di Francesco Pecoraro
[Questo brano è tratto dal blog di Tashtego]
Avere una karavida (Scyllarides latus, cicala di mare) nel piatto non è usuale e non è immediatamente intuitivo.
E non è nemmeno come averci un’aragosta.
All’aragosta e all’astice siamo più abituati, mentre questa è una creatura del tutto aliena, che sembra provenire da un pianeta con condizioni molto più dure del nostro, con un campo gravitazionale ben maggiore, predatori molto pericolosi e attrezzati.
La karavida è lì, spaccata a metà, che basta accostare le due parti, farle combaciare con attenzione, per riavere l’animale intero, tutto intero, sulla tua tavola, assieme al pane, al vino, all’insalata di melanzane, a tutte le altre cose normali che normalmente beviamo e mangiamo.
Tutta questa normalità del desinare civile e attovagliato, il coltello e la forchetta, il bicchiere, il tovagliolo di carta che presto volerà via alla prima folata robusta di vento, la vaschetta della salsa olio/limone, il flacone del sale, la bottiglia di fisikò metallikò nerò (acqua minerale naturale), eccetera, fa da contesto, da quinta teatrale, da sfondo alla comparsa del quasi estinto Trilobite Rosso.













