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Muta quies habitat

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Ovidio
Metamorfosi
[ libro XI, vv. 592-649 ]

NIOBE di Benjamin Britten [1913-1976]
da Six Metamorphoses after Ovid Op 49
per Oboe solo


V’è presso i Cimmeri una spelonca dai fondi recessi,
un monte cavo e impenetrabile dimora del pigro Sonno,
in cui mai con i suoi raggi all’alba, né a mezzodì, né al tramonto
il Sole riesce a filtrare: nebbie miste a caligine
esalano dal suolo in un crepuscolo dalla luce incerta.

L’anniversaire

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di
Azra Nuhefendic

Neira, undici anni, mingherlina, capelli lisci, biondissimi, occhi cerulei, un volto dolce e intelligente. E’ vispa, Neira. Ci guarda ed evidenzia con una smorfia che c’è cattivo odore. Due ragazzi passano silenziosi in mezzo a noialtri, che ce ne stiamo seduti per terra. I suoi fratelli. Due maschi. Se ne contano cinque in tutto, in questo gruppo di quaranta donne. Le madri sole, le vedove di Srebrenica.
I fratelli di Neira, vent’anni a testa, rincasano senza dire una parola dopo un’intera giornata di lavoro nei campi, sulle zolle altrui: puzzano di sudore, di terra, di acqua marcia. Vestiti di stracci, le maniche ancora rimboccate. Alti, nerboruti, i capelli scuri, bruciati dal sole, mesti: tutto il contrario di Neira.
La madre parla mentre tesse la lana di un maglione disfatto. Fa un cenno di capo verso Neira: “E’ lei che avrei lasciato”.
A Srebrenica, nel luglio del 1995, ha salutato il marito: lui da una parte, assieme ad altri ottomila uomini bosniaci, nel disperato tentativo di sopravvivere; lei dall’altra, con quattro bambini. I due gemelli legati alla gonna con lo spago, Neira, di appena sei mesi, assicurata al petto con una sciarpa, il figlio maggiore, dodicenne, tenuto per mano. “Se non mi avessero lasciato passare con tutti e quattro, avrei lasciato Neira”.

RADIOBAHIA: racconti per canzoni [009]

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di Marco Ciriello

RADIOBAHIA: suona

“Money”
dei Gruppa Leningrad

9.
“La velina di Putin” si chiama il romanzo, è ambientato a Mosca e parla dell’America. È una storia piena di sorprese che Ernest Bishop scrive in aereo. Dentro giornate morte, ci sono: la televisione russa, la scrivania di Putin, Monica Levinski in cerca di lavoro, e soprattutto un finale unico nella storia della letteratura mondiale: quando racconta di come suo padre è diventato una piscina.

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di
Gianni Campi

Mode d’emploi
lettera d’istruzione distruttiva al lettore

Per apprezzare o disprezzare il seguente pezzo di…, si desidera
offrire codesta sorta di vaderetromecum o di prontuario al disuso;
punto per punto si daranno dunque le scoordinate, poco o nulla
cartesiane, per disorientarsi al meglio e orientarsi al peggio. La
historia è breve: il direttore dell’ Eco di Caserta ,
avendo pubblicato un articoletto, tra l’altro di già edito su
Lo Straniero fofiano, dello ‘scrittore’ Antonio
Pascale sul problema dell’immonda immondizia, gli balenò
l’idea di averne un commento da parte del sottononscritto, a suo
(del direttore) dire egli (il Pascale) essendo un ‘mio’ collega. Tra-
lascio – qui non essendo sede per diatribe – di dire di quel pos-
sessivo e della professione di ‘scrittore’, questa, come dire?,
categoria (?) non esistendo affatto, né dunque potendomi impos-
sessare d’un’inesistenza – quest’ultima ipotesi godrebbe d’una
impossibilità a me cara per altri versi. – Ma, come che sia, a
tale richiesta cercai di denegarmi, adducendo che al più avrei
potuto scriverne, visto che l’articolo in questione prendeva le
mosse (è proprio il caso di dirlo) dalla scatoletta manzoniana
plena di ‘merda d’artista’, un altero commento sì, ma solo e
soltanto su d’ella scatola escatologica.

I limiti dell’arte

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di Massimo Rizzante

A
Definire i contorni delle parole è diventato un compito difficile, soprattutto da quando le specializzazioni e i gerghi hanno invaso ogni campo, confondendo le frontiere delle arti e in particolare dell’arte letteraria. Parole come «contaminazione», «riscrittura», «riuso», «intertestualità» hanno fatto il giro del mondo in bocca a critici raffinati, precipitando poi nei manuali, per diventare, infine, luoghi comuni nelle tesi degli studenti più scaltri. Danilo Kis diceva che la letteratura dovrebbe essere «l’ultimo bastione del buon senso». Che cos’è, si chiedeva, un sonetto d’amore se non «un isolotto sul quale possiamo posare il piede» in mezzo alla palude dei gerghi?

Nella fabbrica del gesto

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di Franz Krauspenhaar e Nina Maroccolo

Chiamalo

Chiamalo attenzione, e dispersione
e disperazione e fiore nero e caduta
e innalzarsi, invece; e speranza, e mirto,
e i tuoi occhi e la cascata di dolore
che mi prese al solo pensare di lei
e di te; e poi consumazione, e stanco

EUROSIÓN: RETORNO O TRASTORNO?

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di Roberto Quesada

La legge (Direttiva del Rientro) è stata promulgata con sconcertante impunità, che risulterebbe inspiegabile se non fossimo abituati a venir divorati e a vivere con la paura.

Eduardo Galeano

Uscivo da una di quelle belle riunioni delle Nazioni Unite per un mondo migliore, senza sapere quello che accadeva nel mondo disunito, quando qualcuno mi ha informato della Direttiva del Rientro che l’Unione Europea aveva appena approvato. Sono arrivato al nostro Dipartimento e la segretaria mi comunica che mi ha cercato il direttore dell’Istituto Cervantes di New York, Eduardo Lago.

Racconti di un uomo invisibile. Su Fortune, di Igor De Marchi

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di Cristina Babino

Fortuna è ciò che porta il caso. Né buona né cattiva. Per gli antichi voleva dire tanto evento lieto che tempesta, tanto ricchezza che pericolo. Fortune sono quelle che accadono ogni giorno, insieme ai giorni, un po’ contemplate e un po’ subite, accettate con rassegnata sospensione del giudizio.

Letteratura e cinquantenni

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di Antonio Sparzani
Hannah Arendt e Hermann Broch
Non sono un giovane scrittore, nessuna di queste due parole mi si addice, e quindi non riesco a entrare, né me ne dolgo poi molto, nelle questio- ni, più o meno ve- nate di polemica, re- lative ai giovani nella letteratura così come alla supposta crisi di questa, in Italia e nel mondo. Leggo con grandissimo piacere – ancorché in modo selettivo e non onnivoro – la letteratura dovunque spunti, ma la mia ignoranza complessiva dei contemporanei è forse maggiore di quella della letteratura classica. Tuttavia, leggendo appunto un po’ più spesso qualche ‘classico’, con tutta l’incertezza legata a questa definizione, mi capita di trovare opinioni ‘illustri’ che mi sembra di condividere, o almeno di ritenere davvero importanti.

È quello che mi è accaduto leggendo un – non so se dir famoso o no, perché secondo me dovrebbe esserlo, ma non son certo che lo sia – saggio di Hermann Broch, scritto in occasione del cinquantesimo compleanno di James Joyce. Approssimativamente, s’intende, perché Joyce i cinquanta li compiva nel 1932 mentre il saggio di Broch apparve nel 1936. Ma nel 1936 Broch stesso compiva cinquant’anni e questo forse ebbe il suo peso nella scrittura. Un ulteriore e curioso dettaglio, su cui spero di tornare tra non molto, è che Elias Canetti, proprio nel 1936, trentunenne, dedicò un saggio a Broch per i suoi cinquant’anni, stavolta on-time, saggio che apre ora la raccolta di scritti La coscienza delle parole (Adelphi, Milano 1984/2007).

Do you remember Peteano? – Parte seconda

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di
Manuela Vittorelli
qui la prima parte.

21 marzo 1973, alba.
Dal punto di vista istruttorio, dal 1° agosto all’8 novembre 1972 è il vuoto assoluto: né interrogatori, né ispezioni, né perquisizioni. L’8 novembre su ordine dall’alto l’autorità inquirente si sposta sulla pista programmaticamente “non politica”, quella della malavita locale. I sei penseranno però sempre di essere sentiti in qualità di testimoni, non di imputati.

Resen subisce un unico interrogatorio (durante il quale gli viene ricordato il suo passato nella destra e proposto di fare l’infiltrato, lui rifiuta), poi niente fino all’arresto, anche se in quei mesi si accorge di essere seguito.
Lo vanno a prendere all’alba del 21 marzo 1973. Davanti alla caserma di via Nazario Sauro un carabiniere lo guarda e dice: “L’ho visto al Brennero”. Questo perché il capo di imputazione sulla provenienza dell’esplosivo è incerto e gli inquirenti hanno detto che è stato trovato in Germania: dunque per pararsi le spalle serve qualcuno che dica di aver visto Resen passare la frontiera.
Fuori della caserma c’è una folla inferocita, giornalisti, fotografi, la televisione, tutti contro i “mostri”. Gridano “assassini”, “pena di morte”, cose così.
Quando lo portano nel carcere di via Barzellini, che sta proprio lì vicino, Resen incrocia una cugina: lei lo riconosce, capisce e scoppia a piangere. Lui le grida “Ma va’ a casa, va’!”
“Chissà perché l’ho trattata così”, rimpiangerà poi. “Ero fuori di me”.

Pont des Arts (Aria e dieci variazioni)

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cartolina b/n

Con una sosta delle cose, intorno ad esso, l’illusione di un guasto nel tempo…

di Chiara Valerio
I. È l’unico con un paletot chiaro. Se non ci fosse, qualcuno, uno qualsiasi, io pure, guardando dal basso, quasi dall’acqua, penserebbe che non ci sia vento. L’immobilità delle quattro figure in abiti scuri farebbe dimenticare le increspature delle acque del fiume. Cammina veloce, con i libri sottobraccio e l’aria dello studente che sta per arrivare tardi a un appello, l’ultimo della sessione autunnale. Non arrivare sarebbe come non poter rientrare a casa per le vacanze. Rimanere interdetti fuori dalla porta per una marachella più grande del vezzeggiativo che la definisce. Così cammina a passo svelto, concitato e diretto, ha una meta ma non l’aria dello studente, il sole tra i capelli scuri riflette un bagliore di fili bianchi. Forse è un professore. Sì è un professore, mi convinco, potrei scommettere. È un professore in ritardo per una riunione con altri professori. Se non riesce a essere in quel circolo, intorno a quel tavolo nei prossimi dieci minuti perderà ogni possibilità di interlocuzione ché i ritardatari non hanno diritto alla parola, se fosse rettore eliminerebbe questa regola salica di primogenitura della seggiola, ma rettore non lo sarà mai e comunque non è il momento di sprecare energie in farneticazioni accademiche. Rallenta e si volta a sinistra come se gli fosse volato uno scontrino dalla tasca o un appunto da un volume, rallenta ma lo sguardo scivola troppo in basso, oltre la striscia asfaltata del ponte. Fissa l’acqua, in basso. Sul fiume c’è un battello che si chiama Suzanne, rallenta, leggere lo ha sempre distratto, questo è certo, e rilassato, rallenta ancora ma un poco, appena il tempo che il soprabito, leggero, settembrino gli si sgonfi intorno alle gambe disordinatamente come una vela ammarata da un mozzo inesperto, senza frenarlo.

Quattro leporeambi

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[L’opera da cui sono tolti proemio e quattro sonetti di Ludovico Leporeo (1582-1655 ca) si può leggere qui. dp]

di Ludovico Leporeo

A gente studiosa, intendente, curiosa

O Signori verseggiatori, Accademici Armonici, Aristodemici, Platonici, Mistici, Scolastici, Umoristici, Fantastici, avidi di poemetti, gravidi di concetti, tronfi di boria, gonfi di vanagloria che sapete essere, e potete tessere studiosa melodia in prosa ed in poesia, leggete, che sentirete nell’idioma di Roma volgare, che non ha pare, cotesto strambo contesto centone poetico in cartone leporeambo alfabetico, che spera dilettarvi con mostrarvi novella e bella maniera; e però ho ritrovata e publicata una norma poetica di forma bisbetica, e con licenza dell’eccellenza d’Apollo ho fatto un rollo ed una vasta catasta di rimucciole sdrucciole e componimenti scivoli, correnti al paragone del Teverone di Tivoli, alla barba de Iarba e di quanti coribanti cantorno nel contorno di Arno, d’Ebro, di Sarno e di Tebro.

Breve escursione nei CPT del lavoro elettronico

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di Franz Krauspenhaar

Call-center. Tutt’altro che una parola magica, che una formula per la scoperta di qualcosa di utile. Un solo significato pregnante, che ne nasconde qualsiasi altro: sfruttamento elettronico.
“Operai telefonici, ecco quello che siamo”, mi dice un ragazzo che forse non è più un ragazzo, a guardarlo con attenzione. Indossa una maglietta nera con su stampato il nome di una rock band degli anni Ottanta. Ecco, mi trovo davanti a un esemplare non raro di essere umano di sesso maschile fuori tempo massimo. Una specie di pugile suonato del mondo del lavoro, di reperto funzionante.
I turni sono serrati, giovani e meno giovani si pigiano alle loro postazioni. Uomini e donne, più o meno in parti uguali. C’è di tutto: dallo studente di buona famiglia che raggranella i soldi per la vacanze in Spagna allo studente che viene da fuori – spesso da molto fuori – e lavora al call center per pagarsi l’esoso affitto. E poi il disoccupato, di età indefinita, di indefiniti gusti e inclinazioni, che le ha provate tutte, e alla fine è arrivato qui, all’ultima stazione, un luogo teoricamente di transito che alla fine è diventato definitivo, o quasi. C’è l’ex manager licenziato che non riesce a ricollocarsi e in attesa di una chiamata propizia sconta la sua pena al call center. E c’è la pensionata, che distribuisce caramelle ai giovani per ingraziarseli, che parla con spiccato accento milanese e ha vissuto la sua vita lavorativa in fabbrica e ora è qui perché i soldi non bastano mai.

Addio alle armi!

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di
Andrea Bottalico

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

G. Caproni
Biglietto lasciato prima di non andar via.

Di una rabbia che mai si sazierà….memorie di un viaggiatore insonne
Il controllore scese dall’ultima carrozza con gli occhi assonnati sotto la coppola verde e le orecchie infreddolite. Neanche il tempo di accendere una sigaretta fuori che la sua voce secca rimbombò lungo il binario preceduto dal solito fischio, come un boato:
“Chiudere!”
Una signora sulla quarantina presa dall’ansia di fumare gettò suo malgrado la cicca appena accesa, e dopo aver bestemmiato salì di nuovo all’interno del treno, poi di nuovo lo strillo.
“CHIUDERE!”

Gentilissimo Paolo Di Stefano

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[Paolo Di Stefano sul Corriere, il 24 giugno, ha scritto alcune cose che non condivido. Gli ho risposto di getto dalle pagine dell’Unità.]

di Gianni Biondillo

Gent.mo Paolo Di Stefano,
se lo faccia dire fuori dai denti: che palle! Mi sono sempre chiesto se sia una condizione anagrafica o di rendita di posizione quella che porta alla tentazione del pulpito. In fondo conosco scrittori della mia età che studiano per diventare i nuovi tromboni delle patrie lettere quindi non mi stupisco più di nulla, ma vedere che anche lei ci sia cascato in pieno mi deprime assai. Nella sua rubrica sul Corriere della Sera dal titolo “autori vicini, grandi e già dimenticati”, il 24 giugno scorso, ha saputo inanellare una tale serie di luoghi comuni letterari che mi ha davvero impressionato, facendomi venir voglia di scrivere di getto queste righe “risentite”.

Didattica emotiva

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di Christian Raimo

Negli ultimi anni è venuta fuori da più parti l’idea che in Italia la scuola stia vivendo una profonda crisi. Se è vero che quella scolastica è una specie di crisi di sistema (se leggete la letteratura di un secolo e mezzo di scuola italiana, da Ada Negri a Leonardo Sciascia a Domenico Starnone, la maggior parte racconta di una scuola in crisi, spesso sull’orlo del crollo), è vero anche che negli ultimi dieci anni si sono verificati alcuni fenomeni concomitanti: un aumento consistente della presenza di agenti formativi esterni che non sono la famiglia (altra istituzione in presunta crisi), l’aprirsi di un fossato tra il periodo di formazione e quello lavorativo con la conseguenza di una continua e profonda messa in discussione di molte delle condizioni di base dei percorsi formativi (per cui, come reazione: lo sviluppo della formazione continua, le diverse e forse ridondanti riforme scolastiche…), la progressiva perdita di autorevolezza delle istituzioni pubbliche (dall’università ai partiti allo Stato tout-court).

Do you remember Peteano? – parte prima

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di
Manuela Vittorelli

Gorizia, 1972, ultimi giorni di maggio.
Budicin Giorgio, ventisette anni. Sarebbe stato un bravo calciatore, ma l’hanno rovinato l’amore per la vita comoda, per le belle macchine e per le moto. Fa il rappresentante per Gorizia e Trieste per conto di un’azienda del settore anti-infortunistico.
Il 27 maggio Budicin, che ormai vive a Verona, arriva a Gorizia per lavoro e per giocare una partita di calcio in un torneo tra bar. Va all’albergo Transalpina, si cambia, esce in tuta e scarpe da ginnastica. Ma è in ritardo, può giocare soltanto un tempo. La partita finisce due a due. Il campo non è attrezzato con docce e spogliatoi e Budicin torna in albergo con le scarpe ancora sporche di terra e le lava nel lavandino.
Le tre sere successive Budicin le trascorre con amici in un night di Nova Gorica. La sera del 31 cena e poi si mette a guardare la finale di Coppa Campioni, Ajax-Inter. Finita la partita fa un giro e infine va a letto.
Il mattino dopo si sente chiamare. Sotto c’è il suo amico Maurizio che gli grida: “Ciò, mona, te ga visto i tuoi amici? I li ga fati saltàr”.

NON TOCCATE I BAMBINI E LE BAMBINE ROM E SINTI

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di Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci

Il 7 luglio riempiamo di impronte digitali il Ministero dell’Interno
E’ già iniziata la schedatura e la rilevazione delle impronte digitali dei rom, minori compresi, nei campi rom con lo scopo di “censire” quanti vi risiedono. Una misura fortemente voluta dal ministro Maroni, nonostante l’indignazione con cui è stata accolta da gran parte dell’opinione pubblica.

Etere 5*: Kant di Königsberg

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di Antonio Sparzani

Il fiume il cui nome russo è Pregolja, e quello tedesco Pregel, scorre anche in Lituania, ma alla fine entra in quella strana enclave russa, stretta tra Lituania e Polonia, un tempo territorio prussiano denominato Prussia Orientale, che ha in Kaliningrad il suo centro, e porto, principale. Kaliningrad era in tempi prussiani Königsberg, città dalla storia illustre – ben prima della nascita, che certo molti richiameranno subito alla mente, di Immanuel Kant – per essere stata residenza del gran maestro dell’Ordine Teutonico e poi capitale del ducato di Prussia. Lasciatemi ricordare che diede i natali anche a David Hilbert, uno dei massimi matematici del ‘900, e a Ernst T. A. Hoffmann, illustre autore dei Racconti e dell’Elisir del diavolo.
Un altro motivo per cui la città viene ricordata è la peculiare distribuzione dei suoi sette ponti, che vedete qui sopra schematicamente segnati. Siccome parlo del Settecento, la chiamerò Königsberg, e chiamerò Pregel il suo fiume.

Vuole una leggenda metropolitana che i cittadini benestanti di Königsberg, verso la metà del Settecento, la domenica passeggiassero per la loro città

Dalla Milano da bere a quella da vomitare #1

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di Franz Krauspenhaar

1. C’era una volta la Milano da bere…

Nacque tutto da uno spot, quello dell’amaro Ramazzotti. Sulle note di Birdland, capolavoro jazz-rock dei Weather Report, si stendeva un tappeto d’immagini glamour della città di Milano nel pieno sfolgorio di paillettes. Se negli anni Sessanta c’era stata l’anticipazione – proprio l’aperitivo immaginifico – del grande attore teatrale e televisivo Ernesto Calindri, che beveva il suo Cynar in mezzo a una piazza (Piazza Siena, vicinissimo a casa mia, dove nel settembre del ’67 vidi sfrecciare la Fiat 1100 scura della banda Cavallero inseguita a pistolettate da due Gazzelle Alfa Romeo della polizia) , mentre le auto, nel bianco e nero della pellicola d’antan, sfrecciavano non solo simbolicamente attorno all’attore che placidamente sorbiva il suo aperitivo “contro il logorio della vita moderna”, vent’anni dopo tutto era cambiato, a parte la speranza di un nuovo rinascimento all’ombra della Rinascente. Milano si ripresentava nell’immaginario degli italiani non più come il mulo da traino dell’intera economia nazionale, ma come dispensatore di mode, vezzi, abitudini. L’aperitivo non veniva più sorbito in Galleria, come da decenni di tradizione, ma per il lungo e il largo di una metropoli pulsante, una specie di piccola mela rilucente, che aveva allontanato da sé tutte le nebbie propagate dagli anni di piombo. Gli anni Ottanta furono gli anni di Milano, questa Milano da bere che, a partire da uno slogan felice e di successo, riprese a rappresentarsi agli occhi dell’opinione pubblica e dell’immaginario collettivo come simbolo di durata nel successo, di velocità, arditezza, anche di gioia di vivere.

Dieci nuovi poeti. Quaderno del Nodo Sottile 5

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Nodo Sottile nasce dall’impegno e la passione di Daniele Ciullini, responsabile dell’Archivio Giovani Artisti del Comune di Firenze e dei due curatori Vittorio Biagini e Andrea Sirotti, che per ogni edizione non si limitano alla scelta dei testi, ma ricercano la collaborazione di critici e poeti per introdurre gli autori nella realtà del lavoro poetico. Vorrei anche ricordare la prima antologia (Cadmo, 2000), curata da Domenico De Martino e nata da una selezione di testi poetici di giovani autori fiorentini, raccolti presso l’archivio e dalle segnalazioni della poetessa Mariella Bettarini, curatrice insieme alla poetessa e fotografa Gabriella Maleti delle Edizioni Gazebo. (f.m.)

Dalla postfazione:

(…)Dopo le quattro antologie, il premio alla silloge inedita e le numerose iniziative di diffusione e di formazione sulla poesia giovanile nelle edizioni scorse, per questa edizione di Nodo sottile abbiamo pensato una formula che fosse sintesi e arricchimento del lavoro precedente. Un’offerta inedita, almeno in Italia, che combinasse in modo forte l’aspetto dello “scouting” (il rilevamento delle emergenze poetiche giovanili significative) con quello “formativo” (l’offerta di occasioni di maturazione di consapevolezza e di affinamento degli strumenti del mestiere). Ecco la ragione dell’istituzione del primo corso residenziale di Nodo Sottile – “L’officina della poesia”- come momento successivo ad un’ampia selezione di dimensione nazionale.