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L’Italia che non è in me

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di Tommaso Pincio

La questione è un terreno minato. Pertanto si preferisce eluderla o ammantarla d’altro. È che ne siamo troppo intrisi. È quello che siamo. A prenderla di petto, ci vedremmo costretti a gettare il bambino prima ancora dell’acqua sporca. Nondimeno, è giusto rammentare la verità vera di quando in quando. Quella sepolta dai tanti strati di verità di comodo. Di cosa sto parlando? Ma della causa primigenia, naturalmente. Di ciò che precede la televisione scosciata e caciarona dei tronisti e delle veline, la tivvù a cui siamo soliti imputare gran parte delle responsabilità dell’attuale degrado. Non che il più vituperato fra gli elettrodomestici sia esente da colpe, intendiamoci, ma se è riuscito a tanto è perché esistevano i presupposti, le condizioni ideali, il terreno giusto per fare di noi un paese civicamente irredimibile.

Universitari e potere 1: i sette di Göttingen

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di Antonio Sparzani

Già scrivevo qui, che «La tranquilla cittadina di Göttingen sta sul fiume Leine, nel sud della Bassa Sassonia, ai piedi delle colline dello Harz, luogo quanto mai caro alla letteratura tedesca (ricordare, prego, la notte di Valpurga del Faust I).» Aggiungevo anche che vi fu, verso la metà dell’Ottocento un episodio, che divenne famoso all’epoca, di ribellione al potere da parte di alcuni docenti universitari. Ribellione che essi in buona misura pagarono. E siccome questo mi sembra un antecedente interessante, e raro, di altre storie più recenti, lo vorrei ricordare più in dettaglio.

Siamo a metà dell’Ottocento, e la Germania non è ancora unificata: è anzi scomposta in vari regni. L’unificazione avverrà con la Prussia poche decine di anni dopo. Il regno di Hannover è molto imparentato con la Gran Bretagna perché da più di un secolo la casa regnante in Gran Bretagna, succeduta agli Stuart, è la casa di Hannover (che gli inglesi scrivono puntualmente con una “n” sola: Hanover, che inoltre accentano sulla prima vocale: Hànover), installata sul trono di San Giacomo dal 1714, con Giorgio I. Comincia da questo anno la cosiddetta personal union, cioè l’unificazione, sotto lo scettro dello stesso regnante, del territorio di Hannover da un lato e Gran Bretagna e Irlanda dall’altro. La cosa prosegue fino al 1801, quando formalmente diventa unione tra Hannover e Regno Unito (United Kingdom, denominazione ancora oggi usata e che oggi comprende Inghilterra, Galles, Scozia. Irlanda del Nord e varie isole).

Ex ordres littéraires: Alberto Mossino

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da Quell’africana che non parla bene neanche l’italiano terrelibere.org edizioni,

La domenica in Chiesa
di
Alberto Mossino
(Vincitore Premio John Fante 2010: categoria Arturo Bandini opera prima)

Domenica mattina, ore 11, davanti a Stazione Dora.
Non è ancora arrivata, questa storia dell’African Time mi fa proprio incazzare, sempre in ritardo.
Me ne sto lì ad aspettare, vicino ad una fermata del bus, sotto il cavalcavia, intorno a me alcuni palazzoni che avrebbero urgente bisogno di manutenzione, 5 o 6 Phone Center ed un via vai di stranieri, africani, arabi, peruviani, rumeni, ormai questa zona è quasi tutta abitata da loro.
Franco, Franco…
È lei, la vedo arrivare dall’altro lato della strada, cazzo, ma come è vestita?
Indossa un abito lungo e coloratissimo, pieno di pizzi e ricami con un copricapo enorme ancora più colorato. A vederla così agghindata sembra quasi un’altra persona… però, è proprio bella.
Con lei ci sono altre 3 amiche vestite in modo quasi uguale, sembrano pronte per andare ad una festa importante, c’è anche Blessing.

ad aziendam

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[continua il dibattito iniziato con Pubblicare per Berlusconi di Helena Janeczek e proseguito con numerosi contributi sia in rete sia sui quotidiani e i settimanali nazionali. L’ultimo apparso su Nazione Indiana è Pubblicare per Mondadori? di Andrea Cortellessa.]

di Stefano Petrocchi

Sto seguendo con interesse il dibattito innescato su Repubblica dall’inchiesta di Massimo Giannini (19 agosto) e dal corsivo del teologo Vito Mancuso (21 agosto) sulla cosiddetta legge “ad aziendam”, che ha consentito alla casa editrice Mondadori di estinguere, in modo piuttosto vantaggioso per le proprie casse, un contenzioso ventennale con il fisco. Mancuso solleva un dubbio etico: è giusto pubblicare per un editore che approfitta di leggi promosse da un governo il cui capo è l’editore stesso? Molte risposte a questa domanda, contenute sia in interviste estemporanee sia in interventi più meditati, lasciano emergere tra osservazioni non sempre pertinenti un tema di grande rilievo: come percepiscono il proprio ruolo gli scrittori, specie in relazione a chi oggi organizza la produzione e la diffusione della letteratura (cioè gli editori)?

Ex ordres littéraires: Paolo Piccirillo

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Immagine di Philippe Schlienger

da Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo, edizioni Nutrimenti
(Premio John Fante 2010: finalista della categoria Arturo Bandini opera prima)

Alle due di ogni pomeriggio della sua vita Carmine Salziello si ferma sul bordo della strada e prega. Due Ave Maria, un Padre Nostro e un Gloria al Padre.
Carmine Salziello detto ’o Schiattamuort’ abita in una villetta di campagna. Una villetta isolata che non si trova in una zona residenziale insieme ad altre villette tutte uguali.
Carmine vive lontano dal centro abitato, e c’è solo qualche metro di stradina sterrata a dividere la porta di casa sua dalla tangenziale Aversa-Napoli. Lì intorno non c’è niente di interessante, solo qualche acquitrino di inverno e la puzza di bufale tutto l’anno.
Carmine esce dal cancello di casa e percorre lo sterrato, pochi passi nel fango duro, umido anche quando non ha piovuto. Sei metri in tutto. Se abitasse in una villetta accogliente e perfetta, questo sarebbe il suo vialetto di ghiaia, con i sette nani sorridenti a fare la guardia. Il suo sterrato invece neanche più le talpe lo sorvegliano, perché il terreno è troppo duro per qualsiasi forma di vita. È diventato cemento.

Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava

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di Marino Magliani

Mio padre aveva 55 anni più di me. L’estate faticava in Francia nei ristoranti della Costa Azzurra.

Mia madre lavorava la terra e l’aspettava. La casa dove abitavamo aveva un’entrata buia. Dalla finestra della camera d’estate si sentivano le rane.

Era un paese lungo, con un torrente che passava sotto il ponte di pietra, paese piantato al selvatico, come si intende da noi quando il sole se ne va presto. Ci sono modi di dire che in dialetto non si usano più, non si menzionano più oggetti, campagne crollate, franate dopo secoli di alluvioni, inghiottite da incendi e rovi, nomi scomparsi, anche di persone andate via e mai più tornate. Ma il buio dei fondovalle non si può estirpare da una lingua.

Sarebbe come togliere l’umidità alla nebbia di questa costa del Nord, dove vivo ora, la sabbia alle dune.
Allora era tutto quel buio a intristire ulteriormente i portici e i budelli che attraversavo per entrare in casa.

Scuola: il punto (e croce)

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di
Paolo Fasce

Il tema del precariato è piuttosto delicato e la stessa parola è ambigua perché include molte sottocategorie piuttosto diverse. Sarebbe molto interessante, e temo doloroso, affrontare in primis la questione del precariato degli assistenti, tecnici e amministrativi (ATA) e dei collaboratori scolastici (bidelli) le cui percentuali sul totale dei lavoratori che oggi abitano le nostre scuole raggiunge spesso il 50%, ma Leopardi scrisse “Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere è di non trapassarli” e voglio quindi attenermi alle sue indicazioni.
Restando nell’ambito del precariato degli insegnanti, quelli di cui posso parlare per conoscenza diretta sono gli “insegnanti secondari”, cioè i professori delle scuole medie e superiori, mentre soprassiedo sugli insegnanti della scuola primaria, i maestri o, più democraticamente, per manifesta superiorità numerica, le maestre. Esistono due grandi categorie di insegnanti precari: gli abilitati e i non abilitati. I primi si dividono in tre tronconi, in grande parte sovrapposti. I “concorsisti”, i “sissini” e gli “ope legis”. I primi sono mediamente i più anziani (spesso ci si riferisce a loro con l’etichetta di “precari storici”), hanno infatti conseguito l’abilitazione in un durissimo concorso nazionale le cui date più recenti sono il 1999 e 1990. I secondi si sono abilitati a seguito di una selezione in ingresso alle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, dopo due anni di studi universitari post laurea orientati all’insegnamento della propria disciplina. I terzi, la stragrande maggioranza dei quali ha conseguito abilitazioni secondo i percorsi appena illustrati, sono quegli insegnanti che si sono abilitati a seguito di un “corso riservato”, soddisfacendo criteri di anzianità di servizio.

Generazione verità

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di Cesare Buquicchio
Ci vuole un rinnovamento generazionale e ci vogliono nuove idee. Sono ormai tanti gli appelli, i ragionamenti, le analisi, i confronti, che da mesi, forse da anni, intorno a questi due punti trovano una sintesi. Più la crisi politica, culturale, morale del Paese degenera, più questi discorsi si fanno frequenti. Meno scontato appare, forse, fare il passo successivo: definire i soggetti e i contenuti che quella sintesi dovrebbe esprimere.    Le generazioni finora al potere non ci hanno consegnato (se mai si decideranno a farlo) un Paese in buone condizioni. Ma l’impressione è che ai figli non basterà un “processo” alla generazione dei padri per salvarsi e per salvare l’Italia. Per evitare di finire solo per fare discorsi anagrafici o semplicemente sostituirsi alla generazione più anziana, si tratta di ragionare attorno ad un nuovo mito fondante della moderna società che inizi a riconoscere modi e metodi differenti da quelli affermatisi finora.  Serve verità  e serve che l’Italia diventi adulta. I figli dovranno trovare metodo e coerenza per diventare, e far diventare, tutti (vecchi compresi) finalmente adulti. Per farlo dovranno forse imparare a “sapersi raccontare” come una generazione un po’ più conservatrice (e morale) e un po’ meno spensierata, che si fa carico della crisi e degli errori del passato superando i luoghi comuni e le ipocrite schematizzazioni che bloccano un reale rinnovamento. Più vicina ad alcuni valori dei suoi nonni che a molti di quelli dei suoi padri. Dovrà riscoprire il rispetto per le regole e l’arte di trovare soluzioni giuste perché efficaci, invece che efficaci perché giuste, ai problemi della modernità.

ORA ALTERNATIVA

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di Uaar

In un precedente comunicato avevamo scritto che il tribunale di Padova aveva respinto l’istanza – sostenuta tecnicamente ed economicamente dall’Uaar – presentata dai genitori di una bambina frequentante una scuola primaria statale della città veneta: mentre ai suoi compagni era impartito l’insegnamento della religione cattolica, la bambina era stata costretta prima a rimanere in classe durante il ‘catechismo di Stato’, poi a trasferirsi in classi parallele, senza che l’istituto provvedesse ad attivare le lezioni alternative richieste.
Contro la decisione di primo grado è stato presentato un ricorso, finalmente coronato da successo: l’ora alternativa è un diritto, e ogni scuola è obbligata a garantirla, hanno stabilito i giudici. Secondo il tribunale, l’attivazione dei corsi alternativi costituisce un obbligo, e la scuola ha dunque praticato nei confronti della bambina una doppia discriminazione, “nell’esercizio del diritto all’istruzione e alla libertà religiosa”. Per questo “comportamento discriminatorio illegittimo” l’istituto e il ministero dell’istruzione sono stati condannati anche al pagamento della somma di 1.500 euro.
Dopo quello sul crocifisso (su cui pur pende il ricorso del governo alla Grande Camera) è un altro importante risultato ottenuto dall’UAAR: spiace solo che, per rendere veramente laico questo paese e per vedere riconosciuto un diritto fondamentale, sia stato necessario ancora una volta rivolgersi alla giustizia.

Pubblicare per Mondadori?

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[Si riprendono in esponente due note apparse nei commenti di questa discussione. DP]

di Andrea Cortellessa

Piccola premessa metodologica, o deontologica. È insopportabile che sulla questione del pubblicare o meno per Mondadori si sospettino coloro che intervengono di farlo per più o meno confessabili interessi personali. Qualcuno, pensando di scherzare, ha definito questa pratica di delegittimazione «metodo Boffo». In Italia c’è poco da scherzare, oggi, su questo. Personalmente, come altri partecipanti a questa discussione, ho fatto in passato dei lavori per Einaudi, e attualmente ne sto facendo per Mondadori. Proprio per questo mi pongo il problema. Il problema non ce l’ha – e dunque pontifica su di esso in astratto – chi di questa cosa banalissima (e anzi per chi lavori in questo campo, in questo paese, pressoché inevitabile) non abbia esperienza concreta.

FantaExpo

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di Gianni Biondillo

Lavoro per il Dipartimento governativo di Archeologia Celtica, ricostruisco il passato di Milano. Da dopo il GVE, il Grande Vuoto Elettromagnetico, nessuno ricorda più nulla, anche per questo la mia attività negli anni è diventata fondamentale. Il Partito della Rosa Camuna – che prese le redini di questo paese durante il periodo anarchico post GVE – sovvenziona e controlla il mio dipartimento con lo stesso alacre impegno che profonde per il Dipartimento Antintrusione Esterne; sono i suoi due fiori all’occhiello. Mi occupo da tempo dell’Expo di Milano. Sì, quello del 2015; un sacco di anni fa, lo so. Non ne è rimasta più traccia materiale, sembrava quasi una leggenda; poi per un caso fortuito venimmo a conoscenza di un archivio sepolto di documenti pre-GVE. Pazzesco! In Dipartimento eravamo tutti convinti che dopo il famoso rogo in Piazza del Duomo dei libri e dei quotidiani, voluto dalla Gilda dei Libertari per emanciparci definitivamente delle falsità diffuse dalla stampa, non ci fosse rimasto più nulla di cartaceo in città. Poi avvenne il GVE e addio ricordi. Sfoglio da mesi questi documenti, sotto il controllo armato della milizia presidenziale; hanno paura che serbino sorprese: qualunque cosa scoprirò devo per primo informare il Delfino, saprà lui, poi, se diffonderle o meno.

carta st[r]ampa[la]ta n.30

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di Fabrizio Tonello

Pietro Citati delizia i lettori di Repubblica (20 agosto) con una recensione di L’Odissea di Elizabeth Marsh, “uno dei libri di storia più belli e divertenti che abbia letto negli ultimi anni”. Ecco, il libro di Linda Colley sarà anche bello, ma “letto” non sembra l’aggettivo giusto per dare conto del rapporto fra il critico Citati e il volume pubblicato da Einaudi.

La liberazione di Andromeda

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ad Antonella Anedda, che ha scritto un mirabile libro di e su scritti ekfrastici, La vita dei dettagli

di Andrea Inglese

Quando la storia d’amore di *** anni, la più importante, la più lunga ed intensa, ha cominciato ad andare in pezzi, e io con lei, a frantumarmi in tante figure probabili, o solo abbozzate, indecise, quando insomma il nostro amore così evidente e saldo diventò un brano improvvisato giorno per giorno, così che nulla era veramente prevedibile, e doveva per ciò essere narrato, spiegato, immaginato ogni minuto di nuovo, perché manifestasse almeno, sotto risoluta ispezione, un qualche senso, proprio in quel momento, in quello straziante intervallo, La liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo, la cui riproduzione era rimasta incollata per tre anni almeno nella stanzetta riservata al water – le cosiddette toilettes francesi – sulla parete di fronte alla porta, ebbene quel quadro, che io avevo assorbito nel corso del tempo, come si assorbe un paesaggio dal ritaglio di una finestra, mi offriva una chiave globale e precisa per uscire dalla tenebra, e con chiaroveggenza trovare una diversa e più adeguata trama per mettere in ordine la mia triste storia, la mia storia dolente, finita in pezzi.

Il quadro si presenta stranamente affollato, le figure sembrano molte, addirittura troppe, tanto che si fa presto a dimenticarle, tutte quante è impossibile tenerle a mente, e pur enumerandole, con l’implacabile cadenza matematica, che isola e definisce, anche in tal caso qualcuna sfugge al conto, si sottrae alla somma finale: quante persone ci sono, in definitiva, raccolte sulla spiaggia, e sparse nell’intero paesaggio? Gli agglomerati di persone in primo piano, veri e propri capannelli, non permettono un conteggio sereno, spuntano sulla sinistra dei copricapo, bisogna spiare gambe, piedi e calzari, e sulla destra l’intrusione discreta, parziale, di un viso.

I don’t believe in God. I believe in Wallace Stevens

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[The truth about me. The weather and the world. Ho trovato questa intervista commovente. Perché mi ha ricordato Orlando di Woolf a cena col poeta che sostiene di non credere in Dio ma nelle idee degli uomini. Perché Byatt parla di The Children’s Book, il suo nuovo romanzo che uscirà in italiano tra due settimane, per Einaudi e tradotto da Anna Nadotti. Perché sentire uno scrittore che parla di letteratura, come se la letteratura fosse il mondo e viceversa, è consolante, sferzante e appunto, commovente.]

Il feticcio del romanzo

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Si ripropone l’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il 30 agosto col titolo Se il romanzo è un feticcio. Del letterato è rimasto il fantasma di un prestigio sociale, in cerca esso stesso di conferma. Alla forma-romanzo è dedicata gran parte della produzione saggistica di Cordelli – raccolta al momento in quattro libri: Partenze eroiche (Lerici 1980), La democrazia magica (Einaudi 1997) e il dittico La religione del romanzo (volume dedicato ai romanzieri stranieri, Le Lettere 2002) e Lontano dal romanzo (sul contrastato rapporto, con la forma romanzo, degli scrittori italiani; ivi 2002). Disperso resta invece lo sterminato repertorio a tema teatrale (migliaia di recensioni e saggi pubblicati dalla fine degli anni Sessanta ad oggi).

di Franco Cordelli

Due o tre note in margine alla discussione sullo stato attuale della letteratura prodotta dai meno che quarantenni. Penso a due articoli, uno di Nicola Lagioia e uno di Alessandro Piperno, questo secondo non già un «intervento» ma pur sempre una più o meno deliberata dichiarazione di poetica. A sé e ai suoi coetanei Lagioia rivendica il compito di restituire dignità ad un’Italia politicamente e moralmente devastata. Per ogni letteratura un senz’altro nobile e auspicabile proposito, ma comunque, nel quadro da lui delineato, una mera sollecitazione nei confronti di eventuali contenuti, ossia una gabbia. Nelle parole di Lagioia si coglie un’idea di romanzo che confina con l’indagine sociologica. Allora ci si chiede: cosa dividerà, sul piano della scrittura, la sociologia dalla letteratura, ovvero dalla poesia? A questa altezza entrano in gioco due parole chiave corse nella discussione: letterato e stile.

Lo scandalo delle nuove schiavitù: uno sguardo all’Italia, dalla Cina

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di Ivan Franceschini, foto Veronica Badolin

A volte è il caso di ripetere anche ciò che è ovvio.

Zaher, 18 anni, afgano, clandestino: morto a Mestre nel 2008, schiacciato dalle ruote del camion nel cui cassone si era nascosto dopo essere sceso da una nave arrivata dalla Grecia. Qudrat, 24 anni, afgano, arrivato a Forlì da Patrasso dopo 22 ore nascosto in un camion, permesso di soggiorno di un anno per motivi umanitari: la sua prima esperienza di lavoro in Italia è stata presso una scuderia di Mira, 300 euro per due mesi di lavoro in nero; è stato cacciato non appena il datore di lavoro, italianissimo, ha capito che il ragazzo voleva essere regolarizzato.

JOHN KEATS E LA TRADUTTOLOGIA

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di Franco Buffoni

John Keats pare occuparsi ben poco del problema della traduzione.
Nell’epistolario i riferimenti sono solo due. Il primo, nella lettera a Jane Reynolds del 14 Settembre 1817: “Mia cara Jane, sei una traduttrice talmente letterale che un giorno o l’altro mi divertirò a leggere delle frasi in un’altra lingua e a pensare come le renderesti in inglese. Questa è un’epoca che favorisce le bizzarrie e ti consiglierei come un buon investimento, di studiare l’ebraico e di stupire il mondo con una traduzione figurativa nella nostra lingua materna…”.
Che cosa Keats intenda per “traduzione figurativa” lo si comprende chiaramente dal secondo riferimento. È contenuto nella lettera a John Hamilton Reynolds del 22 settembre 1818, a cui Keats allega la sua traduzione di un sonetto di Ronsard, che egli definisce “libera”, mentre, con riferimento alle opere di Ronsard, egli parla “di grande bellezza”. La traduzione è “libera” anche perché Keats non aveva con sé l’originale quando la redasse, e quindi non ricordava più, così egli afferma, “gli ultimi versi”. Translated from Ronsard venne composto a metà settembre del 1818 e pubblicato per la prima volta nel 1848; il sonetto di Ronsard, Nature ornant Cassandre è il secondo sonetto di Le premier Livre des Amours (Amours de Cassandre, 1552).

Caro Paese

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di Christian Raimo

Caro Paese,
in questi giorni è facile aver l’impulso di dire le cose in faccia a tutti gli italiani, e così ho deciso anch’io di essere franco, e di scrivere una lettera al mio Paese. Mi sono domandato che titoli avessi per farlo, e poi mi sono risposto che effettivamente se due anni fa venti milioni di votanti avessero scelto me invece di Berlusconi oggi sarei io a guidare il paese… Ma non è successo, per tanti motivi. Il primo è sicuramente che non mi sono candidato. Ed è stato un passo dettato più dal rispetto nei Tuoi confronti che dalla mancanza di coraggio. Volevo capire che progetto politico proporre, caro Paese, e alla fine dopo tanto rimuginare mi sono deciso di chiederlo direttamente a Te. Ho avuto varie idee in questo tempo bulimico e leggero – come si suol dire –, forse anche troppe, e ora le vorrei vagliare con il Tuo aiuto.
Per esempio una delle prime idee che mi è venuta in mente è di costituire un nuovo soggetto politico: l’Ulivo. Si potrebbe chiamare Nuovo Ulivo, per distinguerlo dal vecchio.

in lungo e al largo

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Verso Sud
di
Azra Nuhefendic

Verso il sud il cielo diventava sempre più chiaro. Dominavano due colori: blu e un verde debole, diverso da quello dei fitti boschi dell’ entroterra. In un punto preciso, quando la strada faceva l’ultima salita sulla montagna, appariva una lineetta sottile, di un azzurro opaco che divideva il cielo dalla terra. Il mare. Là, in quel punto ci si fermava, si usciva dalla macchina in fretta, fibrillanti come un astemio, e ci si metteva sul punto estremo di un promontorio. Da là, come una esplosione, ci colpiva la vista monocolore, azzurro. Il Mare.
Per un istante si respiravano prime boccate di quel profumo particolare, una miscela di sale, dei pini, delle pietre sbiancate e scottate dal sole, delle conchiglie rifiutate dal mare, che si seccavano sulla spiaggia, di frittura di pesce, del vino denso. Troppe sensazioni in un istante. Ci veniva la debolezza, come le lacrime nei momenti di grande felicità.
Presto, presto, presto, ci comandavano i sensi, a tuffarci, a purificarci, liberarci. Il desiderio saliva come ci si avvicinava alla meta, per finire, come in un orgasmo, con il primo impatto con l’acqua di mare. Placati, ci sdraiavamo sulla sabbia calda perdendoci nel sonno dei puri, soddisfatti, liberi. Finalmente.

Avventure 2 – Occhi azzurri

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di Giacomo Sartori

Aveva saputo che sarebbe avvenuto con lui fin dalla sera che l’aveva visto vomitare sulla moquette del corridoio. Vomitava con una dedizione pacifica e distaccata, tirandosi ogni tanto pigramente indietro i fluenti capelli biondi, come si immaginava vomitassero gli arcangeli. La sua non era stata una decisione, era una certezza che le s’era avvinghiata ai polmoni, come un seme che germina casualmente in una data zolla e poi diventa un albero impossibile da abbattere. Lui era molto bello, e andava solo con ragazze molto belle, sempre con quel suo sguardo alto quasi qualcun’altra lo aspettasse un po’ più avanti, ma lei presentiva che con la pazienza ce l’avrebbe fatta.