Fra le varie nefandezze di cui Dario Fo deve sentirsi responsabile, non ultima è quella di aver fatto cadere in amore per il tubo catodico un ragazzino di undici anni, che catalizzato dalle sue opere trasmesse in quella televisione dei tardi anni Settanta non aveva del tutto capito che quella a cui assisteva era un’eccezione e niente affatto la regola. Perché, poer nano, che ne sapeva lui che quello era teatro! Ne avesse mai visto uno, lui giovine e già paffuto virgulto, cresciuto ignorante delle belle arti e delle sette muse… Quindi quale responsabilità, caro Dario! Avere scosso la piccola cassa cranica di un undicenne, con i suoi genitori che premevano per vedere altro sullo schermo e lui che si rintanava nell’altra stanza (ché le stanze erano due, più bagnetto e cucinotto a vista), abbandonato a se stesso, preso come da un delirio di onnipotenza mentre si diceva tutto serio (fra una risata e l’altra) che quella, proprio quella era l’arte. Da lì tutta un’idea di dignità della cultura popolare gli si inoculò nelle vene come una droga, e tutt’ora – maledizione!- non lo abbandona.
Proprio domani esce un libro-intervista, curato da Giuseppina Manin, dal titolo Il mondo secondo Fo. Ho avuto il piacere di leggerlo in anteprima e, proprio per la devozione quasi infantile che ho nei confronti del mio saltimbanco preferito, ho chiesto all’ufficio stampa di Guanda (che qui sentitamente ringrazio) il permesso di pubblicarne uno lungo stralcio. Dove, appunto, si parla di cosa fosse in realtà quella televisione nazionale. A voi fare il confronto con quella attuale. G.B.