di Marco Papa

I
Il 16 febbraio 1964, giorno del mio nono compleanno, vengono a guardarmi dentro il letto, come se fossi il cinema.
Seguono ingordi il ballo delle pieghe delle lenzuola, l’affiorare il gonfiarsi e lo sparire di onde bianche e brune, di cavalloni. Dal soffitto pendono i miei nemici, come salumi messi a stagionare. Gli ospiti ci sbattono la testa e bestemmiano un po’; mi scuso per le sgarberie di quei brutti merluzzi dei miei nemici che mi odiano e trovano sempre il modo di guastare la festa. Con molta comprensione, gli ospiti ci passano sopra e si accendono un po’ di sigarette. Mi piacciono, perché sono giovani e vestiti bene, vellutati. Dentro il letto, io continuo a rotolarmi, in un goffo tentativo di seduzione.
“Mi avete portato dei regali? Volete suonare qualcosa?”. Hanno le mani vuote, nella testa non c’è musica per le mie orecchie.
Uno di loro, però, non se la sente di lasciarmi così: tira fuori un temperino e si mette a incidere un pomello del mio letto. Io lo seguo con gli occhi, mentre il legno perde la buccia e prende un viso peloso e zannuto. “Lo sai che cosa è questo?”. Non lo so. “È un tricheco. Buona notte!”.





In questo periodo sto leggendo la voluminosa e ottima biografia di Margherita Sarfatti scritta da Françoise Liffran, uscita da poco (Margherita Sarfatti, L’égérie du Duce, Seuil, pp. 758). Mi piace e mi avvince, ma avrei tanta voglia di prendere in mano, nei preziosi ritagli di tempo che ho per leggere, uno dei romanzi che mi fanno l’occhiolino dalla pila di libri in attesa di essere letti, e invece vado avanti stoicamente, so che andrò avanti fino alla fine (mi manca poco). Per senso civico, perché documentandomi per scrivere un mio romanzo ho capito quanto sia importante la storia del fascismo per capire qualcosa del presente.
di Maeba Sciutti 






