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carta st[r]ampa[la]ta n.18

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di Fabrizio Tonello

Scanzorosciate (BG). Venerdì 4 giugno è stata una giornata nera. La Borsa di Milano ha perso il 3,8%. L’euro è sceso sotto quota 1,20 per 1 dollaro. L’Ungheria potrebbe dichiarare fallimento. Le mie obbligazioni Unicredit valgono più o meno come quelle delle ferrovie dello Zar dopo il 1917.

Forse è per questo che mi sento confuso, come se mi si fosse dilatata la dimensione spazio-temporale. Come se fossi entrato in un universo parallelo. No, non ho fumato nessuno spinello, del resto il fumo delle sigarette mi fa tossire. Ho provato i primi sintomi di disorientamento dopo aver comprato la Padania in edicola, venerdi scorso. La pagina 27 era occupata per metà da un titolo: “Dante, Foscolo, Leopardi, la grande poesia in bergamasco”.

In bergamasco. Dante.

Intervista a Luigi Di Ruscio

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di Roberta Salardi

L’italiano è una lingua che non si parla nella sua famiglia a Oslo. Esprimersi in una lingua che non è quella quotidiana ma appartiene all’infanzia, un’infanzia per di più sgrammaticata e indisciplinata, un pezzo di vita lontanissima e perdutissima, rende l’operazione del suo scrivere fin dalle premesse un po’ surreale, fuori dall’ordinario. Vuole dirci qualcosa a proposito di questa lingua tutta particolare?

Che posso dirvi della mia lingua, la lingua con cui scrivo si è formata naturalmente dentro di me frequentando giornalmente il norvegese. Qui da Oslo scrivo e leggo in italiano ma io l’italiano lo parlo raramente tanto che la lingua italiana diventa lingua letteraria, il norvegese lo leggo e lo capisco come un norvegese ma lo parlo molto male,  l’italiano è come l’anima mia, certamente non è un’anima candida. Si sporca continuamente e non sarà più l’italiano dell’Italia di oggi. Insomma la mia “lingua particolare”, il mio “italiano particolare” è venuto a formarsi naturalmente, essere “sbattuto” nel posto più appropriato per la mia formazione. Tenete sempre presente che vivo in Norvegia dal 1957, cinquantadue anni di vita in Norvegia e appena per ventisette anni sono vissuto in Italia, come ho già detto il mio italiano è quello di quando sono partito, più di mezzo secolo fa, e delle mie letture continue.

Stregature: Rosa Matteucci

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di Marco Belpoliti

Rosa Matteucci, Tutta mio padre, Bompiani, pp. 286, € 17,50

Il romanzo famigliare non è una specialità italiana, certo, ma tutti i libri che da noi raccontano la famiglia, la sua allegra, oppure funesta, follia, sembrano discendere dal libro più italiano che ci sia: Pinocchio. Così è anche Tutta mio padre di Rosa Matteucci, il cui viso paffuto e bambinesco – ma l’espressione è seria e decisa – campeggia sulla copertina del libro. Una consuetudine, questa, di mettere i volti degli autori, che la Bompiani coltiva da qualche tempo, almeno per gli italoscrittori: Scurati, e ora Matteucci.

Live Oil Spill Cam [ nel frattempo ]

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Monsieur de Sainte Colombe [1640 ca. – 1700 ca.]
Tombeau des regrets: Les pleurs
[ per due viole, Jordi Savall, Bass Viol – Christophe Coin, Bass Viol ]

Stregature: Paolo Sorrentino

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di Marco Belpoliti

Paolo Sorrentino, Hanno ragione tutti, Feltrinelli, pp.319, € 18

Tony Pagoda, il protagonista del romanzo di Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione, è un personaggio che non si dimentica tanto facilmente. Sin dal suo debutto sulla pagina, questo cantante cocainomane sfatto, cinico, baro, sentimentale sino alle lacrime, assurdo e paradossale, si stampa nella mente del lettore che ne segue l’eruzione verbale mentre dilaga, a ritmo serrato, per pagine e pagine. Un essere orrendo, ma assolutamente simpatico. Vero, meglio, verace, una vera vongola che racconta come e perché filtra con la sua mente l’acqua inquinata del Golfo di Napoli e dintorni.

Giù la mascherina: nuovo al cinema italiano

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di
Giampaolo Simi

Per anni abbiamo visto in molti film italiani grandi appartamenti borghesi, graziose mansarde con affaccio mozzafiato, loft ristrutturati e impreziositi dal design con studiata nonchalance. In quegli interni si è consumato un lungo divorzio, per altro del tutto consensuale. Si è trattato del divorzio fra il tanto invocato Paese reale e coloro che si prendevano la responsabilità – o si sentivano capaci – di raccontarlo o, per meglio dire, di provare a interpretarlo. Fra una parte dell’élite culturale e la working class, per tagliarla un po’ alla grezza. Con il ceto medio preso in mezzo e diviso, come spesso succede ai figli nelle separazioni. I professori di liceo e gli impiegati da una parte, i metronotte e i piastrellisti dall’altra, nonostante un medesimo status di lavoratore dipendente e magari stipendi con il medesimo potere d’acquisto in caduta libera.
Un divorzio consumatosi parallelamente in altre forme artistiche, come la narrativa. Ma in quel caso risultava più naturale, meno vistoso e preoccupante, perché investiva un ambiente (almeno in Italia) storicamente più ristretto ed estraneo all’intrattenimento di massa.
C’è voluto del tempo perché un film italiano non indipendente indugiasse significativamente su un angolo cottura da magazzino della convenienza. O su una modesta scarpiera che ingombra un angusto disimpegno. È successo a distanza ravvicinata con “Cosa voglio di più” di Silvio Soldini e con “La nostra vita” di Daniele Luchetti.

IL CASTELLO

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di Giacomo Sartori

[ritaglio i paragrafi che seguono da un testo più lungo; il titolo è posticcio]

Il problema dei castelli, specie in caso di guerra, o anche solo appunto di notte, è entrarci. C’era sì un grande portale al termine di una salitina, che si intuiva essere stata un ponte levatoio, ma era drasticamente sbarrato. E a parte quell’entrata impenetrabile sembrava che ci fossero solo alte mura da tutte le parti. Ci sarebbero volute lunghissime scale di corda o di legno, una macchina da guerra, una catapulta, uno di quei marchingegni con i quali si assaltano i castelli. Ma noi non avevamo quel genere di attrezzatura. Avevamo solo il telefono di Marinella, che non prendeva. Cercando però nella penombra siamo incappati in un altro varco, e perfino una porticina che portava a un cortile adibito a parcheggio. Ma anche dopo quello spiazzo venuto a patti con la modernità le mura restavano pur sempre verticali e altissime. Poi per fortuna nella notte medioevale sono spuntate delle voci. E una delle voci era quella franca e decisa ma anche affabile del castellano. Insomma, il figlio del. Si muoveva nella notte con disinvolta agilità: si vedeva che era abituato da sempre a quel genere di penombre.

A forza di porticine e scale di pietra e corti interne è apparsa qualche fioca luce elettrica. Le facce si sono allora rivelate per le facce che erano. Come c’era da aspettarsi il giovane castellano aveva un nobile naso arcuato e due patrizi occhietti che sembravano guardar fuori da un quadro del rinascimento.

Giocare su un tappeto in piazza tra desiderio di volare ed esperienza di meraviglia.

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di Tina Nastasi

A scuola di Ludopedagogia: Barcis (Pordenone) 14-20 giugno 2010.

Lucca, 2 giugno. Ore 15.30: l’improbabile festa della Repubblica e del Diritto al Gioco giace nella piazza deserta sotto la pioggia.
Ma il tempo è imprevedibile: il cielo si apre, l’aria si asciuga, e il portone dell’arcivescovado sforna tavoli e persone pronte e colorate: lo spettacolo comincia.
La danza della Capoeria apre i giochi e la piazza già brulica di gente. Nel prato che fiancheggia la Cattedrale una mongolfiera arcobaleno sta per essere tirata su. Chissà se riusciranno.
Da lontano una voce al microfono annuncia ‒ mi sbaglio? ‒ che tra banchetti e concerti a un certo punto si giocherà. Un laboratorio per bambine e bambini? E perché solo loro. Il diritto al gioco non è forse di tutti e tutte? Chissà come sarà, mi chiedo.
Tre donne mascherate di segni rossi in viso e turbanti in testa si aggirano per la folla offrendo una mela in cambio di qualcosa … un gesto, un racconto, un bacio o anche semplicemente un sorriso.

bgmole si è abbonato, e tu?

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La richiesta di abbonamento si effettua dal simbolo che compare in alto a destra nella homepage.

Questo è il link diretto.

L’abbonamento per i tre numeri della collana costa 20 euro. Chi sottoscrive riceverà subito Stephen Rodefer, mentre Torga e Schulze verranno spediti nel corso del 2010 (probabili uscite a settembre e a novembre).

Che l’amore non esiste

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di Andrea Inglese

L’amore non esiste (per questo me ne occupo)

L’amore non c’entra niente. Con la vita ordinaria, con la vita giornaliera, l’amore c’entra pochissimo. In primo luogo per il fatto che l’amore non esiste, e nel caso esistesse, l’amore sarebbe una finzione, ovvero avrebbe scarsissima realtà, per cui non entrerebbe nelle vite, se non in forma irrilevante, con lo stesso peso dell’ombra gettata da un corpo sul muro.

Che l’amore esista poco, che venga male interpretato, malinteso, che sia qualcosa di inutile, un’invenzione senza scopo, che rimanga comunque a margine, buono per le immagini in movimento, che l’amore manchi, sia evocato in quanto pezzo mancante, grossa assenza, buco, lo si capisce bene a Parigi, la cui psicogeografia manca completamente di una plausibile insularità dell’amore, di una zona franca, di una coppia di passanti, in cui possa essere situato, e poi descritto un fenomeno dell’amore, un suo pezzo, una fase.

Des ordres littéraires: Alessandro Zannoni

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Nota
di
Mario Capello
su
“Imperfetto” di Alessandro Zannoni, Perdisapop editore, euro 14,00

Scorro le pagine di Imperfetto di Alessandro Zannoni e mi trovo davanti a un passo che mi fa riflettere. Il miglior amico del protagonista, Andrea (Andros, cioè maschio), davanti alle sue titubanze, gli spiattella la formula della felicità (o dell’infelicità senza desideri contemporanea, per citare Handke):

“Sei convinto di quello che fai?” […] “Pensaci bene, bello, perché una come Marta non è che la trovi dietro l’angolo” […] “Una che tiene bene la casa, che sa farti da mangiare, che non ti rompe il cazzo” […] “Finché si tratta di andare a troie e tornare a casa va tutto bene. […] Devi fare come tutti, fai un bambino, ti tieni la tua bella famiglia e scopi con tutte le troiette che vuoi senza fare tanti casini” (Imperfetto, pagine 61-62)

È un invito ad accettare la realtà in maniera pragmatica. La realtà, con la sua volgarità, la sua ipocrisia, la sua mancanza di senso, perché in essa, nulla ha davvero valore, neppure le nostre azioni più bieche, più basse, tanto meno le nostre bassezze ché queste, al contrario, sono forse le uniche palpitanti in quel magma indistinto che è, alla fine, la realtà. Rassegnarsi – a essere uguali a tutti gli altri, a mentire, a vivere da scissi – e chinare la testa.
Ma, poche pagine prima, nel libro, in questo che è un bell’esempio di romanzo di genere, una prova di alto artigianato, dalla scrittura tagliente e dai personaggi solidi, c’è un appello di ordine diverso.

UN VESCOVO IN TURCHIA

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di Franco Buffoni

Giovedì della scorsa settimana, Murat Altun ha attraversato con l’automobile del vescovo il viale tappezzato di bandiere rosse con la falce e la stella a cinque punte e poi ha raggiunto monsignor Padovese al numero 17 di Sultankoy site: una villetta bianca avvolta nella vite e affacciata sul mare dove il vescovo si ritirava a godersi la propria privacy. Un angolo incantevole distante solo venti minuti dalla frenetica vita cittadina, fitta di appuntamenti pastorali, di incontri interreligiosi, di contatti col Vaticano.
«Li ho visti insieme per tre anni, erano come padre e figlio. Murat preparava il caffè turco e lo bevevano dopo aver fatto una nuotata insieme», borbotta incredulo il vicino Mehmet Kolksal, piantando fiori rosa nel suo giardino.

A destra, solidità e spostamenti

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di Alessandro Leogrande

Quando si parla di fibrillazioni interne alla destra italiana, è opportuno non confondere il piano politico con quello sociale. Sul piano politico il tentativo di smarcarsi di Fini, il suo mirare alla costruzione di una destra diversa, è solo l’ultimo atto di un processo iniziato un anno fa, quando intellettuali a lui vicini iniziarono ad assumere posizioni anti-berlusconiane. Prima delle dichiarazioni di Veronica Lario, fu Sofia Ventura (politologa del gruppo “Farefuturo”) a parlare di velinismo e di ciarpame. Per la prima volta, allora, il Capo fu messo in discussione. Furono messi in discussione la sua politica, le sue candidature, il suo rapporto con le donne quale architrave del rapporto con gli alleati e con la società italiana. Poi si sarebbe addirittura arrivati alla constatazione del sistematico utilizzo di donne-tangenti all’interno del suo entourage. Sulla questione femminile interna alla destra si è aperta allora una crepa che via via si è estesa ad altri fronti. In seguito critiche non molto diverse (tutte tese a costituire un laboratorio politico di destra non riconducibile al berlusconismo) sono state formulate a proposito della giustizia, della riforma dello Stato, del federalismo, dell’immigrazione e della cittadinanza.

Stregature: Lorenzo Pavolini

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[prosegue la pubblicazione delle recensioni ai libri “stregati”. G.B]

di Marco Belpoliti

Lorenzo Pavolini, Accanto alla tigre, Fandango, pp. 243, € 16,50

Due lampi di una memoria ancora da costruire: la foto dei gerarchi fascisti appesi a testa in giù a Piazzale Loreto e una voce ascoltata in un documentario sui 600 giorni della Repubblica di Salò. La prima accende nel ragazzino che la vede un’improvvisa curiosità destinata a crescere negli anni, fino a che l’uomo maturo non sente parlare il nonno-mai-conosciuto in un documento televisivo e prova seduta stante una “infinita dolcezza”.

Manganelli intervista Tutankhamon [ Carmelo Bene ]

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Parte Prima


 
Parte Seconda


 
Parte Terza


 

Rai Tre – 30 luglio 1974
Le interviste impossibili

* Giorgio Manganelli Le interviste impossibili, Milano, Adelphi, 1997

Ex ordres littéraires : Elisa Ruotolo!

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Nota
di
Carlotta Vissani
su Ho rubato la pioggia, Elisa Ruotolo, Nottetempo, 15 euro

Non saprei dire perché, ma continuo a imbattermi, felicemente, nei racconti di italiani al loro vero esordio. Voci peculiari che hanno qualcosa di importante da dire. Elisa Ruotolo, classe ’75, è una scoperta da fare perché sa bene dove andare a parare con la sua penna guizzante e colloquiale (senza mai mancare di raffinatezza linguistica), capace però di restare dentro i confini imposti dalla forma narrativa a lei più congeniale perché quando scrivi racconti “devi sempre sapere dove guardare, a quali dettagli dare la salvezza dell’inchiostro”. Tre storie “nate quando ho smesso di scegliere e ho deciso semplicemente di raccontare”, tre personaggi forti – Molto Leggenda, Maria e Cesare – legati a doppio filo alla loro patria di origine, la Campania, radici umane saldamente piantate in un terreno comune, frutto di “racconti tramandati, ma anche frammenti di conversazioni rubate ai discorsi distratti di una carrozza ferroviaria, geografia spaziale e mentale del perimetro in cui sono cresciuta”.

La riduzione del sangue

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di Marco Mantello

L’undicesimo comandamento recita:

Non bruciarti di nuovo la vita
a violare le leggi marittime.
Quelli salgono, sparano, estraggono
le prove solite dell’innocenza
portate apposta per l’occasione.
Non risultano italiani fra le vittime
Tutto il resto è televisione.

*

La responsabilità dell’autore: Enrico Palandri

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[Dopo gli interventi di Helena Janeczek e Andrea Inglese, abbiamo pensato di mettere a punto un questionario composto di 10 domande, e di mandarlo a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere. Dopo Erri De Luca, Luigi Bernardi, Michela Murgia, Giulio Mozzi, Emanule Trevi, Ferruccio Parazzoli, Claudio Piersanti, Franco Cordelli, Gherardo Bortolotti, Dario Voltolini, Tommaso Pincio, Alberto Abruzzese, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Gianni Celati, Marcello Fois, Laura Pugno, Biagio Cepollaro, Ginevra Bompiani, Marco Giovenale, Vincenzo Latronico, Franz Krauspenhaar, ecco le risposte di Enrico Palandri.]

Come giudichi in generale, come speditivo apprezzamento di massima, lo stato della nostra letteratura contemporanea (narrativa e/o poesia)? Concordi con quei critici che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea?

No, affatto. Canetti diceva che l’idea che la letteratura sia alla fine è meschina. Anche negli anni in cui non leggiamo libri che ci paiono significativi la letteratura è viva, magari i libri vengono scritti e non pubblicati, o pubblicati da editori difficili da reperire in libreria, o magari da grandi editori ma i nostri pregiudizi ci rendono difficile la lettura. Dire che la letteratura sia morta è come dire che è finita la civiltà. Se poi parliamo del romanzo trovo sempre con sorpresa un libro in cui questo genere straordinariamente vitale si è ridefinito. La poesia mi sembra ancora più profondamente duratura. Chi è che riesce a mettersi su un podio tale da poter dire signori e signore, dopo tremila anni di letteratura occidentale è accaduto che proprio in Italia, nel 2010, il genere è morto! Francamente credo ci vorrebbe un po’ più di sobrietà quando si danno giudizi di questo genere. Del resto sono sentenze che sono sempre stati parte della scena letteraria, facendo appunto la figura descritta da Canetti.

Ti sembra che la tendenza verso un’industrializzazione crescente dell’editoria freni in qualche modo l’apparizione di opere di qualità?

No, ogni epoca ha i suoi modi. La figura dell’impresario d’opera o del produttore cinematografico non sono migliori, ma fanno i film, hanno fatto le opere, spesso segnandone alcuni limiti.

H. D. & Doktor Sigmund Freud

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di H. D. [ Hilda Doolittle, 1886 – 1961 ]
 
da Tribute To Freud [ 1956 ]

[ traduzione di Orsola Puecher ]

Percorsi la Berggasse e svoltai nel famigliare ingresso; che era Berggasse 19, Wien IX. C’erano ampi gradini di pietra e una balaustra. A volte incontravo qualcun’altro che scendeva. La scala di pietra era curva. C’erano due porte sul pianerottolo. Quella a destra era la porta dello studio del Professore; quella a sinistra la porta della famiglia Freud. Effettivamente i due appartamenti erano disposti in modo che ci potesse essere un po’ di confusione fra famiglia e pazienti o allievi; di qua c’era il Professore che apparteneva a noi, di là c’era il Professore che apparteneva alla famiglia; era una grande famiglia con ramificazioni, suoceri, parenti lontani, amici di famiglia. C’erano altri appartamenti sopra, ma non ho incrociato molto spesso qualcuno sulle scale, tranne i pazienti in analisi dell’ora precedente alla mia. Le ore o sessioni stabilite per me erano 4 giorni alla settimana dalle cinque alle sei; un giorno dalle dodici alla una. Almeno, quello era l’ordine per la seconda serie di sessioni che, annotai, cominciarono alla fine di ottobre del 1934.
 

[…]

 
C’è un dottore seduto dietro il divano su cui sono sdraiata. È un dottore molto famoso. Si chiama Sigmund Freud.

Le parole testuali

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di Antonio Sparzani

Intervista a Luca Camurri, autore di Le parole testuali, Festuca editore, Sesto San Giovanni 2007, € 8.00.

Antonio: caro Luca, ho letto il tuo Le parole testuali e ne ho riportato impressioni diverse, e in vari casi molto buone. Mi piacerebbe, se sei d’accordo, parlarne qui in pubblico per condividere con altri pareri e impressioni. Una delle prime cose che mi ha colpito è la tua capacità di cogliere l’attimo di un cambiamento, di una vertigine, di una comprensione improvvisa; l’eureka di una sensazione, di un sentimento. Cosa puoi dirmi di questo? Quando scrivi, è per l’impulso improvviso di fermare un’emozione o invece una meditata elaborazione?

Luca: nella mia scrittura poetica ‒ con l’eccezione di Il Libro dì Debora, la mia terza opera, che era veramente “monotematica” ‒ non c’è mai una “meditata elaborazione”. La stessa brevità dei testi penso riproduca abbastanza fedelmente l’illuminazione, la scheggia improvvisa, il tuffo a ritroso nel tempo.
In seguito, a distanza di giorni e di mesi, rivedo e modifico spesso i testi; ma lascio di proposito una parola più desueta o magari più “stonata” delle altre, che ai miei occhi è quella che più di altre “fa luce” sulle dinamiche dell’inconscio. Non nego l’importanza del labor limae, ma credo fermamente che i frutti dell’ispirazione vadano preservati, per evitare di ridurre la poesia a una fredda e sterile attività “a tavolino”, basata solo sul raziocinio e sull’esercizio stilistico e formale.