di Giuseppe Montesano
Che cosa è il Comico? C’è poi tanto da ridere nel secolo dal quale siamo usciti e in quello in cui siamo entrati? Il Comico fa solo ridere o può anche far piangere? Sono a Roma a parlare del “Comico” con Ermanno Cavazzoni, Paolo Nori, Franca Valeri: con Giulio Ferroni a presiedere questa “table ronde” che chiude un convegno dedicato al “Comico nel ‘900” che ha visto intervenire tra gli altri Nino Borsellino, Andrea Cortellessa, Vincenzo Cerami, Emma Giammattei e Walter Pedullà. Si discute animatamente ma secondo l’etichetta, e quindi si tratta di un incontro serio: eppure la nostra è la classica situazione che potrebbe facilmente, tra le mani di uno scrittore Comico come Rabelais o come il Céline di Morte a credito, finire in una rissa delirante o in un prendersi a torte in faccia: basterebbe che ci prendessimo troppo sul serio. Perché il cuore di tenebra del Comico sta nel rovesciamento di tutte le gerarchie, nell’insurrezione del basso contro l’altro e nell’abbassamento di ogni grandezza presunta: ogni vera dialettica è profondamente, acutamente schierata dalla parte del Comico.




L’ultimo numero di 

Leonardo ha più di 30 anni e dirige una piccola e agguerrita casa editrice.
L’idea di portare a termine un antico progetto, la scrittura di una novella sulla figura di San Giuliano l’Ospitaliere, venne a Flaubert proprio mentre attraversava uno dei periodi più bui e cupi della sua esistenza: la causa prima di questa disperazione (curiosa coincidenza con ciò che era accaduto, pochi anni prima, a Beethoven con il famoso nipote Karl) stava nella difficilissima situazione finanziaria di una sua nipote, verso la quale lo scrittore nutriva un trasporto affettivo persino eccessivo, transfert ricorrente in chi devia e surroga la paura/desiderio di paternità, indirizzandola verso un membro prediletto della propria tribù d’appartenenza.
In questo periodo mi viene di pensare spesso alla distinzione tra esserci ed essere sviluppata in modi diversi, tra gli altri, da Heidegger e da Sartre (che non sono nemmeno filosofi miei, ma che importa?). Ecco quella trascendenza dell’ente di cui parla Heiddegger, o la progettualità (la libertà ontologica che sbocca in progetti e in valori, in vie d’uscita) di cui parla Sartre mi sembrano mostruosamente compresse dall’imponenza granitica di quel che c’è. E’ come se tutti dicessero: non ci sono vie d’uscita; è come se ogni comportamento ribadisse che c’è un solo grande corso che si governa da sé. A ognuno di noi non resta altro che schiodare la rosa del futuro dalla croce del presente, ritagliarsi un giardinetto fiorito perché non sia mancata la festa, com’è giusto. La mostruosa bolla di idolatria scoppiata con la morte di Wojtyla e con gli assurdi festeggiamenti di massa per un nuovo papa retrivo e arroccato nella difesa di cose morte, mi sembra l’epifenomeno di un segno di impotenza collettiva, una totale perdita del senso di trascendenza dell’ente. Un’impotenza a cui non deve essere estraneo quel dislivello prometeico patito dagli esseri umani rispetto a un mondo supertecnicizzato incontrollabile e sproporzionato nell’offerta di cui parlava una quarantina d’anni fa il filosofo Gunther Anders.

Due settimane prima di essere ucciso, Pasolini pubblicò questo pezzo sul “Corriere della sera”. Delle stragi a cui si riferisce in molti casi non si conoscono ancora i veri colpevoli. Tuttora non si conoscono neppure i veri colpevoli dell’omicidio di Pasolini.
[Dopo la pubblicazione della lettera a Nazione Indiana circa lo