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Triptyque

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Poesie di Nunzio Festa e Paroles di Franco Arminio

visioni di Giovanni Cossu

Confessioni di un paesologo
di
Franco Arminio

Per vivere in un paese devi dismettere ogni arroganza. Non importa se la nascondi o la fai fluire. L’arroganza si sente, agisce come un acido che corrode i tuoi legami con gli altri. Il paese è una creatura che ti chiede misericordia. Devi sentirti come un cane bastonato. Non deve sentirti uno che ha qualcosa da insegnare, uno che vuole cambiare la sua vita e quella degli altri. Il paese ti chiede di amare quello che sei e quello il paese è. Non devi fare altro.

Poesie
di
Nunzio Festa
la parete congela
questi secondi scalzi
balzi di sensazioni
urla
in frazioni di appaganti
feritoie di desiderio

e il ragno con la ragnatela
attende che me ne vada

Da “Il Larice di Daurija”

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[In Il Larice di Daurija. Dalla Kolyma ai Laogai (La Camera Verde, Roma, 2008), Tiziana de Novellis invita il lettore a esplorare in fondo l’orrore della Cina d’oggi, l’orrore del miglior partner e socio commerciale delle multinazionali occidentali.]

di Tiziana de Novellis

Capitolo VII – I laogai oggi

Riforma liberista e lavoro forzato

Fonti inesauribili di mano d’opera gratuita, i laogai sono oggi parte integrante dell’economia cinese, di cui accrescono produttività e profitto. Milioni di persone internate nei campi di lavoro forzato modificano in modo “inedito” l’economia cinese, trasformandola in un’economia di schiavitù. Da una dichiarazione del Ministero della Giustizia della Repubblica popolare cinese del 1988 si legge: “Le nostre unità dei laogai sono al tempo stesso dei centri di rieducazione e delle aziende speciali”. E, non a caso, il governo ritiene che le attività produttive dei laogai siano segreti di Stato. I prigionieri devono insomma essere “rieducati” in “nuovi comunisti”, raggiungendo un obiettivo prefissato di produttività.

Non è un giallo

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di Gianni Biondillo

[mi è stata chiesta, questa estate, una opinione sul delitto di Garlasco, quasi io fossi una “persona informata dei fatti”. Questa è stata la mia risposta. G.B.]

Non è un giallo. Finiamola di usare le parole a sproposito. Vorrei più deontologia dai media che si nascondono dietro l’esile paravento del diritto di cronaca. Non è un giallo, non è intrattenimento, non è una cosa divertente, piena di colpi di scena, dove poi arriva l’eroe che risolve il caso e poi tutti “vissero felici e contenti”. Non è fiction, non è letteratura. Non è una puntata di CSI o della sua emulazione fallita, i RIS.

Animali magici

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di Francesca Matteoni

*

La notte la strada si azzittisce. Le case sono giganti in attesa, spiano i lampioni dalle fessure delle serrande. Siedo sugli scalini del portone, aspettando che il gatto rientri dalle sue esplorazioni. Passano poche auto, non ci sono echi dalla via che dalla piazza centrale corre verso l’Appennino, le montagne punteggiate di villaggi, stelle deboli sull’orizzonte irregolare. Dagli alberi e dal campanile qualche grido di rapace notturno, piume, pellicce arruffate sotto i cespugli quando la civetta afferra il topo campagnolo. Dagli orti, dai muriccioli di cinta saltano fuori i gatti, dalla siepe la corazza argentata del riccio, dal campo oltre le reti l’umidità, le lumache, qualche rospo rigettato dai fossi, ogni tanto un animale del bosco, un capriolo disorientato sceso in cerca di cibo, le serpi cieche, sguiscianti, l’orbettino massacrato in gruppo, una sera di maggio da ragazzi, ognuno un sasso, un colpo, per un rituale rabbioso, per gioco, per pentimento poi, nel sonno. Nel buio il corpo è olfatto e udito – quasi tutte le presenze percepite sono le zolle smosse, il taglio dell’erba, polvere d’asfalto, l’acqua che ristagna dopo una pioggia, globi collosi di terra – strepiti, rimescolio di foglie, sbattere di frasche, miagolii, latrati sempre più rari e distanti, che fanno il vento e perfino i pensieri. Tutto è senza parole. Le vite sono rumore da sbrogliare nell’oscurità. Nessuno è solo. Non saprei immaginare un mondo senza animali.

Una (possibile) ragione della tristezza del pensiero

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[Pubblichiamo una risposta di Leonardo Palmisano all’articolo di Camon uscito oggi su La Stampa.]

di Leonardo Palmisano

Un coro di condanne accoglie la frase di George Steiner sui giamaicani: «Sono profondamente anti-razzista – dice in sostanza -, ma non mi piace che dei giamaicani vengano ad abitare vicino a me». Dunque: rispetto per gli altri, apprezzamento per i loro usi e costumi, ma finché non vengono a contatto con me: se mi toccano, mi riservo di far scattare la mia reazione di rigetto. Perché loro, vivendo la loro vita, m’impediscono di vivere la mia.
Temo, purtroppo, che Steiner abbia ragione.

Ferdinando Camon, La Stampa, 04.09.2008 [leggi l’articolo].

Gentile Camon,
mi permetta di dirle che le parole razzismo e anti-razzismo sono state usate in maniera impropria tanto da lei quanto, eventualmente, da Steiner.
Sarebbe bastato che Steiner dicesse che non può sopportare la musica ad alto volume dei suoi vicini, senza sottolineare che si tratta di giamaicani, e tutto sarebbe stato più chiaro e onesto.

Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato 6

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[18 immagini + lettere invernali per l’estate; 1, 2,
3,4,5…]

di Andrea Inglese

Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,

vorrei fosse venuto il momento
di ricordarti che sono con evidenza destinato alla morte,
di questo fatto, e di come te lo dico, io ho un chiaro ricordo,
basta un piccolo sforzo, perché io riporti alla mente
– come un evento accaduto di recente –
che la morte mi è destinata,
è una certezza, come giunta da una remota
dimostrazione, anonima, mormorata,
che anche tu possiedi, e che non consideriamo – io credo –
con sufficiente attenzione,

Ascoltare è un’esperienza

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[I brani pubblicati sono tratti dal romanzo Occhi dopo la polvere, Marietti 1820.]

di Vito Punzi

3. Ascoltare è un’esperienza

Il profumo del caffè che Marco, appena arrivato, gli aveva preparato, s’era diffuso rapidamente nella piccola cucina di Elia. L’oscura bevanda se ne stava lì, dentro la decorata tazzina di porcellana e immobile, come donna che elegantemente vestita diffonda tra uomini interessati la propria attraente fragranza. Avvicinò la tazzina alla bocca, lentamente, la mano tremolante, impaurita. Poté seguire dunque per tutto il tempo lo spostamento di quell’oggetto. Lo vide pian piano ingrandirsi. Provò, senza interrompere il gesto, a chiudere prima un occhio, poi l’altro, poi entrambi, fino a riaprirli, insieme. Il velo che qualche istante prima aveva reso opaca la sua visione era ormai stracciato. L’esercizio cui si sottopose fu un’ulteriore rivelazione: la duplicità della vista.

Giri di parole per rovistare nell’abisso

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di Chiara Valerio

Mario Desiati, Il paese delle spose infelici, romanzo, Mondadori (2008), pp. 227.

Ciascuno di noi poteva contare nel proprio albero genealogico una sposa infelice. Una zia, una bisnonna, un’ava con le stimmate dell’insoddisfazione. La depressione per reazione o ribellione ai destini di nozze e dunque di morte. La ragnatela di relazioni che ci univa tutti era in quell’insondabile maledizione: ho conosciuto, ho saputo, ho visto, ho stretto il cuore di una sposa infelice. Ogni figurina del mio album era unita all’altra da tutto questo. Il paese delle spose infelici di Mario Desiati è un romanzo di voci e circostanze, un incrocio. È plurale nonostante ogni personaggio abbia un nomignolo e ogni nomignolo una titubanza e ogni titubanza una variazione. E ogni variazione suppuri ancora in una nostalgia o in un fallimento. La voce che racconta, e che tradisce, perché come sottolinea Desiati, riordina, è quella di Veleno. Se Veleno racconta è sopravvissuto e se è sopravvissuto allora qualcuno si è perduto. In qualche modo. Quando il romanzo si spagina e la sposa incede nel Taras, nei piccoli rivoli tumefatti dagli scarichi del mostro di industrializzazione, chi legge sa già che qualcuno si è perduto. In qualche modo. Perché Desiati racconta i presagi come certi uomini incantano serpenti e i topi. In un paese in cui le spose erano infelici la volontà di illudersi era più forte di qualunque cosa, dare per un breve periodo un senso ai propri sogni, alla propria vanagloria.

La prossima settimana, forse

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di Gianni Biondillo

Alberto Nessi, La prossima settimana, forse, Bellinzona, Casagrande, 2008, pp. 176

Certe volte penso che la nostra lingua verrà salvata o dalla nuova immigrazione che la arricchirà di neologismi e nuovi colori o dalle realtà linguistiche extraterritoriali, più legate all’italiano scritto, visto ancora come lingua nobile. È quello che penso, appunto, leggendo La prossima settimana, forse di Alberto Nessi, autore ticinese, così parco nella sua trentennale produzione artistica che ogni sua novità assomiglia ad un piccolo evento.

Comizi d’amore o anche Amor ti vieta o anche Il mio ragazzo ha spento il telefono.

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[ Il brano è tolto dal blog di lumicino. ]

di Emmanuela Carbé

Ipotesi: sul perché non vorrei sposarmi.

Le mie note preferite sono il do e il sol.
Ho anche una chitarra che si chiamava gipippa prima che i comitati leninisti dopo un’irruzione a casa mia mi hanno fatto notare che la walt disney è una società capitalista e che non potevo chiamare un oggetto con il nome della macchina di indiana pipps. La mia chitarra era normale prima che un mio amico, convincendomi che era capace di accordarla, la fece monca tirando così tanto un piolino da far saltare una corda. La fu mao-gipippa-tung, in ciliegio tutta, giace impolverata vicino alla libreria ed è il simbolo supremo di due cose: il capitalismo, a lunghe distanze, perde sempre; le velleità giovanili, a lunga distanza, si sopiscono.

Lili

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Una piccola pensione in Provenza. Charlotte, la madre di Lili, le impedisce di sposare l’uomo che ama, la costringe a divorziare con l’uomo che lei sceglie per ripiego, la costringe a lasciare il pastore con il quale cerca di consolarsi. La vuole per sé: “Come stiamo bene insieme, vero Lili?”. Lili piange e insieme a lei è la frase del racconto che si spezza nei singhiozzi. Un romanzo totale, duro, poetico, terribile, dolcissimo, raro, insolito, forte, che svela la verità e l’abisso di un amore che diventa odio e crudeltà tra una madre e una figlia. “Lili” è il primo romanzo scritto da Hélène Bessette, apparso in Francia nel 1953 e mai pubblicato in Italia.

«La letteratura oggi, per me, è Hélène Bessette, nessun altro in Francia» (Marguerite Duras)

«Ecco una autentica scrittrice maledetta, una delle autrici più originali dei nostri tempi. Finalmente qualcosa di nuovo»
(Raymond Queneau)

Hélène Bessette (1918-2000) è una delle voci più potenti e meno conosciute della letteratura francese del Novecento. Autrice di tredici romanzi comparsi fra il 1953 e il 1973, ammirata da Raymond Queneau, Marguerite Duras e Simone de Beauvoir, sposa un pastore e lo segue in Nuova Caledonia, dove insegna francese e dove fonda una rivista letteraria. Divorziata, torna in Francia nel 1949 e vive in povertà insieme ai due figli, cambiando continuamente casa alla maniera degli scrittori maledetti. Vive in Svizzera, in Belgio e in Inghilterra, poi nel 1976, aiutata dall’amico Jean Dubuffet, si trasferisce a Le Mans, dove muore dimenticata da tutti. Dopo un lungo silenzio l’editoria francese la sta oggi riscoprendo e rilanciando come una delle autrici più importanti di quella letteratura.

La funzione Fortini nei poeti contemporanei (un questionario)

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Di recente la redazione de L’ospite ingrato, nella sua versione on-line, ha diffuso tra i poeti un questionario riguardante la “funzione Fortini” nella poesia contemporanea. Nella homepage del sito si legge: “Il progetto della rivista on-line nasce dalla volontà di creare uno spazio che, partendo dall’esperienza dell’«Ospite ingrato», proponga discussioni ed interventi su temi fortiniani”. Ma quali sono questi temi “fortiniani”? Sono fondamentalmente temi d’intreccio, che richiedono di pensare nello stesso spazio questioni che ovunque altrove vengono immediatamente separate: le forme del lavoro, dei conflitti che esse creano, le forme del pensare e dello scrivere, le forme del sapere istituzionale. Pubblico qui, precedute dalle domande, le mie risposte al questionario.

di Andrea Inglese

1. Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?

La trasformazione che, in quanto scrittore, mi riguarda di più, è quella che ha subordinato in modo prepotente ogni forma di attività culturale alla logica economica del profitto. La cultura ha perso sempre di più quella relativa autonomia, che manteneva nei confronti delle pure logiche di mercato. La mercificazione della cultura non è certo un fatto degli ultimi trent’anni, ma zone dell’attività intellettuale e artistica avevano in precedenza mantenuto un’attitudine autocritica, denunciando in vario modo questa tendenza generale e mostrando i limiti della pretesa autonomia del campo culturale nei confronti di quello economico.

Brevi…

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…per una convalescenza del dubbio
(immagini e parole)
di
Paola Lovisolo

[…]

a me

se la via porta al mare

sii buona con la morte –

i bambini sanno

esserlo coi cani

Lo stato delle cose in Occidente

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di Massimo Rizzante

Amo le stazioni termali. Immergermi nelle loro acque calde e rigeneratrici. Nuotare lentamente in una grande piscina blu.
Al mattino, soprattutto. Prima delle nove, quando l’allegro «Avanti, muovetevi!», lanciato da un robusto insegnante in costume da bagno, dà inizio alla lezione di water-gym programmata per una clientela alla ricerca dei suoi glutei perduti. I glutei, tuttavia, non sono vecchi e cadenti ! E neppure solo femminili! Sono glutei giovani e nonostante ciò alla ricerca di se stessi.
Come spiegare il mistero dei giovani glutei perduti?
Nuotando in solitudine, la risposta mi pare semplice: il tempio della salute (salus per aquam, dicevano gli antichi Romani), che fino a dieci anni fa era frequentato da un pubblico di moribondi o da persone mature e annoiate, è diventata la cattedrale del wellness, la casa della bellezza fisica, The Beauty Farm.
In una verde vallata circondata dalle montagne, alla frontiera tra Italia e Austria (non lontano dal castello del grande alpinista Reinhold Messner), dove, secondo la leggenda, Ötzi, l’uomo primitivo, ha trascorso il suo tempo a urlare il proprio nome per notti e notti– ottenendo come unica risposta una triste eco – si trova il Centro di benessere «Paradiso». 

narrazione del posto di lavoro

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di Chiara Valerio

La dismissione di Ermanno Rea e Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati sono due romanzi assai distanti ma accomunati da una miriade di particolari. Quasi i fili con i quali sono tessuti provengano dalla medesima fabbrica. Fabbrica è un buon termine per cominciare questo discorso. La dismissione e Vita precaria e amore eterno sono romanzi successivi al duemilauno, al crollo di quelle enormi meridiane segnatempo che sono diventate, nel vissuto collettivo, le torri gemelle. Finito l’intervallo delle certezze, del lavoro, delle misure. Se questi romanzi fossero temporalmente distanti, se parlassi di Dickens e Desiati o di Dickens e Rea non mi meraviglierei delle differenze di linguaggio, delle flessioni della grammatica e della lingua attraverso secoli e accadimenti. E invece al centro de La dismissione così come al centro di Vita precaria e amore eterno ci sono un uomo, un lavoro, un rapporto d’amore e un tradimento più pensato che attuato.

In mezzo a tante collimazioni tuttavia, stessi ingredienti, quasi stessi esiti, sta la differente generazione degli autori. Sembra una notazione di colore, quasi fastidiosamente leziosa. Rea è un uomo del millenovecentoventisette, Desiati del millenovecentosettantasette. Cinquant’anni. Questa differenza, ripeto, così poco letteraria rispetto ai temi e alla condivisione di un italiano evocativo (anche se Desiati ha dalla sua un disincanto documentaristico che non appartiene alla penna etica di Rea) fa sì che due romanzi, sulla carta simili, risultino alieni l’uno all’altro, spiega perché tra essi si slarghi un abisso. Non c’è epopea che non reclami un tragico tributo.

HARDBEAT

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di Angelo Del Rosso

[ Santa Cruz di Fatboy Slim]

Aveva una sola ragione per essere inquieto? No. Non era successo niente di strano. Nessuna minaccia incombeva su di lui. Era ridicolo perdere la calma, e lo sapeva. Lo sapeva così bene che anche lì, nel bel mezzo della festa, cercava di reagire. Si era subito lasciato sedurre dall’aspetto esterno del Central, una costruzione gialla, arretrata rispetto alla banchina, a cinquanta metri dalle palme da cocco, e immersa in un intrico di piante dalle forme bizzarre.

Festival AdriaticoMediterraneo (Ancona)

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[Seganalo due piccoli eventi poetici nel gran mare di eventi musicali e artistici di questo festival]

Ancona Lunedi 1 settembre
ore 21.00 – Cortile Mole Vanvitelliana
La rosa
lettura scenica da testi di Franco Scataglini
David Riondino
con Giovanni Seneca (musiche originali – chitarra), Fabrizio Fava (oboe e corno inglese), Marco Ferretti (violoncello)
*
Ancona Giovedi 4 settembre
Ore 21 – Cortile Mole Vanvitelleana
Superfast Poetry – Il Poetry Slam delle due sponde
Elisa Biagini (Italia), Ana Brnardič (Croazia), Arben Dedja (Albania), Nader Ghazvinizadeh (Italia-Iran),Stanka Hrastelj (Slovenia), Andrea Inglese (Italia), Senadin Musabegovič (Bosnia), Luigi Nacci (Italia)
curatore e maestro di cerimonia Luigi Socci
pubblicazione “Le Mappe di Adriatico/Mediterraneo” (ed. Pequod)
*

Un lupo mannaro (personaggio dei Castelli in cerca d’autore)

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di Alessandro De Santis

Tutto il giorno aveva camminato sul ciglio della strada
contava i passi e li classificava
e poi passava agli organi, alle carni
la lingua lastricata e le sue selci
intrise del sudore del non dire.

Due sonetti

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di Marco Palasciano

[Palasciano prosegue, in altre forme, un’invettiva scagliata in coda a uno sberleffo di Gernhardt, offrendo in tal modo una riflessione sulle reincarnazioni moderne del sonetto. DP]

1.

«In principio…» o forse è tutto un nastro
di Möbius, perforato pentagramma
dai cui segni esce luce: ed ecco un astro,
una stella cometa, ogni altra fiamma

o cristallo di neve – onde l’impiastro
di molecole insieme babbo e mamma
d’alghe, e vermi, e del bipede (disastro)
che pensa in lui s’arresti l’anagramma.

Miserere asfalto (afasie dell’attitudine) # 4

4

di Marina Pizzi

246.
in un gioco di penombre la breccia della leccornia (la tavola imbandita) per convincere il sole a farsi dominante così da poter sbattere le coperte in piena pace dal balcone.
247.
le rivalità dell’ombra giochicchiano imbattute
248.
con il limite degli occhi ci guardiamo in cagnesco
249.
con una biglia so giocare come fosse un anfiteatro

El boligrafo boliviano 18

2

di Silvio Mignano

20 gennaio e 4 maggio 2008

L’oscurità, di per sé tutt’altro che assoluta, è perforata da tremolanti luci aranciate, che si riflettono sulle pareti sporche come lingue d’acqua in una piscina asciutta. La folla si apre a ventaglio, in mezzo agli stridenti rumori delle seggiole trascinate sul pavimento di linoleum. Il rimbombo di una musica di chiesa, un basso stonato che dovrebbe richiamare Bach o il Requiem di Mozart e fatica invece a elevarsi al di sopra di un confuso agitarsi di crome e biscrome, un involontario rap per voci ed organo.