di Harold Pinter
(In occasione del Premio Nobel per la letteratura recentemente conferito al drammaturgo inglese, pubblico questo racconto del 1963. Un anno dopo la B.B.C. commissionò a Pinter una commedia per la European Broadcasting Union. L’autore decise di usare il medesimo argomento per la scena; a suo dire, il meglio riuscito è il racconto. F.K.)
La vista mi si è indebolita.
Il mio medico è alto poco meno di un metro e ottanta. Ha una striscia grigia nei capelli, una sola. Ha una macchia marrone sulla guancia sinistra. I paralumi del suo studio sono cilindri blu notte. Con l’orlo d’oro, ognuno, identici. C’è una grossa bruciatura nera sul tappeto indiano del suo studio. Tutto il suo personale porta occhiali, non escluse le donne. Attraverso le veneziane odo gli uccelli del suo giardino. Ogni tanto compare sua moglie, in bianco.

Da un po’ di tempo avevo intenzione di ragionare a fondo sulla fiction televisiva italiana contemporanea, sulla sue premesse culturali, sulla sua fattura e sui suoi obiettivi, partendo dall’idea che la fiction tv è un dispositivo narrativo che produce una determinata lettura del mondo e che genera un immaginario popolare. Poi, qualche settimana fa, il ministro delle comunicazioni Landolfi, rispondendo a una dichiarazione di Prodi, ha affermato che la fiction televisiva italiana, in questo specifico momento, è di sinistra, quasi comunista, portando l’esempio del Commissario Montalbano e del Grande Torino, in onda in quegli stessi giorni. Questa affermazione mi ha colpito e mi ha suscitato una serie di considerazioni. Rendendomi conto che non era possibile affrontare il discorso da solo, ho chiesto a chi lavora nella produzione della fiction (sceneggiatori, head writer, script-editor, story-editor, produttori) di discutere di questo argomento, riassumibile in una frase: come si fa la fiction tv in Italia, e che cosa fa la fiction tv all’Italia? 



Accantonato frettolosamente come un abito smesso, ritenuto ormai liso e sorpassato, oggi postmoderno non è più quella parola feticcio utile a designare e nobilitare qualsiasi cosa – fosse un romanzo, un risotto o un bikini -, di cui si riempiva la bocca soprattutto chi ne ignorava il significato; ma è diventato un epiteto infamante, la quintessenza di ogni nequizia artistica.
Negli scontri tra i Fantastici Quattro e il Dottor Destino mi sono sempre ritrovato a parteggiare per il caro vecchio Victor von Doom. Ero un ragazzo piuttosto turbolento: dopo una sospensione scolastica o un litigio furibondo con i miei, capitava che mi rifugiassi nei fumetti Marvel importati in Italia dalla Corno. Condividevo i complessi di Peter Parker, mi affascinava la marginalità degli X Men, ma ogni volta che mettevo piede al Baxter Building ero preso da un sentimento di disagio, di repellenza, di incestuoso decoro. 
di Tommaso Pincio