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Da “Spostamenti”

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[Pubblico alcuni testi tratti dal volume Spostamenti di Carlo Sperduti (Tic edizioni, 2024). Oltre ad essere autore, Sperduti è libraio, curatore della collana “glossa” per l’editore pièdimosca e editore lui stesso con la casa editrice déclic. La sua passaione sono le prose, le prose, le prose (brevi, brevissime,). a. i.]

di Carlo Sperduti

Colazione

È una soglia, coincide fortuitamente con una soglia, è di fatto entrambe le cose.

Il bar perde in media un membro del personale ogni ventotto giorni per sovrappensiero.

Non mancano tuttavia dettagliate istruzioni e otto settimane di addestramento al pensiero monofocale come da contratto standard punto 11.

Puoi vedere un cameriere allontanarsi dopo aver annotato la tua ordinazione su carta consunta. Puoi vederlo allontanarsi mentre pensi all’aggettivo consunta.

Scompare oltre il bancone oltre una porta oltre il bancone. Non ricompare. Il motivo: ha oltrepassato la soglia oltrepassando la soglia. È finito laddove ha spostato il pensiero. Non lo sapremo. Si dirigeva in cucina. E invece.

Si procede all’inserimento dell’annuncio sulle principali piattaforme: cercasi personale di sala.

Si convoca la squadra assorbente per fortificare la protezione e proteggere la fortificazione, limitare le perdite, contrarre la soglia, avversare la voglia: che ti prende andando a controllare mentre pensi al verbo esperire e nel bosco eterno corre a mezz’aria il pulviscolo di una paura che non ricordavi fino a un ordine fa e che ora non vedi arrivare a tutta velocità fra piccoli crolli di corteccia e altissimi tronchi cerebrali: ce l’hai già negli occhi e non la vedi, non la vedrai.

*

Ospiti

Mangi una cosa se ti ostacola. Per questo il cibo è il nemico. Un tuo sillogismo all’indietro. Ora però non vedi la cosa in terrazzo­. Il tuo cotone si è impigliato a mezz’aria. Hai tirato il filo e l’hai liberato da cosa? Esplori l’aria con le mani e percorri una superficie ruvida poi liscia poi puntuta poi in movimento. No, è una leggera espansione. Avvicini la bocca. Si addenta ma è infrangibile.

Entri ed esci di nuovo. Hai in mano il piatto di ceramica con cui non parli da giorni. Lo scagli contro il punto in cui dovrebbe esserci la cosa. Va in mille pezzi.

Per giorni inviti i tuoi amici ad assistere alla cosa, ad assisterti con la cosa. Arrivano in gruppi di due, tre, quattro. Li vedi parlottare tra loro, a volte. Cogli alcuni sguardi e componi congetture. Offri da bere senza sosta e stuzzichini. In generale ti sorridono e vestono bene. Ti fanno domande sulla casa con gergo immobiliare.

La cosa occupa metà del terrazzo, è chiaro che non si fermerà. Altri tre giorni ed è rimasto un solo accesso libero su quattro. Una sola uscita libera su quattro.

Afferri una porzione di frase da cui ricostruisci un senso: i tuoi amici ti stanno assecondando. Uno ostruisce l’entrata, l’uscita. Gli penetri la spalla destra coi denti, bloccandone i movimenti con le braccia. Riesce a liberarsi solo al terzo affondo, quando allenti la presa e dovrai pulire quel casino, gli altri sono dentro e stanno arrivando attratti dalle urla. Urla di dolore o di rabbia, ti colpisce con un pugno allo stomaco, ti mozza il fiato costringendoti a sputare il boccone e cadi a terra pulendo mentalmente quel casino. La finestra in fondo al terrazzo esplode. Sta entrando. Un’amica si fa avanti e mira alla faccia. Fai appena in tempo a interporre una mano tra i denti e il calcio. Se ne vanno di fretta parlando ad alta voce. Stavolta senti tutto. Hai quarantasei anni ed è la tua prima volta con una cosa che non vedi, cresce da fuori a dentro, fa male e dovrai pulire quel casino prima che blocchi per sempre l’entrata. L’uscita.

*

Buone maniere

Il primo episodio documentato risale al mese di ottobre del 2018: Maugeri saluta gli ultimi grammi di un arancino, in via Gisira, prima di ingerirli. Sono le 12:05.

Pranzava presto, conferma il suo compagno.

Nessun episodio degno di nota fino alla notte del 31 dicembre, occasione in cui Maugeri saluta ogni boato celebrativo. L’operazione copre alcune ore, inoltrandosi nella mattinata del primo gennaio. Il risultato è un’infiammazione alla gola della durata di una settimana.

Per alcuni giorni, Maugeri sembra condurre una vita ordinaria, ma nel pomeriggio del 17 gennaio 2019 si espone agli sguardi di numerosi testimoni su via Etnea: ne percorre un buon tratto salutando ogni passante, vetrina, cabina telefonica, striscia pedonale, cartello stradale, taxi, trenino, bicicletta, dissuasore, cacca di cane. Sviene appena oltre il cancello dell’Orto Botanico, salutando la grande palma alla sua destra. Riporta ferite di poco conto al viso e alle ginocchia.

Da allora l’esistenza di Maugeri s’instrada rapidamente verso la reclusione.

Prende a salutare regolarmente, afferma il suo compagno, ogni cosa in ogni stanza, a ogni incontro, ma è la fase successiva la più complessa.

Da marzo ad agosto 2021 Maugeri rende oggetto di saluto, nell’ordine: le ore, le sensazioni, i dolori, le emozioni, i minuti, le temperature, i suoni, i ricordi, le parole altrui, le proprie, i secondi.

Questa frenetica attività ne sfibra il fisico al punto che, negli ultimi mesi, dorme diciotto ore al giorno. Saluta nelle restanti sei, ormai senza spostarsi dal letto. Si rammarica di non poter salutare le parole con cui saluta le parole.

Mantenere regolarmente idratato e nutrito il corpo di Maugeri diviene impossibile. Tuttavia non arriva a morire di fame o di sete. Si barrica nella sua stanza quando capisce che non potrebbe salutarsi i pensieri, cioè a dire i saluti. Dura una notte appena. Alle 5:12 del 6 novembre 2021, nel suo appartamento di via Transito, Maugeri toglie il saluto.

 *

Come un dovere

Un chilometro di statale: tredici case, un bar, un alimentari, un tabaccaio, una farmacia, una chiesa. Lo chiamano centro abitato. Sono tutti d’accordo con Franco.

Il fatto risale al 1987: un’alba d’autunno.

Il primo rintocco delle sette, nel ricordo collettivo, coprirà il colpo di pistola nella sesta casa a destra contando da nord. Per questo, il cadavere verrà scoperto molte ore dopo. La casa resterà vuota. Un lento diroccarsi tra sguardi stornati. Circoleranno battute sul tema delle campane a morto. Tutti le faranno, nessuno ne riderà. Continueranno a circolare, come un dovere.

Fino al 2001, nessun episodio degno di nota.

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto di quell’anno, Franco si sveglierà appena dopo le sei e trenta, convinto che la campana delle sette debba coincidere con un altro colpo. Nei successivi venti minuti lo si vedrà correre in undici case. La campana delle sette, in questo modo, non porterà decessi. Ripeterà l’operazione ogni mattina.

Non ci si uccide dopo aver ricevuto una visita: una questione di forma.

Tre settimane dopo, sarà persuaso del fatto che ogni campana può essere fatale. Inizierà a visitare le case ogni ora, prima dei rintocchi. Diverrà estenuante.

Si organizzeranno dei turni. Ognuno farà in modo che tutti gli altri non si ammazzino. Col tempo, l’ingranaggio diverrà perfetto.

Nella primavera del 2018 una donna tenterà di acquistare la sesta casa a destra contando da nord. Glielo impediranno, fisicamente.

La selezione muta delle forme

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di Matteo Camerini

 

«Una conchiglia sta per un orecchio: è una Metafora. Un ammasso di pesci sta per l’Acqua (dove vivono): è una Metonimia. Il Fuoco diventa una testa fiammeggiante: è un’Allegoria. Enumerare frutti, pesche, pere, ciliegie, fragole, spighe per lasciare intendere l’Estate: è un’Allusione. […]»

Roland Barthes, Arcimboldo ou Rhétoriqueur et magicien

 

 

Il feto affiorò dalla terra umida alle radici dell’albero; era la fine di febbraio. La scorza scura del mandorlo, come roccia annerita dal fuoco, faceva da contrasto ai fiori rosacei che annunciavano la loro esatta e inesistente stagione. Il vento taceva sul terriccio impregnato di pioggia che smaltiva al vertice opposto del sole la sua sbornia di acqua. Tutt’intorno mille occhi guardavano ed erano visti.

 

In latino libero e libro si dicono con lo stesso nome e con lo stesso suono: liber, la scorza interna dell’albero, la sua intima pelle, la sua parte più nuova. Il giovane non sta in superficie, ma vi nasce all’interno. Ciò vi è fuori è più antico. Il margine è il nuovo che invecchia, il solido condensa dell’aria. La libertà essere sciolti, non sotto-porsi nel fuori, nascere dentro. Essere un libro lo scrivere.

 

Il feto era rannicchiato su se stesso come un crostaceo dall’addome molle e ricurvo. I suoi occhi invisibili ancora incapaci nel dire la luce. Aveva le dimensioni di un pugno. Scavando gentili tracce sulla terra, passeggiò sino ai piedi del mandorlo. Rimase lì per qualche minima frazione di eterno, poi, tutt’a un tratto, vi posò le zampette rugose.

 

Secondo il filosofo Bento d’Epinoza, finché una cosa è considerata solo in se stessa, senza alcun rapporto ad altro, essa non contiene in sé il proprio limite. Si afferma e non si nega. La sua essenza, cioè, non ha fine. Nulla res nisi a causa externa potest destrui. Nessuna cosa è un confine. Il limite viene da altrove.

 

Il feto cominciò ad arrampicarsi sulla corteccia coi suoi piedi di calcare. Facendo presa con le dita fragili sugli incavi di spugna solida dell’albero, ne percorse la lunghezza verticale. Sulle alabarde sottili lame che dirupavano dalla centralità del tronco, altri feti stavano in vertigine. Alcuni brucavano il nettare-latte spumoso dal ventre di fiori biancastri e immaturi. Altri ancora dormivano, sogni di volo. Il feto arrivò sul suo ramo. Lì dove vi era un suo simile, curvo, ad attenderlo.

 

Corteccia.

/cor·téc·cia/

 

  1. Parte periferica del fusto e della radice delle piante, distinta in c. primaria e secondaria: la prima costituita dai tessuti che stanno fra l’epidermide e l’endodermide, la seconda dai tessuti (cribro, parenchima, ecc.) originati dal cambio verso l’esterno dell’organo. 2. In anatomia: corteccia cerebrale, la sostanza grigia che forma lo strato superficiale degli emisferi cerebrali, costituita essenzialmente da cellule nervose.

 

Il feto tirò fuori il pungiglione dal coccige. Il sottile arnese metallico seguì la curva della sua spina dorsale. Superò l’arco della testa inclinando, poi, la punta verso il secondo feto, che lo fronteggiava di spalle. Agli occhi che guardavano sembrò che stesse per attaccare quel mostro delicato, suo simile, suo amico. La schiena indifesa del feto era pronta ad accogliere il morso. La sua schiena era liscia come la pelle di un bambino.

 

Teratogeno (dal greco terato-genesis, “generazione di mostri”): sostanza che provoca teratogenesi, ossia malformazioni del feto nel grembo materno. Esempi di teratogenesi sono, per elencarne alcuni, focomelia (malformazione degli arti), labbro leporino, palatoschisi (fenditura nel palato), iperdattilia (soprannumero delle dita), spina bifida (malformazione della spina dorsale), ectromelia (assenza di uno o più arti), etc. In botanica, la teratologia indaga le implicazioni teoriche di campioni anormali. Ad esempio, la scoperta di fiori anomali: fiori con foglie al posto dei petali.

 

Il feto posò il pungiglione sulla pelle del secondo con un gesto soffice. Come un pelo che si posa a terra. Cominciò a praticare piccoli fori sulla superficie della schiena, tesa come una vela gonfia. Gli incise sulla pelle segni che sembravano lettere. Lo tatuò di punti. Le scrisse sulla pelle merhaq.

 

Ai primi di maggio del 1704, nella sua lettera a Lady Masham, il matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz affermò che la sua intera opera potesse essere riassunta con due massime tratte dal teatro italiano, in particolare del Tasso: Tutto è come qui e Per variar natura è bella. Nonostante le due massime potessero sembrare contraddittorie – tutto è ovunque identico; la bellezza proviene dalla varietà di forme – il pensatore di Lipsia sostenne che proprio in questa apparente opposizione risiedesse l’«armonia prestabilita», la perfezione dell’atto divino.

 

Il feto terminò il suo attento gioco. Alla fine del processo, l’intervistatore giunse a porre le sue questioni al feto. I mille occhi volevano sapere. Com’era dunque possibile tutto ciò? Dove nasceva quell’arte, quel gesto, quella così precisa sicurezza? Dove aveva appreso, il feto, a fare quelle cose? Su quali studi e quali scuole di pensiero si basava quella muta selezione delle forme? Il feto tacque. Poi parlò e disse. «Legge semicaspica del nulla, secco grillo da yerare/ Rela kati un susseguivi che rigàsa: punto giàvi, giàvi, giàvi. / Omnia la scommessa è di-scrizione / Sopruso a spoglia brama di vagare / L’attesa non è più rovistacose / Ora ci si stringe come palmi sotterrati».

 

Lo scrittore

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di Mauro Baldrati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scrittore era seduto alla tastiera da più di quattro ore.
Fisicamente si sentiva imploso, le gambe intorpidite, stretto in una morsa di immobilità, come se il sangue scorresse con difficoltà nelle vene irrigidite. Ma non se ne occupava. Era un prezzo da pagare. Più tardi, quando il flusso di scrittura avrebbe iniziato il suo calo naturale, sarebbe uscito per una passeggiata. I muscoli avrebbero ripreso vigore, vascolarizzati dall’ossigeno che scorreva agile e purificante. Era meraviglioso camminare nel parco quando il flusso aveva fatto il suo corso. Si sentiva parte del mondo, in armonia con la natura e con se stesso. Era in pace, aveva dato, con generosità.
Intanto le dita scorrevano leggere sulla tastiera. Era tattile il flusso, come una corrente alternata che viaggiava lungo un frattale speciale di energia creativa. E questa energia, dolce e brutale, rabbiosa e tenace, sgorgava direttamente da quell’abisso misterioso e imprevedibile chiamato anima.
Il testo usciva scorrevole e deciso, lui doveva assecondarlo, guidarlo. Aveva in mente quella frase di Michelangelo: il Mosè era già nel blocco di marmo, lui doveva solo liberarlo dalle scorie, togliere il superfluo.
Così era il suo romanzo. Si era formato autonomamente nella sua testa e nel suo cuore. Era il mistero della creazione. Gli sembrava addirittura che viaggiasse per conto suo, mentre i personaggi agivano, parlavano, ridevano e piangevano in un multiverso parallelo. Avevano solo bisogno che qualcuno trasformasse la loro voce segreta in scrittura, portandola alla luce da quell’antro oscuro e selvaggio.
Qualcuno. Lui. Lo scrittore.
Il suo era un romanzo che avrebbe scosso la letteratura dalle fondamenta. Una scrittura spontanea e al tempo stesso perfettamente controllata. Una lingua scavata dall’interno, spezzata, risorta. Nessuno aveva mai affrontato le dinamiche familiari con quell’approccio: un mix di affettività e di furia, di amore e odio, il viaggio pericoloso di uno straniero in un territorio inesplorato. Già immaginava le recensioni: entusiaste, con gran profusione di aggettivi, e la finale al Premio Strega. Sì, sarebbe stato il suo giusto, meritato epilogo. Finalmente gli sarebbe stato dato ciò che gli spettava, dopo anni di oscurità, di gavetta frustrante, mentre i mediocri scribacchini specializzati in piaggeria si esibivano supponenti in un successo drogato nei teatrini delle mafie editoriali.
Decine, centinaia di scrittori che languivano nei sottoboschi delle solite compagnie di giro gli sarebbero stati grati. Finalmente veniva premiato il vero talento. E lui avrebbe parlato chiaro nel discorso di premiazione allo Strega. C’era bisogno di libertà, e di coraggio in quel mondo così limitato e pavido. Intanto tutti quegli editori distratti che non avevano mai risposto alle sue mail l’avrebbero ascoltato con lo sguardo basso. Non sarebbe stato aggressivo o violento; no, avrebbe utilizzato una forma di cortesia spiazzante, mentre metteva in ridicolo quella finta letteratura fatta di libri tutti uguali e ruffiani.
Una rivoluzione. Una rivoluzione artistica, questo avrebbe innescato, finalmente.
D’un tratto nel suo monolocale, vuoto e silenzioso a parte la musica classica a basso volume con la quale era uso scrivere, entrò un suono potente, una cacofonia di grida, tamburi e fischietti. Sorpreso e un po’ contrariato si alzò, cercando di sciogliere le giunture intorpidite, e andò alla finestra. Laggiù, nello slargo che si apriva in fondo alla via Manzoni, stava passando un corteo. Persone camminavano lentamente reggendo bandiere, alcuni striscioni, mentre quella specie di ruggito si alzava e si espandeva il tutte le direzioni. Si sentì improvvisamente stanco. Chi erano quelle persone, cosa chiedevano, perché erano così rumorose? Era incapace di elaborare un pensiero, di cercare una spiegazione. Quel mondo là fuori portava con sé una forma di volgarità che confliggeva col suo mondo, un macrocosmo limitato monotematico che minacciava il suo microcosmo, libero di volare in tutte le direzioni.
Non gli interessava criticare, che ognuno seguisse la propria strada. Quella moltitudine non contava nulla, non significava nulla per lui. Non era interessato al suo linguaggio povero, alla sua mancanza di ricerca estetica.
Si staccò dalla finestra, con una sorta di fatica. Si sentiva disturbato, addirittura minacciato da quell’intrusione. Non sapeva nulla di politica. La politica gli causava una strana reazione, una specie di paura. Era greve, faticosa. Era antiartisitica. A/creativa. E quell’ossessione di cambiare il mondo, di “opporsi”. Nulla cambiava. Non serviva a nulla opporsi. In ogni caso non lo interessava. Non aveva abbastanza spazio mentale a disposizione.
Tornò alla tastiera, piuttosto scombussolato. Gli sembrava che il flusso si fosse interrotto, e questo gli causava rabbia. Inspirò a fondo. Rilesse il testo che aveva appena scritto. Subito rientrò in connessione. Ritrovò i personaggi, sua sorella, alla quale stava lavorando con accanimento. Un personaggio con mille sfaccettature, pericoloso da gestire perché poteva sfuggire di mano e diventare improvvisamente prevedibile. Il suo narratore (e per l’ennesima volta si chiese: era lui il narratore? Sorrise. Durante il discorso allo Strega avrebbe parlato del problema del narratore, con parole nuove, non codificate) si rapportava con lei in modo complesso, sofferto, aggressivo, tenero, colpevole, sfacciato, peccaminoso.
Poi lo scoppio, e il tremito. Il pavimento tremò, con un ruggito cavernoso.
Un terremoto? Avvertì anche uno strano odore aspro, malevolo.
Si alzò di nuovo e andò alla finestra. Il corteo era passato, non si sentivano più i fischietti e le grida. Ma l’aria era strana. Sembrava odorare di bruciato.
Guardò verso l’orizzonte: al di sopra dello skyline dei palazzi che lo circondavano, laggiù, dove iniziava la periferia, coi capannoni, i piazzali, stava accadendo qualcosa. Una forma violacea, convulsa, stava emergendo dalla terra, e cresceva, assumeva le sembianze di un enorme fungo. Intorno gli edifici erano scomparsi, disintegrati sembrava. O vaporizzati.
Sbalordito, confuso, stranito, cercò di guardare meglio, aguzzando gli occhi affaticati dalla lunga fissità sui piccoli caratteri del monitor. Il fungo aumentava ancora di dimensioni. Sembrava vivo.
Un tornado. Sì, doveva essere una di quelle trombe d’aria di cui parlava spesso la televisione. Per l’emergenza climatica, dicevano. Stavano accadendo cose nuove, cose ignote. Provò un improvviso brivido di paura.
Chiuse la finestra, accertandosi che il battente fosse correttamente sigillato, lanciò un’ultima occhiata nervosa a quel fenomeno della natura impazzita e tornò alla tastiera.
Il flusso era ancora attivo, per fortuna.

(NdR: l’immagine: Louis Soutter, “Le culte”, 1942, Wikiart)

 

Visti dall’Oltre

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Di Fabrizio Centofanti

In potenza siamo molte cose: un’energia allo stato puro che tende verso una realizzazione. Ma è l’atto che ci definisce. È l’idea di progetto: chi siamo veramente? Conosciamo il nostro destino, ciò per cui siamo al mondo? Ci interessa? Lo spartiacque tra superficialità e profondità sta in questo punto. Dove trovare gli strumenti per conoscersi? Secoli di percorsi spirituali e decenni di studi sulla psiche ci stanno alle spalle: sono sufficienti? L’esperienza e la competenza altrui permettono di riconoscere l’unico e l’irripetibile, la realtà originale e non replicabile che è in noi? È evidente che, non trascurando gli strumenti messi a disposizione dalla cultura e dalla storia, occorre trovare vie che facciano procedere nella ricerca. C’è un Oltre che ci supera. Un Essere che ci contiene, al quale siamo noti. Mancasse questo, non sapremmo mai chi siamo.

La conseguenza immediata di questa consapevolezza è che mi libero dal giudizio degli altri: non sanno nulla di me. Il passo successivo è che mi libero dal mio giudizio: cosa so di me stesso? Posso capirmi solo visto dall’Oltre al quale sono noto. Per questo è necessario un anghelos, un messaggero, qualcuno che mi dia notizie dalla patria di cui sono cittadino. Notizie buone, perché scalzano le false certezze accumulate nel tempo, a causa dei giudizi degli altri e di me stesso. Non possiamo vivere senza questo vangelo, letteralmente buona notizia. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci informi su ciò che veramente siamo, sull’abissale distanza da quello che crediamo di essere.

Casa infranta

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di Matteo Quaglia

A volte, io e Marina avevamo la sensazione di trovarci nel centro di una pozzanghera durante una giornata di pioggia battente; era piacevole; spesso però sopravveniva l’idea che la pozzanghera potesse trasformarsi in un lago o perfino in un oceano, e allora tutto si perdeva o farei meglio a dire si annacquava, anche e soprattutto le migliori intenzioni che ci avevano animato nel momento in cui avevamo deciso di andare a convivere nel vecchio palazzo che fino a qualche tempo prima avevamo potuto solo ammirare da lontano. Allora, capitava che io e Marina ci stringessimo sotto le coperte, soprattutto se fuori era buio e il lampione appeso tra il nostro palazzo e quello di fronte ondeggiava al vento proiettando ombre ballerine sul marciapiede. Ombre di spettri invisibili, di macchine transitate di lì chissà quanto tempo prima. Sotto le coperte condividevamo una sigaretta ai chiodi di garofano, facendo attenzione a non bruciare la casa. Dopo di che, Marina posava la fronte sul mio petto, io le carezzavo i capelli, a volte glieli stringevo troppo forte, finché lei si addormentava. Se non si addormentava, mi mordeva, poco sopra il capezzolo, fino a farmi sanguinare.

Ma per lo più la convivenza era tranquilla.

L’appartamento ci piaceva molto. Era spazioso — in sostanza erano due appartamenti collegati; Marina si sorprendeva ogni qual volta intuiva che nel soggiorno avremmo potuto organizzare una festa da ballo; l’avevamo portato via per pochi soldi partecipando a un’asta giudiziaria, il prezzo sborsato avrebbe dovuto suggerire spazi angusti e un certo decoro, invece la casa era grande e barocca e decadente, il covo perfetto per uno stormo di pipistrelli. I precedenti proprietari, o detto altrimenti, quelli a cui avevamo portato via la casa, avevano nascosto una lettera dietro un quadro sbilenco, una lettera indirizzata a noi; Marina l’aveva trovata quasi subito, ossia dopo pochi giorni da che ci eravamo insinuati nell’appartamento, e l’aveva bruciata nel camino dello studio (c’era perfino un caminetto, sì). Quando le avevo chiesto di parlarmi del contenuto della lettera, Marina aveva risposto di non essersi data la pena di leggerla. Di certo, doveva trattarsi di una maledizione, o di un avvertimento, o di qualcosa di troppo triste per essere sopportato in quella fase della nostra vita. Come darle torto.

Oltre a essere spazioso, l’appartamento cadeva a pezzi. Avevamo dovuto investire un certo capitale per ristrutturarlo — soldi prestati dai nostri genitori, in uno slancio di benevolenza. L’impresa di costruzioni aveva lavorato alla svelta. Il capo operaio ci aveva provato con Marina; ero stato costretto a minacciarlo con un cacciavite (il fatto era accaduto a lavori quasi ultimati, avevo approfittato di un attimo in cui Marina esaminava lo spazio dove avremmo posizionato la scarpiera, e dunque non aveva visto. In ogni caso, non avrebbe apprezzato il mio slancio di gelosia; mi avrebbe morso ancora più forte di come già faceva). Dopo tale episodio, i lavori erano stati sbrigati con una celerità inusitata; avevamo perfino spuntato un piccolo sconto sul costo della manodopera.

Io e Marina ci abituammo a vivere lì dentro nonostante lo spazio sprecato, nonostante le ristrutturazioni avessero restituito un’idea di appartamento molto lontana da quella che avevamo cullato nelle lunghe giornate trascorse nell’attesa che il tribunale formalizzasse il passaggio di proprietà. In quel periodo stavo litigando con dei racconti di Giorgio Falco e mi ero stupito nel trovarmi a leggere la storia di una famiglia a cui avevano portato via tutto, anche la casa. Era stato come se avessimo comprato proprio l’appartamento della coppia di quel racconto di Falco; mi ero convinto che le cose stessero in quel modo, che, insomma, la realtà avesse iniziato a traballare, come quando fuori fa troppo caldo e gli oggetti perdono i loro contorni, tutto si rovescia e distinguere i pensieri dalle preoccupazioni diviene materia per rabdomanti.

Oltre a questo, posso dire che io e Marina uscimmo senza graffi dal periodo del trasloco, e pure da quello del post trasloco (in genere, il più duro da affrontare se non si hanno figli da sgridare o vicini con cui fare la guerra — il che, a ben vedere, è quasi la stessa cosa); la faccenda iniziò a mettersi male solo più tardi, quando Marina si appassionò alla letteratura sudamericana, e in breve tempo, anzi brevissimo (calcolai che nel giro di quattro mesi lesse tutto ciò che c’era da leggere di Borges, una buona metà di Sabato e Soriano, e abbandonò prima della metà tre quarti della produzione letteraria di Arlt), Marina si innamorò di Cortazar fino al punto di chiedermi in maniera a dire il vero fin troppo esasperante di lasciarmi crescere barba e capelli, e se possibile, di crescere io stesso di una decina di centimetri, cosa tutt’altro che semplice visto e considerato che ormai avevo concluso la fase dello sviluppo da quattordici anni.

La prima volta in cui mi rivolse la sua richiesta ci trovavamo a tavola. Stavamo bevendo del pinot grigio, la cena era in forno, la bottiglia già mezza vuota, le chiacchiere latitavano. Marina teneva sulle gambe una copia di Rayuela, rovesciata in un frangente indeterminato della storia. Di punto in bianco, Marina disse che sarebbe stato molto bello se mi fossi lasciato crescere la barba; ma non come talvolta facevo (si riferiva alla barba da imprenditore high-tech che sovente sfoggiavo); intendeva una barba vera, lunga, possibilmente crespa. La guardai e le chiesi che storia fosse mai quella. Dal forno iniziò a uscire del fumo (in verità si trattava di vapore — Marina stava attraversando una fase di veganesimo, cucinava esclusivamente peperoni al forno). Ripeté che una barba folta, lunga, scura (a onor del vero, disse: una barba da mangia fuoco), mi sarebbe stata bene. Poi si alzò e andò a controllare che la cucina non bruciasse. Riflettei sull’idea della barba per alcuni secondi, finché Marina tornò al suo posto; decisi di cambiare argomento. Iniziai a parlare della giornata in ufficio. Nel mio team eravamo alle prese con una serie di reclami per mala gestio connessi al fallimento di una piccola compagnia aerea — non avevo alcuna voglia di farmi crescere la barba, pensai mentre parlavo dei rischi legati ai reclami; la barba non mi sarebbe stata bene, anzi, sarei sembrato un perfetto idiota, ovvero un hipster — e proprio non sapevo come avremmo fatto a contenere l’ira dei consumatori (usai proprio quell’espressione, che cosa da sciocchi). Marina mi interruppe dicendo che oltre alla barba, avrei potuto farmi crescere anche i capelli. Una bella chioma selvaggia, disse. Dopo di che, smise di parlare. Si alzò, disse che la cena era pronta, e per quel giorno la questione morì lì.

Mi trovai di nuovo alle prese con la richiesta di Marina la sera seguente. La scena era simile a quella del giorno prima, solo che l’indomani, quando Marina fece la sua richiesta, la bottiglia di vino era già finita. Marina era rincasata tardi; in quel periodo l’ufficio la stava annientando, così lei, e dopo lavoro si era fermata a fare aperitivo con una collega di cui non ricordo il nome, forse oltre a una collega era anche un’amica, non sono mai stato bravo in queste cose. Fatto sta che dopo l’aperitivo, Marina era rincasata e aveva aperto una bottiglia di ribolla gialla. Così, ci trovammo di nuovo a tavola, il calice vuoto in mano, la sensazione che stesse per mettersi a piovere. Hai pensato a ciò che ti ho detto, chiese Marina, di punto in bianco. Risposi che non sapevo a cosa si stesse riferendo. Alla barba, rispose lei. Alla barba e ai capelli. Mi guardò negli occhi in modo intensissimo, come capitava soltanto quando facevamo l’amore i primi tempi. No, confessai, non ci ho pensato. Com’è ovvio ci avevo riflettuto, giusto quei tre quattro secondi, e avevo deciso di cassare l’idea. Mi ripeto, all’epoca non volevo affatto una barba (se solo avessi acconsentito, penso ora, magari le cose sarebbero andate diversamente). Marina fece un sorso dal calice, poi allungò la mano verso la mia, la prese, la strinse, mi guardò nuovamente e disse però pensaci, okay? Promisi che l’avrei fatto.

Quella sera la strinsi forte a me, l’afferrai per i capelli, lei mi morse, insomma, tutto il campionario di quelli che potremmo definire “i giorni di sole del mio rapporto con Marina”.

Per alcune settimane ci fu possibile esistere senza suggestioni particolari, né richieste strambe. Marina rincasava troppo stanca per mettersi a leggere o a discutere, io avevo finito il libro di Falco; vivere nell’appartamento ormai ci era divenuto familiare; insomma, per un numero di sere che non so quantificare con esattezza io e Marina ci limitammo a sdraiarci sul parquet per seguire qualche trasmissione televisiva sulle reti RAI (stavamo ancora aspettando che ci agganciassero internet, disponevamo solo di un’antenna portatile, avevamo rimandato indietro il divano perché rovinato; la vita era alquanto complessa). Durante una pausa pubblicitaria, Marina passò la sua mano sulla mia faccia e disse che a quanto pareva non ero intenzionato a farla contenta. Le chiesi a cosa si riferisse, e lei rispose che stava parlando della mia barba, o meglio, della mia “non barba”. Per qualche giorno aveva creduto che avrei acconsentito a sfoggiare una barba da mangia fuoco (credo si riferisse alla settimana in cui mi dimenticai di radermi, complice una brutta influenza), ma adesso mi ero rasato di fresco, la qual cosa rendeva evidente che non volevo proprio collaborare. Dopo pochi attimi, non appena il programma TV riapparve, Marina si alzò, diede una scrollata alla sua gonna, disse che sarebbe andata a letto. Non suonava affatto come un invito.

Dopo quella sera, be’, non c’è dubbio che le cose iniziarono a mettersi male. E non mi riferisco alla lettera che ricevemmo un martedì mattina, una lettera consegnata a mano, priva di francobollo e di mittente, che trovai sopra la cassetta postale quando scesi di sotto per gettare l’immondizia (la lettera era scritta dal pugno di uno squilibrato, all’interno si sosteneva che il nostro appartamento fosse appartenuto a un gerarca fascista e che fosse maledetto, qualcosa del genere), bensì alla faccenda di C. Holz. C. Holz si palesò nell’androne del palazzo il venerdì seguente al martedì in cui ricevemmo la lettera anonima. Mi imbattei in C. Holz rincasando dall’ufficio. Lui mi guardò, fece un piccolo sussulto, come se non si aspettasse minimamente di vedermi entrare. Sembrò sul punto di chiedermi chi fossi. Mi fissò per alcuni istanti, feci altrettanto, dopo di che lui si voltò e prese a rovistare dentro una valigia, con la mano con cui non reggeva l’ombrello. Immaginai che fosse un ospite dell’appartamento al primo piano (la cui proprietaria era perennemente via di casa — da quanto si era intuito, la signora viveva in Brasile e tornava in città solo per Natale, o per Capodanno, o per Carnevale, non ricordo quale dei tre). Così, mormorai qualcosa e poi mi arrampicai su per le scale condominiali; non so dire se C. Holz rispose al mio saluto o meno.

Quella sera non dissi a Marina di C. Holz, a dire il vero mi dimenticai completamente della sua presenza non appena misi piede dentro casa. Marina stava cucinando; entrai in cucina, lei stava trafficando con i fornelli, nel mentre canticchiava una canzone di Julio Iglesias. Mi avvicinai, lei si voltò, disse che stava cucinando una cosa buona che aveva visto su una ricetta; era proprio di ottimo umore. Mangiammo, e poco dopo, mentre stavo infilando i piatti nella lavastoviglie, Marina tirò di nuovo fuori la storia di Cortazar e della barba. Disse che ci aveva pensato su, che era stata ingiusta con me, che se non volevo farmi crescere una barba da mangia fuoco lo capiva bene. Certo, le sarebbe piaciuto vedermi in quel modo, ma se non volevo se ne sarebbe fatta una ragione. Richiusi la lavastoviglie, la azionai, poi mi voltai e abbracciai Marina come non l’abbracciavo da molti giorni, lei dapprima fece come una smorfia di dolore, poi si abbandonò tra le mie braccia.

Il giorno seguente non uscii di casa, era un sabato piovoso in cui me ne stetti sul divano a leggere tutta la mattina; Marina invece dovette raggiungere l’ufficio per sbrigare alcune commissioni urgenti.

Le cose tra di noi andarono definitivamente in malora nel momento in cui Marina rincasò. Ricordo che stavo cucinando; avevo messo della musica, forse un artista jazz sconosciuto che ascoltavo quando ero da solo, o magari qualcos’altro, fatto sta che non mi accorsi di Marina finché non me la ritrovai al mio fianco. Mi chiese cosa stessi preparando di buono, risposi (è buffo, ma non ricordo cosa stessi cucinando, né la risposta che diedi), dopo di che mi voltai verso i fornelli e continuai a fare ciò che stavo facendo. Marina andò in bagno a cambiarsi, o come diceva lei, a mettersi comoda. Mi concentrai sulla musica, e anche sulle padelle, almeno finché non udii un colpo sordo provenire dalla parte sud dell’appartamento, dove si trovavano lo studio con il camino, la camera per gli ospiti e il secondo bagno (un bagno austroungarico, privo di bidet). Mollai le pentole e mi diressi verso l’origine del suono. La porta che collegava le due sezioni dell’appartamento era socchiusa, oltre la porta si sentivano dei passi. Feci per aprire ma i passi si fiondarono verso la mia direzione così, istintivamente, chiusi la porta. Dall’altro lato, udii il rumore della chiave girare nella toppa. È in trappola, dissi tra me e me. È in trappola, urlai, sperando di farmi sentire da Marina. Corsi in cucina, aprii il cassetto in cui avevamo riposto le posate, afferrai un coltello poi andai da Marina. Lei mi squadrò, e vedendo il coltello mi chiese cosa stesse succedendo. Cosa mi ero messo in testa di fare? Le raccontai dell’intruso. Marina mi seguì fino alla porta dello studio. È lì dentro, dissi. Marina guardò me, poi la porta, infine bussò. Signor Holz, chiese. Dallo studio giunse un gemito. Signor Holz, ripeté Marina. Di nuovo, un grugnito. Una voce, dall’altro lato, mormorò qualcosa. Marina sospirò, fece roteare gli occhi, poi mi prese per mano e mi condusse in cucina. Mi invitò a sedermi. Le chiesi cosa stesse succedendo. Chi o cosa era il Signor Holz? Marina mi chiese di calmarmi. Riempì un bicchiere d’acqua e me lo porse. Infine, disse che le cose non avrebbero dovuto mettersi in quel modo. In quale modo, chiesi. Marina sospirò. Si passò una mano sulla guancia. Disse che mi avrebbe spiegato tutto, ma prima avrei dovuto prometterle che non mi sarei arrabbiato. Promisi. Allora Marina raccontò che qualche giorno prima, presa dallo sconforto più totale, uno sconforto senza nome, aveva cercato su un sito dedicato a feste di compleanno e cosplay se esistesse un tipo di festa a tema “letteratura sudamericana”, e lì si era imbattuta in un gruppo di artisti (lei parlò di attori) che impersonavano personaggi presi dai libri che tanto amava. Nella scheda biografica, la compagnia teatrale riportava di aver inscenato, tra le altre cose, alcune opere di Borges. Allora, a Marina era venuta l’idea di ingaggiare uno degli attori. Il Signor C. Holz, appunto, il più economico tra di essi. Si era messa in contatto con lui e aveva sondato la sua disponibilità a ricreare una situazione presa pari pari da un racconto di Cortazar, uno dei suoi preferiti, quello in cui una coppia di fratelli scopre che delle presenze si sono insinuate dentro un’ala della loro casa. Aveva chiesto a C. Holz di intrufolarsi nel nostro appartamento mentre noi eravamo distratti, e di replicare, in buona sostanza, il racconto di Cortazar. Solo che C. Holz aveva sbagliato la tempistica e si era infilato nella stanza sbagliata, mentre invece avrebbe dovuto attendere che noi fossimo nell’altra ala dell’appartamento prima di cominciare la messa in scena. Così come si erano declinate le cose, invece, la rappresentazione non poteva funzionare. Eravamo noi, quelli che avremmo dovuto essere in trappola, e non C. Holz.

La spiegazione fu fumosa; a dire il vero, Marina era piuttosto agitata.

Quindi sei stata tu a far entrare quell’uomo, chiesi. Marina fece sì con la testa.

Restammo per qualche istante come congelati, dopo di che mi alzai, mi diressi verso la porta dello studio, bussai e dissi che era tutto risolto, che non avevamo cattive intenzioni. C. Holz fece scattare la serratura. Attesi un paio di secondi, dopo di che aprii la porta. C. Holz era seduto sulla poltrona accanto al caminetto. Stava piangendo, pareva disperato. Gli chiesi se desiderasse un bicchiere d’acqua; lui parve a malapena accorgersi della nostra presenza. Stava mormorando frasi sconnesse, forse in tedesco; posai una mano sulla sua spalla, allora lui ci vide, mormorò qualche vaga parola di scusa, disse che aveva sbagliato tutto. È solo che là fuori faceva freddo, e si era confuso. Lo rassicurai, dopo di che ritrassi la mano. Lui mi guardò, si alzò e, scusandosi ancora una volta, uscì dall’appartamento.

Io e Marina restammo a lungo nello studio, a fissare la poltrona su cui poco prima sedeva C. Holz. Poi mi scossi. Dissi a Marina che avremmo fatto meglio a liberarci dell’oggetto, che non si sa mai, i ricordi possono tirare brutti scherzi. Marina annuì in silenzio, dopo di che uscimmo dallo studio e facemmo come niente fosse.

Solo più avanti, quando ormai io e Marina vivevamo già separati (non separati in casa: separati e basta), mi accinsi a leggere il racconto di Cortazar che la donna che amavo aveva amato così tanto, e allora mi chiesi se il testo dello scrittore argentino potesse avere a che fare con il modo in cui si erano messe le cose, se potessi scorgere, tra le pagine di quel racconto, l’indizio di una crepa, la traccia per una spiegazione plausibile; infine, mi dissi che quel racconto c’entrava piuttosto con il mistero del mondo lì fuori, con il fatto di essere poco più che bambini, con ciò che poteva accaderti quando ti trovavi solo e abbandonato nell’ignoto, mentre quanto era capitato a me e Marina aveva più a che fare con il terrore che ti assale quando si insinua l’idea di aver compiuto uno sbaglio.

Ad ogni modo, fu proprio così che le cose tra me e Marina iniziarono sul serio a mettersi male. Poi fu il turno di altre lettere anonime, del bancomat clonato — anche le lettere anonime giocarono un ruolo importante nel nostro declino (del bancomat clonato non ce ne curammo minimamente), ma sostanzialmente fu proprio in quel modo, con la faccenda di C. Holz, che tutto prese a precipitare per davvero.

Foto di Anja da Pixabay

La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca

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di Andrea Inglese

Il comportamento del governo di Israele, e dei governi che lo sostengono, ci fornisce un’immagine che va ben al di là della specificità del conflitto israelo-palestinese. Questo comportamento è da leggere come sineddoche di una situazione più ampia, sia sul piano politico che culturale. Quando la propaganda delle classi dirigenti occidentali ripete ottusamente che “Israele è comunque una democrazia, è l’unica democrazia in Medio Oriente”, si stanno in realtà dicendo diverse cose attraverso questo ritornello. La prima cosa, la più inconfessabile, è che qui “democratico” acquista quasi i tratti dell’aggettivo “bianco”, e tutti i privilegi umanizzanti che esso attira a sé, all’interno di un discorso razzista. Si sta insomma dicendo che, quali che siano le cose che lo Stato di Israele fa sotto il governo dell’attuale estrema destra, esso è garantito da un capitale morale inestinguibile, quello di essere una democrazia all’“occidentale”, ossia un paese che economicamente e culturalmente ci assomiglia molto. I palestinesi hanno come governo Hamas, che è considerato una pura e semplice entità terroristica (senza nessuna legittimità politica) e inoltre l’espressione di una cultura islamista retriva e oscurantista. Hamas, quindi, e per metonimia il popolo palestinese, non gode di nessun capitale umanizzante. Quando muoiono dei palestinesi innocenti, è una tragedia, dicono i commentatori, non un crimine commesso da qualcuno. Gli ammazzati sono separati, quindi, dall’ammazzatore, e inseriti nella colpa generale di essere un popolo primitivo, che ha espresso una realtà politica oscurantista e barbara, e quindi la loro morte, la loro cancellazione, è in qualche modo fatale. Si giustifica da sé. Non c’è bisogno di cercare altre responsabilità. Il sottotesto razzista, in tutta questa faccenda, è ben percepibile, anche se alcuni portavoce del governo Netanyahu non si sono certo esonerati da renderlo un testo esplicito nelle loro molteplici e pubbliche affermazioni. Ma è in virtù di questo sottotesto razzista, nel caso specifico antiarabo e islamofobico, che il governo Israeliano ha quasi senza eccezione riscosso una solidarietà dalle destre estreme di tutti i paesi occidentali, Europa in testa. E qui veniamo alla seconda cosa che dice il ritornello della propaganda filoisraeliana: se Israele è una democrazia, e fa quello che fa, allora tutte le democrazie possono permettersi di agire similmente. E questo vale poi tanto per la politica interna che per la politica estera. Anche i paesi europei hanno conosciuto gli attacchi del terrorismo islamista. Ora, se le estreme destre andranno al governo, e saranno dominanti anche nel parlamento europeo, possiamo immaginarci una democrazia europea calcata sul modello israeliano: business e sicurezza sopra ogni cosa (e quando possibile: business della sicurezza). Sparizione o delegittimazione della sinistra, considerata come nemico interno, traditore e antipatriottico. E finalmente forme di apartheid più o meno ufficiali nei confronti dei quartieri popolari, con una maggioranza di cittadini immigrati o figli di immigrati. Ma le votazioni resteranno libere, anche perché garantite da un controllo di governo sui media sempre più capillare. Non ci sarà perdita di diritti civili per i gay (almeno nell’immediato, poi si vedrà), ma nell’educazione la vecchia morale cristiana riprenderà pieno diritto. Insomma, in gioco c’è in effetti la questione della democrazia occidentale, ma non di quella vecchia, novecentesca, dominata dalla competizione tra modello socialdemocratico e modello liberale. Si sta guardando qui alla possibilità di una nuova democrazia, perfettamente capitalistica, ma governata da un’estrema destra autoritaria, razzista e conservatrice. È possibile? Le destre estreme europee pensano che, nonostante tutte le differenze del caso* – che non sono poche –, il modello israeliano vada salvaguardato e sostenuto. Ma questo, per altro, non è un obbiettivo esclusivo delle destre radicali occidentali in Europa o in Nord America. Anche quelle sudamericane si chiedono come poter portare avanti governi autoritari, che difendono il grande capitale, delegittimano le sinistre e possono reprimere liberamente le minoranze dei nativi, senza per forza instaurare ogni volta dei regimi alla Pinochet.

Quello che gli studenti ventenni di diverse università occidentali vedono, è quello che vede anche un non studente di cinquantasei anni: i crimini di Hamas, anche se sono gravissimi, sono rimasti circoscritti al 7 ottobre. Quel massacro d’innocenti ha incontrato un limite nel tempo e nello spazio. Oggi, quello che studenti (e non studenti) constatano, è un semplice fatto: i massacri d’innocenti che sono venuti dopo il 7 ottobre non trovano limite alcuno nella realtà, perché non sembrano esistere ostacoli in grado di arrestarli. E il loro problema, come il mio, non è scegliere tra l’autoritarismo teocratico e ultranazionalista di Hamas (che non ha mai accettato ufficialmente l’esistenza di Israele) e la “democrazia” razzista e colonialista di Netanyahu, ma è quello di esprimere il desiderio e la speranza di un ostacolo che arresti la macchina dei massacri, in nome di una giustizia possibile. Per questo motivo, dalla propaganda mediatica, gli studenti – oggi come nel corso del Novecento – sono volentieri considerati: mentecatti, pericolosi, infiltrati, antisemiti, autoritari, ecc. (Quando delle inchieste vengono fatte per davvero sul campo, l’individuazione di casi singoli detestabili – presenze fasciste e propositi chiaramente antisemiti – non sono sufficienti per screditare le ragioni  di un intero movimento.) Ma ancora una volta la reazione delle democrazie occidentali ci dice qualcosa che va al di là della questione specifica che mobilita gli studenti. Sembrerebbe, secondo le autorità, che gli studenti abbiano uno statuto sociale che circoscrive per bene il loro spettro d’azione legittimo: essi sono giovani cittadini, il cui ruolo sociale è quello di studiare, di ricevere, quindi, il pacchetto di nozioni e valori che la società trasmette loro attraverso le sue più prestigiose istituzioni educative e formative (le università). Secondo le classi dirigenti che controllano i vertici di quelle università e i loro portavoce mediatici, in una università lo studente dovrebbe semplicemente studiare, ossia incorporare docilmente il pacchetto di nozioni e valori che faranno di lui un futuro dirigente di una società democratica e occidentale. Solo che quel pacchetto è avvelenato alla radice. In esso, a partire addirittura dall’educazione nelle scuole elementari, si sono infiltrate delle nozioni di “giustizia”, di “autonomia”, e a un certo punto persino di “spirito critico”. Il giovanissimo educando delle nostre democrazie non ha imparato a scuola a venerare né i paragrafi di un libro sacro, né i propri capi di governo (questo avviene in altri tipi di regimi e culture politiche), ma a conoscere parole e azioni di un’ampia famiglia di personalità letterarie, filosofiche, politiche, scientifiche che, in genere, hanno rifiutato qualcosa dell’eredità che le istituzioni sociali del mondo storico di cui facevano parte trasmettevano loro. Insomma, gli abbiamo inculcato noi l’idea che le questioni di giustizia non sono riservate a degli specialisti, come accade invece per le questioni tecniche di un ambito disciplinare specifico. Noi abbiamo insegnato loro che, in determinati contesti storici, le leggi dello stato possono essere ingiuste e che sono da ammirare come eroi coloro che le trasgrediscono. Nessuna scuola pubblica in Europa e in Occidente insegna a disprezzare coloro che trasgredivano le leggi razziali sotto il regime nazifascista o gli uomini di scienza che si esponevano alla persecuzioni delle autorità ecclesiastiche. Bisogna, quindi, decidersi: o li abbiamo veramente educati male, e allora bisogna rivoluzionare i programmi scolastici, e imparare dalla Corea del Nord, oppure dobbiamo constatare che, nelle democrazie, il dissenso studentesco, per scomodo e criticabile che sia, non può essere criminalizzato e risolto in termini puramente polizieschi. Anche perché, quando questo avviene, è ormai troppo tardi. Bisognava cominciare a farli cantare inni elogiativi a Meloni, a Macron o a Biden alla scuola materna.

Anche in questo caso, è chiaro che è in gioco il modello di democrazia che vogliamo scegliere, come cittadini occidentali, per gli anni a venire. Dobbiamo, infine, decidere se il passato fascista e nazista va in qualche modo recuperato e salvaguardato, con qualche censura locale e circoscritta, o se vogliamo salvaguardare qualcosa della contestazione studentesca che attraversò il pianeta alla fine degli anni Sessanta, con qualche censura locale e circoscritta. In altri termini, c’è ancora qualcuno, nelle nostre classi dirigenti, in grado di distinguere il concetto di “democrazia diretta” da quello di “apologia del terrorismo”?

Concludo questo intervento con una citazione tratta da uno scritto del 1986 di Cornelius Castoriadis:

Vorrei davvero che qualcuno contesti per un attimo, con degli argomenti razionali, il diritto degli studenti di porsi, appena ne sono capaci, la domanda: perché e in che cosa ciò che ci insegnate è interessante e importante? Vorrei davvero che qualcuno contesti l’idea che l’autentica educazione consista anche a condurre gli studenti ad avere il coraggio di porre questo tipo di questioni e di argomentarle.

⇔⇔⇔

 

Nota *: L’ossessione per la sicurezza israeliana ha come sua ragione principale odierna il proseguimento della colonizzazione della Cisgiordania e (prima del 7 ottobre) il blocco di Gaza. Ma al di là delle strumentalizzazioni realizzate intorno a questo tema dalle diverse forze politiche israeliane, la responsabilità di Hamas non puo’ essere sottostimata, ed è politica prima ancora che militare, dal momento che ufficialmente nega il diritto di esistenza a Israele.

Scritture subalterne nella letteratura meridionale contemporanea

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[In occasione dell’uscita della raccolta di saggi dal titolo Finzioni meridionali. Il Sud e la letteratura italiana contemporanea (Carocci, 2024), l’autore ci presenta una riflessione sulle ragioni e i metodi della propria ricerca.]

di Fabio Moliterni

Per studiare la letteratura meridionale contemporanea sarebbe necessaria un’indagine a tutto campo: un lavoro critico, collettivo e condiviso, la cui urgenza sociale e politica si misura soprattutto oggi, nella temperie un po’ asfittica della critica letteraria e accademica. Laddove, per sintetizzare al massimo, la critica letteraria è embedded o non è: si limita alla descrizione inerte, passiva e mimetica dei prodotti culturali, quando non alla promozione di un brand letterario buono per questa stagione di saldi, lustrini e serie tv. Una stagione culturale, la nostra, nella quale i lavoratori della conoscenza, meridionali e non solo, confondono la cultura con l’organizzazione di eventi (la paesologia o l’eco-poesia all’acqua di rose, l’opportunismo e il cinismo di certe operazioni editoriali e accademiche, con il loro più o meno fiorente indotto transmediale e di turismo culturale, ecc.). Ho pensato quindi alla letteratura meridionale del secondo Novecento come a una serie di intertesti sincronici, un insieme testuale molteplice e stratificato, che non si cristallizza in una tendenza ma vive in una continua circolazione di forme. Questa è la condizione di partenza per cartografare una galassia di testi meridionali che si caratterizza nel corso del tempo per una varietà impressionante di modalità narrative ed espressive: una varietà di soluzioni testuali che tuttavia, a mio parere, non deve oscurare la necessità di un giudizio di valore. Per fare solo due esempi: una cosa è far reagire l’opera di Carlo Levi con il pensiero di Ernesto de Martino o con la scrittura di Alessandro Leogrande, un’altra è esaminare da vicino le strutture narrative dei romanzi di Mario Desiati; una cosa è la paesologia didascalica e a tratti patetica espressa da certa poesia recente, un’altra è la ricchezza di risonanze formali e antropologiche che emanano le opere in versi di Vittorio Bodini e di Nino De Vita (e si potrebbe continuare).

Di fronte alla natura plurale e stratificata delle esperienze letterarie meridionali del secondo Novecento, che arrivano fino a oggi, alla cosiddetta letteratura circostante, è necessario rispondere non con un intento meramente descrittivo o ecumenico, che purtroppo accompagna molto spesso gli studi sulla letteratura e sull’identità letteraria meridionale, ma con gli strumenti dell’analisi sociale della letteratura e della critica delle forme. La critica delle forme distingue e seleziona le voci letterarie più rappresentative, tentando di istituire tradizioni e costellazioni di testi esemplari, testi che si presentano sul piano simbolico come sintomi culturali e ideologici connessi alla dimensione materiale del sistema produttivo, alle mutazioni sociali e politiche che hanno attraversato la storia del Meridione d’Italia. Si tratta di un percorso storico e letterario di tipo strabico e anfibio, che attraversa luoghi e lingue diverse, generi plurali, tra prose e poesie, tra inchieste e romanzi, e si mette in dialogo con discipline e con saperi non strettamente letterari, dalla storia degli intellettuali alla nuova narratologia, dalla sociologia alla demologia, dall’etnologia all’antropologia. Le prose favolistiche e argomentative di Sciascia e di Pasolini si affiancano alle poesie di Vittorio Bodini e di Nino De Vita; dai romanzi e dalle opere etnografiche di Carlo Levi e di Ernesto de Martino si arriva alle opere dei giovani narratori pugliesi, Nicola Lagioia accanto ad Alessandro Leogrande. Questa visione rizomatica e plurale della letteratura meridionale contemporanea convoca un dispositivo, un metodo di ricerca che si colloca insieme dentro e fuori alle narrazioni egemoniche del nostro contemporaneo. La natura intrinsecamente antagonista e il potenziale conoscitivo che emergono da queste esperienze letterarie mi hanno fatto pensare alla letteratura meridionale contemporanea come a un’alterità che sfida dal suo interno la contemporaneità, mettendola in tensione con sé stessa.

Non esiste, a mio parere, una presunta specificità identitaria, e tanto meno una supposta purezza, una prerogativa della letteratura meridionale, se non nel confronto reattivo, dinamico e dialettico che alcune tra le migliori esperienze letterarie meridionali istituiscono con il contemporaneo, con il pensiero unico del progresso, con le retoriche del neoliberismo: con l’inconscio politico della nostra epoca, per citare Fredric Jameson. La letteratura meridionale non è uno spazio testuale che aprioristicamente dobbiamo considerare di stampo progressista o reazionario, apocalittico, regressivo o antimoderno, ma non è nemmeno un inerte archivio di scritture da recuperare e ricostruire con un metodo solo descrittivo e ancillare.

Il valore letterario delle opere letterarie meridionali è all’origine del loro significato storico. Per questo ho messo l’accento sull’analisi delle architetture narrative, dei dispositivi testuali, delle modalità enunciative, del punto di vista, e in particolare ho voluto individuare nei testi le pratiche e le strategie discorsive delle voci narranti, la posizione della voce narrante rispetto al mondo rappresentato, quello dei tanti Sud Italia: che è uno spazio, non va mai dimenticato, abitato dai contadini e dagli operai di ieri e di oggi, dai nuovi schiavi nelle campagne, in una parola dai soggetti di storia non egemonici – i subalterni nell’accezione di Gramsci, i marginali e gli outcast, gli uomini e le donne in carne e ossa che Ernesto de Martino chiamava le ‘persone vive del Mezzogiorno’. È uno spazio pluristratificato nel quale gli squilibri e le nuove disuguaglianze generate dalla globalizzazione convivono accanto al persistere di un paesaggio agricolo, alle permanenze del tessuto sociale, economico e antropologico di stampo ancora arcaico o patriarcale; e i flussi migratori, lo spopolamento, il lavoro nero e gli abusi edilizi, l’eco-mafia e i fenomeni dell’emigrazione intellettuale sono il precipitato o il sedimento di una politica sempre più affaristica, autoreferenziale e corrotta, ispirata e asservita, come avviene in questi anni in un tutto il mondo occidentale, agli imperativi del mercato e al trionfo delle ideologie neoliberali.

Troppo spesso, mi pare, nelle espressioni letterarie contemporanee legate ai luoghi del Sud, così come negli studi più recenti sulla letteratura o sulla poesia meridionale – con tutte le etichette più alla moda come paesologia, poesia meridiana, mediterranea, eccetera -, sfugge questa dimensione doppia, questo doppio legame, potremmo dire, che la letteratura meridionale, a partire da Verga, instaura da sempre con la modernità e con il piano materiale del reale: una dimensione che riguarda simultaneamente la storia e i linguaggi. La mia proposta è di avviare un’indagine che interseca sincronicamente la dimensione retorica (testuale) e quella pragmatica (contestuale) delle opere letterarie meridionali contemporanee: è un tentativo, a partire dai testi, di articolare retorica e sociologia, per cogliere gli aspetti testuali e i comportamenti, gli effetti sociali delle operazioni intellettuali meridionali. Un’analisi di questo tipo impone un duplice terreno di indagine: fuori dal testo, si deve considerare la storia sociale del Mezzogiorno, non solo in un’ottica evolutiva ma frastagliata, fatta di arresti e ripartenze, continuità e discontinuità; all’interno delle opere, con l’analisi dei dispositivi della narrazione o della enunciazione poetica, emerge la costruzione di un’immagine conflittuale e dinamica del Sud, in e attraverso i testi letterari.

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Immagine di copertina di Marco Fraddosio

Se la sete è abbaiare la condensa

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di Mariasole Ariot

Johann Sebastian Bach, Toccata in E minor (Stehlik, B.)

Appaiono nella dimensione più alta i gorgogli della casa, dicono di arrivare e dirigere il verbo del fare al passato, una parola già pronunciata, l’accalcarsi di greggi e datazioni, il gorgo avvicendato dalle forme dimenticate – e ancora si chiudono corolle in direzione contraria al nascituro, dove e quando le mandrie di madri ricordano la caduta di un’esistenza masticata fino all’osso.
È questa la buca che separa, la dannata condizione che sborda ad ogni istante, un solo secondo per il dire, una camminata lenta alla fuoriuscita del feretro e del feto: se non ho mai parlato, se la voce è compressa in una cassa, l’eco si accascia nello specchio.

***

Queste facce in forma di persone, le mascherine degli insetti che ronzano nell’attorno di ogni androne, quando le finestre sono chiuse e appiccicate al vetro si attaccano le scimmie. Avere il tempo dilatato per condensa, la voce che si adunca a petizione, la penitenza delle colpe ripetute, se ridendo come foglie a primavera mi formicano gli interni. L’esserino non si muove e ricorda una menzogna dell’attesa a ricompensa: ma quanto vero è il vero quando il cielo non ripete. Le ossa, questo piccolo ricordo di un corpo ormai scordato, lo strumento che s’insegue, la postura di una donnola nel mentre di un amplesso.

***

Il ritorno non ci affanna, s’innaffiano le cose mute e già mangiate, è questo diventare il mio passato, è questo il divenire e il suo contrario. La porta che ci è data non respira, la devozione che divina – ma il sospeso è domandato, la domanda è una bocca che ferisce.
Dare e dire cosa, il presente che sfiorisce, questo manto addormentato che sborda come un angolo del petto, ho ancora una parola: il gettito che sente la tua voce e mi sovviene: l’agito che è già verbo, verbale è ciò che agisce. Di nuovo, appesi all’infinito e a questo spazio, se l’appeso è un aspettare, il gioco è dire basta, morire nella cassa toracica del niente.

***

Più delle grida è lo snodo che sorregge, la durezza tradotta per errore ci muove testa a testa con la croce, un chiodo che si pianta è questo nostro mondo, la lingua che ingenera una morte, il terreno già sospeso – e dici il puntello della rosa, si fissa a tormentare nelle mani, un manico di falce deprime la mia testa. Aprire il corpo e scoprire un territorio.
È così che cede il ventre, così si cede un panico al suo astro: immobile a sanguigna l’eremita ci passeggia le budella, e quanta pioggia serve al derivare delle rive. I defunti che servono alle tombe, lo zampillo delle pozze: il nucleare ricordo della sete.

Immagine di copertina: Josef Koudelka

Invece è già dopo. L’irrealtà concreta di Demetrio Marra

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di Matteo Cristiano

Sono molti i versi che potrebbero dirsi rappresentativi di questa raccolta (Demetrio Marra, Non sappiamo come continuare.Nove processi biofisici, 2024, autoproduzione): uno è messo a titolo di questa nota, «invece è già dopo»[1], dal terzo movimento di Tautoromanzo. Il verso sarebbe rappresentativo perché si assume buona parte del senso d’impotenza che si allunga in tutti i testi, come quando pensi alle cose che avresti potuto dire in una conversazione, quel gesto che avresti dovuto risparmiare o fare con più grinta o amore, la freccetta che avrebbe preso il centro, ma tutto si è già spostato, siamo già oltre. Altri potrebbero essere «siamo già, sempre, fuori di noi:»[2]; «se reggi l’immaginazione»[3]; «ma vi penso e forse così vi esaurisco»[4]. In tutti questi versi si può sentire chiaramente quello che Dimitri Milleri, nella prefazione, chiama «fallimenti a matriosca». Sarebbe tuttavia limitante fermarsi a questa costatazione, lasciandoci leggere la raccolta solo in termini vittimistici e confessionali. È evidente che ciò che si mette in gioco è una resa, un abbandono forzato, un’ammissione di colpa. Altrettanto evidente è anche che l’ammissione di colpa non scagiona l’individuo, la presa di coscienza non basta ad affrancarsi dalla maglia dell’inconsistenza. È però vero anche che, dal punto più basso in cui ci si ritrova, non si può fare altro che risalire. E vedremo come.

Nota preliminare sul libro fisico: otto testi in versi, un personal essay in chiusura che esplicita la scelta di autopubblicare un libro di poesia. Seguono le note ai testi e il bilancio delle spese di autopubblicazione. Marra esplicita quasi tutto: stampare il discorso economico, l’assertività di alcune note a piè di pagina, alcune dichiarazioni metapoetiche all’interno dei versi, tutto ciò dimostra un habitus demistificatorio, la volontà di non arrendersi ai veli. Una assertività a volte iperbolica, con alcune differenze: l’assertività dei testi in versi è sempre contraddetta dalla forma linguistica ambigua e spesso disarticolata (ma anche dalla materia magmatica della contingenza del contenuto) e infatti più spesso ricade nel grottesco, nel tragicomico. Mentre l’assertività della prosa finale è di tipo argomentativo e critico dalle sferzate sicure, di chi, in questo caso, non può chiudere gli occhi e scendere a compromessi creativi. Alla fine, ciò che è esposto nella prosa finale, la scelta pratica, può essere intesa come l’unica materia controllabile della raccolta forse proprio perché si svolge, in primis, come alibi dal risvolto simbolico, come ultima implicazione della ribellione e della decostruzione. “Gioco con le mie regole”, pare voglia dire. Non mi stupirei se, con una forza invidiabile, Marra smettesse di scrivere per disancorarsi definitivamente dal gioco simbolico della cultura. Sarebbe logico, e l’autore lo sa bene.

L’autopubblicazione giunge, cronologicamente e fisicamente, alla fine del romanzo di formazione inscenato in queste pagine. Un percorso diacronico che si assimila e sfocia finalmente nella scelta pratica (e ideologica) di autopubblicarsi. E non ci si arriva indenni a questo stadio. Ritorniamo all’inconsistenza dell’esistenza di cui si diceva prima: l’immaterialità dei discorsi, la falsa coscienza della libertà. Marra rappresenta in modo magistrale la «lavastoviglie che è la vita a vent’anni»[5], la vita tout court in realtà, e ne esce uno spettacolo nevrotico e dissociativo: una delle parole più ricorrenti è fuori, 27 occorrenze nei testi in versi, che è tantissimo. Tantissimo significa sintomatico, perché l’io che si trascina nel quotidiano esistere materiale e poetico è sempre altrove rispetto al centro – centro che comunque sfugge sempre all’identificazione. Il soggetto guarda fuori perché non è nel luogo dove si trova; il soggetto è fuori di sé, perché il pensiero ossessiva ritorna verso l’interno sdoppiandosi; il fuori è ciò che sovrasta il soggetto, lo schiaccia. La dimensione della nevrosi è pervasiva nei testi e si riverbera nella forma sintattica: le frasi sospese e i repentini cambi di focus sono speculari alla sovrastimolazione psichica, alla quale non corrisponde mai una reale presa sugli oggetti. Si vede soprattutto in Quattro incipit senza data, dove il quarto movimento inscena una seduta di terapia dall’andamento allucinatorio: la scissione soggettiva si manifesta non solo in ciò che esplicita il soggetto, non solo nella lingua, ma nel vero e proprio essere «fuori / di me del mio corpo»[6], sdoppiando quindi la voce dell’io e creando questo effetto di discorso indiretto libero ambiguo, dove la voce riportata e la voce dell’io si confondono. E qui si coglie un altro importante aspetto soggiacente: «la (apparente) non problematizzazione dell’io lirico»[7]. Marra esplicita tantissimo, certo, ma si diletta con l’ironia – lo sappiamo dal primo testo, Defining parody. Esplicita anche il modo in cui depista lettrici e lettori. Quindi quell’apparente va preso in qualche modo sul serio, e dobbiamo domandarci dove, o come, viene problematizzato l’io lirico. Il luogo è il piano del poetico, di forma e contenuto. Abbiamo detto della dissociazione della voce lirica, divisa tra la prima e la terza singolare (come abbiamo visto in Quattro incipit senza data, ma lo stesso avviene anche in Tautoromanzo) e che quindi rappresenta materialmente quel vedersi da fuori  di cui si è detto. Si è detto anche delle svolte sintattiche spesso inconsuete, che fanno slittare la semantica provocando momenti di straniamento, di incomprensione. Non è una forma di pensiero salda, uniforme: è un sinusoide di contenuti legati dal flusso ritmico e della macrostruttura ma che spesso cozzano tra loro, segnano svolte che escono dalla linearità. In più, significativamente, segnalo il fatto che Marra ha sottoposto diverse questioni del libro, come varianti, formato, copertina, alla comunità redazionale di lay0ut, «la famigghia che ci siamo scelti»[8]. Il che dimostra un habitus autoriale e individuale, che si somma e collabora con tutti gli altri aspetti di questa pubblicazione, simbolici e pratici. Il luogo di problematizzazione dell’io lirico, allora, esce dal piano simbolico del poetico sfondando le porte della realtà.

Se è sicuramente vero quello che dice Lorenzo Mari, cioè che «Quello di Marra è quindi un racconto della disillusione, ma senza tanti patemi e con una netta preferenza per l’ambiguità»[9], mi pare che ci si dimentichi troppo, leggendo queste pagine – logicamente secondo i principi dell’ambiguità – di far emergere la pars construens dell’operazione di Demetrio Marra. La logica della contemporaneità in qualche modo forclude la possibilità di pensare le alternative, illudendo il pensiero e la coscienza che non vi siano varianti valide allo status quo. Quello che fa Marra, alla fine, è fare la spesa al mercato e non alla Carrefour: Marra dimostra che si può scegliere, semplicemente, e che i discorsi del quotidiano sono più inclini a sopprimere questa semplice realtà piuttosto che a sostenerla. È un modo di gettare la maschera: il romanzo di formazione è la narrazione della disillusione anche nei confronti della disillusione stessa: dismettere gli strumenti di vittimismo individuale neoliberale per entrare in una forma di vita e di pensiero diversa. Marra indica qualcosa, noi non dobbiamo guardare il dito. Quello che indica è un metodo, un percorso, una forma esistenziale. Non vorrei tralasciare i fattori stilistici di questa raccolta, che peraltro sono già stati evidenziati dalla lettera di Flavio Santi e dalla recensione di Luca Mannella. Non vorrei nemmeno, tuttavia, che il discorso su questa raccolta si fermasse al recinto del poetico, del fare poesia. Il fulcro sta nel fatto che «la militanza culturale è una forma come un’altra di rinuncia alla militanza reale» (p. 75), e se leggendo questa raccolta vogliamo parlare di poesia, è perché, nell’ambito della più parte degli addetti ai lavori, siamo troppo abituati a limitare il poetico al suo statuto simbolico-culturale e artistico.

Trovo questo libro se non complementare almeno congruente a uno dei libri di versi a mio parere più belli dal 2010 che è Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta. Non credo che la lingua e i contenuti di Marra possano convergere nel romanzo in versi come quello di Targhetta: le idiosincrasie della sua lingua, come indica Santi, si imperniano su fattori differenti, alcuni che abbiamo già visto, come lo scarto sintattico e semantico, la sospensione di alcuni periodi, anacoluti, che necessariamente impongono un ritmo a volte più affrettato a volte più frammentario. Certo è che le sensazioni che emergono sono certamente comparabili: così come i personaggi del romanzo di Targhetta vengono bene in fotografia perché non si muovono, sono esistenzialmente statici nella diacronia della loro storia, anche dalla raccolta di Marra emerge la sensazione di scacco, di abbandono, di sostanziale insoddisfazione. Quello che fa Demetrio Marra, tuttavia, è portare avanti di un passo l’analisi, in questo intercettando per davvero la differente situazione sociale rispetto a dieci anni fa: «l’aria di rivolta»[10] di cui parla e che inscena è realmente dilagante negli strati bassi e subalterni della società. La mobilitazione è ancora germinale, ma ciò che si vede e ciò che ci racconta Marra è che gli individui sono stanchi pure di fare la vittima, hanno capito che non è altro che un’ulteriore forma di addomesticamento: Giusi Palomba ricorda che anche il lavoro interiore è una forma di attivismo, perché nella convergenza di individui decostruiti e svincolati dalle forme di pensiero strutturali e dominanti esperiscono forme di relazione, di vita, differenti. Per concludere, è evidente che Marra inscena, nei suoi versi, il percorso psichico dell’autocoscienza, dell’abbandono delle convinzioni ancestrali (culturalmente e storicamente determinate), delle forme di difesa e di giudizio. Qui c’è tutto, ammette tutto delle proprie eteronomie, dei propri privilegi. Se non sappiamo come continuare, è perché si sono abbandonate le speranze di cambiamento sussunte dal pensiero dominante. Da questo momento si costruiscono le altre realtà.

 

 

[1] Demetrio Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, 2024, autoprodotto, p. 39.

[2] Ivi, p. 19.

[3] Ivi, p. 24.

[4] Ivi, p. 60.

[5] Ivi, p. 1

[6] Ivi, p. 25.

[7] Ivi, p. 79.

[8] Ivi, p. 82.

[9] https://www.argonline.it/forme-conflitto-non-sappiamo-come-continuare-demetrio-marra/

[10] Ivi, p. 46.

L’ultima gita al faro

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di Francesco Segoni

Qualche anno più tardi, al momento di spingere la lama nella coscia, Ursula ripensa a quel venerdì di fine marzo in cui avrebbe dovuto morire e invece era morto suo padre. Aveva dodici anni e se lo ricorda come un pomeriggio di sole: una cosa buona, perché aveva scelto un posto all’aria aperta per suicidarsi. Intorno al faro di Alnes c’erano solo mare e cielo.

Aveva visitato il faro per la prima volta insieme ai suoi durante un picnic, solo qualche mese prima che sua madre sparisse di casa con due valigie. Ci era tornata, da sola, ogni volta che cominciava a scolorire: quando vedeva la sua pelle farsi trasparente e la prendeva la paura di dissolversi. Sceglieva di preferenza un giorno di pioggia (meno vecchi a passeggio, meno turisti, meno gente a correre o a portare il cane a spasso) e a Godøya non c’era mai da aspettare a lungo per quello. Saltava sull’autobus che passava di fronte alla scuola, scendeva al capolinea e saliva a piedi in cima alla collinetta. Quando era sicura che non ci fosse nessuno, piantava le gambette nell’erba, prendeva un respiro e ululava verso il cielo pesante e la pioggia. Dieci, quindici minuti. Faceva a gara con il rimbombo delle onde, barcollava fino sentirsi pronta a cascare per terra (qualche volta era successo). Poi si ricomponeva e tornava alla fermata, aspettando paziente l’autobus col viso lucido e i vestiti bagnati. Non sapeva perché ululare intorno al faro di Alnes funzionasse, ma una volta tornata a casa constatava il ritorno dell’opacità sul suo visino bianco screziato dall’azzurro pallido delle vene. A suo padre raccontava che aveva fatto lezione di ginnastica all’aperto, nonostante la pioggia. «I tempi dei vichinghi non sono ancora finiti», scherzava lui.

Ma il giorno che Ursula aveva scelto per il suicidio era stato caldo e luminoso. Si era allontanata dalla scuola strisciando in silenzio, mentre i suoi compagni alzavano sbalorditi gli occhi al sole e si rincorrevano per prendersi a calci nel cortile, aveva aspettato in disparte sperando che nessuno le rivolgesse la parola. Quando aveva visto avvicinarsi l’autobus, aveva incrociato lo sguardo di Freya che attraversava la strada di corsa per venirle incontro.

«E tu che ci fai qui?» le aveva detto l’amica sorpresa.

«Non sono venuti a prenderti oggi?» aveva chiesto Ursula, cercando di mascherare la delusione (gambe molli all’improvviso, vuoto allo stomaco). Cosa poteva raccontarle ora?

«Oggi mia mamma lavora» aveva risposto Freya allegra. «E tu dove vai?»

«Al… al faro di Alnes, io… a fare una passeggiata» aveva balbettato Ursula maledicendosi.

«Perché non me l’hai detto? Vengo anch’io! Tanto a casa non mi aspetta nessuno, solo un panino al formaggio.»

Ecco il piano che va a rotoli, aveva pensato Ursula sorridendo tristemente. Si era rassegnata a passare un breve momento di svago insieme all’amica. Erano scese dal bus nel centro del piccolo abitato bianco e rosso di Alnes, i capelli e i vestiti schiaffeggiati subito dal vento furibondo della costa occidentale. Freya si era lanciata lungo la stradina oltre le ultime case gridando «di corsa fino al faro!» e Ursula aveva tentato più male che bene di starle dietro. Avevano già dato l’assalto alla collinetta erbosa quando Ursula aveva sentito un frusciare di carta alle sue spalle e il suo zainetto d’un tratto più leggero.

«Nooo!»

Si era fermata per controllare la cinghia dello zaino e raccogliere libri e quaderni. Gli occhi le si erano riempiti di lacrime che si era sforzata di spalmare su tutta la superficie della cornea facendo ruotare i bulbi perché non si vedessero.

Freya era ferma venti passi più avanti.

«Beh?»

Ursula non era riuscita a rispondere: se ci avesse provato sarebbe scoppiata a piangere. Si era messa a camminare verso l’amica lasciando asciugare il velo che le annebbiava la vista.

«Ah, cavolo» aveva detto Freya. Poi aveva cambiato tono, come se l’incidente fosse cosa vecchia e dimenticata. «Andiamo a sederci laggiù.»

Si erano sedute sull’erba ingrassata dalle piogge che avevano sostituito la neve da qualche settimana e asciugata dal sole durante la mattinata. Ursula si era sistemata le ciocche bionde dietro le orecchie come aveva l’abitudine di fare. Gli occhi ormai asciutti seguivano le nuvole strappate dal vento. Sembravano più veloci di fronte all’immobilità del faro, eretto sulla sua pianta quadrata a una ventina di metri da loro.

«Fa’ vedere» aveva detto Freya, riprendendo interesse allo zaino dell’amica. «Si può aggiustare. Ti vanno questi?»

Si erano divise un pacchetto di cracker. Ursula li aveva mangiati staccando uno a uno i grani di sale grosso dalla superficie dei cracker con la punta della lingua per triturarli fra gli incisivi e gustarne il sapore forte prima di addentare il resto. Strappavano fili d’erba per farne palline da lanciare lontano ma il vento se le rubava appena aprivano le dita per lasciarle andare. Una giovane coppia si era seduta sul pendio che scendeva verso il litorale: lui sembrava il figlio dell’insegnante di scienze, il professor Wallin. Avevano iniziato a baciarsi con foga, lunghi baci con la bocca spalancata dell’uno nella bocca spalancata dell’altra. Si stringevano come se dovessero stritolarsi, poi la mano del ragazzo aveva cominciato una serie di assalti, respinti ogni volta da quella di lei senza che s’interrompesse il gran movimento di mandibole.

Ursula e Freya si erano guardate complici, ridacchiando in silenzio. Dopo qualche minuto, il giovane Wallin, forse sentendosi incoraggiato da un momentaneo cedimento della ragazza, aveva provato a infilarsi nuovamente sotto la sua maglietta di cotone: lei si era staccata da lui, si era rimessa in ordine capelli e maglia e si era alzata dall’erba, offrendo la mano al compagno per quella che doveva essere una passeggiata distensiva.

«Farsi baciare da quello lì, che schifo, quant’è brutto» aveva riso Freya.

Erano rimaste ancora un po’ a guardare il mare, poi Ursula si era resa conto di non avere una scusa per il ritardo, perché non aveva previsto che sarebbe tornata a casa. Allarmata, aveva proposto di partire. Si erano piazzate in fondo all’autobus senza parlare. Nel momento in cui imboccavano il tunnel che aveva percorso tante volte, l’ultima delle quali neanche un’ora prima in direzione contraria, Ursula aveva notato che Freya si era addormentata.

Ursula, sei tu?

La necessità di sconfiggere il panico non fa che aumentarlo a dismisura. È  come trovarsi di fronte a un cane randagio che ringhia e ripetersi ossessivamente non devo fargli vedere che ho paura. L’unica cosa che ottieni è di spaventarti ancora di più.

Pensare alla paura genera paura.

Tutti i giorni, dopo la scuola, nel momento in cui girava la maniglia e spingeva la porta e varcava l’uscio di casa –

Ursula, sei tu?

Le radici di quel panico affondavano nei giorni in cui suo padre la prendeva in braccio e le annusava l’incavo del collo, o la invitava a sedersi sulle sue ginocchia puntute, o si affacciava nella sua cameretta.

Vuoi giocare al solletico con papà?

Col tempo il panico aveva soppiantato ogni altra reazione. Era la certezza di non avere scampo. Né in quel particolare momento, né in tutti quanti i momenti passati e futuri. Il gioco del solletico, lo chiamava lui. Lei cercava di evitarlo: nascondersi, correre in bagno quando sentiva i suoi passi, chiudersi dentro, restarci più tempo possibile. Farsi dimenticare.

Ora conto fino a tre e lui si è dimenticato di me.

Ma lui non dimenticava. Lo annunciavano i passi prudenti, un bussare delicato.

Ursula, tutto bene? Vuoi che papà venga ad aiutarti?

Non bastava chiudersi in bagno. Ci volevano rumori, segni di attività. Allora apriva il rubinetto della vasca da bagno e faceva scorrere l’acqua bollente, lasciava che la sua faccia bianca da preda impaurita fosse inghiottita dall’appannamento dello specchio, che le piastrelle azzurre diventassero madide e l’aria irrespirabile, cominciava a pensare di finire soffocata, s’immaginava di essere ritrovata a terra, le labbra bluastre come il manico del suo spazzolino da denti, i capelli biondi appiccicati alla fronte. Vedeva i compagni di classe impietriti, zia Margit chiusa nel dolore, le insegnanti tristi e stupite. Solo i suoi genitori non riusciva a piazzarli nella scena del suo funerale. Papà avrebbe pianto sulla bara, inseguito dalla vergogna? Mamma si sarebbe fatta viva?

Apri, ti ho preparato l’asciugamano pulito.

Non la sgridava mai, faceva parte del loro gioco. Non le avrebbe mai detto qualcosa di brutto, non avrebbe mai alzato la voce.

Dobbiamo restare uniti, Ursula. Perfino mamma ci ha lasciati. Siamo solo io e te.

Non ricordava più se il gioco fosse iniziato prima o dopo che mamma era andata via. Forse era quello il motivo per cui se n’era andata. Non si dimentica una figlia: la si abbandona. Perché non l’aveva portata con sé? Poteva voler dire solo una cosa: Ursula era colpevole (schifosa), cattiva (marcia). Aveva provato a schivare le attenzioni di papà, ma le aveva mai rifiutate davvero?

Quel venerdì di fine marzo erano scese dal bus, Freya l’aveva salutata mentre già correva lontano. Ursula si era avviata verso la casetta di legno in fondo a un pendio erboso, quasi sul bordo dell’acqua.

Ursula, sei tu?

Aveva sentito la voce o l’aveva immaginata?

Aveva richiuso la porta d’ingresso, si era fermata nella penombra del piccolo ingresso. Le gambe tremolanti, lo zaino con la cinghia scucita in braccio, Ursula aveva atteso prima di decidersi a raggiungere la sua camera a piccoli passi. Aveva appoggiato lo zaino per terra, ai piedi della scrivania di legno chiaro su cui languivano un dizionario e alcune gomme colorate. Si era guardata intorno in cerca di una scusa per perdere altro tempo, tenendosi pronta per l’irrompere di quella voce che le avrebbe fatto serrare la bocca dello stomaco.

Si era tolta le scarpe, aveva infilato un paio di zoccoli di legno, era passata dal bagno per lavarsi e togliere dai vestiti ogni filo d’erba che potesse denunciare la sua fuga dopo la scuola. Poi aveva preso il corridoio verso la cucina, facendo rumore con gli zoccoli per annunciarsi (al padre non piaceva essere sorpreso), ascoltando i propri passi.

L’avevano colpita la tovaglia verde con le margherite sopra cui c’erano pane casereccio, formaggio e un piatto di aringhe affumicate. E il silenzio.

Era una situazione nuova, non sapeva cosa fare. Aveva provato a chiamare «papà», le era uscito appena un sussurro. Aveva aspettato al tavolo, passando la punta dell’indice sul contorno delle margherite. Il telefono aveva strillato a lungo, neanche quello aveva fatto apparire suo padre. Alla fine era andata a controllare in soggiorno, pensando di trovarlo addormentato sul divano di panno verdastro. La paura l’aveva talmente confusa che aveva cominciato a non fidarsi di quel che vedeva. Temeva di averlo sotto gli occhi e non riconoscerlo, o magari di trovarselo davanti all’improvviso.

Papà era in pensiero, Ursula.

Non era in soggiorno. Aveva scostato le tende gialline: in giardino, la vecchia sdraio a striscie bianche e blu era immobile al suo solito posto, un paio di attrezzi da giardinaggio giacevano per terra. Suo padre non c’era. Non era in camera sua, non era in bagno.

Papà non ti lascerà mai.

Quella frase era suonata sempre come una minaccia ma ora che cominciava a credere che fosse sparito, si era scoperta terrorizzata dalla possibilità.

«Mi ha lasciato.»

Il pensiero l’aveva folgorata. «Se la mamma è andata via, deve essere andato via anche lui.»

Restava il garage. Arrivando a casa aveva visto la vecchia Ford parcheggiata sulla piccola rampa d’accesso, di fronte alla saracinesca abbassata. Se la macchina era fuori, forse suo padre stava facendo qualche lavoretto di bricolage là dentro. Ursula aveva esitato qualche istante sul bordo della scala verso il seminterrato, da cui si accedeva al garage senza uscire di casa. Era scesa appoggiando le mani al muro perché non ci vedeva bene, sentendo ogni scalino con il piede prima di appoggiare il peso del corpo. Arrivata in fondo aveva trovato la porta semiaperta e l’aveva spinta con delicatezza: se suo padre stava lavorando era meglio non deconcentrarlo.

Siamo solo io e te, Ursula.

La prima e l’ultima cosa che aveva visto nella penombra erano le gambe penzoloni dentro un paio di pantaloni che conosceva bene. Era risalita di corsa inciampando due o tre volte, una delle quali si era rotta il labbro inferiore contro lo spigolo di un gradino, aveva infilato l’uscita col sangue che le colava sul mento e aveva continuato a correre all’impazzata, andando a sbattere contro zia Margit che le veniva incontro sul viottolo pieno di erbacce.

«Cosa ti prende, Ursula? Perché papà non risponde al telefono?»

Ursula aveva alzato gli occhi verso la zia. Hai visto, zia, io e papà abbiamo scelto lo stesso giorno per suicidarci ma lui ce l’ha fatta.

Non l’aveva detto. Le era venuto un attacco di riso incontrollabile.

Poi Ursula è di nuovo sola.

Il faro che vede oggi, dalla sua stanza nella casa di zia Margit, è quello di Molja, sul lato opposto del porto di Ålesund. Torna raramente ad Alnes, non tanto perché sia più distante (da quando hanno aperto tre tunnel sotto al mare Godøya è di nuovo raggiungibile in autobus, anche dal centro città), quanto perché non ha più bisogno di ululare al cielo: ha trovato un sistema più intimo e più comodo per fermare lo scolorimento che continua ad affliggerla. Deve ancora impratichirsi. Intanto ha imparato è stendere un asciugamano piegato in due sotto la gamba per evitare disastri sulle lenzuola. Smette di pensare, Ursula. Trattiene il respiro, stringe le labbra sottili e dà un taglio rapido verso il basso, senza premere troppo. Guarda il sangue che rapidamente comincia a colare in due rivoletti scuri lungo la coscia e imbratta il piccolo asciugamano azzurro. Poi espira con calma, aspetta che ritornino le tinte e l’opacità sul viso.

Il cassetto segreto. Conversazione con Costanza Quatriglio

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di Daniela Mazzoli

10.000 volumi, 167 periodici, 827 tra fascicoli, cartelle, raccoglitori, buste contenenti articoli, manoscritti, carteggi, fotografie. 12 scatole riempite di 2000 pezzi d’archivio sparsi originariamente all’interno dei volumi. Sei mesi di lavoro per ‘mettere ordine’ nella memoria di un grande testimone del ‘900: giornalista, fotografo, scrittore, firma storica del “Giornale di Sicilia”, vicino ad artisti e intellettuali, amico di Sciascia e Guttuso, instancabile viaggiatore, cronista di un secolo. 95 anni di vita compressi e custoditi nella casa di sempre.

Giuseppe Quatriglio ce lo racconta con un documentario sua figlia Costanza, regista. Si chiama Il cassetto segreto: prodotto da Indyca, Luce Cinecittà e Raicinema, è stato presentato a febbraio nella sezione Forum del Festival di Berlino. Questo ultimo lavoro di Costanza, che dal 2003 firma cortometraggi e documentari come L’isola, Anna!, Il mondo addosso, Il mio cuore umano, Terramatta, vincendo importanti premi internazionali, è iniziato inconsapevolmente qualche anno prima della morte del padre, avvenuta nel 2017. Quelle girate tra il 2010 e il 2011 sono riprese innamorate, da figlia che vuole fermare ancora un’immagine, quel corpo, un altro po’, farsi raccontare qualcosa, trattenere una voce, un accento. Non sa ancora che futuro avrà questo ‘gioco’ di relazione, la memoria si costruisce ‘alle nostre spalle’. Suo padre Giuseppe, invece, come molti genitori che hanno raggiunto con l’età una commovente forma di pudore, vorrebbe sfuggire l’obiettivo che lo immortalerà coi capelli fuori posto, la giacca da camera, in una ‘casamondo’, dove ogni libro, ogni scatola, ogni scaffale è portatore di altre storie, persone, fatti. Cose che lui solo sa dove sono…

Costanza: Il lavoro con i bibliotecari è iniziato nel gennaio del 2022. Avevo deciso di donare quell’enorme patrimonio alla Biblioteca Centrale della Regione Sicilia. Molti mesi dopo ho deciso di far diventare quello che stava succedendo nella casa di mio padre un film. Ho aperto la sua casa, che è stata anche la mia, al mondo, e mentre facevo questo la casa cambiava. Io stessa cambiavo. Filmare il processo di catalogazione e archiviazione ha ulteriormente trasformato le cose, perché, come sempre penso, il mezzo condiziona la realtà, e mentre la riporta, ne fa una relazione, la cambia. La camera da presa cambia il flusso degli eventi. Questo è molto interessante per me. Volevo testimoniare quel passaggio, la trasformazione di un mondo.

Dunque tutto parte da un dono. Costanza decide di regalare la memoria, e in un certo modo anche la vita di suo padre, alla comunità: vuole rimetterla in circolo. Ma fare un regalo a volte non è semplice. Comporta fatica, bisogna renderlo comprensibile, maneggevole. Mentre Costanza e i bibliotecari cercano di dare una forma a questo ‘oggetto’, l’oggetto sembra farsi sempre più grande, ingovernabile. Costanza scopre e riscopre cose: intanto la sua prima voce, registrata in una cassetta. Così inizia il documentario, col suo pianto venuto al mondo. Insieme a quella della neonata c’è poi la voce del padre Giuseppe, che la consola, la ninna. Ogni casa è una memoria di voci, in una casa tutto parla, anche le cose mute, i quadri, le lampade, i libri, persino le piante che si prendono le mura, i cancelli, che invadono e ingoiano tutto se nessuno le ridimensiona. Quella che vediamo nel documentario è la storia delle voci che hanno abitato questi spazi famigliari. C’è quella di Giuseppe e di sua moglie, quella di Costanza e dei registratori, delle cineprese, delle migliaia di foto e filmini.

Costanza: Il film è nato proprio mentre vivevo l’esperienza del fare, mentre guardavo i bibliotecari, osservavo la loro sapienza. Quello a cui assistevo e a cui partecipavo era un continuo dialogo tra caos e cosmo. Il caos era dato dall’apparire della moltitudine degli oggetti. Il cosmo era rappresentato dal riscoprire un’organizzazione del pensiero di mio padre, del suo catalogare le cose in un certo modo. E così anche il mio pensiero, nel frattempo, si è organizzato, e ha continuato a organizzarsi fino alla fine delle riprese e poi al montaggio. Non c’è stata cesura, non c’è stato un prima e un dopo; se avessi aspettato la fine dell’operazione non sarebbe stato lo stesso. Il film è iniziato mentre vivevo quell’esperienza, ma anche anni prima direi. Quando ho cominciato a filmare mio padre non pensavo che avrei fatto un film con lui o su di lui. 

Giuseppe Quatriglio è stato un perfetto testimone del secolo scorso, ce lo raccontano le sue foto: tutte un colpo al cuore, come il fotogramma che blocca la scena di un film che somiglia tanto alla vita. Le sue foto sono contemporaneamente vere e immaginarie, fanno parte del nostro patrimonio collettivo eppure ci rivelano istanti personali di una lunghissima storia. Non solo il muro di Berlino, il terremoto del Belice, New York, Stoccolma, il Giappone, ma anche Cary Grant, Wiston Churchill, Anna Magnani.

Costanza: Con questo film non ho voluto raccontare solo la sua avventura di vita e di esplorazione del mondo e del Novecento. Ma anche cose che mi riguardano. Tutti quegli oggetti appartengono anche a me, alla mia memoria infantile, sono talmente famigliari che diventano anche consolatori, una compagnia. Sono stati parte della mia educazione. Anche io sono quella casa, sono anche io un libro. Anche io faccio parte dell’archivio. E certo, anche io ho archiviato una parte di me, per un riuso futuro. Quello che ho cercato di fare, donando la biblioteca di mio padre alla Regione Sicilia, è stato creare l’occasione per uno sguardo possibile che va nel futuro. Volevo che quel tesoro potesse essere guardato e usato da altri.

Quello di Costanza nel film è anche uno sguardo ‘altro’. La regista guarda suo padre come un adulto con una e molte vite prima che lei nascesse e come un professionista con una storia propria, amicizie, idee, sogni. Mentre racconta la storia del più intimo degli affetti gli diventa anche ‘estranea’, e quella distanza aiuta il racconto, mette a fuoco l’obiettivo. Il risultato è più straziante perché meno sentimentale.

Costanza: Leggendo tutto e avendo avuto accesso a tutto posso dire che ho conosciuto dei lati della vita di mio padre che ignoravo, e ho trovato per esempio un certo amore per il cinema che io non conoscevo in lui. E ho scoperto anche un suo sguardo giocoso nei confronti della vita, forse più stupito, più curioso di come lo ricordavo. E questo è successo perché non sono stata solo figlia mentre facevamo questo enorme lavoro di catalogazione, ma sono diventata quasi una collega che osservava Giuseppe a prescindere dal fatto che fosse mio padre. Ho capito che anche per lui era forte l’idea della testimonianza. Si è sempre messo un passo indietro, in uno stato di ascolto che crea lo spazio per consentire all’altro di emergere. Questo è un film particolare per me, perché la voce dell’altro è la voce della casa, dell’archivio, della figlia anche. Ed è contemporaneamente un film di memoria collettiva. Le sue foto, i suoi racconti, i suoi viaggi, appartengono a tutti.

In una delle ultime immagini Costanza percorre le strade del cretto di Burri. Giuseppe era stato cronista di quel tragico terremoto del Belice che nel 1968 aveva spazzato via case e vite. E in mezzo ai blocchi che seppelliscono i resti di quelle case, di quelle vite, con un orizzonte di nuvole bianche come il cretto, Costanza Quatriglio sembra volerci consegnare non più un segreto ma un mistero: quello delle vie scelte tra mille per raccontare una storia, e insieme dell’impossibilità di rappresentare e catturare la verità delle cose. Possiamo solo continuare a cercarla, ad ascoltarle.

 

Poesia, dhamma e errore

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di Giovanni Cianchini

Il maestro di dhamma Corrado Pensa durante le sue lezioni usava fare riferimento a insegnamenti dei maestri antichi e moderni, buddhisti e anche cristiani o di altre tradizioni. Uno degli insegnamenti era questo (1): se siamo ossessionati dal voler fare qualcosa, se siamo mossi da brama o rabbia o ignoranza, non faremo niente di buono. Un altro era: per fare un lavoro contemplativo dobbiamo liberarci dal conosciuto, rinunciare a qualcosa come ricordi, curiosità, interessi vari; trovare uno spazio pulito nella mente. Un altro ancora: se vogliamo fare qualcosa nello spazio civile – ad esempio, volontariato o politica – dobbiamo stare attenti a cosa siamo riusciti a fare con noi stessi, perché quello che riusciamo a dare agli altri corrisponde a quello che siamo riusciti a dare a noi stessi.

Se qualcuno risiede in questa forma di vita, intendo la pratica del dhamma, non può fare a meno di considerare il fare poesia in questa dimensione. Naturalmente questo non ha niente a che vedere con i trip degli anni Sessanta/Settanta. Anzitutto: la poesia viene dopo la vita, dopo il dhamma, che vuol dire liberarsi dall’ossessione di essere creativi, innovativi eccetera.

Secondo: fare poesia è uno spazio contemplativo, che vuol dire ovviamente rinunciare ad altre cose, diciamo contingenti o pratiche. Ma ci sono altri livelli, più sottili di rinuncia. Una sorta di spoliazione dell’io. Qualcosa che può essere detto, invece si tace. Oppure, qualcosa vuole essere detto proprio con gli spazi di silenzio e vuoto della pagina. Ad esempio, nel cinema, la poetica dei piani vuoti di Ozu. Osserva George Steiner (2) che questa “rinuncia” si vede in certi maggiori poeti: “al di là delle poesie, quasi più forte di esse, è il fatto della rinuncia, la scelta del silenzio”. Ma forse questa attitudine al silenzio può averla solo chi è arrivato vicino alla vetta. Dopo la lunga inerpicata, dove l’ossigeno è rarefatto e manca il respiro.

È difficile praticare il silenzio quando il linguaggio che ci abita viene quotidianamente sommerso dall’onda sporca degli iperoggetti, invisibili, della comunicazione. Quando tutto il dicibile viene arruolato per promuovere stili di non-vita, o vita riflessa. Non è il senso del fare poesia, reagire a tutto questo?

“Quando nella polis le parole sono colme di barbarie e menzogne, niente parla più forte della poesia non scritta” (2). Questa è una soluzione, ma non può essere generalizzata.

Ecco un problema di dhamma: la rabbia, l’indignazione. Bisogna trovare uno spazio pulito nella mente, ma cosa fare con il senso violento di ingiustizia per le stragi di specie affamate aspettando la minestra? Mentre le democrazie tacciono, gli eletti, i pacificati, i difensori della pace tacciono. Dov’è la sponda, quale preghiera placa questa indignazione, per nulla decente?  Mentre un maestro muore. Dov’è la connessione?

E come trovare le parole per dirlo?

Allora viene in mente Fortini e la sua idea di poesia come valore. L’indignazione non si cancella. Fare versi è una forma di vita in sé, dove si mette in discussione tutto. Si mette persino se stesso nella lista dei nemici, per osservare più attentamente. Il dhamma è una forma di attenzione, fare versi è una forma di attenzione. E che sia pure con la stampella di un’ideologia. Le stampelle servono, eccome.

Fortini, parlando dei primordi della rivoluzione russa, ne rimarca il valore di cosciente trasformazione umana; un’azione come da santi: la ricerca della piena coerenza ai propri ideali e della comune felicità. C’è qualcosa che risuona con certi insegnamenti sapienziali. A prescindere dalla inattualità dell’ideologia marxista, il linguaggio di Fortini è un linguaggio transitivo, che vuole trasmettere uno stile di vita e di pensiero. Un linguaggio che non si accartoccia su se stesso, “che non ci cattura nella sua ragnatela” (3).

Ma il Fortini saggista intende la poesia un errore epistemologico, perché le cose importanti – il principio dialettico, il senso materialista della storia – vi possono essere trasmesse soltanto per errore, oppure è un errore provarci.

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Parto da un altro punto. Dal Bianco (4) distingue un’etica della poesia da quella della teoria o della critica; presumo che per etica intenda il comportamento epistemologico e comunicativo. La poesia ha un modo di conoscere specifico e peculiare: “una ricerca di verità che passi assolutamente attraverso le fibre del soggetto”.

Il mio Etica dei ritagli (Arcipelago Itaca 2023) si avvicina a questa idea: un modo di conoscere – e un atteggiamento estetico – fatto di ritagli, che diventano mezzi di conoscenza, rudimentali quanto si vuole. Sono ritagli da stili e culture e mondi letterari diversi.

Grazie a questa molteplicità, il soggetto vorrebbe perdersi per strada, liquefarsi nei tanti rivoli. Ma non per un principio buddhista di annullamento del sé; semmai per un senso di fastidio della presenza. In realtà il soggetto non si perde, perché i ritagli lo vanno sempre a cercare. Semmai, diventa sfuggente, difficilmente riconoscibile. Un io “aumentato, continuamente esplorato, dilatato, slabbrato, consumato…” (5).

L’etica dei ritagli fa riferimento anche allo stile di vita di un lavoratore medio con famiglia. Tutto quello che si può conquistare dei tempi di valore sono ritagli: dato questo fatto, si tratta di dare a questi ritagli un’etica, un comportamento sociale e comunicativo cosciente.

I tempi di valore però non sono fuori dalla vita concreta:  sono ritagliati dentro come momenti eletti. Dentro una forma di vita, ci sono momenti nei quali si forma il linguaggio (il linguaggio per dirla). La distinzione tra tempi ordinari e tempi di valore esiste; quello che li distingue è una cosa almeno:  la qualità dell’attenzione. Ma non è un’attenzione al semplice presente, è attenzione sedimentale, storica, che comprende il tempo storico e soggettivo, la durata  (il tempo ridicolo, “stretching before and after” di Eliot, la “durata” di Handke).

In epigrafe al libro è indicata la frase “l’etica del presente e della morte ha orrore della perfezione come ha orrore del potere, perché non li sente reali” (4). Mi sembra evidente un sottofondo esistenzialistico, compresa una istintiva repulsione per le forme visibili del potere. Ma la frase sottende una domanda (Dal Bianco si riferiva all’uso delle forme metriche tradizionali, ma si può estendere la questione).

La questione è ben nota e ampiamente trattata, ma ogni volta si ripresenta come un problema, credo, personale: come parlare oggi delle macerie, delle specie in fila per la minestra, di quell’incerto territorio di confine tra le ragioni individuali e collettive, del senso di perdita di terra e di patria che incrocia aggrediti e aggressori ? E’ il tema della nominazione e delle figure retoriche:  è ancora giusto usare la metafora? Le similitudini sono sempre state usate, anche nella Bibbia (occhi come fiamme di fuoco; il regno di Dio come un granello di senape). Ma qui interviene ancora Fortini: “nega l’eterna lirica pietà/mi dico, la fantastica separazione/del senso del vero dal vero/delle domande sul mondo dal mondo…” (6).

Si potrebbe dire che è giusto chiamare le cose con il loro nome. Ma qual è il loro nome? In qualche modo bisogna entrare in questo errore senza confini, senza protezioni e senza scuse.

La poesia ha un comportamento epistemologico suo proprio. Questo vuol dire mettere in discussione qualsiasi dogma e verità prêt-à-porter. Via le stampelle. Per tanti fenomeni (figuriamoci per certi misteri, per certe epifanie) non si può far altro che girarci attorno, in un modo perifrastico, avvicinarsi lentamente, come all’uccello sul ramo.

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  1. C. Pensa, in Sati, Roma anno XXII n.2
  2. G. Steiner, Il silenzio e il poeta, Milano 2001
  3. C. Martì Aris, Silenzi eloquenti, Milano 2002
  4. S. Dal Bianco, Distratti dal Silenzio, Macerata 2019
  5. L. Cingolani, introduzione a G. Cianchini, Etica dei ritagli, Osimo 2023
  6. F. Fortini, Questo muro, Milano 1973

*

Gift of a seaside place

Gli dà il ritmo lo struscio del ginocchio sul velluto, nel bus

in una pausa del desiderio

Vola con le palline di polistirolo, sbriciolato da ragazzine dispettose, sui piatti

in terrazza prima del temporale

Lo indicano le frecce di luce sul soffitto, in camera dove vai a riposare

ma prima, vuoi un ultimo respiro cosciente

Stride nella sega elettrica giù in cortile, grida col principale che sgrida il rumeno

siede col principale che si fa un bicchiere

Lo cercavi voltandoti di scatto, durante la camminata all’ora di cena

aspettando qualcuno, tra i cortili vuoti, ancora una volta

cercavi un passo

autentico, un movimento ininterrotto

per non esserci stato invano

Lo strilla la ragazzina disperata al suo primo bagno di mare

lei la piccola, lei la grande, solo un momento dài

l’asciugamano la merenda e poi giochiamo

a nascondino, dài, tutta la vita a nascondino

*

La sera del mio compleanno di maggio, dopo la luna nuova

sono sceso nella sala dei libri e delle foto

Amara detta Theo fragile in bianco col marito cicciobello a Milano

Simo la rossa lingua rovente vedova thai, sembianza di madre mia

la signora ambasciatrice, la sacerdotessa

il giornalista canna di bambù curvo sulla verità, il dhamma

i centenari esploratori di Eliot (here and now does not matter)

Sono tutti morti, mi ripeto

camminando nel buio

verso le grotte nella via dell’istrice e del serpente

La storia di uno è la storia di molti, qui

aspettando un incontro che non avviene

semplicemente perché è già avvenuto

in un vuoto dello spaziotempo

in una pausa del senso

una memoria difficile da maneggiare.

Mi capita però di toccare dei sandali

adusi alle terre riflessive

Alla grotta, il telo bianco antizanzare

con cui Ajahn Chah sfidava i fantasmi

accende la luce che allontana i distratti

i curiosi, camminanti il bosco

E sono lieto stavolta di sentirmi lasciare

andare, e che basti davvero

Ma l’aria è densa dei morti

l’aria parla dei morti

di questa storia plurale

dei gesti pieni di grazie faticose dissidi

in famiglia, relazioni sconfitte

Francesco non salutò suo padre

Siddharta partì di notte.

A volte madri e figli venivano a braccetto

ma dietro la casa di legno

altri demoni aspettavano

Quei figli, venuti su un po’ strani

quei padri, figli dei loro figli

e quelli che andavano via di notte

lasciando un biglietto, come innamorate deluse

Sono tutti morti, squittisce il ghiro

dov’è il rifugio? Dimmi, Ananda

Vado nell’incognito, mainé. Come amici

i brividi e il bisogno di pisciare

Grido, non serenata. Poesie di lotta e di resistenza

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Insistendo sull’urgenza di questo 25 aprile, ospito qui alcune poesie (Ángel González, Fayad Jamís,Bertolt Brecht), di lotta e di resistenza, scelte da Erri De Luca per la raccolta Grido, non serenata, pubblicata da Crocetti. Ospito anche la sua nota introduttiva.

 

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Questa raccolta risponde all’insindacabile opera del caso che qui si è manifestato in forma di scaffali affastellati di libri di poeti accumulati da mio padre, poi da me. Li ho sfogliati in cerca delle pagine da offrire, non più di qualche poesia per ogni poeta. La parola per me comprende femminile e maschile. L’ho imparato da Anna Achmatova che si dichiarava poeta e non poetessa. In russo le due parole sono uguali alle nostre. Sono pagine da condividere leggendole alla tavola di una sera che si prolunga e che lubrifica col vino le corde vocali. Sono poesie da dire, pronunciare aggiungendo il proprio fiato. Evito il verbo recitare che in parte le falsifica. Tra i dischi di mio padre alcuni erano incisioni di versi letti da attori. Calcavano coi toni della voce impostata, appunto: recitavano. Chi dice un verso muove anche le labbra di chi lo ha scritto. La poesia permette questa coincidenza e quella di ispirazione politica accomuna i sentimenti di giustizia di chi ha scritto e di chi legge. Qualche poeta è stato un incontro e mi ha ribadito nelle convinzioni. Qui ne cito uno soltanto, a nome dell’insieme. Ante Zemljar partigiano jugoslavo, prigioniero prima dei fascisti italiani poi dei suoi stessi compagni dopo la guerra, a causa di divergenze. Questa prigionia fu la peggiore, a spaccare pietre sopra l’Isola Nuda, a subire percosse di guardiani. Anche lì di nascosto, su carta da imballaggio di cemento e con un carboncino, scriveva dei versi veloci che nascondeva sottoterra.  Ne sono stato amico. In questa raccolta manca per difficoltà varie, ma non manca a me. Con questa nota lo segnalo a chi vorrà cercarlo.

Ne sono stato amico. In questa raccolta manca per difficoltà varie, ma non manca a me. Con questa nota lo segnalo a chi vorrà cercarlo. Ho fatto parte di una gioventù politica che aveva dalla sua la quantità numerica e l’istruzione superiore, miscela che fu allora detonante. Ho fatto parte di una massa critica intransigente e perciò avversata con l’antico sistema delle prigioni. Cerco nei poeti il grido, non la serenata. Qui ci sono quelli che mi è capitato di raccogliere durante la mia già lunga durata. Mancano arbitrariamente tutti gli altri che chi legge potrebbe aspettarsi di trovare. La scelta è tanto occasionale quanto personale, lacunosa come si addice a chi, leggendo spesso, si è fatto un’idea di quanto ha tralasciato. Non mi sono permesso di includere alla collezione una mia poesia. Resto nelle retrovie di questo libro, da addetto al suo rifornimento.

Erri De Luca

 

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Ángel González
(Oviedo 1925 – Madrid 2008)

Lo sconfitto

Dietro sono rimaste le macerie:
fumanti brandelli della tua casa,
estati incendiate, sangue disseccato,
su cui s’ingrassa – ultimo avvoltoio –
il vento.

Tu ti metti in viaggio, e vai avanti
verso il tempo detto a ragione futuro.
Perché nessuna terra
possiedi,
perché nessuna patria
è né sarà mai tua,
perché in nessun paese
può radicare il tuo cuore disabitato.

Mai – ed è così semplice –
potrai aprire un cancello
e dire solo questo: “Buongiorno,
mamma”.
Anche se effettivamente il giorno è buono,
c’è grano nelle aie,
e gli alberi
stendono verso di te i loro stanchi
rami, offrendoti
frutti e ombra per farti riposare.

Traduzione di Dario Puccini

 

*

 

Fayad Jamís
(Zacatecas, Messico 1930 – L’Avana 1988)
Per questa libertà

Per questa libertà di canto sotto la pioggia
bisognerà dar tutto
Per questa libertà di essere strettamente legati
alle salde e dolci viscere del popolo
bisognerà dar tutto
Per questa libertà di girasole aperto nell’alba di fabbriche
accese e di scuole illuminate
e di terra che scricchiola e di bambino che si sveglia
bisognerà dar tutto
Non c’è alternativa se non la libertà
Non c’è cammino che la libertà
Non c’è altra patria che la libertà
Non ci sarà poema senza la violenta musica della libertà
Per questa libertà che è il terrore
di quelli che sempre la violarono
in nome di fastose miserie
Per questa libertà che è la notte degli oppressori
e l’alba definitiva di tutto il popolo ormai invincibile
Per questa libertà che illumina le pupille infossate
i piedi scalzi
i tetti sforacchiati
e gli occhi dei bambini che vagavano nella polvere
Per questa libertà che è l’impero della gioventù
Per questa libertà

bella come la vita
bisognerà dar tutto
se fosse necessario
perfino l’ombra
e non sarà mai abbastanza.

Traduzione di Marcelo Ravoni e Antonio Porta

 

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Bertolt Brecht
(Augusta, Germania 1898 – Berlino Est 1956)
Mio fratello aviatore

Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che s’è conquistato
è sui monti del Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.

Traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini

“Mimma” Cornelia Quarti, una vita antifascista

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di Nadia Agustoni

A chi gli chiedeva, perché dopo qualche anno dalla vittoria sul nazi-fascismo e l’impegno partigiano in Giustizia e libertà, avesse lasciato l’Italia per l’Inghilterra, Luigi Meneghello, rispondeva che gli sembrava che qui non lo volessero più. Parole di profonda amarezza per chi aveva creduto in un paese migliore. “Mimma” Cornelia Quarti giovanissima antifascista e poi partigiana, nata ad Albino, paese vicino a Bergamo, per le stesse ragioni di Meneghello, vivrà dal 1948 in poi tutta la sua vita in Francia. Nel suo caso peseranno, oltre alla dispersione dei valori della resistenza, anche l’essere donna, medico e scienziata in una nazione chiusa alle istanze di libertà femminile.

In un’intervista rilasciata all’ISREC trent’anni dopo, nel 1978, Cornelia Quarti racconta la propria esperienza come partigiana e arriva a chiedersi se nell’Italia delle stragi fasciste e dei fascisti in parlamento, potrà mai cambiare qualcosa, perché dopo le grandi speranze dei movimenti antagonisti e particolarmente del movimento operaio degli anni ‘70, tutto sembrava tornare a una stasi, se non a un arretramento.

“Mimma”, nome di battaglia, veniva da una famiglia antifascista la cui casa fungeva da collegamento per il gruppo di Giustizia e libertà. Sia lei che il fratello Bruno furono nella resistenza e vicini a figure come Leo Valiani, Pertini, Parri, Del Pra. In particolare “Mimma” fu impegnata sia come staffetta che nel compito di far espatriare ebrei e militari stranieri verso la Svizzera e ricoprì anche un ruolo nella Special Force alleata.

All’inizio della sua militanza nel partito d’Azione, tradita da una spia, subirà l’arresto dalle SS italiane al comando di Gino Strohmenger. Liberata, ma solo dopo aver riportato serie lesioni e solo perché li convinse di essere una ragazza trascinata in qualcosa che non capiva del tutto dal fratello maggiore, che nel frattempo come lei ben sapeva si era messo al sicuro, si dà alla clandestinità ricoprendo ruoli sempre più impegnativi.

Nella clandestinità opererà tra Milano e la Svizzera. Questi anni, densi di pericolo e speranza, di paura e atti di coraggio quasi inimmaginabili anche per chi li compie, lasceranno su di lei un segno indelebile.

Nel primo dopoguerra, dopo una breve esperienza come giornalista, conseguita la laurea in medicina lavorerà da prima all’ospedale di Bergamo per poi emigrare a Parigi. In Francia diventerà una scienziata di rilievo e sperimenterà su di sé gli effetti di un farmaco come la Torazina.

Insignita della legione d’onore per meriti scientifici, un suo libro sui legami parentali avrà molta risonanza all’estero e porterà la dedica alla madre Maria Taino Quarti e alla compagna Anne Gruner Schlumberger.

Morirà nel 1984 e verrà, per sua espressa volontà, sepolta a Scanzorosciate vicino alla madre e ad Agnese Vitali che era stata a lungo governante in casa Quarti.

Durante la pandemia di Covid del 2020 è stato realizzato in video un monologo a due voci “La tredicesima ora” scritto da Mauro Lena e Michele Fiore e messo in scena la prima volta il 25 aprile 2013. Nel video a brani dell’intervista a “Mimma” Cornelia Quarti si alterna la voce dell’attrice Irene Martinelli.

Un breve cenno a Mimma Quarti è anche nella biografia che Benjamin Moser dedica a Susan Sontag, da cui sappiamo della sua amicizia con Nicole Stéfane Rothschild, altra figura singolare della resistenza francese e poi attrice di cinema e teatro, regista e produttrice di vari film. Si consolidava allora una solidarietà femminile in continuità con le idee di una liberazione per tutte e tutti che avvenne solo a metà.

A Scanzorosciate passo un pomeriggio a cercarne la tomba. Qualcuno ancora ne ha cura e alla memoria delle donne bergamasche nella resistenza è dedicata questa pagina:

Prospettive femminili sulla Resistenza bergamasca

Ad Albino, da anni, con l’iniziativa “impronte partigiane” si ricordano i combattenti del paese.

Vorrei Parigi adesso

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di Giovanna Cinieri

 

Ho paura che un camion mi travolga. Temo di finire tagliata in due da una lamiera o che un tronco a punta trasportato da un vecchio furgone sulla strada provinciale per Martina Franca mi trapassi. Anni fa sfrecciavamo io e mio fratello sulla Taranto-Bologna senza soste a velocità inconcepibili e io ascoltavo musica: nessun terrore, avevo un cuore che era un mostro corazzato, tracimava luci dove manco Dio le avrebbe messe.

Sono tornata da Parigi da un mese, ho trovato Amilcare che non si tiene dritto sulle zampe: scivolano sul pavimento di marmo aprendosi come un mazzo di brugmansie arboree. Ho tenuto in mano un mazzo di brugmansie una volta: erano così bianche, le avevo prese dal giardino di mia madre, il loro albero le faceva nascere già appese, poi la notte diventavano lenzuoli abitati da fantasmi. Le brugmansie comunque mi davano sonno e Amilcare è così che lo vedo ora: come se dovesse dormire. Se penso al desiderio delle creature più piccole di restare sveglie sui bordi della terra mi viene da piangere.

All’appuntamento di venerdì scorso dal veterinario ci siamo andati in macchina, guidava mio padre: io tenevo Amilcare in braccio, ho pensato che il vetro dell’auto impattando con una qualunque delle auto della corsia opposta ci sarebbe scoppiato in faccia, saremmo stati io e il mio cane riflessi in centinaia di piccole schegge. Amilcare se ne sta andando, il veterinario me l’ha poi confermato: cosa pretende? mi ha detto guardando il suo corpo accasciarsi sulla lastra di metallo lì di fronte a noi — si stanno scaricando le batterie.

Soffre? Ho chiesto io.

Se non beve e non mangia, certo. Quindi ci pensi, ha detto mentre mi chiudevo la giacca prima di lasciare l’ambulatorio.

Andarsene a tratti, un boccone rifiutato alla volta, un goccio d’acqua che non scende, la sete che poi passa e non ritorna, che modi sono di farmi sentire l’eterno? Non riesco a contenere nessun infinito, se lo guardo da lontano già scompare, qui c’è è un mostro che lo terrebbe in vita anche a intermittenza, in un perenne panico, ma tra i fiori, amore caro, tra i fiori.

A Parigi ho visto per la prima volta Notre Dame, poi sono andata a inginocchiarmi ai piedi della statua di Giovanna D’Arco, sapevo che Amilcare era a casa di mia madre ad aspettarmi. Tutte le inutili preghiere bruciano, per questo a dieci anni diedi fuoco al giardino: la prima cenere caduta è stata quella delle brugmansie arboree, che magnifica danza hanno fatto, più belle di così non sono mai state. Mia madre gridava, eravamo sole dentro casa, io le presi la mano sudata e le dissi: siamo al riparo, pensa che sono solo luci dove Dio non le avrebbe messe. Poi vennero a spegnere tutto.

Ogni giorno è una parte di Amilcare che non risponde, ha la cuccia in camera da letto e intorno alla stoffa si annidano ciuffi di pelo rosso, li raccolgo piegandomi storta, il dolore che sento è imprecisato. Fuori dall’appartamento sono tutte auto che vorrebbero investirmi. Ogni ora della notte è anche peggio: posto che dalle diciannove in poi non ho nessun rimedio per Amilcare che si lamenta molto più che di giorno, la notte è una veglia su di lui che sonnecchia e sospira. Gli faranno male le ossa, le sue piccole ossa sottili; potessi mi farei una collana con le sue falangi e indossandola direi: questa collana è una mappa e se non vedi segnata Parigi è perché Amilcare non è potuto venire.

Vedessi invece i suoi occhi, pare che non abbia visto che questa stanza da letto in cui giace: una pupilla è ormai andata, non ci vede più per via della cataratta e il resto del colore scuro si è perso come un bambino in un parco dismesso. Vorrei Parigi adesso, l’albergo aveva una carta da parati con sopra stampati tanti cani diversi che indossavano occhiali da sole, ridevo di niente.

Ci pensi, mi ripete il veterinario quando lo richiamo. Io volevo solo avvertirlo delle feci liquide che ho trovato nella cuccia, se l’è fatta addosso mentre sdraiato guaiva.

Allora ho lavato Amilcare e l’ho preparato per uscire. Ho chiamato di nuovo mio padre per farci accompagnare. E siccome il mio cuore mostro non è più corazzato, una volta chiuso il telefono ho pianto per ogni singolo minuto che andava. Io ho messo quella giacca nera col pelo di orso, su di lui una coperta rossa da Cardinale. Abbiamo sceso le scale, sembravano altissime.

Ma è un perenne panico questo metterti tra i fiori, amore caro, tra i fiori. Le brugmansie arboree ancora bruciano.

Una volta aperto il portone i fari di enormi camion a tutta velocità ci hanno puntato addosso, autobus hanno deragliato e macchine ribaltate hanno cominciato a rotolare sulla strada. Sono rientrata nell’atrio, ho stretto più forte Amilcare, e senza avere più fiato ho richiamato mio padre: ci vogliono investire, papà, ci vogliono investire!

Rientrando dentro casa ho pensato alla lentezza. Ci sono solo porzioni minute di cose che si fermano, le altre si schiantano, perciò ho messo Amilcare nella cuccia e ho ripreso ad ascoltare musica.

Vigilanza nera, ascolto bianco. Considerazioni critiche sull’antirazzismo europeo

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di Andrea Inglese

Nel numero doppio 66-67 di “Testo a fronte”, che raccoglie i due semestri del 2022, pur essendo in realtà in circolazione solo da qualche mese, vi è un ampio dossier monografico su Zong! di NourbeSe Philip, curato da Lorenzo Mari. Le circostanze, che hanno occasionato un tale lavoro collettivo, risalgono al doloroso scontro tra l’autrice, da un lato, e la traduttrice, il curatore e gli editori della versione italiana del libro, dall’altro (Zong! Come narrato dall’autrice da Setaey Adamu Boateng [2008], a cura di R. Morresi e A. Raos, Colorno, Benway Series / Tielleci, 2021). Assieme a una serie di articoli quasi interamente scritti da addetti ai lavori – studiosi universitari di traduzione, letteratura nordamericana, questioni postcoloniali –, è stato raccolto anche un mio intervento apertamente “non specialistico”. In un caso, che riguarda un’opera complessa come il libro della Philip, il riferimento alla letteratura specialistica è praticamente obbligato, ma le questioni di portata più ampia, politiche e culturali, che esso solleva – e ha sollevato in ragione del dissidio sopracitato – non possono rimanere confinate alle cerchie del mondo accademico.

Del mio saggio presento qui i due capitoletti più importanti. Aggiungo solo due parole sul titolo. Non esistono popoli neri o bianchi come non esistono popoli mori o biondi, alti o bassi. L’esistenza di popoli neri o bianchi è una finzione storica creata da certi popoli (europei) per consolidare il loro progetto di sfruttamento illimitato di manodopera e di risorse di altri popoli (dell’Africa subsahariana). Pur essendo frutto non di natura, ma d’invenzione umana, questa frontiera distintiva non ha però cessato di esistere in molte circostanze del mondo attuale, come le forme di razzismo ordinario o istituzionale, in occidente e altrove, dimostrano. Per questo motivo, affrontando le questioni relative al razzismo inscritto nella storia e nella cultura europea, qualsiasi riferimento a una immediata e trasparente umanità, priva di ogni colore, mi sembra insufficiente. Finché il “nero” non sarà per davvero un colore indifferente, neppure il “bianco” potrà esserlo. Siamone consapevoli, soprattutto noi (europei, occidentali) che ci credevamo fatti del “non colore” dell’universale umanità.

(…)

4. Disumanità europee: Aimé Césaire, Primo Levi, Toni Morrison

Guardare la storia della tratta atlantica e del colonialismo europeo da vicino non è più facile nel secondo decennio del XXI secolo che nell’ultimo del XX secolo. L’oblio, l’ignoranza, la semplificazione sono innanzitutto dei meccanismi di protezione. C’è una storia di sofferenze e di crudeltà estreme, di disumanizzazioni e disumanità inconcepibili, da cui vorremmo essere tagliati fuori e che vorremmo tagliare fuori dalla nostra identità collettiva di europei bianchi. È una storia che è stata difficile da scrivere, e lo è ancora, in termini non soltanto di volontà, ma per questioni tecniche, che riguardano la natura delle fonti, e anche per i limiti espressivi, di colui o colei che la scrivono. E, a maggior ragione, è una storia difficile da leggere, perché ci confronta con una realtà abissale, che bisognerà in qualche modo avvicinare e fare nostra.

Nel suo Discorso sul colonialismo del 1950, Aimé Césaire dice due cose che la maggior parte degli europei non è stata probabilmente in grado di ascoltare all’epoca: 1) “questo nazismo, è stato tollerato prima di essere subito, è stato assolto, non lo si è voluto vedere, lo si è legittimato, perché fino ad allora non si era applicato che a dei popoli non europei”[1]; 2) “Al compimento del capitalismo, desideroso di sopravvivere, c’è Hitler. Al compimento dell’umanismo formale e della rinuncia filosofica, c’è Hitler”. La Shoah è stata a lungo considerata come un evento storico incommensurabile, unico nella sua barbarie, a tal punto da porre artisti e scrittori di fronte al dilemma di una sua possibile “rappresentabilità”. Storici e altri studiosi ne hanno cercate le cause nel razzismo cristiano nei confronti degli Ebrei, nei nazionalismi e nel razzismo scientifico dell’Ottocento, nella follia di una ragione strumentale ignara dei propri fini. Immagino che, per lungo tempo, non sia stato possibile leggere lo sterminio nazista degli ebrei in continuità con il colonialismo europeo e la tratta atlantica degli schiavi africani. Césaire semplifica la storia dell’antisemitismo europeo, affermando che il nazismo è divenuto insopportabile agli occhi degli europei quando ha applicato ai “bianchi” la violenza illimitata che i coloni applicavano agli algerini, agli indiani o alle popolazioni subsahariane, ma ci obbliga a riconoscere che un identico processo di “fabbricazione dell’Altro” – per usare un’espressione della scrittrice afroamericana Toni Morrison – ha funzionato nei confronti degli schiavi neri e dei popoli colonizzati, così come, più tardi, nei confronti degli ebrei e di altre minoranze quali i rom e i sinti. La fabbricazione dell’Altro, così come la descrive Toni Morrison, implica un duplice movimento di carattere intellettuale e affettivo: non solo disumanizzo un gruppo umano in base a una serie di tratti fisici, culturali o religiosi, ma confermo in questo modo la mia appartenenza all’umanità. Questa operazione è stata ben analizzata dai testimoni e dagli studiosi della Shoah, e Primo Levi per primo ha insistito sulla centralità dei dispositivi culturali ed educativi, in grado di produrla. Ma essa è indispensabile, come ricorda Morrison, anche per rendere possibile la pratica quotidiana della schiavitù: “La necessità di fare dello schiavo una specie aliena sembra un tentativo disperato per confermare che si è noi stessi normali. (…) Il pericolo di compatire lo straniero sta nella possibilità di diventare lo straniero. Perdere il proprio rango definito dalla razza, significa perdere la propria differenza, consacrata e apprezzata”[2].

Non è però sufficiente cogliere alla radice dello schiavismo e del colonialismo occidentale quella “fabbricazione dell’altro” che è all’opera anche nell’antisemitismo europeo e che ha prodotto, nel secolo scorso, quell’evento senza precedenti che è la pianificazione industriale del genocidio ebraico. Sia l’istituzione della schiavitù sia il razzismo, sono fenomeni ampiamente universali. Basterà ricordare in proposito la tratta transahariana e verso il Medio Oriente organizzata dai mercanti arabi tra l’VIII e il XIX secolo, che coinvolse secondo alcune stime 17 milioni di schiavi provenienti dall’Africa subsahariana. Se una continuità può essere vista tra la tratta atlantica, il sistema della piantagione, la dominazione coloniale e l’universo concentrazionario nazista, essa implica il riconoscimento di una singolarità europea nella storia immemorabile della sopraffazione e dell’annichilimento di certi esseri umani da parte di altri esseri umani. La Shoah, ricorda Levi nella prefazione ai Sommersi e salvati, ha costituito per l’umanità novecentesca, per le sue capacità di comprensione e raffronto, un unicum. “In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo, di crudeltà”.[3] Nell’articolare il suo ragionamento, Levi passa in rassegna una serie di eventi storici – dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki ai Gulag, dalla guerra del Vietnam all’”autogenocidio cambogiano” – per affermare che nessuno di essi possiede “sia come mole sia come qualità” le caratteristiche crudeli e distruttive del Lager. È poi interessante notare come, a conclusione di questa riflessione, egli si soffermi su quello che potrebbe essere l’unico controesempio importante rispetto alla sua tesi, ossia il genocidio di “60 milioni di indios” provocato dai “conquistadores spagnoli” nel corso delle sedicesimo secolo. Per Levi, però, questo genocidio – nonostante l’enorme quantità di persone che ha travolto – non si è svolto né in modo pianificato né con il coinvolgimento diretto dello Stato. E chiude con questa frase: “Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano ‘cose di altri tempi’?”[4]

5. Per una società post-occidentale

È singolare che Levi, tra i più consapevoli e lucidi scrittori della sua epoca, non prenda in considerazione nel corso del suo ragionamento proprio la schiavitù atlantica, l’evento prolungato su diversi secoli che collega la conquista delle Americhe al colonialismo europeo sopravvissuto nel secondo dopoguerra. È lui stesso, d’altronde, a fornirci una chiave di comprensione che vale non solo per la sua generazione, ma anche per quelle venute dopo, e di cui io stesso faccio parte. Le navi negriere, le piantagioni, la dominazione coloniale sono state percepite a lungo come ”cose di altri tempi”, ossia forme residuali di barbarie in seno ai Tempi Moderni, aspetti marginali e infami, di una civiltà protesa verso nuovi valori come il progresso tecnico e sociale, e la felicità per tutti. Tutto questo ampio e articolato sistema disumano e disumanizzante ha rappresentato nell’immaginario comune la traccia di un passato sociale ancora dominato dall’oscurantismo e dall’irrazionalità, un sistema che ha coabitato in modo incoerente con le rivoluzioni, con le carte costituzionali, con i diritti dell’uomo e del cittadino, con la secolarizzazione dei saperi e l’avvento di una nuova tecnologia industriale. Gli studi recenti sull’argomento ci costringono a correggere questa visione consolatoria, che ha accompagnato la nostra educazione ed è stata largamente condivisa in Europa. Nel mondo anglosassone, in modo particolare, si è riaperto un dibattito tra economisti e storici intorno al ruolo fondamentale della schiavitù nello sviluppo del capitalismo in Occidente, nel sottosviluppo dei paesi colonizzati e nella genesi della stessa rivoluzione industriale. Quali che siano le differenti tesi in gioco, più nessuno studio specialistico, economico o storico, può minimizzare il nesso tra modernità europea e commercio coloniale.

Sono questioni, queste, che interessano anche lavori di stampo sintetico e divulgativo, come quello pubblicato dalla giovane storica francese Aurélia Michel nel 2020 dal titolo Un monde en nègre et blanc. Enquête historique sur l’ordre racial (Un mondo in negro e bianco. Inchiesta storica sull’ordine razziale). È l’autrice stessa che, in quanto studiosa bianca e specialista dell’America Latina, sottolinea il rischio ancora attuale di una distorsione “cognitiva”. Aurélia Michel scrive:

la Francia è probabilmente la nazione che ha portato il sistema schiavista e coloniale al suo apice e alla sua piena potenza. Pertanto, la connessione di questa storia con il razzismo è debole. C’è senz’altro l’ostacolo anzi l’impossibilità di dire una tale violenza. Ci sono anche, di fronte ai fatti, dei meccanismi di difesa ricorrenti, che consistono per esempio nel fare della storia dello schiavismo una storia marginale, una storia delle vittime, una storia del ripristino memoriale, o di contrizione. Ora, perché mai lo sviluppo del capitalismo atlantico, che è la base dell’economia industriale mondializzata nella quale viviamo tutti, e nella quale la schiavitù e la colonizzazione hanno avuto un ruolo maggiore, sarebbe periferico?[5]

Quello che Aurélia Michel, e altri studiosi[6] prima di lei ci dicono, è che non solo la tratta degli schiavi e il lavoro nelle piantagioni sono stati un elemento centrale nell’evoluzione del capitalismo, ma lo sono stati in quanto hanno prodotto un ordine inedito e moderno di sfruttamento delle risorse umane e naturali, e una nuova giustificazione ideologica – l’inferiorità della razza “nera” – che si sarebbe ulteriormente rafforzata con lo scientismo ottocentesco e le “teorie” biologiche. L’abbondante flusso di manodopera coatta subsahariana per i territori di conquista nelle Americhe ha prodotto simultaneamente la fabbrica della piantagione e la fabbrica dell’Altro in quanto “nero”. (Non è il razzismo che ha giustificato la schiavitù, come ricorda sempre Michel, ma “è proprio perché gli Europei hanno trasformato in schiavi gli Africani che sono diventati razzisti”[7]).

Il carattere moderno del sistema schiavistico e dell’ordine razziale presentano un ulteriore aspetto, che sollecita una considerazione filosofica estremamente attuale. Nel già citato Achille Mbembe, ne troviamo una formulazione chiara: “Quanto alla schiavitù, essa fu un modo di produzione, di circolazione e di ripartizione delle ricchezze fondato sul rifiuto d’istituzionalizzare un qualsiasi ambito del ‘non appropriabile’. Da tutti i punti di vista, la ‘piantagione’, la ‘fabbrica’ e la ‘colonia’ sono stati i principali laboratori dove è stato sperimentato il divenire autoritario del mondo, che osserviamo oggi”[8]. Il “divenire autoritario” di cui parla Mbembe è una conseguenza di quella cancellazione dei limiti di ciò che è “appropriabile” dall’uomo e dal suo armamentario tecnico e scientifico. Tocchiamo qui un punto centrale, sul quale ha insistito uno dei filosofi più importanti della seconda metà del Novecento, ossia Cornelius Castoriadis: “bisogna che l’immaginario capitalista di uno pseudo-controllo pseudo-razionale di una espansione illimitata sia abbandonato”[9]. Non è sufficiente, come è accaduto nei ranghi della tradizione marxista o in quella socialdemocratica, predicare un superamento del capitalismo in nome di una società più egualitaria, così come oggi non è sufficiente mutare le proprie strategie energetiche o dedicarsi a progetti di resilienza su scala locale, per limitare l’impatto della crisi ecologica. C’è un immaginario, radicato non solo nelle leggi e nell’organizzazione sociale, ma anche nelle nostre menti e nei nostri cuori, che va riconosciuto, analizzato e trasformato. E questa analisi comporterà anche un confronto tra bianchi e neri, intorno alla storia della schiavitù e del colonialismo moderni. È in quel contesto che si afferma per la prima volta in tutta la sua crudezza e hybris, come sostiene Mbembe, il delirio di espansione illimitata che ha caratterizzato l’evoluzione dell’Occidente in stretta connessione con l’evoluzione del capitalismo e dello sviluppo tecnologico.

La scrittrice francofona d’origine camerunese Léonora Miano, oggi residente in Francia, propone una via per uscire dall’immaginario capitalistico, una via che lei stessa definisce utopica, e che d’altra parte si oppone a scenari che, vantandosi di essere più realisti, non sono meno catastrofici. Un’Europa dei nazionalismi, e delle identità separate o in conflitto, non potrà che rendere velleitaria qualsiasi alleanza attiva per contrastare il riscaldamento climatico, oltreché indebolire ulteriormente la tenuta del patto sociale. Per Miano, l’unica strada percorribile passerà per una ridefinizione dell’identità collettiva, a cui lei dà il nome di Afropea, ossia di un’Europa che: 1) riconosce la componente africana della propria storia – e quindi gli afrodiscendenti che costituiscono una parte significativa della popolazione del continente, e che 2) in virtù di questa componente (grazie ad essa), sarà in grado di liberarsi da quello che Miano chiama: l’occidentalità. “Designo così il carattere dell’Europa conquistatrice e delle sue estensioni americane, che l’umanità ha dovuto sopportare a partire dalla fine del XV secolo. Si tratta di una maniera d’essere al mondo che fonda i rapporti con gli altri sulla violenza: l’invasione, l’appropriazione delle risorse, le reificazione o l’uccisione, l’egemonia epistemica”[10].

Il discorso di Miano si rivolge in larga parte agli afrodiscendenti sparpagliati nei vari stati europei, e difende un progetto politico che sia in grado di riconoscere e sostenere la specificità dell’esperienza “afropea”, distinguendola sia da quella afroamericana sia da quella delle varie popolazioni subsahariane. Miano critica ogni tentativo di evasione separatista, verso sogni identitari senza radicamento sociale, quali la negritudine o un vago panafricanismo. Questo non significa aderire, ad esempio, all’universalismo repubblicano della Francia, un universalismo astratto e ipocritamente color blind, che vieta per principio statistiche “etniche”, evitando così di constatare il livello di discriminazione della società francese. Quello sui cui la scrittrice insiste è quella che io chiamerei la “clausola d’appartenenza” e che mi sembra fondamentale in tutto il suo discorso, anche perché gli permette di rivolgersi simultaneamente a noi bianchi. Si tratta di un passaggio magistrale per lucidità, che riporto per intero:

È perfettamente possibile ricusare l’occidentalità, combatterla come lo fa Afropea. È possibile dire di no alla supremazia bianca indicando, nello stesso movimento, che è proprio in questa terra europea che siamo cresciuti e, poiché così stanno le cose, poiché bisogna che questo voglia dire qualcosa, ci diamo per compito di disoccidentalizzarla. La legittimità di una tale ambizione impone questo: è necessario appartenere. Senza ammettere il nostro legame con una società, con tutti quelli che la compongono, è impossibile chiederle conto, spingerla a trasformarsi.[11]

Se l’occidentalità di Miano corrisponde alla volontà di potenza di Mbembe e al delirio di espansione illimitata di Castoriadis, il compito degli afrodiscendenti d’Europa è, necessariamente, anche il nostro. Ma rigettare questa componente ingombrante e patologica della nostra storia, non significa rinunciare del tutto alla nostra eredità europea né cancellarla con un tratto di penna, per il semplice fatto che essa è plurale e contraddittoria. In questo compito di scelta del nostro passato, potremmo essere aiutati da coloro con cui, qui dove viviamo, è fondamentale costruire il nostro futuro: gli afrodiscendenti.

(…)

NOTE

[1] Aimé Césaire, Discours sur le colonialisme suivi de Discours sur la Négritude, Présence Africaine, Paris, 1995 e 2004, p. 13.

Ibid., p. 14.

[2] Toni Morrison, The Origin of Others, 2017; nella versione francese L’origine des autres, Christian Bourgois, Paris, 2018, pp. 34 e 35.

[3] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, p. 12.

[4] Ibidem

[5] Aurélia Michel, Un monde en nègre et blanc. Enquête historique sur l’ordre racial, Seuil, Paris, 2020, p. 12.

[6] Il punto di partenza di una riconsiderazione critica e militante della schiavitù nello sviluppo del capitalismo europeo e nordamericano risale alla storiografia “radicale” degli anni Trenta, promossa da autori come Eric Williams, originario di Trinidad, o l’afroamericano W. E. B. Du Bois.

[7][7] Aurélia Michel, Un monde en nègre et blanc, op. cit., p. 19.

[8] Achille Mbembe, Sortir de la grande nuit. Essai sur l’Afrique décolonisé, La Découverte, Paris, 2010, p. 81.

[9] Cornelius Castoriadis, Une société à la dérive. Entretiens et débats. 1974-1997, Seuil, Paris, 2005, p. 306.

[10] Léonora Miano, Afropea. Utopie post-occidentale et post-raciste, Fayard/Pluriel, Paris, 2021, p. 107.

[11] Ibidem, p. 200.

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Immagine: Adrian Piper, Decide Who You Are #1: Skinned Alive, 1991, photo-text collage, 3 panels

La storia come luogo delle possibilità

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di Alessandro Zaccuri

Quella che segue è la postfazione di Alessandro Zaccuri al nuovo romanzo di Roberto Plevano “Di spada e di croce”, pubblicato di recente da Edizioni Biblioteca dell’Immagine

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Prosecuzione e compimento di un lavoro narrativo e di ricerca storica avviato da anni, Di spada e di croce di Roberto Plevano è un libro che in un colpo solo mette a tacere almeno due pregiudizi. Il primo – e più evidente – è quello che riguarda la natura del romanzo storico. Che non si basa sulla separazione delle carriere tra storia e invenzione, la prima delegata a servire da fondale più o meno accurato e la seconda incaricata di predisporre un adeguato armamentario di personaggi e passioni e colpi di scena. No, il romanzo storico è veramente romanzo quando è storico in tutto e per tutto, come accade appunto nell’opera di Plevano. Certo, il protagonista di questa piccola saga è l’immaginario Amalrico della Provincia, trovatore e filosofo che dal Sud della Francia elegge dimora nel Nordest d’Italia, diventando sodale del principe Ezzelino da Romano e perdutamente innamorandosi della sorella di lui, Cunizza. Il punto però non è questo, la verosimiglianza di una narrazione non può essere demandata alla mera presenza di un nome in un regesto diplomatico.

Di Amalrico, al lettore, interessa la perfetta adesione rispetto alla mentalità e perfino alla lingua dell’epoca che Plevano, medievista di provata esperienza, ha scelto per la sua cantafavola. In Di spada e di croce il fiore del romanzo germina direttamente dal terreno della storia, ne assorbe i succhi e i veleni, applica con ferrea coerenza il rifiuto di ogni anacronismo: culturale, psicologico, lessicale. Anche la passione impossibile tra Amalrico e Cunizza non ha nulla di artefatto, semmai può essere interpretata come rappresentazione estrema dell’amor cortese. Non potendo vivere insieme, gli amanti preferiscono attenersi alla norma di una lontananza che non rende meno acceso il reciproco desiderio. E poco importa se a stabilire le regole del gioco sia la sola Cunizza. Per quanto ignaro, Amalrico sa che questo può accadere. In un certo senso, è un bene che questo, e non altro, accada proprio a lui e alla sua diletta.

Per essere veramente romanzesco, insomma, il romanzo storico non ha alcun bisogno di tradire la storia. Se poi la storia è quella del Medioevo, ecco che un altro pregiudizio si presta a essere abbattuto. Tutt’altro che uniforme, il panorama dell’Età di Mezzo si rivela meravigliosamente accidentato e complesso. Per esempio, in Di spada e di croce eresia e ortodossia stanno a un’incollatura l’una dall’altra e a fare la differenza non è tanto la fedeltà all’Evangelo quanto la compiacenza verso un ordine di potere che spregiudicatamente confonde il sacro con il profano. Plevano sa bene che non esiste un solo Medioevo, e non soltanto perché nel millennio che dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente arriva fino alla scoperta dell’America (la periodizzazione è grossolana, ma proviamo ad accontentarci) si susseguono stragi e rinascite, albe luminose e notti all’apparenza interminabili. Il Medioevo è epoca di cambiamenti, non di immobilità. Si rinnovano tecnologie e conoscenze, il latino assume i connotati di una lingua franca vivacemente instabile, i confini si ridisegnano di continuo, sorgono imperi e si estinguono regni. Nei romanzi di Plevano, questo processo magmatico è colto nella sua manifestazione definitiva. Siamo in Italia, nel cuore del XIII secolo, mentre la corte mobile di Federico II si sposta tra la Sicilia e la Marca veneta, portando con sé un’irripetibile mescolanza di saperi e consuetudini. È in quegli accampamenti che si verifica il prodigioso contagio tra la poesia provenzale e la nascente lirica in volgare italiano: è per effetto di quella contaminazione che il notaro Giacomo da Lentini escogita il dispositivo del sonetto, che nei secoli successivi sarà per l’Europa una sorta di linguaggio comune, pressoché indifferente alla dislocazione da un idioma all’altro.

La modernità del Medioevo (che è, per inciso, il momento in cui l’aggettivo modernus assume il suo significato attuale) sta in questa commistione inestricabile di codici espressivi e di istanze concettuali. La stessa contrapposizione tra guelfi e ghibellini, spesso tristemente ridotta a una cruenta forma di campanilismo, trova la sua ragion d’essere nello scontro fra due diverse visioni della realtà. Per restare alla trama dei romanzi di Plevano, Amalrico non sceglie di schierarsi con lo Stupor Mundi per questioni di opportunismo, ma perché in “Friderico” ritrova la sua stessa febbre di conoscenza, lo stesso desiderio di libertà intellettuale che per primo l’imperatore persegue e sostiene. Allo stesso modo, Di spada e di croce – come e più del precedente romanzo di Plevano – non è, a rigore, il romanzo di Ezzelino e della sua corte, ma non si può fare a meno di notare come l’impresa di Plevano sottragga il nome del principe di Romano all’ambiguo fascino da cui è contornato fin dai primi anni del Trecento, quando Albertino da Mussato compone la sua Ecerinis. Una tragedia nello stile di Seneca, autore prediletto nel circolo del cosiddetto preumanesimo padovano. Prima di attecchire a Firenze, dunque, l’imitazione dei classici si annuncia in Veneto, con Albertino che costruisce il suo capolavoro attorno al mito recentissimo del tiranno della Marca.

A differenza di quanto cercano di fare gli storici, Plevano non pretende di fornire una ricostruzione incontrovertibile o, se non altro, a prova di smentita, Per lui, come per ogni romanziere, la storia è il luogo della possibilità. Una battaglia vinta anziché persa, un dispaccio arrivato per tempo, un inquisitore meno feroce degli altri: sarebbe bastato un nonnulla perché gli avvenimenti prendessero una piega differente. La vicenda di Amalrico si colloca proprio qui, sul crinale tra quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. Un terreno misterioso e sorprendente, nel quale solo la letteratura riesce ad avventurarsi.

Dalle fiamme (a volte) nascono libri: Contenuto Rimosso. Il fuoco nel Quadrato

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Contenuto Rimosso è caso-studio fondamentale nello sviluppo dell’arte pubblica e partecipata in Italia (e non solo)

di Alice Sartori Ongaro

Chiara Trivelli, Contenuto rimosso. Il fuoco nel quadrato, Viaindustriae Publishing, 2023

A Venezia il 30 luglio 2017 c’è la solita afa soffocante di mezza estate. Il pomeriggio è silenzioso e i masegni bollenti. Paolo mi prende per mano e mi dice: — stasera ti va di andare a Lorenzago di Cadore? C’è una cosa molto bella, cose così non si vedono spesso. Dovremmo andarci. È come una festa, ma è molto di più —. È un progetto d’arte pubblica e di comunità di Chiara Trivelli, artista visiva e ricercatrice indipendente. Progetto pensato per e con gli abitanti di Lorenzago. Camminando verso la stazione attraversiamo il campo di Santi Giovanni e Paolo. Sullo sfondo dell’ospedale si intravedono le cime delle Dolomiti. In mezzo al campo incontriamo Chiaretta. — Dove vai—? Le chiediamo. — Sto andando al mare, fa troppo caldo—, ci dice. —Vieni con noi a Lorenzago, torniamo in serata o forse, se ci ospitano, anche domani mattina. — Ma non ho niente con me —. Abbiamo preso Chiaretta sottobraccio, con il suo costume e telo da mare dentro lo zaino, e abbiamo guidato verso il Cadore.

Dal 2012 ogni 30 luglio Chiara Trivelli orchestra un’azione collettiva a cui prendono attivamente parte lorenzaghesi e associazioni di paese: Contenuto Rimosso. Durante la serata, viene interrotta l’illuminazione elettrica nelle strade del quartiere del Quadrato e vengono accesi 18 fuochi, 125 candele, 15 torce. Il coro del paese canta, i bambini giocano per strada, il Cai e l’Associazione Volontari Vigili del Fuoco organizzano banchetti di cibo e vino tra i vicoli, gli Alpini cantano e fanno gli Alpini, divertono e si divertono. L’evento commemora un incendio che nel 1855 distrusse l’intero quartiere del Quadrato. Nessuno morì quella notte, ma la zona venne distrutta e l’accaduto rimase un evento dalle conseguenze traumatiche nella storia di Lorenzago. Le cause dell’incendio non sono mai state chiarite, e a distanza di 150 anni gli abitanti del paese non smettono di ipotizzarne le dinamiche.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, still da video, 2017]

Dopo 11 anni di lavoro, cura e attenzione al progetto, che diventa la festa più attesa da tutta Lorenzago, viene alla luce Contenuto Rimosso. Il fuoco nel quadrato (Viaindustriae, 2023). La straordinarietà di questo libro è dovuta a diverse ragioni. La prima: Contenuto Rimosso è caso-studio fondamentale nello sviluppo dell’arte pubblica e partecipata in Italia (e non solo). La seconda: la pubblicazione è stata fortemente voluta dal Comitato 30 Luglio (formatosi proprio per il progetto) che compare come promotore principale della pubblicazione, oltre che dall’artista. Il libro è l’emblema che le cose belle si fanno assieme, dall’inizio alla fine. La terza: ci sono due sezioni principali. La prima è una ricca sezione di contributi di importanti voci del panorama internazionale: una conversazione con l’artista Antoni Muntadas, riferimento internazionale dell’arte pubblica, un saggio della critica d’arte Alessandra Pioselli che ha riconosciuto Contenuto Rimosso come caso-studio e un contributo della geografa Viviana Ferrario, maggiore studiosa del caso del Rifabbrico in Cadore. La prefazione del Sindaco di Lorenzago Marco d’Ambros e un testo dell’artista restituiscono la complessità e le genuinità di un’opera artistica che negli anni è diventata una nuova tradizione locale, la festa principale del paese. Una sezione importante, la seconda: “Per un libro di comunità”. Compaiono interviste e ritratti fotografici di alcuni dei (tanti) protagonisti. Dagli Alpini, ai musicanti, ai volontari e volontarie della Pro Loco, dei Vigili del Fuoco, dell’Associazione Donatori di Sangue, e altri abitanti.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, 2016]

Chiara Trivelli è sempre attenta, e guarda sempre verso l’Altro. Alla fine di ogni intervista che conduce, non si scorda mai di chiedere se anche l’intervistato ha domande da fare a lei. La preziosità di un progetto come questo è che cuce insieme un’umanità diretta e profonda, che parte, in primis, dall’artista. Come spiega Trivelli, una delle fatiche principali del libro e del progetto è un lavoro costante di traduzione tra un sistema dell’arte che si muove in dinamiche neo-liberali e un territorio che si esprime con necessità delicate e importanti con uno spirito di cooperazione. Ma c’è un punto importante. L’episodio è emblema del paradossale processo di ricostruzione urbanistica che è allo stesso tempo anche un processo di rimozione collettiva: il Rifabbrico in Cadore. Il Quadrato di Lorenzago ne rappresenta uno degli esempi meglio conservati. L’incendio del 1855 e il successivo rifabbrico segnarono un punto di svolta. Quando si parla di ‘Rifabbrico’ si fa riferimento a un processo di profonda trasformazione territoriale che ha interessato alcune vallate delle Alpi orientali nella seconda metà dell’Ottocento. Le case di legno degli antichi villaggi vennero ricostruite in muratura sulla base di nuovi piani urbanistici. La rapida trasformazione e la forza dell’imposizione, che non considerava gli effetti dei radicali cambiamenti sulla società e la cultura silvo-pastorale del territorio, determinarono un trauma per i suoi abitanti. Il libro indaga in maniera precisa e trasversale anche questo tema urbanistico, sociale e politico.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, still da video, 2016]

Come spiega la storica dell’arte Claire Bishop in Artificial Hells (Verso, 2012), dall’inizio delle pratiche partecipative nell’arte contemporanea, l’artista è concepito meno come produttore o produttrice individuale di oggetti e più come produttore o produttrice di situazioni; l’opera d’arte vista meno come prodotto finito, trasportabile e mercificabile, è riconcepita come un progetto in corso o a lungo termine; mentre il pubblico, precedentemente concepito come osservatore è ora riposizionato come co-produttore o partecipante. Questo anche il caso di Contenuto Rimosso, che è, nella sua complessità, anche azione politica. Dal 2012, grazie alla dedizione e la visione di Chiara Trivelli, la rievocazione di quell’evento traumatico si è trasformata in un momento di rinascita per il paese, un’occasione per ricostruire la propria memoria. Prima dell’incendio, a Lorenzago il patrimonio silvo-pastorale era gestito come bene comune, dove i nuclei socio-economici di base, le famiglie locali, erano chiamate “fuochi”. Il sistema di fuochi a uso collettivo, ideato da Trivelli, facendo simbolicamente riferimento al passato, ha assunto una valenza catartica e si è trasformato in un nuovo rituale collettivo atto a consolidare l’identità della comunità. Il fuoco, elemento centrale, diventa il punto focale di quello che l’artista definisce “un esperimento di psicanalisi applicata all’ambiente”. Utilizzando il fuoco, si sublima la paura che esso stesso genera, trasformandola in un potente simbolo di unione all’interno di un rituale collettivo, e creando così una contro-immagine del trauma originario.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, flyer da una foto di Giuseppina Pinazza, 2019]

Io, Paolo e Chiaretta passiamo tutta la notte a Lorenzago, il paese è un’esplosione di vitalità incontenibile. Incontriamo persone nuove, operose e accoglienti. Incrociamo amici di un tempo, anche loro venuti da punti diversi della regione. Chiara si prende cura di tutto, e anche di chi, come noi, viene da più lontano. Così ci svegliamo in Cadore, tra le primule rosse, e ci rimettiamo in macchina. Torniamo verso Venezia insieme a Chiara. Nel tragitto, assonnati e inebriati dal caldo e dalla notte, si parla di quello che è stato. Contenuto Rimosso è rimasto uno dei progetti partecipati più accorti, intelligenti e generosi che abbia visto nell’ambito delle pratiche artistiche contemporanee; perché ci sono stati spazio e tempo giusti, insieme all’attenzione di un’artista che ha fatto della relazione tra gli altri e della ricostruzione della memoria collettiva un punto di forza. A distanza di sei anni vedere la nascita del libro di Contenuto Rimosso è allo stesso tempo una testimonianza e una gioia doverosa, perché aveva ragione Paolo, cose così belle non si vedono facilmente.

[Chiara Trivelli_Contenuto Rimosso, still da video, 2018]

Una nota finale. In questi giorni la 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, a cura di Adriano Pedrosa, inaugura con il titolo “Stranieri Ovunque”. L’estraneità – come marginalità e l’essere al di fuori del conosciuto (geografico, sociale, politico, emotivo e identitario) – viene rimessa in discussione e celebrata come condizione universale. Scrivere di Contenuto Rimosso in queste giornate cariche di riflessioni che guardano alle geografie latino-americane, africane, pacifiche e del cosiddetto Sud Globale, mi hanno anche ricordato una cosa. Che spesso è proprio qualcosa vicino a noi che soffre tremendamente l’estraneità. Penso alle aree montane, isolate e spopolate del Cadore. E penso a come l’arte si possa trovare, nella forma più sincera, anche (e soprattutto) fuori dalle cornici espositive, dove le persone vivono, si riscoprono e festeggiano intorno a nuovi fuochi.

Che il monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile, censurato dalla Rai, diventi un coro a voce alta

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Questa sera, nel corso della trasmissione Rai Che Sarà, Antonio Scurati avrebbe dovuto leggere un testo dedicato al 25 aprile e all’antifascismo. Ma questo intervento non ci sarà. È stato cancellato. Ne ha dato notizia la conduttrice del programma censurato, Serena Bortone. Le parole del monologo sono poi state pubblicate sul sito di Repubblica, e da lì le riprendo. La Rai, soprattutto l’informazione Rai “governata” dalla destra, sta censurando moltissimi fatti e notizie che riguardano da vicino le nostre vite e i nostri bisogni. Ma il bavaglio messo a uno scrittore che voleva parlare di antifascismo, Liberazione e quindi delle radici della nostra democrazia è evento che merita di scatenare un !Ya basta! collettivo, e il suo monologo dobbiamo poterlo leggere dappertutto, anche sulla pagina di questo blog culturale e libero che, senza la Resistenza e la Liberazione, non sarebbe proprio esistito. La destra non dovrebbe dimenticare, poi, che la Rai è servizio pubblico, e che la paghiamo tutti noi. Cioè la destra post-fascista non dovrebbe dimenticare che, anche se governa questo Paese, è minoranza in questo Paese. Mentre la maggioranza delle italiane e degli italiani – maggioranza purtroppo non elettorale ma numerica sì – non solo non è fascista ma è abitata da una componente ancora vitale di antifascismo. Quella voce, viva e vegeta, c’è ancora e saprà farsi ascoltare. Anzi cominciamo subito.

Il monologo di Antonio Scurati

«Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato.

Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania. In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944. Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.

Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.

Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.»

La lezione di Estela Carlotto

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Estela Carlotto mostra il diploma di laurea, foto di ©️Università Roma Tre

Lo scorso 17 aprile l’Università degli Studi Roma Tre ha conferito a Estela Carlotto la Laurea honoris causa in Lingue e letterature per la didattica e la traduzione, “alla luce di un impegno civile, umano e culturale unanimemente riconosciuto” (si legge nelle motivazioni).

Estela Carlotto, 93 anni, è presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo (le nonne di Piazza di Maggio), l’Associazione che insieme alle Madres de Plaza de Mayo cerca, fino dagli anni più bui della dittatura argentina (1976-1983), non solo i propri figli ma anche i nipoti nati nei centri clandestini di detenzione, tortura e sterminio o, in alcuni casi, “rubati” dai militari durante i sequestri delle loro vittime. Candidata più volte al premio Nobel per la Pace per il suo straordinario impegno e la sua azione umanitaria, Carlotto ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra i quali spiccano l’Ordine al merito nel grado di Commendatore della Repubblica Italiana, il Premio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e il Premio Unesco per la Pace.

Due giorni dopo la cerimonia universitaria – prima di ripartire per l’Argentina, e dopo essere stata ricevuta dal Papa – Carlotto ha spiegato il “momento tragico” (parole sue) che sta attraversando l’Argentina, nel corso di un incontro con alcuni giornalisti e studenti. L’Argentina di Javier Milei, un presidente che governa “contro la società”, e che la sta già impoverendo con licenziamenti e tagli indiscriminati al welfare. Un presidente che favorisce posizioni negazioniste o riduzionistiche rispetto alla storia della dittatura argentina e delle sue vittime, i 30 mila desaparecidos che adesso qualcuno vorrebbe occultare di nuovo. Un presidente pericoloso in tanti modi diversi. “Ma noi andremo avanti”, ha assicurato Carlotto, “continueremo a lottare nella nostra ‘politica della vita’, sempre pacificamente e senza violenza. L’abbiamo fatto negli anni della dittatura, correndo mille pericoli, e a maggior ragione proseguiremo oggi”.

Una donna che non ha avuto paura di Videla non può avere paura di Milei.

Questo riconoscimento da parte dell’ateneo romano ha un grande valore culturale e politico: “Per me è il massimo”, ha confidato Carlotto, “questi giorni mi hanno dato una gioia enorme. In Argentina il governo, se potesse, mi farebbe a pezzi. Invece qui mi avete dato coraggio al cuore e all’anima. A ‘loro’ non piacerà per niente. Ma vado via contenta e orgogliosa. Il lavoro delle abuelas proseguirà. Stiamo ancora cercando i 300 nietos che mancano. E possono essere dovunque nel mondo”.

A seguire offriamo il testo integrale della Lectio magistralis tenuta da Estela Carlotto in un’Aula magna della Facoltà di Lettere gremita e commossa (davide orecchio).

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La Lectio Magistralis di Estela Carlotto

Innanzitutto, desidero ringraziare il Rettore dell’Università Roma Tre, Massimiliano Fiorucci, e con lui tutta la comunità educativa che oggi mi accoglie con tanto calore e mi onora con il titolo di Dottore Honoris Causa; il direttore del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere, Giorgio de Marchis, e la cara professoressa e amica Susanna Nanni, che ha promosso questo riconoscimento accademico. Ringrazio la Rete per il Diritto all’Identità in Italia, che collabora da molti anni con le Abuelas di Plaza de Mayo. Ringrazio tutti i cari amici che abbiamo in questo paese, sempre molto solidale con l’Argentina. E ringrazio tutti i presenti a questa meravigliosa cerimonia.

La dittatura civico militare che tra il 1976 e il 1983 usurpò il potere in Argentina, ha sequestrato e fatto scomparire migliaia di persone per ragioni politiche, compresi i nostri e le nostre nipoti.

In quel momento, come madri, ci siamo messe a cercarli. Quale donna non lo avrebbe fatto? Abbiamo iniziato a riunirci, prima come Madres di Plaza de Mayo, poi come Abuelas di Plaza de Mayo, e ci siamo rese conto che, insieme, potevamo farci ascoltare. E così, il nostro dramma personale si è convertito, negli anni, in una lotta pubblica e collettiva.

Nel mio caso, tutto è iniziato quando, grazie alla testimonianza di una sopravvissuta, venni a sapere che mia figlia aveva dato alla luce un bambino durante la sua prigionia, mio nipote. Allora, la mia consuocera mi disse di non cercarla da sola e mi consigliò di mettermi in contatto con altre donne che stavano cercando i loro nipoti. Così, mi unii alle prime Abuelas.

Le mie compagne furono felici del mio arrivo perché, siccome ero una maestra, potevo scrivere lettere e documenti. La prima volta che andai a Plaza de Mayo tremavo come una foglia. C’erano molti militari, cavalli, fucili. Ma le mie compagne continuavano a camminare e mi dicevano: “non aver paura, stiamo tutte insieme”.

All’inizio, i primi tempi furono molto duri, quando ancora aspettavamo il ritorno del figlio, della figlia, della compagna, del compagno, che mai tornò. Eravamo ingenue e pensavamo che i dittatori avrebbero dato delle risposte alle nostre domande: dove sono? Dove sono nati i nostri nipotini?

In molte abbiamo mantenuto la camera intatta, i vestiti puliti, il piatto al posto in tavola del nostro caro. Abbiamo preparato corredini per il nipote o la nipote che stava per arrivare, che militari avevano rubato alle nostre figlie e a cui avevano cambiato l’identità.

Tutte noi ci eravamo recate negli orfanotrofi, nei tribunali, nei ministeri, nelle chiese, e ovunque ci avevano risposto con il silenzio, il disprezzo o l’indifferenza. In quel periodo, ci riunivamo in segreto perché la repressione era feroce.

Il trascorrere dei mesi e degli anni ci convinse che non ci avrebbero restituito i nostri nipoti e che la nostra richiesta avrebbe dovuto resistere nel tempo, fino a che non li avremmo ritrovati tutti. Allora lasciammo le nostre routineper andare a reclamare i nostri figli e nipoti dentro e fuori il paese.

Ci organizzammo in gruppi, iniziammo a viaggiare in giro per il mondo per raccontare ciò che stava accadendo in Argentina e ricevemmo la solidarietà di governi, organizzazioni e personalità. Così iniziammo ad ottenere alcuni risultati: le prime restituzioni, e poi la creazione di un metodo di identificazione genetica che ci avrebbe dato la certezza che i bambini ritrovati fossero i nostri nipoti. Non avevamo il sangue dei genitori per identificarli – perché nella maggior parte dei casi erano scomparsi – e la scienza riuscì a trovare la soluzione con il nostro sangue e quello delle nostre famiglie.

Negli Stati Uniti, un gruppo di scienziati commossi dalla nostra lotta, lavorò per due anni per arrivare a ciò che si conosce come “indice di nonnità”. E subito dopo, in Argentina, riuscimmo a creare la Banca Nazionale dei Dati Genetici. Una Banca unica al mondo che raccoglie e conserva i profili genetici delle famiglie dei nipoti e delle nipoti che cerchiamo, e quelli delle persone che dubitano della loro identità, al fine di incrociarli.

Abbiamo anche favorito dei progressi in ambito legislativo, come l’inclusione degli articoli 7, 8 e 11 nella Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, i tre articoli relativi all’identità, conosciuti come “gli articoli argentini”.

Siamo riuscite a convincere molti psicologi professionisti, alcuni scettici, che la verità è l’unica cura per alleviare il terribile dolore causato ad alcune persone dall’essere state rubate violentemente dalle braccia della propria madre, senza nemmeno essere entrati nella fase di sviluppo del linguaggio, il che provoca un trauma di dimensioni difficilmente quantificabili.

Nel 1992, abbiamo richiesto al governo di turno la creazione di un organismo statale specializzato nella ricerca dei nostri e delle nostre nipoti. E così si stabilì, per legge, l’istituzione della Commissione Nazionale per il Diritto all’Identità (CoNaDi), una politica pubblica unica al mondo che ha il compito di proteggere il diritto all’identità delle bambine e dei bambini.

Poco dopo, abbiamo iniziato a tessere la Rete per il diritto all’Identità, prima viaggiando in ogni provincia del nostro paese e creando un “nodo” in ogni località visitata, gestito da cittadine e cittadini solidali con la nostra lotta, che si fanno carico di diffondere la ricerca nel loro territorio. Questa rete iniziò poi ad estendersi all’estero, poiché i nostri nipoti possono trovarsi in qualsiasi parte del mondo, e oggi funziona anche qui in Italia, in Spagna, in Francia, in Canada e Stati Uniti.

Abbiamo sempre lavorato con l’obiettivo di ritrovare i nostri nipoti, che all’inizio erano bambini, poi divennero adolescenti, in seguito giovani, e oggi sono adulti. Man mano che recuperavano la loro identità e tornavano dalle loro vere famiglie, molti nipoti ritrovati e i loro fratelli e sorelle iniziarono a entrare a far parte della vita istituzionale.

Con l’arrivo della maggiore età, i nipoti iniziarono a collaborare attivamente nella ricerca. Erano più o meno coetanei e avevano gusti e necessità simili a quelli dei giovani che stavamo cercando. E così, noi Abuelas iniziammo ad ascoltarli attentamente. Nel 1997, per il ventesimo anniversario istituzionale di Abuelas, incoraggiate dai nipoti, abbiamo organizzato il primo festival “Rock per l’Identità”. Più di 50 mila giovani riempirono la Plaza de Mayo di Buenos Aires, partecipando ad un’attività che riaffermava la validità della nostra ricerca.

La cultura iniziò a costituirsi come ponte per raggiungere i giovani che avevano dubbi, i loro coetanei e la società intera, che cominciò a comprendere l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità e la necessità di trovare i 500 bambini rubati dalla dittatura. Fu in quel festival gremito di gente che si piantò il seme di “Teatro per l’Identità”.

Prima dei gruppi rock, si mise in scena un’opera che interrogava il pubblico: “E tu, lo sai chi sei?”. L’anno successivo quel ridotto numero di attori, attrici e drammaturghi convocò centinaia di altri attori, attrici, drammaturghi e tecnici del teatro, che si unirono all’idea di realizzare un ciclo di teatro per aiutarci nella nostra ricerca.

Il ciclo iniziò a crescere, non solo in Argentina ma anche all’estero, Italia compresa, e ad ogni stagione teatrale si aggiunsero spettacoli e proposte. È da 25 anni che il ciclo accompagna ininterrottamente la ricerca e rende gli spettatori consapevoli del diritto all’identità attraverso centinaia di opere rappresentate nelle scuole, nei teatri, nei festival e in eventi in giro per l’Argentina e per il mondo.

Con i nipoti e le nipoti che iniziavano a farsi delle domande sulle loro origini, cominciammo a incrementare le campagne di diffusione per convocare coloro che avessero dei dubbi sulla propria identità e per renderli partecipi della loro stessa ricerca.

E così come le persone del mondo del teatro si unirono alla nostra lotta, anche i musicisti di ogni genere lo fecero, partecipando a “Musica per l’Identità”; e ancora, fotografi, illustratori, artisti plastici e cineasti. Iniziarono a collaborare anche coreografi e ballerini, fondando “Danza per l’Identità”. Abbiamo realizzato concorsi di letteratura e giornalismo. Insomma, in ogni ambito artistico siamo riuscite a diffondere la nostra ricerca e a trovare i nostri nipoti.

Allo stesso tempo, abbiamo creato una coscienza, nella popolazione, sul diritto all’identità. La lotta delle organizzazioni per i Diritti Umani e la decisione politica hanno permesso il consolidamento del processo di “Memoria, Verità e Giustizia”, che giunse nel 2003 per resistere nel tempo: si annullarono la “Legge di Obbedienza Dovuta” e la “Legge del Punto Finale”; ebbero inizio i processi ai genocidi e ai loro complici e ogni luogo di prigionia, di tortura e di morte fu trasformato in uno spazio di memoria.

Alcune di queste politiche di Stato continuano, e proseguono anche i processi per crimini contro l’umanità, nei quali noi Abuelas siamo le querelanti. Abbiamo ottenuto giustizia in centinaia di queste cause, la più emblematica il processo per il “Piano sistematico di appropriazione di minori” nel quale siamo riuscite a far condannare il dittatore Jorge Rafael Videla a 50 anni di carcere.

Oggi, alcune delle politiche di “Memoria, Verità e Giustizia” sono in pericolo. I discorsi dell’odio e del negazionismo, in molti casi pronunciati dagli integranti dei governi di turno, cercano di delegittimare la nostra lotta, e quella di tutti gli argentini, per la memoria e la democrazia. Ma il nostro popolo ha memoria e l’ultimo 24 marzo, quando si sono compiuti 48 anni dal colpo di Stato, è uscito in strada in modo massivo a riaffermare il suo impegno e a gridare ben forte “Mai Più”!

Guardando al nostro passato, sfilano nella nostra memoria molteplici e svariati ricordi, che avvalorano la nostra convinzione che l’unica strada è la lotta collettiva, con amore e perseveranza.

Uno dei giorni più felici della mia vita è stato il 5 agosto del 2014, quando ebbi l’immensa fortuna di ritrovare mio nipote. Fu lui a presentarsi spontaneamente alla nostra sede con dei dubbi sulle sue origini, si sottopose all’esame genetico e scoprì la verità. È musicista, come suo papà, e nel suo cuore arde la fiamma di mia figlia Laura. La sua apparizione è stata meravigliosa, come quella di ogni nipote che ha potuto recuperare la sua identità.

Attualmente, abbiamo ritrovato 137 nipoti. Continuiamo a cercare circa 300 persone che vivono con un’identità violata e che, in molti casi, sono padri e madri.

La perpetuazione del crimine di appropriazione, ora, ha raggiunto anche i nostri bisnipoti, anche per questo continuiamo a lavorare. Per capire come spiegare a quei bambini che sono figli di nipoti restituiti e nipoti di nonni scomparsi. Ed ecco che la cultura è venuta ancora una volta a tenderci la mano. “Teatro per l’Identità” ha creato opere per i bambini; dall’Associazione di Abuelas diffondiamo raccolte di racconti per bambini e ragazzi da leggere a scuola, ma anche come strumento per i nostri bisnipoti che stanno recuperando la loro identità insieme a quella dei loro genitori. Dobbiamo recidere questa genealogia falsa che il terrorismo di Stato ha imposto loro.

Per questo continuiamo con la diffusione della nostra lotta. Per questo continuiamo ad esigere giustizia. E per questo continuiamo a camminare, con le forze che ci rimangono, affinché mai più si ripeta, in nessun luogo, un crimine tanto aberrante.

Noi Abuelas di Plaza de Mayo lottiamo da quasi 47 anni. Ora ci accompagnano i nostri nipoti e decine di collaboratori. Da un po’ di tempo stiamo pianificando il ricambio istituzionale, integrando nipoti, fratelli e sorelle che sono alla ricerca dei loro cari nella Commissione Direttiva. Oggi sono gli stessi nipoti restituiti, i loro fratelli, le loro famiglie, a dare impulso al nostro lavoro. Sono loro ad aver raccolto il testimone e a svolgere le attività di cui prima ci occupavamo noi.

E anche se noi Abuelas oramai siamo rimaste in poche, perché molte compagne ci hanno lasciato, sentiamo di camminare ancora tutte insieme, tenendoci sottobraccio, come in quella Plaza de Mayo in piena dittatura, con la convinzione che continueremo a cercare i nostri e le nostre nipoti fino all’ultimo respiro.

Forse l’amore e l’orgoglio per i nostri figli e le nostre figlie, l’affetto per i nostri nipoti, possono farci sembrare le eroine di questa storia. Ma noi ripetiamo sempre che non siamo né eroine né diverse: siamo solo donne, madri, nonne.

All’inizio non sapevamo cosa fare, né come cercare o a chi rivolgerci, ma con il tempo abbiamo imparato ad esercitare la pazienza che è richiesta nella ricerca della verità. E i nostri passi sono stati quelli che abbiamo dovuto fare, e quelli che continuiamo a fare, seppure con il bastone.

Abbiamo brindato per ogni nipote ritrovato e per il ricordo dei nostri figli in ognuno di loro. Perché questo ci hanno lasciato in eredità e speriamo di continuare a tramandarla: ovunque ci sia un diritto umano vulnerato, noi ci saremo, per i nostri figli, per i nostri nipoti e per il nostro popolo. Continueremo a lottare per difendere la democrazia e a lavorare per trovare fino l’ultimo dei nostri nipoti.

Tech house e pulsione di morte

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di Lorenzo Graziani

Che la quota di oscurità nella popular music – ascoltata in solitudine o ballata in compagnia – sia in costante crescita è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. E non serve lambiccarsi troppo il cervello per notare la connessione con il ripiegamento nichilista che ha segnato la storia della controcultura: dagli inni soul per i diritti civili degli afroamericani e dal il rock pacifista dei primi Settanta, nel giro di dieci anni si è passati al punk, il cui spirito antisistema è stato ben presto assorbito dal mercato (discografico e dell’abbigliamento), capitalizzato e quindi disinnescato; poi è stato il turno dell’associazione a delinquere del gangsta rap, che del mondo se ne fregava e del ribellismo manteneva solo l’aspetto criminale; ora ascoltiamo le sbrodolate autotunizzate della trap in cui la reificazione capitalista raggiunge il suo culmine e la liberazione sessuale degli anni Sessanta sembra essere stata fagocitata dai circuiti neurali neoliberisti per generare la Perversa Equazione (PE) “sesso = soldi”, secondo cui il potere d’acquisto è tutto e si manifesta sotto forma di potere di fottere.

Stessa storia per la cultura della droga. Certo, le porte della percezione sono state aperte e poi sbattute in faccia già negli anni Settanta, in cui il riflusso dell’ondata psichedelica di dieci anni prima sembrava imprigionato in un terrorizzante flashback da LSD: “Siamo stati costretti a smettere da cose terribili” sono le amare parole della Nota dell’autore che chiude Un oscuro scrutare di Philip K. Dick, romanzo dedicato agli amici persi a causa della droga. Ma le sottoculture giovanili non hanno per questo smesso di fare uso di sempre nuove sostanze. Con la rave-culture degli anni Novanta si è diffusa l’ecstasy, e oggi è il turno di analgesici e ansiolitici come Xanax, Percocet e OxyCotin; ed è in particolare la codeina a giocare un ruolo fondamentale nell’informare il suono trap. In pezzi come “Codeine” – appunto – di Playboi Carti lo strumentale e la voce si fondono in un plasma di ricordi infantili liquefatti: tintinnii da camioncino dei gelati, jingle di cartoni animati e gridolini di bambini al parco che sembrano riprodotti da un Hal 9000 a cui David Bowman sta gradualmente cancellando la memoria. Drogarsi non serve più a meditare e nemmeno a medicare: l’irrealtà digitale di questi brani pare ricordarci come non ci sia più nessun altrove, nessuna alternativa all’infantilizzazione della società e alla schizofrenia neoliberista.

Tuttavia, è forse fin troppo facile rintracciare tendenze autodistruttive nella trap, e ancor più facile è metterle in relazione con la PE prodotta dal dominio capitalista dell’inconscio. Per motivi diversi, lo stesso vale per molta EDM (Electronic Dance Music) che, per decenni, pare aver seguito un trend da economie di scala passando dai 125 bpm della house-music ai 200 e rotti della gabber. Gli impulsi autodistruttivi sono palesi soprattutto nei generi più duri e freddi, “tutta macchina”, come la techno. Ciò che li rende meno interessanti dal mio punto di vista, però, è che, sebbene abbiano un certo seguito, rimangono comunque generi di nicchia, tradizionalmente e – almeno in parte – consapevolmente anti-sistema. Ho invece il sospetto che le tendenze autodistruttive siano ben più pervasive. E per trasformare il sospetto in una tesi non conosco metodo migliore che cercare di rintracciarle in luoghi dove non sono evidenti.

Effettivamente, queste tendenze si manifestano in molta (sotto)cultura musicale come vere e proprie pulsioni di morte, emersioni di un rimosso che solitamente sta al di sotto del livello di coscienza. Quindi la mia attenzione si è concentrata sulla tech house, un genere esploso solo di recente, ascoltato da persone che danno tutta l’impressione di essere integrate nel sistema.

Che cos’è la tech house?

Se si cerca online, le migliori definizioni disponibili suoneranno così: “La tech house è un sottogenere della house-music che combina elementi stilistici della techno”. Mi sembra una buona definizione perché ha quantomeno il merito di incasellare correttamente questo genere musicale: è un tipo di house che dalla techno prende in prestito soltanto qualche accessorio.

Dal punto di vista ritmico, infatti, è dominata da un classico house-beat four-on-the-floor. Indubbiamente, rispetto al genere di origine, bassi e cassa sono stati sottoposti a trattamento anabolizzante, avvicinandoli così al suono della techno, ma si cercherebbero invano altri procedimenti tipici di quest’ultima, come rumble e poliritmie.

Malgrado i vari generi EDM tendano oggi all’uniformità, tech house e techno vengono solitamente arrangiate diversamente. E, pure in questo caso, la prima mostra chiaramente la sua discendenza house poiché le manca la caratteristica più evidente della techno: la costruzione a strati, ossia l’accumulo graduale di tensione ottenuto attraverso l’aggiunta progressiva di materiale sonoro in loop. Questo rende la tech house un genere a prima vista molto meno ripetitivo della techno (le figure ritmiche e melodiche si ripetono mediamente di meno prima di cambiare). Ma la varietà guadagnata sul singolo pezzo viene meno sul lungo tragitto: se non si pone attenzione al campionamento vocale distintivo o a quell’unico suono dal timbro originale, anche dopo un certo allenamento è difficile distinguere un brano dall’altro tanto ritmo, melodia e arrangiamento si ripresentano invariati. Si tratta quindi di una ripetizione sicuramente meno palese di quella en plain air della techno, ma – forse proprio per questo – ancor più inquietante.

Enter the Freud

Proprio la coazione a ripetere ci mette sulle tracce di Freud poiché è il punto di partenza da cui egli parte per teorizzare la pulsione di morte. Non si può certo dire che colui che riteneva di poter ricondurre tutte le motivazioni umane alla volontà di sopravvivere e accoppiarsi abbia mai mostrato un atteggiamento particolarmente ottimista a proposito della nostra natura e civiltà. Tuttavia, il folle connubio di morte e tecnologia dispiegato sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale ebbe un forte impatto sul pensiero di Freud, tanto da indurlo a ritenere che fare appello alle pulsioni sessuali non fosse sufficiente a spiegare l’inclinazione all’ingiustizia e alla sopraffazione che caratterizzano la razza umana.

Sono queste riflessioni a guidare la scrittura di Al di là del principio di piacere, saggio che sin dal titolo allude a un noto libro di Nietzsche di cui condivide il disincanto nei confronti dell’etica ufficiale. Lo scritto risale al 1920 e prende le mosse dalle osservazioni compiute dal medico viennese su di un ampio numero di pazienti sofferenti di nevrosi traumatiche causate dal recente conflitto. Questi ultimi, mentre nella vita vigile si sforzano di non pensare all’evento traumatico da cui scaturisce la loro nevrosi, lo rivivono continuamente nei loro sogni. Si tratta di un fatto che colpisce Freud in quanto sembra contraddire la sua precedente teoria dei sogni che, come è noto, tendono all’appagamento di un desiderio. Ci deve dunque essere qualcosa di diverso dal principio di piacere che disturba e devia la funzione del sogno dai suoi scopi. Ancor più sconvolgente è però la scoperta che la tendenza a ripetere precedenti esperienze anche se spiacevoli è presente pure in soggetti sani. Troppi fenomeni sembrano pertanto a Freud rimanere senza spiegazione a meno di non postulare che la coazione a ripetere sia “più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto.”

La connessione tra pulsionalità e coazione a ripetere viene esplicitata attraverso quella che Freud chiama la “proprietà universale delle pulsioni, e forse della vita organica in generale”, che non è contraddistinta da una forza propulsiva, bensì conservativa e orientata a “ripristinare uno stato precedente”. In altre parole, la Vita di Freud è l’esatto contrario della Vita di Bergson: se per quest’ultimo la “vita pienamente vivente” è una granata che non cessa di esplodere, per il padre della psicoanalisi è un elastico teso che tende a riassumere la forma di partenza una volta cessata l’azione di forze esterne, o un motore che, esaurito il carburante, procede per inerzia. Data la natura conservativa delle pulsioni, esse non possono spingere le forme di vita verso uno stadio successivo; al contrario, le pulsioni le riconducono alla comune partenza, ossia la morte, in quanto gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi.

Accanto alle pulsioni sessuali o di vita, fa così la sua comparsa la pulsione di morte che – con linguaggio schopenhaueriano – viene presentata da Freud come “più originaria”. Infatti, nonostante il proclamato dualismo, verso la conclusione dello scritto, l’attenzione viene posta su due caratteristiche delle pulsioni di vita che suggeriscono una loro possibile discendenza da quelle di morte. La prima è la componente sadica delle pulsioni sessuali, che si esprime nella fase orale attraverso l’impossessamento e l’annientamento dell’oggetto erotico; qualora non venga superata, nel corso dello sviluppo diviene una perversione che prevede la sopraffazione del partner nell’atto sessuale. La seconda riguarda il meccanismo regolato dal principio di piacere che in questa sede viene definito – usando l’espressione di Barbara Low – “principio del Nirvana”: poiché ha il compito di scaricare l’energia psichica in eccesso per mantenerla al minimo, esso stesso pare derivare dalla pulsione di morte.

Pulsione di morte, società della performance e tech house

Ora, torniamo alla tech house. Fin dall’iconografia – pasticche, K di ketamina e lingue estroflesse dominano la scena – questo genere musicale si presenta come un inno alla “festa” in cui sballo e sesso sono padroni indiscussi. Nonostante la professata levità, però, dopo un po’ le voci abbassate di tono, i suoni patinati ma aggressivi e l’insistenza di frasi come “You take another” fanno sprofondare questa compulsory happiness in un mare di inquietanti incubi stroboscopici.

“I think I took too much, I can’t feel my bones, I can’t feel my soul, don’t take me home” recita il testo di “Too Much” di TOBEHONEST. Le frasi vengono pronunciate con quel tono a metà strada tra l’inquieto e il narcotizzato che si ha quando si è preoccupati per le proprie condizioni, ma troppo fatti per comprenderne la reale gravità. “I lost my mind”, ma la musica è trascinante; dopo aver ballato per ore, l’effetto ancora non è finito: stai male, eppure il tuo sistema limbico – ancora sovraeccitato – ti impedisce di tornare a casa. L’overdose sarà pure un incidente, un divertimento finito in tragedia, ma l’abuso di droga viene qui invocato con una consapevolezza e un cinismo inquietanti: “You’re not in control” (Beltran, “Warning”). Gli stessi saliscendi ritmici che caratterizzano il genere ricordano la sensazione di disorientamento temporale causata da alcol&MD.

A ben vedere, le pulsioni di morte che scorrono al di sotto della patina lucida sono tutte collegate a un fenomeno fin troppo evidente nella nostra società: la pressione a dare il massimo. In pezzi come “The Game” di Pleight e Bess Maze il processo pare lambire le soglie dell’Io, pur rimanendo almeno in parte inconscio: nell’intermezzo in cui la tensione si rilassa e la cassa picchia di meno si distinguono a stento le parole immerse nel riverbero di quello che verosimilmente è un discorso sulle cause dell’ansia da prestazione (“everybody must join, everybody must work, everybody must belong, then freedom disappears”). La stessa tipologia della droga menzionata così tante da volte da entrare in un certo senso a far parte dell’identità del genere musicale ci fa riflettere su quanto sia forte l’ossessione per la prestazione. Non è la codeina della trap, bensì ecstasy: un eccitante, non un ansiolitico. La droga serve a continuare la festa, a continuare la performance, a far vedere che non ci si ferma mai (non sto dicendo che la trap non sia, a suo modo, un genere esibizionista; qui mi riferisco solamente agli effetti della droga utilizzata).

Sicuramente l’essere riconosciuti dagli altri è una necessità dell’essere umano, animale sociale per eccellenza; ma da dove deriva questo bisogno di mettersi in mostra per far vedere la propria forza? Non credo che nemmeno in questo caso si debba cercare a lungo per trovare la risposta. In una società come la nostra in cui tutto è merce, e deve quindi essere esibito per essere, l’esibizione diventa valore assoluto. La concorrenza è spietata, se non ce la fai è meglio che te ne resti a casa: “You should’ve stayed at home, stayed away” (NightFunk e Ranger Trucco, “In The Club”). Per esibirti devi reggere il confronto e saper sfruttare le tue armi: “Money, power, beauty, fame: choose your weapon to beat the game” (Chris Lake, Grimes e NPC, “A Drug From God”). Ma la concorrenza è spietata: per andare avanti devi “prenderne un’altra”, fino a perdere il controllo.

Secondo il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, la logica neoliberista dell’autorealizzazione è l’arma anti-rivoluzionaria definitiva: se la dialettica materialista prevedeva che l’alienazione del lavoratore dovuta al suo sfruttamento da parte del padrone si trasformasse in desiderio di ribellarsi al dominio di quest’ultimo, ora che il padrone è divenuto evanescente è il lavoratore stesso a sfruttarsi fino alla morte, credendo di realizzarsi. La ricorrente espressione “essere imprenditori di sé stessi” equivale metaforicamente a puntarsi alla tempia la pistola della rivoluzione, e dunque ad annullare ogni spinta anti-sistema insita nello sfruttamento capitalistico. Perciò, se il neoliberismo riduce l’essere umano a soggetto di prestazione che ottimizza sé stesso fino a morire, la tech house ne è il manifesto sonoro.

Pur avendo ragioni socio-econimiche, la tendenza autodistruttiva della società della performance pare dunque confermare la teoria di Freud: la nostra società, che intona peana all’immortalità digitale e si sforza in tutti modi di rimuovere la morte dalla vita, non solo si rivela ossessionata dalla morte (ipocondria e vigoressia sono facce della stessa medaglia), ma più la nega, più pare corrervi incontro. La vita che rimuove la morte, rimuove sé stessa. Si vuole l’estasi (o l’ecstasy) per tentare di dimenticare la paura di morire, e si finisce così per accelerare il processo di autoannientamento, a livello personale e – grazie alle migliorate capacità dell’uomo di influenzare l’ambiente esterno – (inter)planetario: “Moving beyond the Earth, heading for the stars, interplanetary, we’re running out of time” (Walto, “Planetary”).

Nella società della performance essere non è essere percepito, ma essere esibito. Questo genera odio verso sé stessi, mai all’altezza di ciò che pensiamo ci venga richiesto, oltre a un’angoscia strisciante eppure insostenibile, ben rappresentata da pezzi come “Don’t Wanna Be” di Broken Future (un moniker molto appropriato). Qui viene adoperato un sample vocale in cui soggetto e completamento del verbo sono talmente distorti da non risultare intellegibili. E non è un caso, allora, che il titolo della canzone li elimini completamente, restituendo all’ausiliare il suo significato proprio di esistere e alla proposizione il suo contenuto esistenziale: il desiderio, acefalo e adespota, di non essere.

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PLAYLIST

Trap

  1. Playboi Carti, “Codeine”: https://www.youtube.com/watch?v=Pxw6s4iMG7c
  2. Lil Gotit, “Uzi Anthem”: https://www.youtube.com/watch?v=q5IhSiiewNE
  3. X-Kappe, “Lalah”: https://www.youtube.com/watch?v=rGnWTVqfJJg

Techno

  1. ABYSSVM, “Achtung”: https://www.youtube.com/watch?v=7_OQU1xk1Ac
  2. Znzl, “As The Fire Consumes Us”: https://www.youtube.com/watch?v=OsixURKSBUw
  3. BXTR e NN, “Asimov’s Law”: https://www.youtube.com/watch?v=6rBtwoOqcTk
  4. NTBR: “Eskalation”: https://www.youtube.com/watch?v=wPaexaXDUCs
  5. Minus Magnus, “inside Pax”: https://www.youtube.com/watch?v=d4sqV2kXsfg

Tech house

  1. TOBEHONEST, “Too Much”: https://www.youtube.com/watch?v=nfGzHERR9Tg
  2. Beltran, “Warning”: https://www.youtube.com/watch?v=k9FiwBYjwdc
  3. Pleight e Bess Maze, “The Game”: https://www.youtube.com/watch?v=Fdoiixwcc1k
  4. NightFunk e Ranger Trucco, “In The Club”: https://www.youtube.com/watch?v=RdveZ3jeL5M
  5. Chris Lake, Grimes e NPC, “A Drug From God”: https://www.youtube.com/watch?v=nsmvBR37xps
  6. Walto, “Planetary”: https://www.youtube.com/watch?v=ItheVZ3F9sA
  7. Broken Future, “Don’t Wanna Be”: https://www.youtube.com/watch?v=Dmhc681oixw
  8. Maximo, SCHMIDT e Ben Yen, “Back Then”: https://www.youtube.com/watch?v=HzjuJubb4mY
  9. Roddy Lima, “Guzman”: https://www.youtube.com/watch?v=urTZ-qNbg70
  10. Dead Space e G. Felix, “Mighty Real”: https://www.youtube.com/watch?v=lYivFOI3HUQ
  11. James Hype, “Say Yeah”: https://www.youtube.com/watch?v=JE4WUGzU76I
  12. TOBEHONEST, “Conga”: https://www.youtube.com/watch?v=cf4PPS_2fhw
  13. House Divided, “Get Twisted”: https://www.youtube.com/watch?v=Vtqf7SqH244

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Immagine: Illustrazione editoriale di Norberto Filotto Design