di Leonardo Colombati
Edward Lewis Wallant iniziò a scrivere a trent’anni. Morì appena sei anni più tardi, nel 1962, per la rottura di un aneurisma. Fece in tempo a vedersi pubblicati due romanzi (The human season e The pawnbroker) e a lasciarne altrettanti, inediti, ai posteri. Si sa, però, che questi ultimi tendono ad essere generalmente distratti: perché perdere tempo con uno scrittore ebreo-americano prematuramente scomparso, quando si hanno a disposizione Bellow, Roth, Mailer e Malamud? Il pubblico e i critici americani si dimenticarono presto di lui.

Negli scontri tra i Fantastici Quattro e il Dottor Destino mi sono sempre ritrovato a parteggiare per il caro vecchio Victor von Doom. Ero un ragazzo piuttosto turbolento: dopo una sospensione scolastica o un litigio furibondo con i miei, capitava che mi rifugiassi nei fumetti Marvel importati in Italia dalla Corno. Condividevo i complessi di Peter Parker, mi affascinava la marginalità degli X Men, ma ogni volta che mettevo piede al Baxter Building ero preso da un sentimento di disagio, di repellenza, di incestuoso decoro. 
di Tommaso Pincio

Lo scrittore Edward Lewis Wallant (1926-1962) prometteva benissimo, nel mondo letterario americano degli anni 50: ma a 36 anni morì improvvisamente, lasciando un paio di romanzi pubblicati (cito L’uomo del banco dei pegni, ridotto per il cinema da Sidney Lumet con uno straordinario Rod Steiger ) e un altro paio usciti postumi, tra i quali si annovera questo Gli inquilini di Moonbloom, appena pubblicato in Italia da Baldini Castoldi Dalai. Si tratta, nel caso di Wallant, di una importantissima riscoperta, salutata con grande favore dal pubblico e dalla critica statunitense.
Eccomi. Finalmente ero arrivata. Per trovare la palazzina al civico 170 in via Ponte di Formicola, e relativo citofono al portone marchiato scala E, mi ero fermata almeno dieci volte con stradario alla mano. Quando non bastava, abbassavo il finestrino accostandomi a qualche passante. Poi, dopo, ero costretta a spingere il riscaldamento al massimo. Era un freddo inverno, trovavo soltanto consolazione nella voce della radio. Mi pensavo in una nuova comunità, tra quelli che in macchina vi abitano, che strutturano l’abitacolo con tutti i comfort: acqua, snack, vivavoce al cellulare, radio di sottofondo.