante, invece si innesta sul battito del cuore.
Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr.
L’auto è un piccolo parallelepipedo rosa: scorre all’interno delle arterie grigie che si snodano giù per la collina, appare e scompare sotto le fronde dei castagni, ed Eva sa che anche minuscola, nel frattempo, sta viaggiando in direzione del blu come se fosse compressa in una capsula di plexiglass. Eva non è certa di conoscere il funzionamento dei depuratori ma si immagina che siano una specie di enorme filtro, un colino gigantesco dentro cui si incagliano assorbenti, sacchetti di plastica, tappi di bottiglia, e attraverso il quale invece spera che la minuscola possa filtrare proprio grazie al suo essere soltanto in potenza. La minuscola arriverà al mare per prima, superato il Grande Colino e le rapide del Po e i banchi di alghe aggrovigliate e i becchi lunghi e sottili degli aironi e le bocche piatte e senza denti dei pesci gatto e le pale rotanti dei motori delle chiatte, o sarà prima Eva ad arrivare là dove qualcuno possa dichiarare la minuscola definitivamente scomparsa?
Non c’è più nulla qui, le diranno con voce soffice, accarezzando con la sonda fredda di gel il triangolo sotto l’ombelico. Ci dispiace.
A me non dispiace, penserà Eva, ma non potrà dirlo. Potrà solo tentare di calcolare il tempo impiegato dalla capsula di plexiglass per scivolare attraverso la pianura fino al delta. Anche il delta è un triangolo. Anche il santuario dei cetacei del Mediterraneo, dove ora probabilmente nuota la balena dentro cui la minuscola sta trasferendo il suo essere in potenza.
L’arteria grigia, dentro cui scorre la scatoletta rosa contenente il corpo di Eva da poco espulso dalla casa, confluisce in un’arteria più grande dove altre scatolette viaggiano su più corsie parallele. Dai finestrini si riversa nel fuori il rumore battente del motore in sincrono con la pulsazione vitale di Eva.
Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr.
Sul sedile una piccola chiazza di bava umida e rosea si allarga in un’impronta che sarà quasi cento volte la minuscola. Il segno che lasciamo spesso non è proporzionato alla nostra dimensione. Siamo più grandi di quello che pensiamo, abbiamo più contenuto. Per questo la minuscola starà ormai scivolando tra i giunchi e i pontili, dalle parti di Chioggia, perché il suo potenziale di galleggiamento è molto superiore alle sue dimensioni apparenti, anzi con le sue dimensioni non c’entra nulla: c’entra più con il peso del liquido spostato e la minuscola sta spostando un enorme volume, costituito dalla somma di quello del corpo di Eva – benché privato della minuscola stessa e della sua bavosa scia residua che si allarga come chiazza sul sedile – e da quello della Cinquecento rosa più, in aggiunta, il mazzo di chiavi nella tasca interna della borsa.
Tutummmrrrr-tutummrrr-tutumrrrr. Tum.
La pulsazione si interrompe all’improvviso.
Proprio ora che mancano poche decine di metri allo sbocco nell’ultima via, al traguardo. Eva considera l’ipotesi di chiudere i finestrini e restare lì finché la temperatura salirà così tanto da perdere conoscenza, fino a sublimare in un passaggio di stato, e quando tutto diventerà reale Eva non ci sarà più, sarà evaporata e sorvolerà le risaie tra i gracidii delle rane e nugoli vibranti di moscerini. E della minuscola non avrà più notizie e nemmeno ne potrà avere perché le nubi di vapore non sanno e non si pongono domande.
Oppure.
Eva potrebbe telefonare e chiedere aiuto, ma ciò significherebbe ammettere la sua discesa lungo le arterie grigie e che la casa l’abbia costretta ad affrontare, con solo un mazzo di chiavi tintinnante, il bagliore da cui le lenti scure degli occhiali non riescono a proteggerla; ammettere che la minuscola sta viaggiando in direzione opposta in una capsula di plexiglass e che non ci sarà modo di avere sue notizie e che peraltro lei non desidera averne, preferendo di gran lunga scivolare sul parquet sollevata dal peso della minuscola e poi schiudere la propria crisalide di lenzuola, uscire e discendere la collina sotto l’ombra dei castagni senza avvisare nessuno, senza telefonare a nessuno. Senza far caso alla pulsazione regolare.
Tum.
La morte della pulsazione coincide, per un caso fortuito, con il luogo deputato ad accogliere ogni trapasso, giacché avviene esattamente in corrispondenza degli ingressi delle camere mortuarie che spalancano le loro bocche quadrate sul retro del Grande Ospedale.
Il Grande Ospedale sta a una via di distanza dal Piccolo Ospedale (anche detto Ospedale dei piccoli) che è là dove Eva sta andando e dove sarebbe andata comunque, anche nell’eventualità in cui la minuscola avesse deciso di non precipitare nel tubo in direzione della balena. In quel caso la minuscola sarebbe rimasta dentro Eva ed Eva avrebbe dovuto trovare un modo per farla uscire, a un certo punto, prima o dopo, ma dopo quanto sarebbe dipeso anche dal fatto che Eva decidesse di condividerne o meno l’esistenza. Esistenza che Eva non poteva fare a meno di identificare con la propria scomparsa.
Così Eva, che finora ha scelto di nascondere la minuscola dentro sé stessa, non è capace di fare altro se non ristagnare nel proprio silenzio. Apre la portiera e scende. Lì intorno non c’è nessuno. Sopra l’asfalto è sospeso uno strato mobile di calore tremolante. Eva appoggia la schiena alla lamiera rosa e calda e non guarda mentre la luce feroce asciuga la bava umida che è l’ultima impronta della minuscola; sente con piacere che la stretta sotto l’ombelico è più morbida e che ai lati della strada non ci sono letti sfatti con lenzuola morbide che sanno di crema idratante e sudore in cui desiderare di tornare a imbozzolarsi. Se sapesse come strizzare le palpebre potrebbe sollevare con due dita le lenti scure, appoggiare la montatura di tartaruga come un diadema tra le ciocche di capelli e mettere a fuoco un profilo umano a cui rivolgere un gesto qualsiasi. Allora l’estate entrerebbe nei suoi polmoni chiusi e lei piangerebbe e tutto, intorno a lei, inizierebbe a muoversi e dalle macchine in fila, bloccate in quell’imbuto a senso unico dietro alla sua Cinquecento rosa, davanti alle camere mortuarie del Grande Ospedale, scenderebbero persone urlanti, persone con una ragione per andare di fretta: un appuntamento, un compito, un lavoro. E quelle persone pretenderebbero da lei lo spostamento immediato della macchina dalla strada, pur non avendo lei idea di come si potrebbe spostare una macchina la cui pulsazione vitale si è interrotta così improvvisamente.
Tum.
A meno che l’auto non potesse precipitare in un tombino, incastonata in una capsula di plexiglass, e procedere dal tombino originario a un successivo tubo e poi in un tubo più grande e in un altro e un altro ancora. Fino al mare, pensò Eva. Impossibile. La Cinquecento è una macchina piccola ma non abbastanza piccola da passare tra le maglie del Grande Colino. Si incaglierebbe assai prima, tra il ghiaione del fondo, mischiata a legni grigi e altri rottami. Diventerebbe ruggine e non plancton, scheletro e non balena.
Ma.
Potrebbe andare così.
Eva potrebbe dire addio alla macchina, di colpo silenziosa e improvvisamente ferma e poi precipitata, e prendere un autobus. E andare in un posto che non è casa sua ma potrebbe presto diventarlo. Un posto dove ci sarebbe un fiume ghiacciato su cui pattinare e pavimenti di pietra e aria gelata. In ogni caso sarebbe meglio che raccontare della minuscola. Che ammetterne l’esistenza prima e la scomparsa poi.
Se andasse così sarebbe sostenibile.
Invece va che quattro uomini nerovestiti di tutto punto, becchini professionisti in pausa tra un funerale e l’altro, con passi simultanei e facce allenate a una seria e distaccata compassione, si accorgono del silenzio improvviso, dello sgomento di Eva e della sua apnea mentre la schiena frigge contro la lamiera e le braccia sono appese lungo i fianchi. E hanno la sensazione che le labbra serrate di Eva e le sue braccia appese lungo i fianchi non siano un buon segno e che non lo sia nemmeno il colorito bluastro che screzia il suo decolleté e che invece è soltanto il riflesso lucido del sudore più due gocce di inchiostro di penna a sfera che Eva ha trasferito toccandosi il petto con la punta delle dita. E per evitare il peggio – ma senza panico – con gesti fluidi e calmi scostano Eva e la posano sul marciapiede nell’ombra scura di un balcone, afferrano ai quattro angoli i paraurti della piccola automobile, la sollevano incredibilmente in alto, fin sopra le spalle, e muovendosi in una coreografia simmetrica e perfetta la inseriscono in un parcheggio appena poco più avanti, uno spazio ritagliato su misura, un loculo quadrato disegnato dalla striscia bianca della segnaletica orizzontale. Lì la macchina potrebbe riposare per sempre e venire dimenticata, sepolta sotto strati sovrapposti di polveri sottili.
Quando le sospensioni cigolano per l’ultima volta, nell’istante in cui l’auto viene depositata a terra, Eva schiude le labbra e l’aria rovente entra nella sua cassa toracica e insieme vi entra anche l’ombra scura del balcone. Come un grido.
Perché le grida silenziose entrano nei corpi invece di uscire.
Gli uomini nerovestiti salutano con un cenno del capo. Eva galleggia. Anche la minuscola.
In occasione del centenario della nascita dello scrittore, la Fondazione Arnaldo Pomodoro pubblica un inedito di Francesco Leonetti (Il vecchio col bastone, a cura di Marco Rustioni, Milano, 2024, euro 10). Il volume è aperto da un’introduzione del curatore, si chiude con una postfazione dell’antropologa Aurora Donzelli, nipote di Leonetti, e riporta una copia fotostatica del quaderno originale da cui è stato tratto l’inedito. Il testo è un racconto incompleto suddiviso in tre paragrafi del quale abbiamo un io narrante di età avanzata, che dovrebbe rispondere al nome di Franco Bissone, il quale si rivolge a un amico coetaneo di nome Leonetti per interpretare la realtà in cui viviamo e quest’ultimo gli fa dono di alcune poesie dedicate a Eleonora Fiorani, che effettivamente seguono e si inseriscono nella terza sezione del testo.
Tema principale della scrittura è lo stretto legame tra lo sfacelo del corpo e quello della società o piuttosto del mondo, con le movenze stilistiche tipiche dell’idioletto leonettiano, nel quale una sintassi ipotattica che descrive il quotidiano straniandolo viene illuminata da improvvise formule di rigorosa definizione o, addirittura, autopercezione teorica. Del resto questa stretta connessione tra dato biografico e riflessione teorica generale è una delle cifre anche delle opere più importanti di narrativa e poesia. Qui è evidente il tema ecologico: la sconfitta del progetto rivoluzionario della modernità non è semplicemente la sconfitta di un modello società, ma della specie stessa (“rendiamoci conto di tutti gli aspetti allegri, vitali, solo suoi ( del mondo), pur se siamo falliti come specie: si va in auto, non coi piedi;” p.37). Analogamente nelle poesie domina il rimpianto per l’albero (“Perché non sono un albero nel bosco?”, p.39) e l’orrore per la città, ma anche tale contrapposizione è sempre declinata leonettianamente con rigore materialistico, senza nessuna indulgenza all’idillio.
Marco Rustioni colloca il testo in questione, con argomenti inoppugnabili, nel 2007 circa quindi durante l’ultima fase della vita dell’artista che è mancato nel 2017 e ne riscontra affinità con la produzione di poco anteriore, in particolare “l’invariante del sogno” volta a “stabilire un contatto con la dimensione storico-sociale” e “la natura miscellanea ed enciclopedica della narrazione, che appare destinata più a una funzione paradigmatica che finzionale”. Di grande interesse anche le considerazioni che Aurora Donzelli rivolge alla scelta di riprodurre fotostaticamente i quaderni di Leonetti, che diventano una riproduzione almeno parziale del “ritmo del suo pensiero”, e in qualche modo ci impongono una riflessione di fronte allo scarto tra materialità dell’atto scrittorio e sua normalizzazione tipografica, divenuta seconda natura.
Più in generale questo volume ha il merito di riproporre alla nostra attenzione la figura di uno dei più interessanti e radicali interpreti del secondo Novecento, che ha rappresentato un modo di intendere la funzione intellettuale e letteraria come pungolo al dibattito culturale e alle critica sociale e politica; del resto quando la critica parla di Leonetti come l’uomo delle riviste (da Officina negli anni Cinquanta fino a Campo negli anni Novanta), allude con altre parole alla realizzazione tramite la sua lunga esperienza di redattore di riviste di questa prassi, che diventa parte concreta della sua opera letteraria. Il fatto che oggi una tale traiettoria di vita e di opere, se paragonata alle prescrizioni standard odierne per l’attività letteraria, possa sembrare esotica, è una misura eloquente della provincializzazione della nostra cultura.
Vorrei porgli questa domanda, ma dubito avrebbe una risposta da darmi. No, una risposta probabilmente l’avrebbe, ma sarebbe un’invenzione, un crudele gioco di immaginazione. Lui non ha mai tagliato una testa, ne sono sicuro. Come potrei essere seduto al tavolo con un tagliatore di teste? Così voglio credere, ma chi può assicurarmi del contrario?
La sua è una storia inventata, almeno in parte, come tutte quelle che raccolgo. Anche la mia lo è, ne sono cosciente. Tutti raccontiamo qualcosa che non ci appartiene, ricordi di altri, parenti, amici o perfetti sconosciuti incontrati sul tram o scoperti nei libri. Ricordi così limpidi e intensi da offuscare i nostri. Raccogliamo emozioni con un setaccio bucherellato e le attacchiamo malamente una all’altra come pezzi di plastilina rinsecchiti illudendoci di farne dei ricordi personali. Qual è la parte inventata e qual è quella vera?
Però la testa tagliata.
Non posso fare a meno di pensare a quelle tre teste allineate sul terrazzo del carcere a pochi metri di distanza da dove si trovava la mia, di testa, con annesso il corpo, appena alcuni giorni prima. Tre teste. Sono allineate in bella vista come fossero torte a un concorso di cucina. Tre terrificanti torte tonde.
Il viso, gli occhi, la bocca, non c’è bisogno di altro. Il resto è accessorio. E’ sparso sul terrazzo, un carnaio alla rinfusa. Due braccia, o spezzoni di braccia. Una scarpa. Una scarpa da trekking alta, di piede destro, come se ne vedono tante sui marciapiedi di Caracas, di gente frettolosa e distante. La scarpa è macchiata di sangue e contiene un piede attaccato a un pezzo di tibia. Accanto alla scarpa col piede dentro c’è un corpo, un corpo morto, ovviamente, quasi intero. Quasi. La testa è altrove. E sangue ovunque. Ma non attorno alle teste. Quelle no. Sono esposte in un angolo. Ripulite.
Gli occhi di tutte e tre le teste sono semichiusi. In una, la prima a destra, un viso tozzo, tondo e carnoso con capelli radi e ciglia folte, mi pare di scorgere uno sguardo di rassegnazione. E’ solo un’impressione. Che sguardo è possibile in una testa mozzata? Cosa avranno visto gli occhi in quell’attimo che hanno smesso di vedere? Forse hanno visto il vuoto, magari un soffitto, perché chi ha tagliato la testa agiva da dietro e voleva evitare di essere visto, come in quel quadro di Caravaggio, non quello con la testa del pittore, un altro, memoria aiutami tu.
E’ stato un machete vero o un coltellaccio ottenuto dalle gambe del letto di ferro affilato sul muro? Probabilmente le teste sono state tagliate dopo che gli uomini erano stati uccisi. Chi le ha allineate per fotografarle sapeva che qualcuno, un me qualsiasi, un me sconvolto, vedendo la foto ne sarebbe stato turbato al punto da non poter pensare ad altro e si sarebbe fatto molte domande.
Come si fa a tagliare una testa? Non come avviene il taglio, un atto di banale macelleria di cui non sono completamente ignaro, colmo dei ricordi di polli, tacchini e maiali visti uccidere a casa dei nonni durante la mia lontana infanzia. No, mi chiedo, perché avviene il taglio? Cosa spinge qualcuno a tagliare una testa, e ad esporla alla macchina fotografica, invece di accontentarsi della semplice, banale, uccisione di un essere umano?
La testa a sinistra è quella di un ragazzo, un giovane uomo coi capelli rasati e i tratti meticci. Ha un taglio profondo sulla fronte, poco sotto l’attaccatura dei capelli. Il taglio sembra di plastica perché è intonso come un marchio disegnato. Dove è finito il sangue? Comincio a ragionare come se tutto questo fosse normale e una testa mozzata potesse essere analizzata come si fa con un’immagine tratta da un film. O un’opera d’arte.
Il taglio mi ricorda un quadro. Di chi era? La mia memoria è fratta. Lucio Fontana, ecco, era lui. Il taglio di Lucio Fontana visto al museo di arte contemporanea, proprio quello di Caracas, questa mia città transeunte. Ecco cosa mi ricorda il taglio sulla fronte di quel ragazzo, anzi della sua testa. Un taglio chiaro, preciso, pulito. Ma quelli di Fontana erano tagli fatti sulla tela di quadri destinati a un museo o una galleria d’arte, e chi li osserva oggi si chiede cosa vogliono dire, perché li avrà fatti. Questo taglio è fatto sulla carne, su di un corpo spezzato, svuotato, spento. Eppure le domande per me sono le stesse. Cosa vorrà dire, perché l’hanno fatto.
Le tre teste ora, nella foto, sono solo un ornamento sulla terrazza che fa da tetto al carcere. Anche se non si trovano più lì e sono state portate altrove, la foto le rende parte integrante di quello spazio. Dopo quella foto non c’è più una terrazza senza teste. Non esiste più quel luogo che io ho visitato in incognito, ignaro di quello che vi sarebbe accaduto poco dopo, quando la rivolta sarebbe scoppiata.
“Copia queste foto nel tuo computer e poi ridammi la pendrive, è l’unica che ho”. Così mi disse il mio interlocutore al nostro primo incontro. E ora lo rivedo per restituirgli la pendrive. Mi sembra coli sangue, la pendrive. Le mie mani sono sporche, sporche di sangue. Mi sento stupido, ho paura di me stesso.
L. parla come se volesse aiutarmi, aiutarmi a capire in che luogo sono finito. Ha un modo nervoso di raccontare e raccontarsi. Io non so cosa vuole in cambio da me, credo sia solo bisogno di attenzione, la sua, o forse la ricerca di un contatto che potrebbe servirgli, prima o poi. Ho imparato dal prof K che in questa città senza contatti sei perduto. Io raccolgo storie e le scrivo, finché me lo permettono. I contatti sono importanti anche per me e L. è un contatto prezioso perché mi porta dentro alla storia che più di altre cerco di ca(r)pire, quella del senso del mio trovarmi in questo luogo, così diverso da ogni altro in cui ho messo piede prima.
L. ha poco più di quarant’anni, gran parte dei quali li ha trascorsi in Italia, dove ha dei lembi di famiglia con i quali fatica a mantenersi in contatto. Un fisico snello e solido, il viso affusolato, i tratti scavati abbrustoliti dal sole. Con la cravatta e un vestito adatto potrebbe reggere la parte del direttore di banca, una piccola filiale di un piccolo centro di provincia del centro-Italia. Da alcuni anni la sua vita è il carcere in Venezuela, da poco è stato inserito in un regime di semi-libertà che gli permette di lavorare fuori per alcune ore al giorno e di rientrare solo per dormire. Il carcere non è un luogo separato dalla vita reale. E’ un crocevia di contraddizioni dove il fuori e il dentro si confondono negli spazi vissuti e nelle storie individuali dei detenuti. La violenza del carcere è solo una versione lievemente amplificata di quella che anima e travolge le vite reali. E’ questo che mi tormenta. Cosa mi dicono le teste mozzate sulla mia scelta di vita? Ma è una la scelta, la mia?
“Le decapitazioni sono frequenti. Ogni rivolta in carcere, che poi rivolta magari non è ma semplice guerra tra bande per il controllo del carcere, può finire così. Le guardie non intervengono perché tutto avviene nel carcere interno, un territorio ‘auto-gestito’ dai detenuti, dalle bande. Le guardie lasciano che i detenuti si scannino, che ci sia un vincitore, perché un vincitore c’è sempre, ed è quello che rimane in vita. Quando tutto è finito, loro entrano e scattano le foto, prima che arrivino gli inquirenti. Alcune le scattano anche i vincitori e le conservano per far vedere chi comanda. Le guardie le scattano per aver qualcosa da mostrare ai colleghi che non erano in turno quel giorno, o solo per farsi grandi davanti alle donne. Vogliono far vedere che quello è veramente un carcere violento e che gli assassini sono dei veri assassini pronti a tutto e loro sono i guardiani di questo mattatoio”.
Allungo la schiena per stendere i muscoli contratti dal racconto e dalla memoria delle immagini viste sul computer alcune ore prima e fissate a lungo, troppo a lungo. Le sedie di plastica unta su cui siamo seduti da più di un’ora non sono fatte per conversazioni prolungate. Sono sedie da campeggio, come del resto i tavolini coperti malamente con una tovaglia gommata a quadretti, con macchie sparse qua e là. Il bar si chiama Inter ma non ha nulla di calcistico. Quando venne aperto probabilmente in questa zona vivevano degli immigrati italiani, ma negli anni si sono spostati altrove, in zone più “sicure” della citta, o sono rientrati in Italia. Qualcuno mi ha detto che i gestori del bar sono portoghesi, ma altri mi hanno detto di non credergli. Più d’uno mi ha detto di dubitare di tutto, sempre, è la regola per sopravvivere in questa città, ma non so se sono in grado, se sono all’altezza di questo compito. Sono nato innocente.
Dietro il banco della panetteria-bar si affollano varie giovani figure e mi paiono indistinguibili dalle migliaia che incrocio nelle strade. Se qualcosa di europeo, un’idea ingenua e balorda di alterità continentale, c’era in loro, è andato perso qualche decennio fa. Nulla è rimasto nei movimenti e negli sguardi di questi ragazzi che possa ricordarmi l’Europa.
Il tavolino è all’interno della sala ma la parete che dà sulla strada è una semplice saracinesca che è aperta. E’ sempre aperta, almeno fino alle cinque, cinque e mezza, quando il bar chiude, e con esso ogni attività nei dintorni. A quell’ora tutti spariscono rapidamente perché si avvicina il tramonto.
Sul tavolo, una birra, la mia, bevuta per metà e ormai calda, e una coca cola, quella di L.. “Non bevo alcolici durante il giorno, cerco di bere meno possibile”. Forse in lui c’è un passato di dipendenza.
“Io tra un po’ devo andare”, aggiunge tradendo una certa ansia. “Ho il rientro alle sette e prima devo passare a prendere una borsa da casa della mia donna”. Invece continuiamo a parlare e il racconto si ripete, come se ci fosse un bisogno catartico di liberarsi del vissuto e rincorrerlo a parole fosse l’unica soluzione.
Ha scontato tre anni e gliene restano altri sei, ma grazie ai contatti che ha creato fuori e dentro il carcere conta di averne abbuonati alcuni. Sogna l’estradizione in Italia, ma quella è più difficile da ottenere. Come lui, condannati per traffico di droga, ce ne sono a decine di italiani nel paese caraibico. E tutti hanno ottime ragioni per dirsi innocenti. Tutti viaggiavano per piacere o vacanza e si sono ritrovati, a loro insaputa, con qualche chilo di cocaina nella valigia.
Io credo a tutti, ho sempre creduto a tutti, fin da bambino. Il mondo adulto a cui appartengo mi vuole convincere a diffidare delle storie, soprattutto di quelle straordinarie. Eppure io non ce la faccio, continuo a credere alle persone. Chi sono io per dubitare delle loro vite? Io sono solo un umile raccoglitore di storie. Non sta a me giudicarle.
Ma le teste mozzate?
Mentre L. ripete per l’ennesima volta il racconto della sua vita io penso alle teste mozzate. Non sono invenzioni. Ho salvato le foto sul mio computer, che ora è sporco di sangue. Fisso chi me le ha date, quelle foto; la sua mano destra sfiora il bicchiere di coca cola quasi vuoto, il dito indice si avvicina al bordo, un movimento incosciente. E’ forse lo stesso dito che ha premuto il tasto della macchina fotografica sul tetto del carcere? Non oso chiederglielo. Una domanda di troppo. Fuori fa buio ed è meglio che mi avvii verso casa.