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Neve in agosto

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(Avendo io frequentato, e continuando a frequentare, la “scrittura alimentare” non posso che essere felice di questa raccolta di “articoli alimentari”: primo volume di una serie, spero esaustiva, che raccoglie gli articoli che Tommaso Labranca scriveva da freelance per riviste e quotidiani. Il curatore mi ha regalato la sua introduzione che qui volentieri pubblico, ringraziandolo. Il libro è ordinabile in libreria oppure acquistabile online su questo sito. G.B.)

di Luca Rossi

Quella che segue è una raccolta abbastanza completa di articoli scritti da Tommaso Labranca ed è stata fatta con lintento di strappare unaltra piccola parte del suo lavoro dalloblio.
Non so se sarà mai possibile rileggere in una nuova edizione i libri che T-La (scritto come J-Lo) ha pubblicato prima di ventizeronovanta.

Quindi il volume che state sfogliando, a fronte di lacune delle quali mi assumo ogni colpa, avendo curato ogni aspetto, è un’operazione di salvataggio del suo pensiero, quello che nellanime Ghost in The Shell, uscito lo stesso anno di Andy Warhol era un coatto veniva chiamato salvataggio cerebrale: salvare i dati di un cervello umano su una memoria esterna. Oggi larga parte quello che rimane del cervello di Tommaso Labranca è fatto di pochi megabyte dispersi in rete. Opere che ha reso pubbliche, file e siti internet periodicamente cancellati. Quello che rimane riposa nelle pance di quei cetacei editoriali che sono i quotidiani e i loro archivi digitali.

Non si dovrebbe dire nelle prefazioni ma, da sempre uno dei cardini di questa microimpresa editoriale è la sincerità (con tutte le conseguenze del caso) questa collezione (e collazione) di articoli non è l’opera perfetta e non è l’opera definitiva su Tommaso Labranca. È quello che si è potuto strappare alla morte (e alla legge sul diritto dautore) di un autore così originale da non essere mai banale anche in quegli articoli che gli permettevano: «Di frequentare con una certa assiduità i negozi di alimentari.»

Aprile è il mese più crudele di tutti i mesi. Genera lillà dalla terra morta, mescola / memoria e desiderio, desta / radici sopite con pioggia di primavera.

Eliot nel primo frammento della Terra desolata sbaglia di quattro mesi, perché per chi vive di collaborazioni è agosto il mese più crudele: redazioni desertificate, caldo soffocante, il Mc Donalds di Piazza Oberdan con laria condizionata rotta, il gusto del mese di Agosto di Grom che era il gusto del mese di un altro mese ripescato. Un sapore banale e una Milano spettrale battuta solo da cadaveri di rifugiati stesi al sole a parco Sempione o tossici meno che ventenni che si lavano nelle vedove in piazza Mistral.

Meglio stare a casa a sbobinare, cronicamente in ritardo sulla consegna, la biografia di Riccardo Fogli come se non ci fosse un domani (e così è stato).

Ecco perché l’agosto nel titolo, agosto è il vero aprile, la cui pioggia aggiunge noia al mese dello spleen labranchiano. Un mese che ti faceva sentire morto, che ti faceva sentire lultimo e che lui passava in sella alla sua bici argentata percorrendo il perimetro di Linate per poi arrivare a Rogoredo e cercare lombra o il Wi-Fi in un McDonalds, in fuga da un temporale estivo che aggiunge solo umidità a una città tropicalizzata. In questo mese aveva scritto Le poesie dellagosto oscuro, che io e pochi intimi conserviamo in edizione limitata, con copertina in velluto nero e stellina argentata, rilegata a mano. Questa era la personale Terra desolata, per chi aveva fatto voto di non avere ferie:

Quel cadavere che lo scorso anno piantasti in giardino / ha cominciato a germogliare? Fiorirà / questanno? O il gelo improvviso / ne ha danneggiato laiuola? Oh tieni il Cane lontano / che è amico delluomo, senno con le unghie / lo metterà allo scoperto! Tu hypocrite lecteur mon ensemble, mon frere!

Il cadavere di Tommaso, quattro anni dopo ha iniziato a germogliare? E gli ipocriti lettori, gli amici, i colleghi che con una mano twittavano la perdita della più grande mente di una generazione, mentre con laltra inviavano il coccodrillo in redazione, oggi dove sono? Claudio Giunta in Le alternative non esistono ha scritto che l’effetto Labranca ha portato in Italia una nuova figura dintellettuale, più pop; che oggi è più facile parlare di pop con intelligenza. Come se la lezione di Labranca avesse aperto la strada a un nuovo modo di trattare il pop, lontano dalle cattedre e dagli scranni. Io penso però che il sacrificio sia stato troppo grande e troppo flebile è il colpo di coda dei nuovi salmoni del trash che hanno smesso di risalire la corrente e a 25 anni da Andy Warhol era un coatto (ma anche dopo Eco e Dorfles) applicano indistintamente le etichette di trash”, kitsch” e campai programmi della DUrso, come alle televendite di poltrone motorizzate dellhighlander Mastrota, a Casa Surace e ai video di TikTok.

Questi versi di Eliot e gli ultimi messaggi di Tommaso hanno la stessa urgenza, il poeta statunitense usa lenjambement, quello di Pantigliate la brevità sincopata per punirmi per essermi allontanato dalla vita agra per pochi giorni proprio nel mezzo del mese terribile: «Cosa fai? Io Fogli.» «Faccio colazione, poi Fogli.» «Mi gira la testa, ora mi riposo, poi Fogli.» «Vado al discount in bici, poi Fogli.» «Non ce la faccio più, vado a letto. Domani mattina sveglia presto e… Fogli.» Ma tra una pagina e laltra di quella biografia in realtà appena abbozzata, c’è stato quellarticolo per Libero che si era alzato prestissimo per scrivere e lidea fulminante mandata in redazione «Quando ancora non sono arrivati così aprono la mail prima della riunione e la propongono». Articoli alimentari che come le biografie gli permettevano di andare al discount a comprare yogurt sottomarca, incollare la vignetta al parabrezza per andare a Coldrerio e riempire il baule della 500 di zuppe liofilizzate, per vestirsi con le t-shirt nere H&M Basic a manica lunga che acquistava in confezioni da cinque e metteva nellarmadio pieno di vestiti uguali come quello di Paperino e ancora di pagare la rata delliPad mini su cui guardare le costellazioni la sera prima di addormentarsi, confondendole con i lustrini delle giacche di Fogli.

C’è una fotografia che conservo gelosamente in un archivio protetto del mio cervello: Tommaso sta scrivendo un articolo che gli hanno commissionato unora fa. Lo vedo battere furiosamente i tasti del suo MacBook. Mentre scrive legge muovendo le labbra, pensando che non lo veda da dietro il milkshake. Invece lo guardo ridere per la frase che ha appena scritto. C’è un frammento di anima in ogni parola che Labranca ha scritto, per questo poi non ce nera più per lui. Quei pochi grammi rimasti sono raccolti in Neve in agosto.

Non si tratta sempre di articoli scritti in punta di penna, ma che non scadono mai nel piatto cronachismo dei compilatori seriali di quotidiani. Questi articoli non sono meno importanti dei libri che Labranca ha scritto, perché è grazie a loro che quello che con colpevole ritardo, sarebbe stato definito «un intellettuale fuori dagli schemi» e «un pensatore libero e originale» ha strappato la sua libertà una sillaba alla volta.

Questo primo volume raccoglie articoli pubblicati tra il 2009 e il 2016 su Cronaca vera, Libero e Oggi. Si va dai Simpsons al grattacielo Pirelli, passando per la disco music, larte contemporanea, Orietta Berti, il glam rock e il panettone.

Ringrazio Giuseppe Biselli senza il quale non esisterebbe più ventizeronovanta e con lei questo libro. Grazie a Claudio Giunta che ha geolocalizzato Labranca sulla mappa della cultura italiana. Grazie al direttore Umberto Brindani e a Dea Verna di Oggi. Grazie a Stefano Cecchini e a tutta la redazione di Libero. Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questi volumi che cercano di strappare un altro lembo di Tommaso alla cenere.

La Parigi occupata di Sartre

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(Pubblichiamo l’introduzione della curatrice e traduttrice a Jean-Paul Sartre, Parigi occupata, il melangolo 2020, che ringraziamo anche per la foto. A seguire, il primo testo della raccolta antologica: La Repubblica del silenzio).

di Diana Napoli

«Senza averla preparata, scatenammo un’“offensiva esistenzialista” […] Nelle settimane che seguirono la pubblicazione del mio romanzo, uscirono i primi due volumi de I cammini della libertà. Al Club Maintenant io e Sartre tenemmo delle conferenze, io sul romanzo e la metafisica, Sartre L’esistenzialismo è un umanismo? Venne messo in scena Le bocche inutili. Sollevammo un tumulto che ci sorprese. […] Non passava settimana senza che si parlasse di noi nei giornali. “Combat” commentava con approvazione tutto quello che scrivevamo e dicevamo. “Terre des hommes”, un settimanale fondato da Herbart e che uscì solo per qualche mese, ci dedicava in ogni numero molte colonne amichevoli o agrodolci. Ovunque c’era l’eco nostra e dei nostri libri. I fotografi ci assalivano per le strade, i passanti ci fermavano per strada. Al caffè Flore ci guardavano e sussurravano. Alla conferenza di Sartre vennero molte più persone di quelle che la sala poteva contenere: fu un parapiglia incredibile, addirittura molte donne svennero».

Con queste parole Simone de Beauvoir raccontava lo straordinario e “inaspettato successo” riportato da Sartre nell’immediato dopoguerra, consacrandolo come filosofo, scrittore, drammaturgo impegnato che, “prigioniero della sua epoca, l’avrebbe scelta contro l’eternità”[1]. Come del resto aveva intuito de Beauvoir, Sartre ha varcato di gran lunga i confini della sua epoca e ancora oggi potremmo dire che la sua figura si staglia nel nostro immaginario come “l’idea regolatrice della vocazione intellettuale”[2].

Filo rosso dell’itinerario sartriano è il richiamo costante all’irriducibilità del soggetto che resta “solo e senza scuse”. Da La Nausea, pubblicato nel 1938, alla Critica della ragione dialettica, uscito nel 1960 che indica la soggettività come il motore della storia tentando di conciliare il materialismo marxista con la libertà da parte dell’uomo di inventare il mondo (partendo dai suoi bisogni, dalla sua condizione di alienato o sfruttato), passando per i romanzi e per il teatro, al centro della sua riflessione rimane, per usare le sue stesse parole, lo “scandalo di un idiota che diventa genio”[3]; lo scandalo di un soggetto che, per giustificare la sua esistenza, non può fare riferimento al determinismo, alla “natura umana”, alla necessità storica, ma solo alla scelta di diventare un genio, un vile, un eroe continuando a restare (e avendo il coraggio di riconoscersi) comunque: “Solo un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque lo vale”[4].

Ripercorrendo l’evoluzione del pensiero di Sartre, tutti gli studiosi hanno sottolineato il ruolo centrale, il significato di vera e propria svolta, costituito dall’esperienza della guerra. Era stato mobilitato allo scoppio del secondo conflitto mondiale, vivendo quell’alienante situazione bellica che era stata la drôle de guerre per essere poi catturato dai tedeschi, dopo la firma dell’armistizio tra Francia e Germania nel giugno del 1940[5], e passare circa nove mesi in un campo prigionia, riuscendo a evadere nel marzo del 1941. Sono mesi in cui Sartre racconta di aver scoperto le forme dell’esistenza collettiva fuoriuscendo dall’individualismo che aveva fino a quel momento scandito il suo percorso. Ne è testimonianza la scrittura che consegna ai suoi Carnets de la drôle de guerre, vero e proprio laboratorio del suo pensiero filosofico in forma di diario, una scrittura che traccia, nel marzo del 1940, un autoritratto sicuramente poco compiacente:

Io sono il prodotto mostruoso del capitalismo, del parlamentarismo, del mito della centralità di Parigi e dell’ideologia del funzionario. […] A tutte queste astrazioni messe insieme devo il fatto di essere un uomo astratto e sradicato. […] Questo è il personaggio che mi sono costruito in trentaquattro anni, proprio quello che i nazisti chiamano “l’uomo astratto delle plutocrazie”. Non ho per lui alcuna simpatia e voglio cambiare. Quello che ho capito è che la libertà non è affatto il distacco stoico dai beni o dalle passioni; al contrario, essa suppone un radicamento profondo nel mondo[6].

È lo stesso Sartre a ricordare, in più occasioni[7], il momento quasi di cesura che la guerra aveva costituito nel passaggio “dalla nausea all’impegno”, come ben sintetizza il titolo di un testo che ne ricostruisce la biografia intellettuale[8]. Nel 1945, a guerra finita, Sartre è subito una celebrità filosofica e letteraria all’insegna dell’engagement, testimoniato anche dalla fondazione nel 1945 della rivista “Temps modernes” la cui presentazione ribadiva con fermezza le responsabilità dello scrittore come colui che sempre “è in situazione nella sua epoca”. Questa “svolta” evidentemente radicale a livello biografico affonda però le sue radici nel complesso percorso di riflessione della filosofia sartriana[9] la cui eco si fa sentire anche nei contributi raccolti in questo volume. Si tratta di alcuni testi scritti subito dopo la liberazione di Parigi, tra il 1944 e il 1945 (solo l’invettiva contro Drieu La Rochelle è del 1943) e che non hanno lo scopo di parlarci del Sartre “resistente”[10], ma costituiscono invece una profonda e lucida disamina della Resistenza e delle attese che essa aveva veicolato. Sartre scrive per diverse riviste clandestine[11] da “Combat”, di cui Camus era stato per un periodo caporedattore, a “Lettres françaises”, organo del Comité national des écrivains (CNE). Quest’ultimo era stato creato su iniziativa dei resistenti comunisti, grazie all’attività instancabile di Louis Aragon e al contributo di Jean Paulhan, che, da storico direttore della prestigiosa “Nouvelle Revue française”, era stato tra i promotori dell’ingresso alle edizioni Gallimard di Sartre, accolto però nel CNE solo nel 1943. Era stato probabilmente ostacolato dai comunisti che lo guardavano con sospetto a causa della sua vita privata considerata sregolata, della sua frequentazione della filosofia heideggeriana e anche forse della sua amicizia con Paul Nizan che in seguito al patto Ribentropp-Molotov aveva abbandonato il Partito Comunista Francese[12].

I contributi che presentiamo, senza perdere nulla della loro bellezza documentaria (come nel caso della cronaca dell’insurrezione di Parigi), sono capaci di trasmetterci lo slancio ideale di quell’irripetibile esperienza storica che è stata la Resistenza al nazifascismo; testimoniano l’orizzonte di aspettative che essa era stata in grado di convogliare e la fiducia nella politica come capacità di cambiare il mondo, come la cornice di una possibilità autentica della condizione umana intesa quale sovversione permanente dell’esistente. Nelle parole di Sartre, la Resistenza era stata innanzitutto la scoperta della propria radicale libertà che aveva trovato una formulazione nella frase “piuttosto la morte che…”, una frase che obbligava ad una scelta le cui conseguenze si pagavano nella solitudine più assoluta perché i resistenti (non solo l’élite dei partigiani, ma anche tutti quelli che semplicemente sapevano qualcosa) combattevano una lotta clandestina in cui ciascuno era solo di fronte alle torture, ai supplizi, alla deportazione e alla morte.

Nella Repubblica del Silenzio e della Notte che era la Resistenza “Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti”[13]. Sartre traccia, speculare all’uomo della Resistenza, il ritratto del collaborazionista, che però non viene connotato semplicemente dagli elementi tipici dell’ideologia o dell’immaginario fascista. Prima di ogni ideologia, all’opposto della Resistenza troviamo la resa all’empiria, al dato, l’adattamento a una situazione che non può mai essere diversa da quella presente. Incapace di immaginare, il collaborazionista invece di giudicare la realtà “in base al diritto”, “[fonda] il diritto sui fatti” ed è quindi l’incarnazione della “docilità ai fatti” nobilitata col nome di realismo che serviva solo a mascherare un “odio di sé diventato un odio dell’uomo”. Il collaborazionista rappresenta la malafede che cerca scuse per negare la libertà profonda e assoluta che ogni scelta invece realizza; veste la contingenza con gli abiti della necessità e rinunciando a progettarsi, a rischiare trascendendo l’immediatezza, sceglie la viltà, chiamandola “senso del dovere”.

L’appello al senso del dovere era stato l’asse attorno a cui il Maresciallo Pétain aveva cercato di costruire il consenso verso lo Stato di Vichy, incitando al pentimento tutti i francesi che avevano dimenticato i loro doveri facendo sprofondare la Francia nella corruzione che la disfatta militare del 1940 aveva semplicemente sancito. Contro questo discorso si era schierato Sartre con la rappresentazione de Le mosche nel 1943, fatto che, come la pubblicazione de L’Essere e il Nulla sempre nel 1943 (e la messa in scena di A porte chiuse nella primavera del 1944)[14], aveva segnato sicuramente una distanza sostanziale da coloro che durante la guerra avevano deciso di non pubblicare se non nelle edizioni clandestine o all’estero, anche se si era trattato di una scelta, in particolar modo in relazione a Le Mosche, che aveva condiviso con il CNE ricevendone il sostegno.

In continuità con il ritratto del collaborazionista dev’essere letto il Ritratto di un antisemita[15]. Indipendentemente dalle contingenze (la pervasività dell’antisemitismo nella società francese, la debolezza costitutiva della Terza Repubblica, la generale tolleranza verso l’antisemitismo inteso come un’opinione tra le tante), Sartre ci descrive l’antisemita come un uomo che sceglie di essere impermeabile all’esperienza al punto che se l’ebreo non ci fosse, lo inventerebbe. Avendo scelto di interpretare la realtà in base a una passione, l’odio, l’antisemita non ha bisogno di ragionare ed è impossibile convincerlo perché non ci sono buoni argomenti per chi ha deciso di non lasciarsi influenzare dall’esperienza, non c’è un confronto possibile per chi non crede per principio alla serietà delle parole o alla consequenzialità delle argomentazioni. Per l’antisemita tutto si riduce a un gioco con le parole, al disorientamento e al discredito dell’avversario. La sua convinzione è forte non perché si nutre dei fatti, ma proprio perché egli ha deciso, in principio, di non farsene influenzare in quanto ha intenzione non di cercare il bene, il vero, di mettersi in gioco, di valere qualcosa, ma solo di cedere alla sua perversa fascinazione per il male.

È un uomo che ha paura. Non certo degli ebrei, evidentemente, ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento, della società e del mondo. Di tutto, tranne che dell’ebreo. È un vigliacco che non vuole riconoscere la sua vigliaccheria, un assassino che rimuove e censura la sua tendenza all’omicidio senza poterla però frenare del tutto e che quindi ha il coraggio di uccidere solo per interposta persona o nell’anonimato della folla. Un infelice che non ha il coraggio di ribellarsi per paura delle conseguenze della sua ribellione”[16].

Sartre, nella sua fenomenologia del collaborazionista e dell’antisemita, non ci consegna semplicemente il profilo di un uomo che aderisce al fascismo e al nazismo, ma disegna una postura nei confronti della realtà fatta di sottomissione all’empiria e di incapacità di vedere oltre, di immaginare qualcosa d’altro. Ed è su questo punto che la sua filosofia ci può venire in aiuto, con un testo del 1940, proprio per dimostrare che la cesura della guerra, benché significativa e imprescindibile, si situa all’interno della complessa articolazione del suo pensiero. Immagine e coscienza[17] si concentra infatti sull’immaginazione come cifra della libertà della coscienza nei confronti della realtà, costituendo la capacità di “irrealizzare” il mondo, di negare cioè il mondo da cui la cosa immaginata è assente. All’interno di una psicologia fenomenologica, Sartre analizza la libertà della coscienza come il riferimento intenzionale a un orizzonte noematico, il mondo, che reca però in sé la propria possibilità di negazione. L’immaginazione quindi, indica la libertà della coscienza verso la realtà o, detto altrimenti, la coscienza che immagina trascende il suo essere-nel-mondo. Senza questa “funzione” la coscienza perderebbe la sua intenzionalità, il suo tendere a un significato. Ma è proprio questo elemento che manca al collaborazionista o all’antisemita: essi non sanno “irrealizzare” il mondo e possono solo sottomettersi al fatto compiuto, disprezzando (perché sono incapaci di assumerla) la condizione stessa di uomo come soggetto radicalmente libero. Se la libertà viene tradizionalmente definita come la possibilità di scegliere con piena consapevolezza delle conseguenze, quella dell’antisemita è la libertà di sottrarsi alle responsabilità, prima di tutto a quella di essere uomo.

Quanto la Resistenza sia stata, contro la fissità del presunto realismo, un orizzonte di aspettative, emerge soprattutto nel “reportage” dell’insurrezione di Parigi. Per descrivere i giorni dell’agosto del 1944 in cui i parigini sono insorti in attesa dell’arrivo degli alleati, Sartre riprende un’espressione dello scrittore André Malraux ne L’Espoir, uno dei testi emblematici della guerra civile spagnola: “l’esercizio dell’Apocalisse”. Le aspettative che avevano animato l’insurrezione riprendevano – ripercorrendo le tappe della rivoluzione intesa come scelta radicale della libertà per se stessi e per gli altri – le questioni lasciate in sospeso dal 1789, dal 1830, dal 1848 e dal 1871 (che sempre erano state seguite da una controrivoluzione). Parigi, infatti, insorge nel 1944 in un’atmosfera di festa che sembrava riprodurre la ritualità rivoluzionaria non solo per i grandi momenti tragici che la scandiscono, ma anche per il richiamo irresistibile della piazza che spinge le persone a uscire di casa e scendere in strada. È un clima che ricorda quello del 1936, quando la classe operaia aveva invaso le città della Francia per festeggiare la vittoria alle elezioni del Fronte Popolare.

Di fronte alle imponenti manifestazioni, la borghesia si era impaurita, e aveva scambiato una semplice espressione collettiva di gioia per l’inizio di una rivoluzione. Quest’incomprensione, come aveva osservato Marc Bloch ne La Strana disfatta, era all’origine del “grande malinteso dei francesi”[18], cioè del fatto che una parte della nazione aveva smesso non solo di credere alla solidarietà, ma anche di riconoscere la legittimità delle aspirazioni delle classi più in difficoltà a condizioni di vita migliori e a una più piena partecipazione alla vita politica. La Parigi del 1944 ci riporta a questo scenario. Ci riporta non alla massa – al conformismo, alla ricerca di un capo, al linciaggio del “colpevole” – ma alla folla rivoluzionaria che agli angoli delle strade, cantando la Marsigliese e improvvisando balli popolari, festeggia “l’occasione inattesa di un ancoraggio all’utopia”[19]. Il grande malinteso dei francesi, per riprendere le parole di Marc Bloch, ci riporta al discorso ufficiale dello Stato di Vichy e in generale al clima del collaborazionismo che avevano guardato con compiacimento alla disfatta, quasi un male minore perché aveva significato la fine della corrotta Terza Repubblica e messo un punto a tutte le pericolose aspirazioni al cambiamento che il 1789 aveva gettato sulla scena della storia.

Mentre Sartre scriveva i testi qui raccolti, anche l’Italia viveva un’esperienza simile a quella da lui raccontata. Nel 1943 l’Occupazione tedesca aveva diviso il Paese in due dando vita allo Stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana con capitale Salò. Anche in quest’Italia divisa c’era chi, di fronte alle azioni dei partigiani, faceva appello alla concordia nel tentativo di limitare eventuali insanabili lacerazioni tra gli italiani. Giovanni Gentile, sul “Corriere della Sera”, pubblicato nella RSI, aveva scritto il 28 dicembre del 1943 un articolo dal titolo Ricostruire che nei contenuti riecheggiava l’invito all’unità nazionale e alla fedeltà al fascismo del Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, circa un mese prima dello sbarco degli alleati in Sicilia e della destituzione di Mussolini.

Gli argomenti di Gentile ricalcano la triade di Vichy “Lavoro, Patria, Famiglia”, così come tutta la panoplia collaborazionista della “docilità ai fatti” e della sottomissione al senso del dovere evitando la violenza[20], tranne quella contro i partigiani, ridotti a semplici “sobillatori, traditori, venduti o in buona fede, ma sadicamente ebbri di sterminio”[21]. A questo appello alla concordia risponde Concetto Marchesi, uno degli esponenti di spicco della Resistenza italiana di cui la sua Lettera aperta, pubblicata il 24 febbraio 1944 sul quotidiano socialista “Libera stampa”, potrebbe essere considerata un manifesto. Nella lettera viene messa in evidenza l’impari lotta tra il partigiano – che può contare solo su se stesso ed è “tutto esposto alle conseguenze micidiali del suo atto micidiale” – e il potere nazifascista che non esita a ricorrere alle rappresaglie, parola con cui si legittimava un “assassinio in massa su persone necessariamente innocenti”. Accomodarsi a questa situazione, essere “docili ai fatti”, essere “realisti” significa solo, per Concetto Marchesi, cedere a una “residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggini”. Rivolgendosi a Gentile osserva:

Ma guardate, signor professore, quello che succede ora nelle città della vostra Italia repubblicana. […] Con chi devono accordarsi ora, i cittadini d’Italia? Coi tribunali speciali della repubblica fascista o coi comandi delle S.S. germaniche? […] Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere, è reciprocanza d’amore; non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggini. Quanti oggi invitano alla concordia, invitano ad una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sia combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta, va spezzata. Domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo. Tra oggi e domani c’è di mezzo una notte ed un’aurora”[22].


[1] S. DE BEAUVOIR, La force des choses, I, Paris, Gallimard “Folio”, 1963, pp. 60 e ss. tr. it. di B. Garufi, La forza delle cose, Torino, Einaudi, 2008

[2] Pierre Bourdieu nella prefazione a A. BOSCHETTI, L’impresa intellettuale. Sartre e “Les Temps modernes”, Bari, Dedalo, 1984, p. 6.

[3] J.-P. SARTRE, L’Idiot de la famille. Gustave Flaubert de 1821 à 1857, Paris, Gallimard, 1971-1972, tr. it. di G. PAVOLINI, L’Idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, Milano, Il Saggiatore, 2019.

[4] Si tratta del finale di Les mots: “Tout un homme, fait des tous les hommes et qui les vaut tous et vaut n’importe qui” (J.-P. SARTRE, Les Mots, Paris, Gallimard, 1964, p. 213, tr. it di L. de Nardis, Le parole, Milano, Il Saggiatore, 1965. È, in parte, anche il significato dell’opera teatrale Il Diavolo e il buon Dio (1951) in cui il protagonista fallisce nel compiere sia il bene che il male assoluto quando si prende per Dio e non gli resta, alla fine, che riconoscersi solo come uomo.

[5] L’armistizio aveva sancito la divisione della Francia in una zona Nord occupata dai tedeschi e in una zona Sud, lo Stato di Vichy, con a capo il maresciallo Pétain, che aveva sostituito la triade repubblicana “Liberté, égalité, fraternité” con quella, di ispirazione fascista, “Travail, famille, patrie”. La zona sud venne comunque occupata dai tedeschi alla fine del 1942 in seguito allo sbarco (e alle conseguenti vittorie) degli Alleati in Nordafrica.

[6] J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, Paris, Gallimard,1995, p. 537-538.

[7] “Ce que je vois de plus net dans la vie, c’est une coupure qui fait qu’il y a deux moments presque complètemet séparés, au point que, étant dans le second, je ne me reconnais plus très bien dans le premier, c’est-à-dire avant la guerre et après” (Intervista del 1975 a Michel Contat, citata da P. SABOT, Littérature et guerre. Sartre, Malraux, Simon, PUF, Paris, 2010, p. 15.)

[8] A. GOMEZ-MULLER, De la nausée à l’engagement, Paris,Felin, 2005.

[9] Perfettamente delineato da Pier Aldo Rovatti, per cui Les mots riescono a “portare avanti le esigenze espresse nella Critica alla ragione dialettica: la necessità di fondare il discorso storico-dialettico rimandandolo alla singola prassi soggettiva per ricostruire il processo a partire dalla individuazione concreta. È dunque lecito affermare che già in Les mots si realizza il progettato secondo tomo della Critica”. Rovatti cita a questo proposito un articolo di Paci per cui Les mots potrebbero costituire il secondo volume della Critica (P.A. ROVATTI, Che cosa ha veramente detto Sartre, Roma, Astrolabio, 1969, p. 6).

[10] Come suggerisce, peraltro in maniera molto critica verso Sartre, S.R. SULEIMAN, Crises de mémoire. Récits individuels et collectifs de la Deuxième Guerre mondiale, Presses Universitarires de Rennes, 2012, pp. 19-39.

[11] Subito dopo la prigionia, Sartre aveva fondato un gruppo clandestino, Socialisme et liberté, che però si era sciolto dopo pochi mesi di fronte al delinearsi delle grandi correnti della Resistenza.

[12] Cfr. G. SAPIRO, La guerre des écrivains, 1940-1953, Paris, Fayard, 1999, pp. 490 e ss.

[13] Cfr. La Repubblica del silenzioinfra.

[14] Per una ricostruzione del contesto e delle reazioni in merito alla pubblicazione e alle rappresentazioni delle opere di Sartre durante l’occupazione, cfr. I. GALSTER, Sartre sous l’Occupation et après, Paris, L’Harmattan, 2014 e ID. Sartre, Vichy et les intellectuels, Paris, L’Harmattan, 2001.

[15] La versione pubblicata in Situations, II, Paris, Gallimard, 2010 nuova ed., è la prima parte del più ampio saggio Réflexions sur la question juive pubblicato nel 1946 (tr. it. di I. WEISS, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Milano, Ed. di Comunità, 1947).

[16] Cfr. Ritratto di un antisemita, infra.

[17] Cfr. J.-P. SARTRE, L’imaginaire, Paris, Gallimard, 1940, tr. it. di E. Botasso, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1960.

[18] Cfr. M. BLOCH, L’étrange défaite, Paris, Gallimard, 1990 (1946), p. 194 e ss. (tr. it. di R. COMASCHI, La strana disfatta, Torino, Einaudi, 1995). È interessante leggere in parallelo le osservazioni di Sartre sui collaborazionisti raccolte in questo volume e l’analisi della disfatta del 1940 di Bloch.

[19] Cfr. Introduzione, M. OZOUF, La fête révolutionnaire (1789-1799), Paris, Gallimard, 1976, tr. it. di F. Cataldi Villari, La festa rivoluzionaria, Bologna, Patron, 1982.

[20] Gentile era stato fatto oggetto di numerosi attacchi da una parte della stampa della RSI che aveva fabbricato di sana pianta delle accuse contro di lui, ritenuto colpevole di essersi tenuto in disparte in alcuni momenti della storia del fascismo. Sulle prese di posizione di Gentile a favore di Mussolini e del suo desiderio di essere utile alla RSI cfr. M. FORNO, Intellettuali e Repubblica sociale. L’osservatorio del “Corriere della sera”, in “Contemporanea”, 5, aprile 2002, pp. 315-328.

[21] Articolo citato da L. CANFORA, La sentenza, Palermo, Sellerio,2005, p. 167.

[22] Ivi, pp. 449 e ss. Canfora ricostruisce anche le diverse versioni e la storia della circolazione del testo di Marchesi.

***

LA REPUBBLICA DEL SILENZIO[1]

di Jean-Paul Sartre

Non siamo mai stati così liberi come sotto l’occupazione tedesca. Avevamo perduto ogni diritto e prima di tutto quello di parlare; ci insultavano apertamente, ogni giorno, e dovevamo tacere; ci deportavano in massa, come lavoratori, come ebrei, come prigionieri politici; ovunque – sui muri, sui giornali, sugli schermi – ritrovavamo l’immagine immonda e insulsa che i nostri oppressori volevano darci di noi stessi: ma proprio per questo eravamo liberi. Il veleno nazista si insinuava nel profondo dei nostri pensieri e quindi ogni pensiero giusto era una conquista; una polizia onnipotente cercava di costringerci al silenzio e quindi ogni parola diventava preziosa come una dichiarazione di principio; eravamo braccati e quindi in ogni nostro gesto gravava il peso dell’impegno.

Le circostanze spesso atroci della nostra lotta ci rendevano finalmente in grado di vivere, senza trucchi e senza veli, questa situazione straziante, insostenibile che chiamiamo la condizione umana.

L’esilio, la prigionia, ma soprattutto la morte, che in epoche più fortunate riusciamo abilmente a dissimulare, erano diventati gli oggetti perpetui delle nostre preoccupazioni perché avevamo imparato che non si trattava di accidenti evitabili o di minacce costanti ma esterne: ci giocavamo la nostra partita, erano il nostro destino, la fonte profonda della nostra realtà di esseri umani. Ogni istante vivevamo in tutta la sua pienezza il senso di questa semplice frase banale: “Tutti gli uomini sono mortali”. La scelta che ciascuno faceva per sé era autentica perché era compiuta di fronte alla morte e avrebbe potuto sempre esprimersi nella forma: “Piuttosto la morte che…”. E non sto parlando dell’élite costituita dai veri Resistenti, ma di tutti i francesi che a qualunque ora del giorno e della notte, per quattro anni, hanno detto no. Proprio la crudeltà del nemico ci spingeva all’estremo della nostra condizione di uomini, costringendoci a porci quelle domande che generalmente eludiamo in tempo di pace: tutti quelli che erano a conoscenza di qualche dettaglio sulla Resistenza – e a quale francese non è capitato almeno una volta – si domandavano con angoscia: “Se sarò torturato, resisterò?”. La questione della libertà sta in questi termini, è il momento in cui siamo portati ai limiti della conoscenza più profonda che possiamo avere di noi stessi. Il segreto di un uomo, infatti, non è il suo complesso di Edipo o di inferiorità, ma il confine stesso della sua libertà, il suo potere di resistenza ai supplizi e alla morte.

Per tutti coloro che si sono trovati coinvolti in attività clandestine, le modalità della lotta sono state l’occasione per un’esperienza nuova, perché non combattevano alla luce del sole, come fanno i soldati di un esercito; braccati nella solitudine, arrestati nella solitudine, si trovavano a resistere alle torture nell’abbandono e nella più completa privazione. Erano soli e nudi davanti ai loro boia ben rasati, ben vestiti e ben nutriti che si prendevano gioco della loro miserabile carne e a cui una coscienza soddisfatta e un potere sociale smisurato offrivano tutte le apparenze della ragione. E tuttavia questi uomini, nella solitudine più profonda, difendevano gli altri, tutti gli altri, tutti i compagni di resistenza. Una sola parola era sufficiente per provocare dieci, cento arresti. E questa responsabilità totale nella solitudine totale che cos’è se non il disvelamento della nostra libertà? L’abbandono, la solitudine, il rischio elevato, erano gli stessi per tutti, non solo per i capi, ma per qualunque uomo. La pena era la stessa per chi portava messaggi di cui ignorava il contenuto, come per chi prendeva le decisioni: la prigione, la deportazione, la morte. Non c’è nessun esercito al mondo in cui ci sia una tale uguaglianza di rischi per il soldato e per il grande generale. Ed ecco perché la Resistenza è stata una vera democrazia: per il soldato come per il capo, stesso pericolo, stessa responsabilità, stessa assoluta libertà nella disciplina. Così, nell’ombra e nel sangue, si è costituita la più forte delle Repubbliche. Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti. Ogni francese doveva conquistare e difendere contro i nazisti, istante per istante, questa repubblica senza istituzioni, senza esercito, senza polizia. Eccoci ora alle soglie di un’altra repubblica: possiamo solo augurarci che sappia conservare le austere virtù della Repubblica del Silenzio e della Notte.

9 settembre 1944


[1] Questo testo, subito diventato famoso, è stato pubblicato nel primo numero non clandestino di “Lettres françaises”, il 9 settembre 1944 per essere poi ripreso in “L’Éternelle Revue”, 1, nuova serie, dicembre 1944, rivista diretta da Louis Parrot. È stato inserito nella prima edizione di Situations, III (1949), dedicato a Jacques-Laurent Bost, allievo e poi amico di Sartre e di Simone de Beauvoir.

Chandra Livia Candiani, La domanda della sete

3

(Dal 22 settembre è nelle librerie il nuovo libro di Chandra Livia Candiani, “La domanda della sete” (Einaudi 2020). Pubblico qui una piccola antologia della raccolta con una nota di Giorgio Morale).

Le mani rotolano la terra
la farina l’acqua il sale
impastano, bevono
e distinguono, raccolgono,
addormentano, addomesticano
il dolore, accarezzano, come un gesto
che prende il posto del pensiero, i suoi
manovali. Le mani sono ricche e vuote
conoscono molte altre mani
e caldo e freddo e le voci le attraversano
e loro sanno buono quando è buono
e cattivo quando è cattivo.
Le mani perpendicolari al filo
si stendono sull’abisso e dicono:
stai quieto stai quieto,
come con un mare in burrasca.
Vecchie molto vecchie
le mani.
(pag.7)

Ciao, compagna Rossana

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di Antonio Sparzani

mi mancano, come sempre, le parole per salutarti come forse tu vorresti, t’ho sfiorata una volta a Milano, eri amica di una mia amica, ma non ti ho mai parlato veramente, ho solo guardato i tuoi occhi così penetranti, così bramosi di sapere, di capire, di indagare. La tua storia la sanno tutti quelli che ti hanno amata, apprezzata, cara maestra di generazioni di giovani: la cacciata dal PCI, la fondazione del Manifesto, le tue infinite battaglie e infine l’uscita anche dal Manifesto, col quale avevi ormai maturato, col maturare dei tempi, qualche divergenza. Non la mandavi a dire a nessuno, mi dice chi ti ha conosciuta, eri diretta, implacabile. Di cose e di fatti ne sapevi molti, non avevi dimenticato nulla della tua lunga e in qualche modo instancabile vita. Fosti la sola ad accompagnare Lucio Magri in Svizzera.
Il Manifesto ti dedicherà un numero speciale martedì 22, per oggi le notizie più standard sono quelle che dà Repubblica.
Ciao Rossana, non siamo più in molti a piangere la tua morte, ma la piangiamo.

Il giorno che sono morta

0

di Flavia Sforza

Il giorno che sono morta iniziò come tutti gli altri, né più né meno.

Esausta dopo una notte insonne e già in ansia per i numerosi impegni che costantemente affollavano le mie giornate, ero assorta, come in trance, mentre guardavo il caffè fuoriuscire dal beccuccio della caffettiera e inondare il piano cottura; come sempre, me la prendevo con me stessa perché, pur assistendo a quella piccola catastrofe, restavo immobile, incapace di oppormi.

Quella non fu l’unica catastrofe a cui non reagii quel giorno. A mia discolpa si può dire che la seconda, quella fatale, non era preannunciata da alcun segno premonitore.

Si pensa sempre che l’ultimo giorno della nostra vita debba essere contraddistinto da chissà quali segnali trascendentali, che ci invitino a godere appieno – per quanto inconsapevolmente – delle ultime preziosissime ore rimaste. Ammesso che si possa godere appieno di una situazione, convivendo con una sensazione indefinita di angoscia per un evento imminente e inesorabile.

In quel momento, però, il mio pensiero era rivolto solo a riparare il danno quotidiano del propagarsi del liquido scuro e profumato, sottratto all’assaggio benefico e risvegliante che già pregustavo.

Dopo una doccia veloce mi vestii, e per quanto non avessi incontri di rappresentanza, quel giorno un qualcosa dentro di me mi spinse a scegliere con cura gli abiti: a dare di me la rappresentazione che avrei voluto venisse ricordata. Come l’ultima, memorabile interpretazione di un attore al culmine della carriera. Forse questo sì, poteva essere un segnale.

Nella mia perenne lotta contro il tempo, mi precipitai giù per le rampe di scale, fuori dal portone e per strada, senza guardare nient’altro che lo schermo del cellulare. Non mi accorsi dell’auto che arrivava a tutta velocità, a dispetto dell’attraversamento pedonale.

Se ci ripenso, non ricordo assolutamente niente né dell’impatto – presumo violento – né di che cosa accadde dopo, se non un forte ronzio nei timpani, l’offuscarsi della vista, l’eco di un tramestio intorno a me.

 

Riaprii gli occhi di primo mattino. Dalla finestra filtrava la luce dell’alba. Non compresi dove fossi. Mi arrivava un bip bip di macchinari, intravedevo una flebo e percepivo un vago odore di disinfettante, luci di emergenza soffuse. E più che dolore, una sensazione di dolore.

La donna delle pulizie si appoggiò alla ramazza e mi guardò strabiliata; il suo viso si allargò in un sorriso caloroso e mi rivolse le prime parole che udii post mortem. “Buongiorno! Era ora, cara! Ti stanno aspettando tutti!”, e corse a chiamare l’infermiera di turno.

Gli eventi che seguirono si succedettero con una tale concitazione che non riuscii a raccapezzarmi di che cosa mi stesse accadendo.

Accorsero i medici, venni trascinata in un tour de force di accertamenti, distesa in barella su e giù per i freddi ascensori dell’ospedale; ogni volta venivo accolta dalle stesse parole: “Bentornata tra noi Irene, lei è una donna fortunata!”.

Onestamente, non capivo ancora in cosa consistesse la fortuna di essere trascinata in quel girone infernale di risonanze magnetiche e TAC, di prelievi e flebo; ero morta no? Mi lasciassero riposare in pace!

Poi, arrivò anche il momento, da me temuto, dell’incontro con i miei “cari”.

“Ehi amore, che paura ci hai fatto prendere!”.

Andrea era lì, visibilmente stanco: occhiaie scure cerchiavano i suoi occhi, anche se lo sguardo era apertamente felice, pieno di una gioia disarmante. Quello sguardo, finalmente concentrato su di me, non più distratto dai continui richiami del cellulare, mi parve una rivelazione, un miracolo assoluto.

Provai a parlare, ma non sentivo uscire alcun suono dalla mia bocca.

“Ma io sono morta!”  pensai. “È troppo tardi!”.

Allargai lo sguardo intorno alla stanza e vidi avvicinarsi mia figlia, gli occhi umidi di commozione e pieni di quella luce sua propria che rischiarava le mie giornate buie.

“Mamma”, si limitò a dire, la voce rotta dai singhiozzi.

“Amore, sono qui”, pensavo, ma la mia voce si rifiutava di uscire dalla gola e restava intrappolata dentro di me.

Lei notò il mio sguardo allarmato, intuì i miei sforzi, poi la vidi uscire dalla stanza, e crollai in un sonno profondo, prostrata da tutte quelle emozioni.

 

Gli eventi che seguirono sono rimasti confusi nella mia coscienza. Dentro di me avevo la certezza di essere morta, eppure medici, infermieri, parenti e amici si susseguivano ai bordi del mio letto e disquisivano sul mio “blocco del linguaggio”, che pareva non avere causa in lesioni organiche.

A un certo punto comparve Alfredo, il mio terapeuta, da anni paziente ascoltatore e fedele custode dei miei tormenti interiori.

“Irene, mi ha cercato tua figlia. Dimmi un po’… non vuoi tornare in vita o non vuoi tornare alla tua vecchia vita?”, mi disse, senza preamboli.

Mi sentii smascherata. Si stava così bene, per una volta, sentendosi addosso gli sguardi e le attenzioni di tutte quelle persone che, di solito, non mi guardavano, che non mi ascoltavano più, da anni, per le quali ero scontata e sempre più invisibile.

“Lasciami in pace, Alfredo, non vedi che sono morta?!?”, proruppe la mia voce, imperiosa e squillante, dopo giorni di prigionia.

“Ma poi sei rinata. Sei qui ora, non credi?”, mi disse, con un sorriso sornione e accogliente. “Può esserci una nuova vita per te, Irene, basta che tu lo voglia”.  Mi strinse la mano, mi lanciò uno sguardo d’intesa e uscì dalla stanza.

Sentii lacrime calde colare sulle mie guance, irrefrenabilmente, mentre un senso di pace mi invadeva il petto.

 

La sveglia mattutina mi riportò bruscamente a galla dalle paludi del sonno. Aprii gli occhi, ancora sospesa tra sogno e realtà, e mi guardai intorno rapidamente, incerta su dove fossi. I rumori familiari in cucina mi restituirono la consapevolezza che era stato solo un sogno. Purtroppo. Restai acquattata sotto le coperte, aspettando che tornasse il silenzio a confermarmi che erano usciti tutti, rincorrendo i loro consueti impegni, come tanti criceti dentro le loro ruote. La voce di Andrea, già di primo mattino fagocitato dalle telefonate di lavoro, sfumava per le scale mentre la porta si richiudeva. Non mi aveva neppure salutata.

“Sono morta. Non cercatemi. Starò bene”. Lasciai il biglietto in bella mostra sulla ètagère all’ingresso, assieme al mio cellulare e alle chiavi di casa, e mi tirai la porta dietro le spalle. Me ne restai un attimo ferma, con la schiena appoggiata allo stipite, sopraffatta dall’enormità del mio gesto. Respirai a fondo, sentii un misto di sollievo e ansia che si spandeva nel mio petto; poi, con passo svelto scesi le scale. Ridendo.

 

 

La colla dei suicidi

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di Walter Nardon

 

Erano le sei meno un quarto. Se avessero saputo resistere all’abbagliante richiamo cinematografico pomeridiano e alla sua indulgente penombra avrebbero avuto un paio d’ore per mettere a posto gli articoli sul loro profilo, ma dato che l’invincibile attrattiva di Firebuster 3 con le sue traiettorie spaziali aveva avuto la meglio ora, attraversando l’arteria principale sulla via di casa, per quanto appagati, dovevano proprio darsi da fare.

La radice dell’inchiostro: Maria Grazia Calandrone

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NOTA INTRODUTTIVA

Ketty La Rocca, Le mie parole e tu?, 1971

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

 

MARIA GRAZIA CALANDRONE

Chiunque dovunque

 

Lo scrivere che porto «avanti» – o meglio, che porto «dentro»: le cose e, spero, l’integrale umano – vuole decifrare le cose e, sì, con Deleuze, farle riscaturire dall’origine. La poesia non è il fine ma il mezzo: è la chiave, l’attrezzo, la pala (la falce) e il martello col quale scavo, mozzo e rompo il guscio, cioè la convenzione, di quella che chiamiamo realtà e che, naturalmente, non esiste.

Di certo esistono gli oggetti in sé, sarebbe insolente negarlo, ma non esiste un modo collettivo di guardarli. Neanche il mezzo più obiettivo, così obiettivo da denominare se stesso obiettivo (la fotografia), restituisce la realtà di niente. Ciò che vediamo è solo ciò che vediamo noi, individui fissati in un unico e irripetibile momento della nostra vita. Anche questo vedere, naturalmente, cambia. La poesia è forse un piccolo nodo nel tessuto di questo fluire e fluttuare continuo, casuale e pressoché incontrollabile, di esistenza. Un’esistenza enorme, che ci attraversa. Viene il mal di mare, a pensarci. O viene il sorriso dell’idiota dostoevskiano. Che è ciò cui ambisco.

Poetando, ci si ferma un momento e si fa il punto, non tanto della situazione, quanto il punto di quanto è nascosto sotto la situazione. La poesia fa il punto sull’invisibile. Una piccola curva spaziotemporale, una spiegazzatura nella trama che ci prescinde, uno strappo infinitesimale attraverso il quale osserviamo l’infinitissimo nulla, il vuoto che sta sotto e dentro qualsiasi costruzione umana e naturale.

La fisica illustra che la materia è vuoto, che la solidità sulla quale poggiamo i nostri apparentemente solidi piedi è costituita esclusivamente dal movimento delle particelle, dunque dalla relazione tra esse. La materia è relazione, inclusa la materia dei nostri corpi. Senza la relazione, non esiste che vuoto.

Anche noi, senza gli altri, non esistiamo. In questi mesi di clausura forzata abbiamo sperimentato la nostra inesistenza. Io, per esempio (io chi?), ho incontrato il gigantesco (ma discreto, devo riconoscere) fantasma di mia madre. A tal punto non esistiamo, senza gli altri, che, in assenza di corpi contemporanei, ci mettiamo a parlare coi fantasmi.

La poesia è anche questo parlare con chi non esiste e con quanto non esiste, per costringerlo a rivelare il proprio nucleo caldo, la propria sopravvivenza nella comune umana, la propria disperata vitalità, la voglia che hanno i morti di vivere ancora (cioè la voglia che abbiamo noi che i morti vivano ancora), che sopravvive come energia e anch’essa ci attraversa e percorre. Siamo attraversati e percorsi dal desiderio che niente finisca. Questo malinconico grido di eternità è la poesia. Un grido tanto più bello e valoroso perché consapevole della propria inutilità. La sua utilità consiste nel gesto di farlo. L’utilità della poesia sta nell’essere fatta. Pensata, plasmata. Questo gesto disperato di scavalcamento della morte accomuna chiunque dovunque.

La poesia che limita se stessa a mera descrizione delle cose si contenta di poco, si sostiene con mezzi di superficie, ci lascia a passeggiare nel mondo (ameno, benché orribile) delle apparenze, non ci toglie la terra sotto i piedi, non ci annienta, non ci nullifica, non ci fa precipitare in apnea dove le cose non esistono più. Dove, tanto meno, esistiamo noi. Questa visione del mondo è insostenibile e rasserenante.

La poesia è essa stessa purissimo vuoto, col punto rosso al centro della musica della relazione, che il nostro stesso corpo riconosce, per simpatia e istinto molecolare. Quella musica è nata contemporaneamente all’invenzione della materia. All’origine di tutto, probabilmente il caso, il quale ha mosso qualcosa che, chi sa perché, aveva avuto volontà di esistere, insieme a un piccolo gruppo di divinità inventate. Il caso, il vuoto, il non sapere, la febbre dell’indagine. Quando – in rari momenti – riusciamo a percepire il suono microscopico ed enorme della relazione, posta al centro del vuoto della materia, abbiamo accostato l’orecchio a quello che stamattina intendo per poesia.

 

Maria Grazia Calandrone,

settembre 2020

 

Per consultare tutti gli interventi del questionario:

LA RADICE DELL’INCHIOSTRO: TAVOLA DEGLI INTERVENTI

Allegria alla fine del mondo. Quattro poesie di Andreia C. Faria

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Helena Almeida - Study for Inner Improvement - 1974
Helena Almeida – Study for Inner Improvement – 1974

 

 

traduzione e cura di Serena Cacchioli

 

Andreia C. Faria è nata a Porto nel 1984. Nel 2008 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, De haver relento (Cosmorama Edições), seguito da Flúor (Textura Edições, 2013), Um pouco acima do lugar onde melhor se escuta o coração (Edições Artefacto, 2015) e Tão Bela Como Qualquer Rapaz (Língua Morta, 2017), che ha ricevuto il Premio della Società Portoghese degli Autori nel 2017 come miglior libro di poesia. Nel 2019 ha vinto il premio Letterario della Fondazione Inês de Castro con il libro Alegria para o fim do mundo (Porto Editora, 2019). Propongo in traduzione quattro poesie tratte da quest’ultima antologia, Allegria alla fine del mondo, che riunisce una selezione di testi delle opere precedenti.

*

 

Se mi arrivano nuove di chi ancora sei
mi si sporcano le guance di fuliggine e rossore,
m’annerisce la tristezza e ulula, si rivolta
in petto la terra scura.

Sale in me un immenso fragore, se il tuo nome
ancora sento, uno sciame la testa,
i nodi delle dita blasone
d’idiomatica furia, malinconico insorgere
di maschera tribale.

Mia madre, che non ha mai saputo
chi fossi o ancora sei, vede nascermi negli occhi
cattiveria pura e senza pianto, paesaggio lacustre,
liquore spesso.

Come alcol d’alta gradazione, mia madre vede in me
cattiveria incontaminata se mi arrivano
notizie di chi sei, che ancora vivi, che passi
le paludi a guado

e al galoppo mandi saluti
all’imbranato demonio che mi assale.

*

NARCISI

Un alito venereo entrando in macchina, un’eccitazione funebre, e li vidi: caduti, caldi di sete, febbrili, le palpebre calpestate dal sole.
Avevi colto narcisi per me, ma li avevi dimenticati in macchina, e se ne stavano lì come figli unici, la carne tiepida, mansueta per il ripudio, avidi di profumo e di straniamento dalla terra.
Poteva essere mio il gesto: toccare il tuo volto, il taglio della tua gioventù. Ossa massicce ti facevano capolino spaurite sottopelle, la tesa architettura che serbavi come una cicatrice. Avrei potuto toccare il fiore inesperto della lama sulla tua guancia, berlo, acquifero su una mappa arida. Era un amore concepibile. Ma venuto da chissà che perfette solitudini, da un’educazione altezzosa in cui nemmeno l’acqua calda ci fece venire in mente che stavamo vivendo. Un amore di denti che non brillano, il sesso rappreso e spesso, ferito dalla polvere, suolo inadatto dove posare le radici urgenti.

*

SCARNIFICAZIONE

Fino a trent’anni hai
la faccia che ti ha dato Dio. Dopo
hai la faccia che ti meriti. È una promessa
d’ironia, una sentenza
senza ricorso.

Ti viene detto:
sei in balìa dell’intimo travaglio
di quel che mangi, del numero di ore che dormi,
di quello che fai e soprattutto
di quello che pensi. Dio
(perdonagli la debolezza)
ci tollera mentre siamo giovani,
ci protegge, ci accarezza
la fronte dopo un dolore, forse
ci ama, ma ci lascia
soli quando la bellezza
è terreno poco saldo

e assiste da lontano
alla temeraria sfida lanciata
a ogni figlio.

Sai allora che il volto è un fiore
piantato nel buio, una corolla
tenera, rotonda e impenetrabile
che si schiude e si apre
con petali lisci e brillanti, o
confusi e spettinati,
a seconda della forza
e la direzione del vento.

*

Con gli stivali sporchi e la pelle intatta
tornare a casa.
Con le suole maculate, appiccicose, i passi
che hanno ordito nel piscio un insistente miele.
Lo stivale è uno stelo
che allude alla purezza caduta
alla purezza versata
e fiorisce
attorno a bar e orinatoi, cavalcando un fianco
un solo cranio che fa il giro della notte
con il ferro spurio delle stelle.

Un piede nudo sulla ghiaia ferisce la vista.
L’inguine porta il sangue al proprio sostegno.
Qui un frutto
gocciolante dal cuore
dovrà ascendere alla carne.

Ma lo stivale è carne lavorata.
Che supplica la strada,
che delira.

Nel suo scricchiolare di pietra canta
il cuoio delle comete e affonda
ai piedi del letto.

 

Il cielo amaranto sopra San Francisco

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di Sara Marinelli

9 settembre 2020

   Se non sei a distanza ravvicinata dalle fiamme e non stai pensando a dove fuggire per salvarti la vita in queste giornate di fuoco che sta consumando la costa occidentale degli Stati Uniti, hai un’altra cosa a cui pensare: come tirare fuori da dentro tutto stesso la forza di convivere, o sopravvivere, con un’altra dura prova di esistenza sulla terra nell’anno della pandemia. Quando una mattina di settembre ti svegli alle 7:30 ed è come se fosse ancora notte, e la tua casa è avvolta in un buio pesto ancora molto lontano dall’annunciare il giorno. Quando una mattina di settembre la luce perversa che filtra dalle tende ti sembra invece giunta ad annunciare una fine.

L’hanno visto in tutto il mondo questo cielo amaranto. Le fotografie del 9 settembre a San Francisco, del suo skyline, dei suoi ponti, dei suoi grattacieli e palazzi ammantati di rosso e arancio, hanno fatto il giro del globo in tempo reale sui social, la stampa e i telegiornali. L’hanno paragonato al paesaggio futuristico di “Blade Runner”, hanno citato “Apocalypse Now”, “The Day After” e altro, insomma tutto l’immaginario surreale e distopico del cinema e della letteratura divenuto di colpo realtà. A me, DJ per passione in una stazione radiofonica della città, sono venute in mente tante canzoni da farci una playlist a tema, da “Si è spento il sole” a “Cupe vampe”, da “L’aridità dell’aria” a “Cieli neri”, e anche “Il cielo è sempre più blu”[1]— quest’ultima così, per sdrammatizzare. Un istinto di sopravvivenza dello spirito. Un bisogno di commentare a modo mio questa circostanza straordinaria che mi chiedo se diventerà — anche questa — la “nuova normalità”.

Le ho ammirate anch’io le centinaia di foto impressionanti e sensazionali, spaventose e affascinanti che girano in rete, materiale prezioso per ricevere cuoricini e faccine dalla bocca spalancata sui social. C’è chi avrebbe voluto essere qua per poterlo scrutare di persona questo cielo fenomenale, per poter dire di aver vissuto questa giornata memorabile da apocalisse e fine del mondo.
Io c’ero. Sono ancora qua. La frase che conta più di tutto di questi tempi. Quella che dici a te stessa quando la stai scampando un’altra volta, quando in realtà non sai bene dove poter stare perché non hai più molta scelta, perché il virus o il fuoco stanno scegliendo per te.
Io c’ero.
Questo è il mio diario di un giorno dal cielo amaranto sopra la città.

 

9 settembre 2020

 

Le 7:40, ma mi pare impossibile, è tutto buio, meglio continuare a dormire, meglio ancora non sapere. Perché svegliarsi se il mattino tarda ad arrivare?

Le 8:30, qualcosa non quadra, ancora tenebre. Svogliatamente lascio le lenzuola; i pochi metri dal letto alla finestra sono un breve viaggio alla scoperta del mistero di questa luce sinistra. Scosto la tenda e un brivido mi attraversa la schiena. Un drappo di cielo amaranto si stacca dai tetti delle case davanti a me. Silenzio inconsueto intorno, come se il quartiere avesse il fiato sospeso o semplicemente non sapesse più che dire, proprio come me. Richiudo la tenda, l’oscurità e la quiete intorno mi danno il permesso di tornarmene a letto; non so che fare. Dal letto guardo il buio gli con occhi sbarrati, in realtà non so a cosa sto pensando. A cosa pensa le mente quando è improvvisamente sotto shock?

Le 9:10, dò un calcio alle lenzuola, mi alzo convinta — qui bisogna capire che cazzo succede. Apro tutte le tende, le finestre: ancora tenebre. Odio accendere la luce al mattino, ma è ciò che dovrei fare se almeno voglio centrare il caffè nell’imbuto. Il caffè mi desterà da questo strano incanto. Ma no, è impossibile non restare imbambolati davanti alla finestra. Poi esco sulla scala antincendio e mi alzo in punta di piedi per vedere quanto più lembo di cielo possibile oltre gli alberi e le case. Ma dove è finito il sole? Non so per quanto tempo resto braccata nel mio stupore mentre l’amaranto degrada in un arancio forte e vivo, una specie di tramonto lentissimo, o meglio statico, paralizzato nel mezzo del suo viaggio. È uno di quei paesaggi in cui il solo atto del guardare non ti basta.
Mi infilo la camicia da notte nei jeans, prendo il telefono, la N95, ed esco di casa.

Le 11:15, fuori tutto cambia, uno sconvolgimento dei sensi. A ogni passo mi viene incontro una specie di mare solido senza orizzonte. L’arancione inonda le strade, le macchine, Dolores park e i suoi alberi, la sua collina, e la gente abbarbicata in cima. Ci salgo anch’io lassù, fermandomi sul punto più alto per vedere l’intero skyline della città. Noto subito che posso respirare aria non (ancora) tossica, e non mi sento in pericolo. Mi sento in sospeso; come in ipnosi, in attesa di qualcosa che si manifesti ancor più risolutamente o che invece svanisca del tutto. Guardo la gente intorno ferma anch’essa a guardare dal punto più alto, nessuno dice una parola. Il suono distinto e intermittente del “fog horn” della città — il corno che annuncia la nebbia fitta sulla baia — interrompe il silenzio. Ma questa non è nebbia, non è neanche fumo; è un’entità gassosa a me sconosciuta, dopo forse il dio internet me lo saprà spiegare. Ributtarsi in uno schermo per ora può aspettare, è uno di quei momenti in cui devi esserci fino in fondo. Eppure mi chiedo come proseguire la giornata, una giornata che invocherebbe al nulla, a premere il tasto pausa. Se “si è spento il sole”, allora per un giorno spengo tutto anch’io. Infatti non ho voglia di fare niente, anche se ho lezioni da preparare, del lavoro da finire entro domani.
Mi incammino su per le salite, percorro altre strade del mio quartiere, il rumore del poco traffico è smorzato come fosse sott’acqua; i lampioni sono tutti accesi, i fari delle macchine scintillano al passaggio, lasciando brevi scie luminose davanti a sé. Faccio tante foto, ma nessuna riesce a catturare il cielo, che non sta sopra le cose ma dentro.
La bellezza che s’infiltra adagio nel mio scoramento mi sembra sbagliata.

Le 13:30, torno a casa. Di nuovo tutto buio. Di nuovo, mi faccio forza per decidere cosa fare del giorno. Intanto accendo la luce, poi il computer. Quanti video e quante foto più stupefacenti delle mie, quanti occhi puntati su tutti i quartieri della città: Haight, Castro, SOMA e il downtown, il Golden Gate, e Ocean Beach. L’esperienza collettiva rende tutto più reale. Molti scatti mostrano tracce di cenere sulle automobili che io non ho notato. Apro la finestra, e adesso la vedo anch’io questa polvere grigia sottilissima sulle piante e sulla ringhiera.
A questo punto mi viene l’ansia. Consulto nervosamente tutti i siti memorizzati su internet e nella mia testa che mappano gli incendi boschivi e monitorano la qualità dell’aria. Uno si chiama addirittura “purple air — aria viola — ossia il colore che indica il livello più alto di inquinamento, l’indice di qualità dell’aria (AQI) tra 400 e 500. In pochi secondi, la mappa della costa occidentale, dalla California all’Oregon al Washington, si popola di una miriade di macchie purpuree, cremisi, rosse, che si animano proprio come fiamme al passaggio del cursore sullo schermo. Clicco su ogni fiammella; se vado giù con lo zoom riesco anche a distinguere le aree forestali simboleggiate da file di alberelli verdi che sembrano alberi di natale, e me le vedo davanti le distese di conifere, le sequoie, i parchi nazionali, la flora selvaggia, tutto di quanto più prezioso ci sia in questo pease. Ettari su ettari di boschi e foreste andati in fumo. Sento una fitta allo stomaco leggendo i nomi dei luoghi a me noti, le contee e i parchi nazionali che ho visitato: Mendocino, Yosemite, la Sierra National Forest — territori di sequoie maestose e fiumi verde smeraldo. Mi dirigo col mouse verso le cittadine dell’Oregon, a nord di Ashland: Salem, Eugene, fino alla periferia di Portland, e poi fin su allo Stato del Washington. Le fiammelle pulsano dappertutto.
Sento la stessa frenesia che si è impossessata di me agli inizi della pandemia: il monitoraggio ossessivo di mappe, numeri e dati, stavolta non relativi al Covid ma alla qualità dell’aria: moderate, unhealthy, very unhealthy, hazardous. Ricarico le pagine internet ogni mezz’ora con la speranza, come è stato per le cifre dei contagi, che i numeri si abbassino. Invece no, i valori si stanno alzando a vista d’occhio.
Anche quelli del mio stress.
Ci mancava anche questa; eppure lo sapevamo che quest’inferno sarebbe arrivato, lo sappiamo che il pianeta è una sfera rovente, lo sappiamo che l’ordigno è stato già innescato.

Quando mi sembrava di aver acquistato una routine di convivenza col virus — le mascherine, la distanza, il telelavoro — interrotta occasionalmente da sprazzi di vita sociale all’aperto, o da gite in quella natura che adesso sta bruciando; quando mi illudevo di abbandonarmi al mito italiano del ricominciare tutto a settembre, ecco un’ulteriore prova del fuoco (è il caso di dire) da superare; un altro fenomeno — naturale? — che ci toglie la libertà di respirare. “ll soffio del vento, che un tempo portava il polline al fiore, ora porta spavento, spavento e dolore” dice Brunori Sas in una sua canzone.[2]

Le 15:00, il cielo si tiene intatto, cristallizzato nel suo arancione. Dovrei lavorare, domani insegno tutto il giorno. Chiudo le tende per far finta che sia tutto normale, silenzio il telefono e le conversazioni e le battute sull’apocalisse e Blade Runner e che sembra di stare in un film. Trovo la mia stoica concentrazione quando so quanto tempo destinarle, quando so che dopo tornerò a farmi ipnotizzare dalle sfumature di colore, a caricare e ricaricare le mappe sui mie schermi, a tormentarmi sui numeri e su quello che accadrà. A chiedermi se questo stato d’eccezione durerà per sempre.

Le 17:30, no dai che non durerà per sempre. Adesso l’arancio è leggermente sbiadito agli orli, come un acquerello. Un sentore di movimento. Riprendo le conversazioni al telefono, i messaggini e i Whatsapp con gli amici qui che sanno e con quelli lontani che vorrebbero sapere e vedere coi loro occhi questo scenario da film. Con un amico commentiamo l’aspetto esilarante di quest’astrazione nel cielo, la vertigine di essere vicini al pericolo; mi sento quasi in colpa: è il privilegio di non essere in prossimità diretta con le fiamme a parlare, è l’adrenalina pura che mi gira nel sangue, che mi mette in circolo un’energia strana, come se in questo cielo mi ci volessi tuffare, afferrarlo tra le mani per poterlo interrogare. Sono al tempo stesso su di giri e giù di morale. Poi capisco che, nei mesi della pandemia, con le sue minacce e le sue incertezze, questa mia non è un’esaltazione spensierata, ma quella di chi se l’è scansata ancora una volta; quella di essere vivi in un altro giorno che ti ha presentato la sfida della sopravvivenza, e ti ha costretto nuovamente a tenere a bada le tue ansie, a rivalutare il tuo posto e il tuo ruolo sulla terra, a vedere oltre te stesso.

Le 19:30, l’intensità dell’arancione si è placata nel giallo. La bellezza che prima affiorava in quest’anomalia adesso è sparita, sostituita da una luce giallognola stupida e banale, ma che stranamente oppone resistenza all’arrivo della sera, della fine di un giorno difficile da dimenticare.
Riprendo a leggere le notizie, zoomare sulle mappe; a malapena mi ricordo di cenare. I fronti dei diversi fuochi avanzano dappertutto, si teme per le cittadine a nord di Los Angeles, per la periferia sud di Portland, per il mezzo milione di evacuati, per la pioggia che non cadrà, per questa stagione delle fiamme che potrebbe durare fino a dicembre.

Intanto si fa notte, e dovrei andare a dormire; ma l’adrenalina è ancora in circolo e mi tiene sveglia. Non sappiamo che colore sarà il cielo al risveglio domani; quanti incendi saranno stati domati, quanti continueranno a bruciare, quanta fuliggine coprirà le cose, quanta si addenserà nell’aria. L’AQI sul telefono dice 173, unhealthy. I geni delle previsioni annunciano che nei prossimi giorni, per un periodo non specificato, i valori raggiungeranno i 400.
Forse il cielo amaranto-arancione di oggi allora davvero era sublime; un’ultima sferzata di paurosa bellezza prima dei giorni stinti e polverosi che ci aspettano.
Frammenti di canzoni continuano a balenarmi nella testa, mi vengono in mente solo quelle che alludono alla fine: “e poco a poco ci dissolveremo…, al tramonto di tutto potremo capire”[3]; quelle che non so se passerò in radio, ma che adesso si conciliano col mio umore:

E il vento d’estate che viene dal mare
Intonerà un canto fra mille rovine
Fra le macerie delle città
Fra case e palazzi, che lento il tempo sgretolerà
Fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo
Ma noi non ci saremo, noi non ci saremo[4]

Le canzoni che avevano già previsto e immaginato il futuro, sì proprio come Blade Runner e altre distopie, ma senza effetti speciali e filtri cromatici; quelle che hanno cercato di dirci anzitempo, con dolcezza o poetica crudeltà, che su questa terra non ci siamo solamente noi, che non da tutte le fini si potrà ricominciare

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[1] “Si è spento il sole” (nella versione di Vinicio Capossela); “Cupe vampe” (C.S.I.); “L’aridità dell’aria” (Cristina Donà); “Cieli neri” (Bluvertigo); “Il cielo è sempre più blu” (Rino Gaetano).

[2] Brunori Sas, “Al di là dell’amore”.

[3] Cosmo, “Le cose più rare”.

[4] Francesco Guccini, “Noi non ci saremo”.

 

NdR: la prima e la quarta fotografia sono di Federico Perazzi, le due centrali dell’autrice, Sara Marinelli

Fastidiosa e sputacchina, ovvero come abbattere milioni d’ulivi in silenzio.

8

di Lele Amoruso

O miseras hominum mentes, o pectora caeca.  O misere menti degli uomini, o ciechi cuori.

Lucrezio, De rerum natura – II,13

 

QUALCUNO s’avvede guidando sulla superstrada, altri negli innumerevoli  tragitti intercomunali.

Oppure giravoltando in bicicletta per stradine segnate da muretti a secco, o dal finestrino della Sud-Est; altri buttando giù l’occhio dall’aereo.

A volte si offre uno sguardo più lungo dai rari rilievi, più che alture, che la terra salentina ha, talora,  mentre degrada verso la costa.

Qualcuno  non sa in quale tavolozza cercare quel colore che appare  come marcio.

Qualcuno è più anziano, altri più giovani, ma anche donne, bambini, conterranei, connazionali, d’ogni parte.

Un’anziana è ferma, sta. Osserva col capo chino e muove le labbra, come in preghiera.

Una giovane fotografa, ma non trova l’inquadratura.

Lo sguardo vorrebbe posarsi. Si passa dal particolare all’assieme, ora più d’appresso, ora più lontano.

Lo sguardo vorrebbe posarsi, placarsi: ma, come, agitato erra senza riposo.

 

QUALCUNO ricerca aggettivi, vaga, e un po’ muore, tra aggettivi, sostantivi, concetti, tentativi di sintesi. Si prova ad inquadrare, spiegare a se stesso, com / prendere: fare propria la cosa.

Naming: nominare quanto ha davanti e dentro. Si spera di trovare un termine, una espressione verbale quasi magica che oltre che descrivere rassicuri, tolga sgomento. Ma come  definire quanto gli occhi vedono e il cuore non sa chiamare?

C’è chi azzarda aggettivi ferali, infausti; altri provano con i consolatori, altri ancora con rabbia.

Qualcuno allarga le braccia, qualcuno volge lo sguardo al cielo. Altri dovrebbero volgerlo in basso, quasi a vergogna?

Qualcuno è rassegnato, talaltro impaurito.

Ovunque la si trovi, qualunque sia quella parola sarà segno d’amarezza, e d ‘impotenza, e di tristezza.

Non quella, quasi idillio,  dei poeti o dei lunari, ma quella semplice, immediata, comune a ciascuno  d’ogni età e sensibilità.

Ecco. Siamo qua!

Davanti, sotto, sopra, d’appresso: alberi, piante, tronchi, strani vegetali  che un tempo sono stati ulivi, a volte imponenti ulivi. E ora sono grigi; grigi colori di una natura  snaturata.

 

QUALCUNO dice  disgrazia, altri disastro, distruzione, tragedia, apocalisse, catastrofe.

Si  cercano le parole, la parola. Quale è quella giusta?

Nelle parole, decine di possibili parole, dove si avverta come sulla pelle  il diffuso e profondo smarrimento.

 

QUALCUNO azzarda, sperando di sbagliarsi: catastrofe. Dove ci appare una catena di eventi … vede una sola catastrofe (Benjamin). Rivolgimento, rovesciamento. Ricordarsi che prima o poi le catastrofi arrivano? Appaiono lontane dal grande fiume del progresso, dalla idea di un progresso infinito, sempre in avanti? Smemorati, ormai, che la vita finisce (Lucrezio), ma piuttosto abbagliati e sedotti da effimere e labili emozioni.

Qualcuno avvisa i naviganti delle varie forme di nostalgia. C’è quella patologica, regressiva, che ricorda il passato, vorrebbe restaurarlo, e mette la prua per approdare nell’isola del giorno prima; c’è quella  critica, riflessiva, che agisce per recuperare il salvabile, ciò che si può rigenerare: la nostalgia creatrice non vuole neutralizzare la Storia, ma mettere la prua per  sprigionare dinamiche sovversive.

Attenti, dice qualcuno, a non cedere alla vocazione pedagogica delle rovine (Augé), ma non ignorarle. E’ smarrita la visione ciclica del tempo? Per essa il passato ritornerebbe sotto forma di futuro.

Siamo naufraghi alla deriva verso un’isola che costruiamo con immaginazione e narrazione, con sogni e utopie e incubi, anche ad aria condizionata?

Ogni catastrofe lascia tracce materiali  nei canti, nella lingua, nei proverbi, nei riti. Abbiamo costruito e dato ciclicità ai riti propiziatori di abbondanti messi, di santi infiorati, di processioni “primaverili”. Abbiamo percorso  strade arse e pietrose, anche inginocchiati, invocando pioggia, protezione, per grazia ricevuta. Nelle  feste patronali ritroviamo la comunità  come entità interpretante che costruisce un comune sentire che diviene “tradizione”. Ma  negli eventi dell’oggi evadiamo dall’esserci? Ed ora dove siamo, in quale tragitto e guado?

Qualcuno rammenta la condizione paradossale: non appartenere più ad un “paesaggio”, paesaggio oltre i nostri borghi, paesaggio antico che si allarga oltre il Mediterraneo; e nello stesso tempo non sentirsi in questa terra che sa di deserto, non sentirsi in questo mondo che s’afferma come sradicato, prono a leggi ragionieristiche, cieche, dispotiche, algoritmiche.

 

 

QUALCUNO si chiede se tutto ciò sia già dolore dei più? Attaccati e ammorbati dall’eterno presente chi sente, chi avverte tutto ciò oltre l’attimo sorprendente? Nelle città, grandi e piccole, persino nei “paesini”, dopo i giorni della paura da virus, siamo come avvolti in una bolla di ritmi, musiche e danze che stordiscono, obnubilano dall’essere e, complici eccitazioni d’ogni sostanza, escludono dalla realtà. Fenomeno degli ultimi anni ed è come scomparso l’incanto dei silenzi nelle notti e nelle albe. E li chiamano eventi! Sono accozzaglie di stati dell’essere che at/traversano anche non più giovani che del corpo fanno unico medium.

 

Resta mistero dove finisce il bianco quando la neve si scioglie, e ora ci chiediamo dove è finito il verde delle nostre terre, delle nostre campagne? Il verde, colore che connota la vita.

Dove sono le rinfrescanti ombre, dove sono andate le chiome, dove sono volati gli uccelli?

Dov’è l’aura  che prendeva le viscere (Quasimodo) e liberava le parole per  incanti d’amore?

Ci sarà ancora quella terra del rimorso? Siamo in una cesura tra mondi?

 

INIZIO. Qualcuno ricorderà le voci che giunsero dalle primissime zone infette. Qualcuno sottovalutò, altri insinuarono azioni di untori. La star divenne la ignara “sputacchina”, vettore del batterio.

Qualcuno era distratto, altro occupato a sobillare. Più che riflettere parecchi  provarono ad avvelenare i pozzi. Altri a battere cassa.

Ai primi timori ci furono alzate di spalle e molte risposte sufficientemente incomplete ed evasive.

L’ignoranza anziché far elaborare i dubbi alimenta la fuga dalla stessa realtà. La conoscenza dovrebbe aiutare a trasformare “risorse” in “funzioni” (Sen) utili ai più. Ma il raffazzonato realismo accascia ogni “discorso”.

Poi le voci si diffusero, anzi il batterio si diffuse attaccando piante nella periferia di Oria, tra Brindisi e Taranto.

C’è chi ricorda  uomini in divisa, come sul fronte.

Qualcuno ebbe il timore della Caporetto imminente?

Si diffusero immagini di tronchi segnati per essere abbattuti: crociati di vernice rossa, segno di destino.

Metterci una croce sopra per chiudere con la vita che non è più vita: metterci una croce, chiuso, finito, morte.

Qualcuno, dal palazzo di Giustizia di Lecce,  fermò gli espianti.

In molti intervennero, tra chi aveva un qualche potere, maldestramente.

Cominciò l’accozzaglia delle opinioni e dell’agire, e ai timori si sostituirono retoriche improvvisate, artatamente false, forse solo per esorcizzare gli stessi  timori.

Ci furono gli agricoltori e le loro associazioni che si opposero agli abbattimenti. Ci furono manifestazioni con blocchi stradali.

E fu confusione,  già molto diffusa e consueta nella babele contemporanea.

La xylella fastidiosa è uno dei fitobatteri  più pericolosi al mondo che provoca la morte delle piante infette. E non solo degli ulivi!

 

EVOCANDO. Al  mattino, presto, si tagliavano ramoscelli per la benedizione e così rinnovare annualmente la pace e la protezione nelle case, e nei campi.

E ci fu chi dipinse un ramoscello nel becco di una colomba in volo (Picasso).

Qualcuno s‘è dato appuntamento sotto quell’albero, altri hanno visto le stelle sdraiati, e abbracciati, sotto rami già carichi di frutti.

C’è chi ha pianto sommessamente, tra quegli ulivi, nella sempre viva memoria del genitore e della genitrice che gli han dato vita, proprietà e rispetto per piante, animali, uomini e donne.

E in tanti hanno giocato tra quelle piante, nascondendosi, arrampicandosi per vedere  lontano, forse anche il mare.

Si poteva trovare riparo, seppure solo momentaneo, dalla pioggia scrosciante.

Qualcuno s’è fatto una fionda, elastica e precisa, con un ramo a forcina.

Qualcuno, da bambino, ha fatto girotondo mano nella mano ai compagni di giochi provando a provare ad abbracciare quel tronco dell’olivo secolare, grande, nodoso, gibboso, pieno di cavità misteriose!

Qualcuno ha dimenticato un brutto sogno  provando a disegnare  uno di quei tronchi che narrano, muti, di tempo, meraviglie, fiabe e oscuri abitanti.

 

AMPUTARE. C’è stato chi propose un piano d’intervento alla maniera d’esperienza: il medico pietoso fa la piaga verminosa. E allora tagliare, recidere, dividere, circoscrivere. Si! Dividere, separare tra ulivi infettati e, per un certo raggio, espiantare anche piante ancora non “toccate”. Come tenere lontana la cancrena, come igienizzare il territorio. E’ come scavare una trincea taglia fuoco o un canale di scarico. Ebbe risalto anche una ipotesi radicale: tagliare da Jonio ad Adriatico creando così una fascia immune. Il rimedio parve eccessivo, inattuale? O sarebbe stato necessario?

E l’Europa? La normativa europea indicava la creazione di “zone cuscinetto” per evitare la diffusione, perché non dilagasse.

E la Politica? Ci risiamo: più che responsabile  è distratta, presa da dichiarazioni e presenzialismo. Inaugura ora qui, poi da un’altra parte. E spende, anzi  qualcuno dice che butta soldi di tutti nelle tasche di pochi.

Chi ha responsabilità del bene comune, chi agisce in scienza e coscienza, deve prendere decisioni. Cosa si è scelto tra la riduzione  del rischio e  troncarlo alla radice?

Qualcuno stimò l’avanzata della diffusione: 20 km. all’anno.

20 chilometri all’anno, cioè 200 ettari in linea!

Quanti paesi stanno in 20 km.? Quante piante stanno in 20 chilometri? Quanto largo era il fronte d’avanzamento? Quanti Comuni, quanta coltura d’olivo in 20 chilometri del Parco dei Paduli?

 

 

DELLE NOSTRE FACCENDE. La Commissione Eu impose misure di contenimento: rimozione delle piante infette e degli alberi circostanti per un raggio di 100 metri. Creazione, inoltre, di una  zona “cuscinetto” di 10 km, con costante monitoraggio.

Vi furono ricorsi al TAR del Lazio per impedire l’espianto e la Corte di Giustizia Europea fu interessata dai  ricorsi pregiudiziali sollevati dalla Magistratura amministrativa.

Nel 2018 l’Italia è stata deferita dalla Commissione Eu per non aver adeguatamente impedito l’ulteriore diffusione del batterio alla stessa corte lussemburghese.

Settembre 2019: la Corte di Giustizia Europea richiama un’altra volta l’Italia ad adempiere all’obbligo di eradicare le piante infette e monitorare costantemente il territorio.

Un Ministro della Repubblica dice che oramai i campi sono diventati cimiteri!

E c’erano già stati oppositori d’ogni interesse e di variopinte casacche. I “Verdi” contro gli espianti, le “brigate dei poeti rivoluzionari” (sezione Puglia) che poetavano generosi declamando alle piante, i soliti imbroglioni che truccando le carte gridavano alla cospirazione di oscuri interessi delle multinazionali, piccoli medi e grandi proprietari di uliveti che, non si sa mai, speravano in qualche vantaggio.

IN POCHI ANNI da Lecce a Brindisi, dapprima nella sola zona di  Squinzano, poi …. Adesso tutto è andato, ammalorato, devastato.

Gallipoli, Aradeo, dall’altura di Minervino, dalle serre di Alessano, di Presicce, di Taviano,   … davanti, a dritta e a manca, a distesa è colore che sembra  già cenere.

E avanza! E dopo le campagne di Brindisi e Taranto ora nelle campagne a sud di Bari, verso la Valle d’Itria.

E  oramai molte piante secolari infettate. Si dice: oltre 20 milioni di piante infette, perdite di valore del patrimonio olivetato di 1,6  miliardi!

Errori, incertezze, scaricabarile e l’Arif (Agenzia Regionale attività Irrigue e Forestali) di nuovo senza guida?

CHE NE SARÀ?

Ora è catastrofe? Capovolgimento! Lu mundu si vota a cappieddu!(Il mondo si rovescia, in mal/ora ?).

 

MEMORIA. Ma non c’era stata solo pochi anni addietro l’esperienza, anch’essa rapida e violenta, del punteruolo rosso che aveva disseccato le palme dei lungomari, dei giardini pubblici, delle campagne, delle ville?  Anche allora erano “mutati” i paesaggi, le “quinte” urbane a decoro e frescura, i segni della estesa e comune  mediterraneità? Già c’era stata questa esperienza: ma non siamo più in grado cognitivamente di far tesoro dei dati di realtà, dell’esperienza, di come le cose possono cambiare. Di male  in peggio?

 

 

QUALCUNO gira su internet, ed è come smarrirsi cercando una notizia, una foto, qualcosa che possa evocare una speranza, una illusione cui, anche solo per poco, aggrapparsi come ad un alito di vento.

Qualcuno scorre mappe, foto dall’alto: nell’angoscia cerca frammenti, frammenti di rinascita?

Qualcuno consulta testi cosiddetti scientifici: ma nessun conforto, nessuna illusione.

 

LAVORO. Ma quanti erano i lavoratori, gli addetti al settore, quelli stagionali e quelli fissi? Diecimila? Ventimila? Forse erano più dell’Ilva?

Quanti ne sono rimasti? Quanti ne occorreranno per gli anni a venire?  Quante giornate lavorative si facevano nei campi, nei frantoi, nei negozi? E quante, tante non conteggiate ufficialmente.

Ci ricorda Tommaso Fiore: .. vengono poi gli olivicoltori, .. il Leccese da solo ha metà degli ulivi della Puglia, come questa un quarto dell’olio italiano ….

 

 

LI CUNTI. Ed erano tanti, belli, affascinanti li cunti del lavoro, delle potature, delle giornate dei raccolti: cunti infine della vita che rincuoravano durante le sere invernali.

Che gran da fare, e ce n’era per tutti. Per i piccoli, i nipoti, i proprietari, il fattore, la fattora. E poi cernere, scherzare, le fimmene, i canti, la pausa del “pane”, le allusioni, gli scherzi, le battute, gli sguardi, le promesse, le delusioni, il dire licenzioso, le gioie, la riconoscenza, la sudditanza, la spocchia,  l’ingenerosità.

Ma con la buona annata anche gli sponsali e, talora, sopraelevare la casa?

Fare festa, feste, cibarsi con abbondanza: guai a rovesciare olio sulla tavola. Tutto era un bene sudato, da non sprecare: la frugalità era rispetto e doverosa precauzione per cui  ringraziare il Signore.

Le filastrocche, le canzoni popolari …Sciamu sciamu mienzu li fiei / spezzandu rami mo de ulei (andiamo per i campi / spezzando rami di olivo – Lu santu Lazzaru, canto della settimana santa , zona grecanica ).

 

 

 

 

QUALCUNO preparava sotto l’albero un cerchio mondato da erbe e pietre.

Tanti facevano festa nei terreni, a fine raccolta, per la gioia dell’abbondanza e la fine della fatica.

Chi portava al frantoio i sacchi di olive aveva l’orgoglio sul volto che somigliava all’olio color d’oro.

Ci si incantava della fioritura.

Qualcuno ha tracciato sul campo i filari, piantando e accudendo la pianta  legata al tutore.

Si  faceva un grande falò, dopo la potatura biennale.

Qualcuno raccoglieva la cenere e la spargeva  pel campo.

 

QUALCUNO ha invocato divinità nei pressi di un dolmen che ora e sotto l’ombra di un ulivo; e poi ha riposato.

Qualcuno ha dipinto ulivi alla maniera di Van Gogh, altri alla maniera di Manet?

Si portava il lutto, anche a vita. E ora cosa si farà?

Qualcuno metteva olive sotto sale e insaporiva le pucce; il cibo della fatica.

Qualcuno metteva olive sott’olio e insaporiva le focacce.

 

OGGI. Qualcuno ha spiantato con dolore sperando di salvare parte dell’oliveto.

E cosa vede? Cosa vedi?

Piante abbandonate, potate, stroncate, tagliate radicalmente, polloni in basso, erbacce, campi abbandonati, misto di verde, marrone, grigio,  sfilacciati, scombinati, mezzi in piedi, ciuffi, vuoti inquietanti   di quanto è rimasto:  un frame incontrollabile, tutto è abbandono!

Campi di monchi tronchi:  a distesa  relitti come lapidi,  simmetriche quali cimiteri di guerra.

Quel che erano tronchi, oggi  sono come fantasmi, i più a braccia levate, invocanti.

Disseccano! Stanno li come “esercito di terracotta”, per nessuna guerra da combattere?

Dov’è andata l’amica campagna? Era generosa, era  lussuriosa: da amare, da rispettare, da lasciare in eredità.

Cosa daremo in eredità? Quali saranno i “valori” a venire? (Angoscia un poco questo  scenario, oppure no?)

Che ne sarà? … Legna da ardere? Incendieremo il mare?

Qualcuno prova con essenze (200.000 piantine di nuova cultivar) da non innestare su piante “vecchie”, ma impiantare ex novo.

Qualcuno, nel frattempo, produce simulacri di tronchi secolari, bianchi, in plastica; e quando è sera s’accendono nel giardino della bella villa!

Nel regno del tutto possibile ogni oggetto, come ente, mangia il senso. Ed è la consacrazione dell’inutile, dell’io stupidamente impavido che con l’agire fa danni a sé e agli altri (C.M.Cipolla).

 

QUALCUNO, sgomento, osserva d’appresso quelle piante secolari ripiantate lungo la statale, dopo essere state accudite, protette, numerate e curate dopo l’espianto per   agevolare l’allargamento della carreggiata.  A guardarle ora ecco che riappare, come dolorosa, il segno del comune destino:  mors immortalis.

C’è chi prova  a immaginare i numerosi ulivi secolari spiantati, prima della “protezione” per legge,  e ripiantati negli ultimi anni nei giardini delle ville lombarde e venete. Riesce ad immaginare il loro verde argenteo? Si chiede: saranno salve per via del distanziamento?

 

 

 

TORNARE AL SUD. Viaggiare di notte. Dal finestrino del treno, alle prime luci, vedere il  cielo azzurro, campo giallo, per la pianura deserta, sta camminando un olivo, un solo olivo (F.G.Lorca).

E così  riconoscere casa, trovarsi e ritrovarsi  a casa. Ritrovare i portoni di colore di verde.

 

 

 

L’OLIVO HA QUALCOSA DI SACRO. L’olio, sua epifania, alimenta la lampada che  consente, nella notte,  di vedere la luce; nutre i corpi degli atleti nell’Olimpia; lenisce ferite e piaghe dei combattenti; con il segno  di croce sulla fronte  annuncia alla vita nel battesimo e conferma gli infermi nella grazia di Dio  al momento del distacco da essa; nutrimento del corpo e della mente nella tradizione Ayurvedica; è popolarmente riferito come  “olio santo” in minestre e pietanze; è Atena che protegge gli olivi?

Laudato sia l’olivo nel mattino, esclamava San Francesco.

Sul Monte degli olivi, a Gerusalemme, è l’albero della vita: lega l’aldiquà con l’aldilà. E’ unione della carne con lo spirito.

La colomba, nel becco il ramoscello d’olivo,  annunciò a Noè la fine del diluvio, e iniziò la buona vita.

E con i ramoscelli d’olivo fu salutato un profeta d’amore e dolore, che entrava a Gerusalemme.

E’ su coste  e campagne del mare nostrum,  ed è noto che il Mediterraneo arriva  fin dove cresce l’olivo… l’oliva non è solo un frutto, è anche una reliquia (Matvejevic).

Ovunque nel Mediterraneo si ritrova la stessa trinità: il grano, l’olivo e la vite, la medesima vittoria degli uomini sull’ambiente fisico (Braudel).

…da sola alle piante offre umore bastevole la terra se aperta con un dente adunco, e se arata con il vomere darà frutti pesanti. Perciò fai crescere il pingue olivo caro alla Pace (Virgilio, Georgiche).

Dal Corano, Sura XXIV: Dio è la luce simile a quella di una lampada collocata in una nicchia, in un vaso di cristallo e accesa grazie a un albero benedetto, un olivo che non sta a oriente né a occidente. Nell’Islam, l’olivo,  è l’albero cosmico per eccellenza.

Sicut oliva in fidelitate domini , come un ulivo nella fedeltà del Signore-Salmo 51 (motto di vescovo pugliese).

Colui che coltiva i campi, coltiva la santità; colui che coltiva le leggi della natura coltiva la santità; colui che coltiva la religione della natura coltiva la santità (T.Fiore,  Un popolo di formiche).

1947: stella a 5 raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota d’acciaio dentata, tra due rami di olivo e quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale  Repubblica Italiana.

 

OLIO. Olio lampante, per rischiarare i giorni brevi dell’inverno. Olio lampante per orientarsi, e scavare, in gallerie tufacee gli acquedotti dei tempi remoti. Olio lampante per copiare e ricopiare manoscritti, cantilenare i testi classici, abitare grotte da rifugiato. Olio lampante per tenersi accesa la speranza, su altari di fede. Partivano dai nostri porti vascelli carichi di otri, e talora il trasporto non aveva buon esito.

Qualcuno ha fatto dell’olio poesia. L’olio della poesia che da anni festeggia in una sera d’estate a Serrano un poeta, omaggiato con un quintale d’olio extravergine. E abbiamo udito versi, visto occhi che vedono lontano, artifex  pazienti e visionari che ringraziamo ancora una volta.

Olio, chiamato oro del Salento. E la frisa, la frisella, il pane dei Crociati,  la paximadia dei manioti,  lu biscuettu? Il mondo gira con l’olio della pazienza, ci ricorda Saramago, e tutto potrebbe andare liscio come l’olio! Se poi è ogliu di prima stringitora… (il miglior olio  è la cosiddetta lacrima, sic!).

 

 

 

 

QUALCUNO proporrà un giorno ed una notte di lutto? Quando avvertiremo che siamo in un lutto che durerà giorni, mesi, anni? Non c’è una crisi di presenza, dopo il lutto, come descritta da De Martino?

Cos’è il deserto chiede qualcuno; cos’è questo deserto ci chiederà una bambina, non trovando il colore per colorare?

Qualcuno proporrà un sacrario dove si potrà in silenzio sostare? Dove si potrà reimparare quanto noi stessi siamo natura naturans?

L’imperio del regno della quantità è stata la sola misura dell’homo economicus, e lo sarà ancora? L’utilità a quale  benessere può ancora legarsi?

 

QUALCUNO s’immagina un campo di tronchi, oramai senza vita, dipinti di rosso sangue: il bosco della vergogna?

Altri s’immagina dipinti di bianca calce: il campo dei sepolcri imbiancati?

E chi s’immagina ancor più dell’attuale desolazione e sgomento! Macerie!

Cosa scriverebbero quei viaggiatori dei secoli scorsi che ci hanno descritto il loro incantamento dinnanzi alla rigogliosa campagna? Cosa scriviamo, noi ora? Necrologi?

 

 

Rimedi miracolosi hanno provato il contadino e lo scienziato, come  contro la peste. Affidarsi al magico: potere della volontà o delle forze naturali e cosmiche,  entrambe imperscrutabili?

Siamo nella Macondo dei sensi, e dei nervi? Cos’è questo Sud?

 

L’ulivo non soffre la sete, gli uomini si (si diceva).

Gli ulivi hanno fusti irregolari, spesso contorti, dalla corteccia grigia. Il legno è durissimo e garantisce una perfetta levigatura (e qualche artigiano ritrova, nelle contorte e variamente colorate linee di fibre e nodi, immagini antropomorfe, zoomorfe e oggetti d’uso quotidiano e di fantasia). Li liuni (pezzi grossi e nodosi del tronco d’ulivo) alimentavano tutta la notte il fuoco nel camino.

Qualcuno, pochi, ha in masseria le vecchie macchine dei lavori. Abbandonate, tra ragnatele e polvere giacciono come simulacri di “come eravamo”. Reti, scuotitori, marchingegni per la raccolta e cernita oramai avevano sostituito donne e uomini, e i rumori d’ingranaggi al posto dei canti della passione e agli sfottò.

Quelli che un tempo erano, anche labirintici, frantoi ipogei sostituiti da moderni frantoi d’acciaio  dai riflessi  come stelle. Frantoi d’acciaio, efficienti,  fascinosi ma oramai smontati e rivenduti a popoli lontani.

E i frantoi ipogei? Buoni solo per presepi viventi o centri benessere.

 

Si era come fatti anche di creta d’ulivo, insieme all’inebriante vino, al regale melograno? … divento ulivo e ruota d’un lento carro… immaginava Bodini danzando sotto la luna.

Dis Alitem Visum,   agli dei è parso altrimenti e oggi siamo lontani dagli astri e dalla grazia (dis-astro; dis-grazia)?

 

Vorremmo ri/cordare, rimettere nel cuore della memoria personale e collettiva. Il ricordo ha la duplice funzione di costruire dei significati utili sia all’individuo che ricorda, sia alla collettività di cui l’individuo è figlio e parte. O ancora siamo nell’illusione che non ci sia stata la cesura tra i mondi, del prima e dell’oggi,  e che gli effetti della modernità siano contingenti, temporanei?

 

Come ricorderemo l’Orto del Getsemani? Come luogo del tradimento e della notte?

Chi, cosa annuncerà la Buona Novella? I politici adesso, e spesso, in campagna elettorale?

 

No! Non voglio vederli. Dite alla luna che non venga nelle notti del chiaro di luna che non sarà  più possibile ammirare riflessi d’argento su rinsecchite foglie..

C’è stato un tempo di quando … scivolammo tra valli fiorite dove all’ulivo si abbraccia la vite (De André, Il sogno di Maria).

 

Tronchi di ulivi curvati, scarnificati dal vento, che soffia dal mare. Tronchi rugosi, contorti e scossi dagli anni come imperituri muti testimoni . Tronchi che inquietano, che come rocce bucate reggevano rami raggiati ai quattro venti.

Qualcuno dice, a proposito della torsione dei tronchi,  che han seguito la rotazione dell’emisfero nord della terra.

Chi narrerà più favole così?

 

Plinio  suggeriva ai naviganti che se altro modo non rimane di resistere alla tempesta, si vuotino (allora) barili d’olio intorno alla nave. Si placheranno le frustate dell’onde sui legni, si potrà forse trovare momentanea quiete.

Gli antichi, se nervosi, facevano bagni d’olio (Savinio, Nuova enciclopedia).

E adesso cosa faremo?

Dove ci siamo cacciati? Cosa abbiamo combinato? Perché è accaduto? Cosa sarà dopo?

Dove poggiamo i piedi? Per terra? E la testa, dove? Sbatte, oscilla, s’inerpica, reclina, fugge via, è muta, senza sguardo, né udito? Sempre da un’altra parte?

 

Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura  (Giovan Battista Vico, La Scienza Nuova).

 

C’è da Augurarselo! Torneranno le lucciole?

Fazz’a Diu! Fazz’a Diu?

 

                                                                                                                              SONNE

Luglio, 2020                                                                                               

 

SONNE, frequenta il Mediterraneo e dimora all’Hostal de Paris di Port Bou.

Dalla disfavola al fuoco

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di Romano A. Fiocchi

Kaha Mohamed Aden, Dalmar. La disfavola degli elefanti, 2019, edizioni unicopli.

Marco Rovelli, La parte del fuoco, 2020, TerraRossa Edizioni.

Ci sono libri che càpitano in mano casualmente e casualmente si legano tra loro. Fanno “clic”, come dice Rovelli, e si incastrano l’uno nell’altro. Due autori diversi per cultura, due case editrici entrambe piccole ma diverse per impostazione editoriale, due storie che usano poetiche e linguaggi differenti, eppure due libri che collimano e si completano uno con l’altro quasi portassero impresso lo stesso marchio: la diversità. Sono convinto che se Kaha Mohamed Aden leggesse Marco Rovelli e viceversa, entrambi riconoscerebbero questo punto in comune.

Sono due libri che proiettano il lettore in un mondo di simboli. La Aden evoca gli orrori della guerra civile somala dei primi anni Novanta attraverso una favola dai toni duri, per adulti, con spiriti di animali morti in modo drammatico che chiedono giustizia, che non hanno pace finché la loro storia non viene alla luce. Lo fa partendo da una storia di migrazione: la fuga di un branco di elefanti dalla minaccia di una guerra e il loro approdo su un’isola abitata solo da orsi e api che si sono spartiti rigidamente il territorio. È una favola della memoria, una disfavola appunto, nell’accezione utopia-distopia favola-disfavola. Gli spiriti degli animali che popolano la foresta non hanno nulla di ecologista o di animalista, è tutta una metafora delle lotte per il potere, un po’ come nella orwelliana Fattoria degli animali. E anche gli spiriti “intrappolati in questo ginepraio di foresta” non sono concepiti come singoli fantasmi ma come l’insieme degli ultimi sentimenti espressi da tutti gli animali assassinati, una massa indistinta di pura rabbia rimasta in sospeso e che da tempo attende di essere liberata. L’allusione ai massacri somali tra i clan Hawiye e Darood è evidente. Altrettanto evidente è lo scopo del libro, che è poi lo stesso della foresta: “La foresta si limita a ospitare la rabbia che non aspetta altro di essere recepita nella storia dopo che si è riconosciuto, semmai c’è stato, il torto che l’ha creata”.

La Storia diventa allora disfavola, le metafore si accavallano in continuo, si fanno, come ho detto, parodie del mondo umano. Ci sono i giri d’affari della guerra, le armi leggere, le armi letali, i Fabbricatori dell’ordine mentale, il tutto narrato – per quanto la Aden scriva e parli perfettamente l’italiano – attraverso un linguaggio permeato di invenzioni semantiche, di frasi idiomatiche e modi di dire attinti dal linguaggio familiare e utilizzati senza che siano aderenti alle caratteristiche morfologiche dell’animale-personaggio (ad esempio l’ape regina che schiocca le dita). Ne nasce una prosa con forme e costrutti che sembrano non appartenerci e che l’editore ha deciso di lasciare così come sono – salvo alcuni interventi per esigenze di maggior chiarezza – proprio per mantenere “il profumo dell’Africa”.

Con Rovelli siamo invece in un’altra dimensione: mentre la Aden abbandona la cultura del Paese di adozione per lasciarsi guidare dal suo istinto africano – sicuramente più vicino alla natura – e si immedesima nello spirito di elefanti e orsi umanizzati, Rovelli si spoglia dei suoi pregiudizi di occidentale per vestire i panni di un immigrato africano e di una ragazza psichiatrica. Altro parallelo: come l’elefantino Dalmar della Aden stringe amicizia con l’orsetta Dritta, così l’immigrato clandestino di Rovelli, Karim, stringe amicizia con la giovane e benestante Elsa.

Ma anche Rovelli resta fedele al suo stile, mantiene il linguaggio del suo essere poeta e cantautore e alterna dialoghi di parlato che sembrano tratti da una sceneggiatura con passi di pura poesia: “Il tempo si mostra qui, nella sua assenza. E tu che guardi sei puro guardare”. Sino a includere brani musicali come testi di canzoni: “Scendete ancora, giù per il sentiero che dal castello arriva al mare, scendete quasi inerti, come minerali che scivolano perpendicolari al sole, che scivolano in basso per sfidarlo, a raccogliere la sfida dell’incandescenza, che i minerali trattengono presso di sé, racchiudendola senza sprigionarla, conservandola per l’eternità. Siete pietre nere, racchiuse nell’attesa, l’attesa dell’incandescenza, e l’incandescenza non attende niente. Poi vi sciogliete in fuoco, o forse metterete radici e vi distenderete in terra, o germinerete in vermi e butterete bellezza come un cadavere il grasso, ma non sarete acqua, questo no, non potrete mai essere acqua”.

C’è molta introspezione psicologica, un’analisi attenta sia delle fobie di Elsa, nate proprio dal suo ambiente familiare trincerato dietro la solidità economica (“Vivere in una fortezza fa crescere nella paura. E la paura produce una percezione del mondo diversa”), sia della saggezza di Karim, intriso di una visione filosofica che non è data solo dalle drammatiche esperienze di vita ma anche dalla sua cultura: Karim legge libri, cita Nagib Mahfuz e San Paolo, è un diverso tra i diversi, un immigrato speciale, di quelli che Elsa vorrebbe al posto di tanta gente che non è immigrata. Karim ha fiducia negli altri e ispira fiducia, è di una gentilezza che più nessuno conosce. Per questo Karim e Elsa sono così vicini, due facce della stessa medaglia. Entrambi vogliono le stesse cose, ossia giustizia, libertà, uguaglianza, un mondo migliore, fatto di persone vere. Elsa ne ha la netta percezione quando raggiunge Karim in Puglia, sceso per la raccolta dei pomodori: “Tutta questa campagna intorno è libertà, (Elsa) vede persone e non maschere, e non le importa se è una sua illusione, l’ennesima visione”.

῾Υποθῆβαι ἄνευ τειχῶν

1
di Daniele Ventre
Τῷ Αἰμυλίῳ Ουίλλᾳ ἀναθέμενον
1. πάντων μεταδειπνούντων τῶν ῾Υποθηβαίων
σχολὴν σπουδαίαν ἔχω
φάρμακα ἔδωκα κἄπιον
τὸ τῆς ἀορασίας ἄορ ἄοριστον ἐξὸν γεγονέναι
ἄνευ θηρευτῶν ἢ καὶ ἰχνευτῶν.
πάντῶν ἰχνῶν ἀγνώστων ὄντων
καὶ ἡ μετάσφιγξ μεταίνιγμα μεταινίσσουσα
τάς μετανθρωπίνας σκιὰς βορᾷ
ἄπαστον κἄσιτον τὸν γαστέρα ἔχουσα
μετὰ τὴν ἀμέγαρτον δαίτα
. . .
1. tutti al post-pasto i sub-tebani
io ho affannoso ozio
farmaci ne ho dati bevuti
la daga dell’inindagabile resta possibilmente indefinita
senza cacciatori o indagatori.
tutte le tracce non riconoscibili
la post-sfinge pospone post-enigmi
le post-umane ombre divora
rimanendo stomaco innutrito
digiuno
dopo il festino che non le si invidia
2
ἄξενα ξένια ξενοδόχοι ἄξενοι
φέρουσι τοῖς ξενίοις οἱ ῾Υποθηβαῖοι
τινὰ ζητοῦντες τῇ μετάσφιγγι δαῖτα δώσοντα
τινὰ ἐυρίσκοντες τὰ μεταινίγματα
σαφῶς ἀπομηνύσοντα
κοὔτινα χᾶριν ἔχοντες
ἴνα κτείνεισθαι ἐξειη.
Τούτῳ γὰρ τῷ τέλει ὅσοι ἥρωες·
ἵνα τεθναῶτες εἶεν.
. . .
inospite ospitalità
gli ospiti inospiti
agli ospiti stranieri offrono -da bravi sub-tebani-
cercano un x che darà banchetto
per la post-sfinge tentano di scoprire
uno che sveli chiaro i post-enigmi
senza mostrargli gratitudine
perché sia dato ucciderlo.
a questo cerchio di fine gli eroi:
perché restino morti
3.
Ἐν τοῖς ἄθλοις τοῖς ἐπὶ τοῦ ἀντιοιδίποδος
χείλιοι ἦμεν ἀθληταὶ
ἔχοντες δι’οὐδεμίαν αἰτίαν
οἴδηματα τοῖς ἀβεβαίοις ποσίν.
ἠλάλαξε δι’οὐδεμίαν νίκην
τὰ μετανθρώπινα ἀπόντα ζῶα
ἀμένηνα κάρηνα.
. . .
alle gare per l’anti-edipo
mille eravamo atleti
non avendo per alcuna ragione evidente
gonfi i piedi instabili.
giubilarono di nessuna vittoria
le postumane assenti forme di vita
teste senza sangue – senza forza
4.
ἐξετέθη ἐπὶ τὸ κάρηνον ὁ τὰ αἰνίγματα λύσων
ἡμεῖς τοῖς βένθεσι
ὑπορταρτάροικοι
. . .
fu esposto sulla cima quello che doveva
sciogliere enigmi
noi agli abissi
noi infero-locati
5.
ἄνευ τειχῶν οὗσαι῾Υποθῆβαι
μετὰ τὴν καταστροφὴν τῆς ἱλαροτραγῳδίας,
ἀνακόλουθα μετανθρώπινα ζῶα βαδίζει
ἄβατον ὁδὸν ἐν ἀμόρφῳ ἀτειχίστῳ πτολιέθρῳ
ἐν κακοναιομένοις μεγάροις κακοπήκτοις
ἡμιβιούντων σκιόεντα κάρηνα
κατακείομενα δι’ἀφώνῃς αἰθούσῃς
κοὐκ ἀοιδοὺς ἀκούει·
τὰ γὰρ δυσήκοα δαιτί
. . .
senza mura sub-Tebe
dopo la fine dell’ilarotragedia.
non sequitur post-umani viventi a passeggio
per non passeggiabile passo
nell’informe immurata città
per malabitati malfοndati abituri
teste d’ombra di mezzo-vivi
giacenti a dormire nei portici muti.
non ascoltano aedi
quella roba a pranzo è noiosa
6.
τὶ γάρ;
τὸ ἐρώτημα μένει
διὰ τὸν ἔρωτα μαίνεται
ματαῖος ἐραστὴς
ὁ μάτην ἐρωτῶν
ἧδε ἡ μετάσφιγξ
ποικιλῳδὸς
. . .
Insomma: che.
La domanda rimane.
Desiderio mania.
Matto amatore
chi matte domande pone.
Questa la varia cantrice:
Meta-sfinge.
7.
Σφιγγόζωστοι αἱ ῾Υποτῆβαι.
Τὰ ῾Υποθηβαῖα θηρία
Τείχη σκιοειδῆ
πάλιν καὶ πάλιν βορᾶται
αὐτὰ σκιόεντα ὄντα.
ἄλλοθι τἀνθρώπινα εἴδη
ὑπὸ ἥλιον ἀνιόντα βαδίζει.
γλαφυρὸν ἐνθάδε σπήλαιον.
κενοὶ λόγοι
οἱ περὶ τοῦ σπηλαίου
κενὴ ἱκετεία
κεινὴ ἴχνευσις
. . .
Sfingocinte le contrade di sub-tebe.
sub-tebane bestie
mura umbriformi
ancora e ancora vorano
esse in sé tessute d’ombra.
altrove forme umane
vanno sotto il sole sorto.
qui vuota caverna.
vuoti i discorsi
della caverna
vuota preghiera
quella traccia chiesta.
8.
θνητοὶ θνητοί εἰσιν
κλίσις τοῦ οὐδενὸς
κοὐδὲν πάνυ ἀθάνατον
πλὴν τοῦ ἄλλοθι
. . .
mortali mortali restano
declinazione in coda all’accento del nulla
e nulla è in tutto immortale
fuori dell’altrove
9.
κρίσις ἄνευ κριτηρίου αἱ ῾Υποθῆβαι
τὸ μεταίνιγμα αἰνίττεται
τῇ ποικίλῃ ἀφωνίᾳ
ἐν ταῖς στοαῖς ἀποικίλοι
ἃ τὰ μὲ ἐόντα ποικίλλει
οὑδεμίᾳ συγγραφίᾳ
τῶν προσώπων σκιοέντων
. . .
giudizio ingiudicato sub-Tebe
il post-enigma si varia
di varia afasia
nei portici senza dipinti
che i non enti dipingono
di nessun dipinto
di volti ombranti
. . .
10.
ἄνομον ἄμορφον ἄπολι πτολίεθρον
ἀπολειφθὲν ἄβροτον μείνει.
οὐκ ἄνοδοι ἡγοῦνται
ἐς τὸ ἄτοπον τἀνανθρώπινα
ὅθι μόνη μονὴ ἀνομία
ὅχλος θηρίων
ἀνδροφάγων Κυκλώπων
καὶ ἀγροιοτικῶν αἰγῶν
. . .
città senza legge senza forma senza città
abbandonanta senza gente resta.
non ritorni guidano
al non luogo i non umani
dove sola permanenza è l’assenza di norma
folla di bestie
ciclopi androfagi
e capre selvatiche

Trappola per lupi

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di Bruno Vallepiano

Isola di Kornati – Croazia – Luglio 2019

Sdraiato su un materassino giallo, con la schiena arsa dal sole e il viso immerso nell’acqua limpida stavo guardavo, annoiato, una miriade di minuscoli pesci che sfrecciavano sotto di me. Giocavo a quanto resistevo senza prendere fiato.
Il bagliore del sole spalmato sulla superficie dell’acqua ne esaltava il turchese e scendeva a riflettersi in tremolanti spicchi arcobaleno sui sassi bianchi distesi sul fondale. Ogni tanto, sollevavo lo sguardo verso la spiaggia semideserta cercando la macchia blu dell’asciugamano sul quale era distesa Ceci. Il bambino era accanto a lei e trafficava con la sabbia e con alcuni cubi di plastica colorata. Erano al centro della piccola caletta isolata, protetta su due lati dagli scogli e alle spalle da una fitta macchia mediterranea che finiva poi nell’ampia pineta di Beritnica. Poco più lontano si innalzava la torre di pietra di Stogaj dove nei giorni passati ero andato più volte ad arrampicare. Il nostro bimbo, Idris, era diventato, come Cecilia, bello e abbronzato, e sembrava davvero felice. Bastava guardarlo per capire che stava bene.
Gli avevamo affibbiato, con buona pace dei parenti, il nome di battaglia di uno zio partigiano ucciso dai nazisti.
Da tre settimane eravamo in pieno relax sulla spiaggia di Metajna. A dire il vero avevamo fatto delle puntatine verso l’interno girando, a volte, senza una meta precisa, altre invece puntando verso città da visitare, ma sempre senza imporci orari o tempi. Quando eravamo stufi di una cosa ci bastava un’occhiata e cambiavamo direzione, andando a fare altro.
Da un paio di giorni, però, Ceci manifestava una certa inquietudine e avevo capito che ormai era giunto il momento di puntare la prua verso casa, perché quella specie di Eden nel quale avevamo vissuto cominciava a sbiadire e sarebbe stato davvero un peccato inquinare la piacevolezza di quei momenti, con la noia e lo scazzo, che presto sarebbero stati in agguato, se avessimo forzato ancora la nostra permanenza lontani dalla vita di sempre.

Dopo molti giorni, erano tornati, nei nostri discorsi, pensieri rivolti alla nuova casa, o meglio quella che sarebbe diventata, da lì a un po’, la nostra nuova casa, ancora tutta all’aria. Erano riaffiorati i ricordi delle passeggiate nei boschi che sovrastano Gariola, delle nostre lunghe serate passate a chiacchierare con i nostri amici Paolo e Clotilde nel cortile della loro cascina, ormai lanciata come B&B, con turisti tedeschi ed olandesi che si avvicendavano nelle camere e ad abbuffarsi con le crostate e le altre golosità gastronomiche che Clotilde cucinava per loro. Addirittura, era comparsa la voglia di una serata a Cuneo, con gelato da Arione e passeggiata sotto i portici.

Era ora di tornare a casa. Che per il momento era ancora il piccolo alloggio di Ceci, diventato ancora più piccolo con l’arrivo del terzo incomodo e di un mucchio di cose affastellate ovunque.

Per questo avevamo iniziato a pensare ad una casa vera. In un primo tempo avevamo adocchiato un rustico a Gariola, visitato su suggerimento di Paolo. Sembrava fosse in vendita ad un prezzo abbordabile, ma quando il proprietario ci aveva visti interessati all’acquisto aveva cominciato a fare il difficile e la cifra iniziale era lievitata, così non avevamo concluso nulla, anche perché l’ultima volta che lo avevamo incontrato gli avevo detto, neppure troppo velatamente, che non mi piaceva essere preso per i fondelli.
Infatti, quando mi aveva identificato come “quello visto diverse volte sui giornali” a seguito del mio coinvolgimento in casi polizieschi che, quasi mio malgrado, avevo contribuito a risolvere, si era persuaso che grondassi soldi e quindi pensava di poter lucrare. Così la sua casa era rimasta a farsi divorare dall’edera e dalle ortiche. Peccato, perché mi sarebbe piaciuta.
La seconda opportunità era stata un altro rustico ma situato un po’ fuori paese, in direzione della vecchia miniera e, a prima vista, decisamente malmesso: il tetto era parzialmente sfondato, i serramenti marci e tutto intorno era cresciuta talmente tanta vegetazione da impedirne una vista d’insieme. Il proprietario era sembrato piuttosto deciso a liberarsene. Lui risiedeva fuori paese da molto tempo e non gli interessava più tenerla, inoltre non vedeva l’ora di finirla con le tasse che, nonostante tutto, doveva pagare. Ci aveva raccontato che gliel’avevano richiesta alcuni costruttori con l’intenzione di abbatterla e costruire al suo posto un condominio, ma la cosa non gli garbava. Per principio, diceva, non gliel’aveva venduta. Era la casa nella quale era nato e sapere che noi avremmo avuto intenzione di ristrutturarla mantenendola il più possibile fedele al progetto originale, era una soluzione che lo tranquillizzava maggiormente. Così aveva ingaggiato un boscaiolo e aveva fatto ripulire il terreno tutto intorno al vecchio edificio, estirpando rovi e alberi, e la casa, magicamente, era riapparsa. I muri erano solidi e sani ed era meno peggio di quanto ci fosse apparsa in un primo tempo. Per acquistarla avevo venduto il mio alloggio di Mondovì ed era iniziata la nostra avventura, ma la ristrutturazione era lenta e costosa ed io e Ceci dovevamo tenere a freno la nostra voglia di trasferirci, pur sperando che questo potesse avvenire prima dell’inverno.
Avevo quindi interrotto il mio improvvisato snorkeling, mi ero spinto a riva con questi pensieri in mente e avevo raggiunto Ceci e Idris sdraiandomi sul telo accanto a loro. Lui mi aveva mostrato orgoglioso il piccolo buco che aveva fatto nella sabbia dove aveva riposto alcuni cubetti di plastica e Ceci di era voltata verso di me e mi aveva baciato.
«Pensavo alla nostra nuova casa. Chissà se a quest’ora avranno finito di mettere su il tetto.»
«Anch’io mi domandavo la stessa cosa…»
Ci eravamo guardati per un attimo, poi le avevo chiesto «Torniamo?».
«Non osavo chiedertelo…»

 

NdR: questo è il primo capitolo di “Trappola per lupi”, di Bruno Vallepiano, pubblicato recentemente da Golem Edizioni, nella collana “Le Vespe”

Marco Giovenale: Le carte della casa

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«sa come funziona il movimento di annottare.

il magenta-blu che è negli sterri negli sbancamenti delle

vigne, dove è morta per trent’anni.»

 

Le carte della casa di Marco Giovenale è l’ottavo libro dei Cervi Volanti, la collana che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autore. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

NOTA DELL’AUTORE

Questo piccolo gruppo di testi è in tutto e per tutto un addendum al libro La casa esposta, uscito nel 2007. E nello stesso tempo lo precede, perché è costituito da foglietti accartocciati letteralmente nell’epicentro del caos-scasamento vissuto negli anni 2005 e 2006 (tempo che porta alla Casa esposta).

Nasce quindi direttamente come plaquette. Impossibile da accorpare ad una struttura più ampia. E tuttavia non in tutto disgiungibile da questa. I materiali sono handwritten, ossia non cut-ups né oggetti trovati. Come al solito, l’ispirazione non c’entra, sì la dissipazione, e anche qualche punta di disperazione, si può dire.

Alcune strutture elencative, così come – al contrario – certi meccanismi grafici o sintattici di sgretolamento testuale, potrebbero suggerire una riflessione sulla loro natura di possibili didascalie del disastro, vissuto abbandonando una dimora che in verità era pressoché una collezione di nonluoghi, hangar, un aeroporto, una città, una fabbrica di fabbriche. Però forse vale qui, semmai, una specie di contorta formula documentaria, o diario, probabilmente qualcosa che si avvicina al Ponge del “periodo che annuncia la primavera”. Senza primavera.

 

 

Marco Giovenale è inciampato nell’essere più di mezzo secolo fa, poi a fine anni Ottanta e poco oltre ha sondato alcuni percorsi politico-culturali di estrema sinistra; dopo, per quasi dieci anni (i Novanta), si è opportunamente tenuto lontano dall’ambiente romano della poesia; poesia che gli spiaceva perché llorona o sottoboschiva (o entrambe). Dopo il servizio civile si è laureato assai fuori corso in Letteratura italiana moderna e contemporanea (cattedra di Walter Pedullà), con una tesi su Roberto Roversi. Ha vissuto brevemente a Firenze, saltuariamente a Bologna: torna in queste due città (e in una terza) tutte le volte che può.

In dialogo con Nanni Balestrini, ha curato l’edizione 2005 di RomaPoesia. È stato tra i fondatori – e tutt’ora è redattore – di gammm.org (2006). È redattore e collaboratore di spazi web e cartacei italiani e anglofoni. Lavora come curatore indipendente, lettore per case editrici e singoli autori; è (stato?) traduttore dall’inglese. Ha diligentemente svolto per dieci anni il mestiere di libraio, ogni tanto ci ricasca; mentre in tempi più remoti  (i Novanta di cui sopra) ha lavorato in un centro di assistenza per rifugiati politici.

Tiene corsi di storia della poesia di secondo Novecento e delle scritture contemporanee, come docente indipendente (tre anni presso l’Upter, anche, sempre a Roma). Svolge attività per il Centro di poesia e scritture contemporanee che nel 2018-19 ha contribuito a fondare. Dal 2013 cura la collana SYN – scritture di ricerca per le edizioni IkonaLíber.

Il suo ‘primo’ libro di versi, Curvature, a due mani con la fotografa Francesca Vitale, è uscito nel 2002 per La camera verde, con prefazione di Giuliano Mesa. Dopo ha scritto ancora parecchie poesie o cose simili (l’elenco dei libri si cattura facilmente in rete).

In prosa: Numeri primi (Arcipelago, 2006), Quasi tutti (Polìmata, 2010; edizione definitiva: Miraggi, 2018), Lie lie (La camera verde, 2010), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Le carte della casa (Edizioni volatili, 2020). In lingua inglese: a gunless tea (Dusie, 2007), CDK (T.A.P., 2009), Anachromisms (Ahsahta Press, 2014); e il ‘found text’ White While (Gauss PDF, 2014).

Il suo sito principale è slowforward.net. Escogitazioni grafiche varie in differx.tumblr.com.

 

Immaginare la fine. Nota su Trilogia della catastrofe

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di Francesca Matteoni

Come il libro di cui mi accingo a scrivere anche il titolo di questa recensione non è da interpretare alla lettera, ma da tenere a mente come una possibile linea guida. La Trilogia della catastrofe, libro inusuale voluto e pubblicato da effequ (i cui editori hanno una parte attiva nel testo, di cui firmano la premessa quale incipit programmatico), e scandito attorno alla catastrofe etimologicamente intesa quale rovesciamento di uno status quo, e suddiviso in tre movimenti: principio, durante, fine. Per parlare di catastrofe o immaginare la fine quindi editori e scrittori decidono in assoluta controtendenza di non affrontare direttamente il presente, le sue cause immediate e i probabili sviluppi, concentrandosi sulle varie crisi che interessano la nostra epoca (politica, economica, culturale e infine, punta dell’iceberg che molti si ostinano a non vedere, climatico-ambientale), ma allargando la prospettiva al nostro rapporto con la Storia o la sua invenzione, con la memoria e con la morte stessa.  Così Emmanuela Carbé nel primo saggio, “L’inizio degli inizi” ci porta indietro in un singolare congresso di Vienna in cui si decide non solo, come si è sempre creduto, dell’assetto delle nazioni, ma ci si spinge nel tempo con l’istituzione di un “comitato per l’immaginazione e la rappresentazione del mondo”, determinandone quindi le opere dei filosofi e dei poeti trascorsi, le invenzioni, la preistoria quasi azzardando l’origine del tutto. Ovvero l’autrice ipotizza il 1814 come punto sorgivo della Storia occidentale, poiché se catastrofe è ribaltamento, allora può anche essere un crocevia in cui resta aperto l’interrogativo sulla realtà quale mescolanza di conoscenza, immaginazione e manipolazione, in cui nessun fatto è mai veramente se stesso. Carbé utilizza Calvino e la sua indiscutibile sentenza: “le fiabe sono vere”, per condurci dentro la rocambolesca conferenza viennese. Quanto sembra suggerire l’autrice è che la storia è una questione di credo, infine: si crede a chi la racconta meglio o a chi ha le capacità per raccontarla, finché con un gioco letterario qualcuno viene a scompigliare le carte, tiene i nomi e cambia il senso. In quale mondo abbiamo dunque deciso di vivere? A chi affideremo le nostre narrazioni? E, questione spinosa per ogni storico o letterato, chi parla per l’oppresso e fino a che punto è genuino? Carbé conclude con degli appunti che certifichino ancora il suo “essere umano”, “in vista del passato, o del presente, o del futuro”, ed è lì che si apre una via di fuga o d’entrata nel garbuglio delle storie. Una lista di cose amate – azioni, artisti, visioni, capaci di tenerci nel mondo oltre ogni tempo fittizio e fallace.

Lista che ci prepara per la seconda catastrofe, stavolta nella sua dimensione disastrosa, nel reportage narrativo di Jacopo La Forgia, “Costruire il risveglio” che si muove nella contemporaneità per documentare la strage, e il suo occultamento, di circa cinquecentomila comunisti in Indonesia nel 1965. Si tratta di un viaggio non in un passato da inventare, ma nella memoria negata, che si riaccende a incrinare gli effetti propagandistici di un certo potere. Gli incontri sono tutti tasselli di un trauma, perché tale è il risveglio, contro le bugie dentro cui i più giovani sono cresciuti, per paura, per difficoltà e vergogna nel confrontarsi. In tutta la narrazione, oltre al racconto di vittime e carnefici, aleggia infatti l’ambiguità  su cosa sia giusto, cosa sia da salvaguardare, cosa da denunciare, se la morte dei cari sia il segno di colpe familiari contro la collettività o sia invece il grido contro l’ingiustizia. Tutte cose che sappiamo, certo, che crediamo di aver imparato, eppure La Forgia ben sottolinea che a volte bisogna andare là, ovunque sia questa lontananza, per avvicinarsi al semplice dubbio sulla giustizia e al nostro ruolo in lei. Ogni allontanamento alla ricerca di un vero scomodo può mutarsi in una riappropriazione delle proprie fratture e in un annullamento dei confini che rende l’altro umano familiare. “Uno dei motivi per cui ho fatto questo viaggio è perché parte della mia famiglia è stata uccisa durante la Shoah”, scrive verso la conclusione l’autore. “Ora mi sento a Jakarta, ma anche a Dachau”.  Mi sembra che questo sia l’approccio più onesto alla realtà: trovare il punto in cui ci riguarda. In cui gli anticorpi contro il male che gli umani infliggono ad altri umani coincidono con la resa alla sua esistenza ineludibile.

Anticorpi, resa. Sono le due parole che traghettano nello scritto finale “Gestire la morte”, saggio divulgativo di Francesco D’Isa dove la catastrofe che si fa dramma e lutto. Come gli altri l’autore adotta la prima persona e lo fa mostrando l’inadeguatezza corale nel fronteggiare il guaio in cui ci siamo cacciati: il surriscaldamento globale, il destino tragico a cui abbiamo condannato molte specie viventi, noi inclusi. “Per evitare di accanirmi sulla pagliuzza nel tuo occhio dunque, lascia che ti dica com’è fastidiosa la trave nel mio”. Passando per le abitudini personali, la fondamentale questione del dolore animale non riducibile solo alle scelte alimentari, la rivoluzione tecnologica e le sue conseguenze e la cultura del consumo, D’Isa ci conduce verso il problema dietro e oltre l’incubo ambientale: il nostro rapporto con la morte e la sua mancata gestione.  “Mangiare molta carne, valutare le situazioni quasi solo a breve termine, non mettere in dubbio i propri desideri, cercare soddisfazioni immediate, accumulare un potere eccessivo, non sono che degli esempi alla cui radice c’è un unico, stentoreo comandamento, declinato in mille comportamenti spesso contraddittori: evita – la – morte”.

Si tratta ancora di prossimità: per comprendere come curare il nostro unico pianeta, non serve a molto aprire un dialogo sui massimi sistemi, disegnando scenari perfino apocalittici, ma di una portata insostenibile per le vicende del singolo e delle comunità. Servirebbe invece concepire il nostro coinvolgimento in tutto questo: dopo la narrazione o lo smantellamento del passato più congeniale, dopo la fatica della memoria, occorre che si dica di nuovo io davanti all’essere mortale e che questo io sappia che è sua la morte che guarda, anche attraverso l’occhio di un altro essere. D’Isa non nomina la nostra natura fallimentare come autoassoluzione in attesa di un improbabile  “manipolo di coraggiosi” che metta tutto a posto: al contrario ci chiama al cambiamento della nostra indole più antica, ma non innata. Perché questo avvenga bisogna recuperare la parola per dirci che stiamo sentendo male. Non l’albero, non il pollo d’allevamento, non un popolo remoto nella giungla, non la costa quasi sommersa di un qualche paese fantastico. Noi. Tutti.

Per non confondere realtà e pregiudizio: una riflessione sulle ripercussioni del populismo culturale

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di Matteo Bianchi

A te che soltanto puoi capire:
È come quando gridi “scusa”
E lo ripeti
Da fondo campo
Per i colpi duri fuori di battuta.

F. Buffoni

 

Un paio di settimane fa, in largo su “Il Fatto Quotidiano”, Patrizia Valduga attaccava senza riserve il mancato riconoscimento degli intellettuali odierni e di conseguenza il decadimento del loro ruolo, quasi che il populismo culturale corrisponda all’inconsistenza di quello politico, quello delle boutade dei Salvini, Renzi e Di Maio di turno, che paiono più dei PR avveduti che degli amministratori pubblici. Dunque abbasso i parolai sgargianti e lunga vita ai dotti? Può darsi, ma è d’obbligo essere precisi nella dissertazione. Scorrendo l’articolo in questione il lettore potrebbe pensare “meglio tardi che mai” da parte di una poetessa avvezza a un situazione editoriale controversa, spesso soggetta a rapporti di forza e favoritismi coatti. Ma poi riaffiora l’annosa polemica circa la stanca dicotomia tra cultura “alta” e cultura “bassa”, o tra i dignitari del canone e il detestabile pop. Polemiche estive che aiutano i giornali ad andare in stampa e gli studenti distesi a tenere gli occhi aperti? Ci si domanda quanto valga insistere su una diatriba ormai calcificata, che non tiene conto di tante felici ibridazioni e degli studi consolidati da anni.

Adriano Spatola: il testo è un oggetto vivente

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«A trent’anni dalla scomparsa di Adriano Spatola tante conquiste sono state ormai acquisite e ben digerite dai media. La scrittura verbo-visuale non fa più rumore. Tantomeno scandalizza. Basti pensare alle acrobazie tecnicamente impeccabili della pubblicità televisiva. Ma la lezione di Spatola ci mette in guardia e ci indica che le strade percorribili ancora oggi sono quelle caratterizzate dal forte atteggiamento critico, quelle che considerino a pieno la materialità del linguaggio, che sfuggano alle limitazioni del mercato, che sappiano ben distinguere tra multimedialità e intermedialità, che garantiscano sempre un’alternativa al sistema linguistico istituzionale, nel senso che sappiano costruire il linguaggio, così come diceva Max Bense: “Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”».

Così si conclude Guarda come il testo si serve del corpo, l’introduzione che Giovanni Fontana ha dedicato alla ristampa di tutta l’Opera poetica di Adriano Spatola, da lui curata per [dia•foria. Negli ultimi decenni la “grande” editoria non ha fatto altro che scongiurare la peste dell’informe, riparandosi in un mestiere della cancellazione per cui la letteratura sperimentale della seconda metà del secolo scorso non è di fatto esistita, se non come concrezione o come quanto minaccia di riapparire: il verificarsi dell’inverificabile, qualcosa a cui non si può che continuare a dare la morte per impedirne il ripetersi. Accogliamo dunque con gioia questa ripubblicazione che -insieme alle recenti ristampe di autori come Emilio Villa e Corrado Costa– manifesta un ritrovato interesse per quella poesia che si è posta sempre al di là di ogni presa di potere, e che proprio per questo rappresenta ancora oggi un’indicazione primaria su quella che deve essere la vitalità del fare poetico.

***

Ospito qui una raccolta di estratti dal libro, per gentile concessione dell’editore.

 

 

da L’Ebreo Negro

(Scheiwiller-All’insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1966)

 

5.

e ripetere il mito della creazione

gettare gli uomini dietro le spalle perché si tramutino in pietre

il sacerdote prega il seme divino (energia)

(sole) semen encefalo d’ogni forma di vita

tempo (fuoco) causa divina (vis viva) ameba eterno nel nucleo che si scinde

universi bruciati e ricreati – molteplici nell’uno del ripetersi (actus)

(energia) materia assunta alla città di dio

pòlio costante d’ogni protoplasma

signore del negativo e del positivo del numeratore e del denominatore della parte e del tutto

(ovum) basterà uno scatto per PROLIFICARE

(semen) fecondazione (fission) nel tuo corpo concepirai

(i nuclei avranno massa totale inferiore all’originaria)

fission fecondazione le mani dell’uomo riproducono dio (l’ovum si scinde)

aria fuoco luce (sole che adorano)

 

 

da Majakovskiiiiiiij

( Geiger, Torino, 1971)

 

3.

ma il testo è un oggetto vivente fornito di chiavi

la cruda resezione il suo effetto l’incredibile osmosi

è questo il momento che aspetti comincia a tagliare

guarda come si tende e si gonfia sta per scoppiare

è l’immatura anaconda si morde la coda strisciando

odore della palude odore coniato da fiato di fango

un libro un quaderno una penna un desiderio indolore

senza parole

 

 

da Algoritmo

(Geiger, Torino, 1973)

da Diversi Accorgimenti

 (Geiger, Rivalba, 1975)

 

3.

Democrazia una parola

ovviamente trascurabile origine

scopertamente risibile

e irrisibile il peso della menzogna

la confessione riconducibile alle radici

precaria amarezza

o teodulia.

 

4.

Democrazia una parola

dubbiosamente sconfessabile

felicemente confermabile

e riconfermabile la prognosi esatta

la delazione

riducibile alla più breve distanza

planetaria misericordia

o teologia.

 

 

da La piegatura del foglio

(Guida, Napoli, 1983)

 

9. Settembre, forse

 

Il teatro si chiude al tramonto nell’autopsia

è un terriccio cosparso di scaglie di limatura

radiazioni cromatiche di un’oratoria eccessiva

qualcosa di magnetico e fulvo sopra l’intonaco

esalazione fumosa stagnante e combustibile

come un odore di sottobosco un po’ marcescibile

così aromatico e greve così gradevole al fiuto

dell’animale insediato nella propria goffaggine

parlo dell’animale che ride con un po’ di malore

delle sue uova avvolte in un sudario di lino

sono cellule immerse in un vino scontroso

intenerito per le vere verità che verranno

in settembre il nono mese dell’anno

 

 

da Altri Testi

(In Giuliano Della Casa, Alfabeto, Geiger, Torino, 1973)

 

Alfabeto

 

Arcobaleno sopra la limpida

Balestra sospesa sulla porta sulla

Capsula saldata proprio al centro il

Domicilio dell’alfabeto la pronuncia dell’

Enunciata parola o la

Figura esattamente contornata nel

Geroglifico scolpito nell’intonaco:

Ha trascritto e riscritto l’

Imboccatura bianca e nera del

Labirinto la specie labile del

Mondo abitabile disabitato nella

Negazione assoluta nella nozione astratta l’

Organismo sillabico il singolo

Palpabile oggetto leggibile sulla carta

Quadrettata da sinistra verso destra nella

Radice chiara del

Segno

Taglio

Ultrasuono

Visibile

Zeta

 

 

Adriano Spatola col figlio Riccardo

 

Mots-clés__Mani

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Pol Rab (illustrateur) by Germaine Krull, 1930 © Estate Germaine Krull, Museum Folkwang, Essen

 

Mani
di Giulia Scuro

Mozart, Don Giovanni, “Là ci darem la mano” -> play

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Pol Rab (illustrateur) by Germaine Krull, 1930 © Estate Germaine Krull, Museum Folkwang, Essen

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Da Stendhal, Il rosso e il nero, trad. Alberto Cappi, Newton, 2014

Entrando quella sera in giardino, Julien era disposto a occuparsi delle idee delle belle cugine. Esse lo aspettavano impazienti. Occupò il suo solito posto, a fianco alla Rênal. L’oscurità divenne in breve profonda. Egli volle prendere una bianca mano che da un pezzo vedeva lì vicina, appoggiata al dosso d’una sedia. Ci fu qualche esitazione, ma finalmente la mano fu ritirata con un atto che rivelava un po’ di malumore. Julien era disposto a tenerselo per detto, e a continuare gaiamente a conversare, quando sentì che il signor Rênal si avvicinava.
Julien aveva ancora nelle orecchie le grossolane parole della mattina.
– Non sarebbe – si disse – un modo di burlarmi di quest’uomo, così favorito in ogni modo dalla fortuna, l’impossessarmi della mano di sua moglie, appunto in presenza di lui? Sì, lo farò, io, per cui egli ha mostrato tanto disprezzo.
Da questo istante la calma, così poco naturale all’indole di Julien, se n’andò subito: egli desiderò ansiosamente, e senza poter pensare ad altro, che Louise volesse lasciargli la mano.
Il Rênal discorreva irosamente di politica: due o tre industriali di Verrières stavano facendo migliori affari di lui, e volevano opporglisi nelle elezioni. La Derville lo ascoltava. Julien, irritato dai quei discorsi, accostò la propria sedia a quella della Rênal. L’oscurità nascondeva tutti i suoi movimenti. Osò posare la mano molto vicino al bel braccio che l’abito lasciava scoperto. Fu turbato, il suo pensiero non fu più suo; accostò la guancia a quel bel braccio, osò appoggiarvi le labbra.
La signora fremette. Il marito era a quattro passi; ella s’affrettò di dare la mano a Julien, e insieme a respingerlo alquanto.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

L’autunno in Sardegna di Ernst Jünger

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Maria Chiara Pruna - "Zona d’ombra", 2011 - 60×120 acrilico su tela

Per i tipi di Le Lettere è uscito da poco Un autunno in Sardegna di Ernst Jünger, a cura di Mario Bosincu. Dei tre testi raccolti nel volume pubblico l’incipit del primo, intitolato San Pietro. [ot]

Maria Chiara Pruna – “Zona d’ombra”, 2011 – 60×120 acrilico su tela

di Ernst Jünger
traduzione di Mario Bosincu

Si possono raccontare molte cose sulle isole, ed è più facile iniziare che finire. Ricordo di aver parlato una volta con un giovane amico che pensava di scrivere una monografia intitolata L’isola. Dovetti dissuaderlo dal farlo, poiché l’argomento è così vasto che può dare filo da torcere a intere società di eruditi. Non sono isole solo quelle che appaiono come sabbia sul mare, ma tutto è isola, anche i continenti, e la terra stessa è un’isoletta nel mare di etere.

Ecco, forse, perché l’isola ci dà da riflettere non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi; essa rientra nel novero delle grandi immagini oniriche. Il desiderio di Sancio Panza di divenire il governatore di un’isola è un desiderio comune tra gli uomini; ognuno l’ha avuto dopo aver conosciuto la storia di Robinson. «Ci si dovrebbe ritirare su di un’isola». Insel, insula, isola, Eiland – sono parole usate per indicare qualcosa di segreto e compiuto. Suscitano l’idea di ciò che è proprio e della proprietà.

Se da una nave vediamo profilarsi all’orizzonte un’isola – l’abbiamo scambiata, dapprima, per un ammasso di nuvole, poi sono emerse lentamente le cime, le scogliere e l’anello dei frangiflutti – ci afferra la speranza. Quando la rivediamo scomparire e confondersi con la foschia, cadiamo in preda alla tristezza e ad una nostalgia dal carattere indefinito.

Si dice che le isole abbiamo avuto un ruolo particolare nella vita di Napoleone, perché, nato su un’isola, fu vinto da un’isola e morì su un’isola. Ma forse è anche perché in questo caso il destino diviene un po’ più chiaro. Ma è difficile stabilire che cosa si debba intendere per isola. I geografi, infatti, hanno discusso a lungo se definire l’Australia un’isola o un continente. Una definizione può essere data solo grazie ad una decisione che coroni un percorso

intellettuale, quale fu presa da Robinson quando, salito sulla cima più alta della sua solitudine, si vide circondato dal mare. Questo atto di maturità spirituale diviene tanto più difficile quanto più si è circondati e recintati da pianure. La forza dell’inglese risiede perciò meno nel fatto che vive su un’isola quanto nel fatto che ne è divenuto consapevole. È soltanto questo ad aver reso la Manica invalicabile. Se un giorno potessimo concepire in questi termini il nostro pianeta, anche l’umanità conoscerebbe una nuova maturità spirituale.

È fonte di confusione anche l’ordine di grandezza all’interno degli arcipelaghi disseminati nei mari del mondo. Si è tentati di distinguere le isole e le isolette in base alle loro potenze – mi riferisco meno a quelle algebriche che a quelle omeopatiche, indicate con dosi sempre più piccole. In questo senso, l’isola di San Pietro, a cui sono dedicate queste pagine, sarebbe un’isola alla terza potenza, poiché essa è vicina all’isola più grande di Sant’Antioco, che a sua volta è vicina alla Sardegna. Tuttavia, la serie di isole non può dirsi conclusa, perché anche San Pietro è attorniata da isole come una chioccia dai suoi pulcini. Di fronte alla sua estremità settentrionale, la Punta, si trova l’Isola Piana, sulla quale in maggio ed in giugno fumano le ciminiere degli stabilimenti di lavorazione del tonno, e anche da questa isola si distacca un’isoletta disabitata, l’Isola dei Ratti. Infine, lo stretto braccio di mare tra la Punta e l’Isola Piana è reso pericoloso da scogli ora ben visibili, ora invisibili, che a loro volta tendono all’individuazione, all’essenza delle isole. Tra di esse figurano quelle le cui pallide sommità emergono quando si abbassano le onde. Hanno il capo verde per la zostera pettinata dai flutti. Sono i territori delle aragoste, di cui San Pietro rifornisce le città, come fa l’arcipelago di Helgoland nel caso degli astici. Questo braccio di mare è noto fin dall’antichità anche come una delle classiche rotte per la cattura del tonno.

Altre isolette, come l’Isola del Corno e l’Isola del Gallo, si trovano ad ovest, altre ancora a sud, e spesso, come l’Isolotto del Geniò, sono così piccole che non sono indicate su alcuna carta. Quando il cielo è terso, in lontananza si vedono levarsi dal mare due ripide scogliere, il Vitello ed il Toro.

Per abbracciare con lo sguardo il proprio regno, come un tempo fece Robinson, la cosa migliore è salire sul punto più alto dell’isola, la Guardia dei Mori. Fu costruita nel luogo più adatto, una scogliera che si erge nell’entroterra, come punto d’osservazione per difendersi dalle scorrerie dei pirati africani. Caduta in rovina nel XIX secolo, durante la Seconda guerra mondiale fu occupata dalla contraerea. Ora è di nuovo un rifugio per gheppi e civette. Simile alla rocca del Graal, poggia su un basamento di pietra così stretto che sembra rastremare la scogliera. Dall’alto si può godere del colpo d’occhio di un’aquila.

I mori, per avvistare i quali fu eretta la torre di guardia, hanno giocato un ruolo importante nella storia dell’isola. Per molti secoli i loro assalti hanno reso l’isola inabitabile. Sarà servita, come molte isole poco sicure del Mediterraneo, come luogo in cui far pascolare le capre. Al massimo fu la dimora di alcuni pastori semiselvaggi che si nascosero in grotte o capanne di giunchi. Già nell’Odissea è dato leggere che i naviganti si rifornivano di viveri e che avvenivano degli scambi in luoghi del genere.

Sono questi minuscoli dettagli a rivelarci quasi sempre lo spirito di epoche del passato; assomigliano a talismani sfiorati dallo sguardo. È quanto mi accadde anche qui, quando discesi da Capo Sandalo verso la costa occidentale disabitata di San Pietro. Là un pescatore custodiva la sua barca. La vidi solo dopo essermi avvicinato molto, poiché l’aveva nascosta ad arte con del muschio marino. Temeva, infatti, che i traghettatori, o, almeno, certi traghettatori si sarebbero levati il gusto di rubargliela. Quando il clima mondiale peggiora un po’, non solo la barca, ma ogni cosa va nascosta. Per secoli le cose erano andate così, e la spiaggia solitaria a ovest dell’isola ha conservato quest’aura di pericolo. La sentii diffondersi dentro di me come un sottile alito di fumo mentre guardavo il muschio grigio-verde. […]

 

E tu splendi

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di Gianni Biondillo

Giuseppe Catozzella, E tu splendi, Feltrinelli editore, 2018, 231 pagine

Anche questa estate, come ogni anno, Pietro e Nina vengono spediti dal padre – la mamma è morta da poco – da Milano ad Arigliano, il paese d’origine della famiglia, nel cuore sperduto della Lucania.

La voce narrante di Pietro ci fa conoscere gli abitanti del borgo: vecchi stralunati, contadini rancorosi, ragazzini selvaggi. Sembrerebbe un’estate come tutte le altre, immobile e gioiosa, se non fosse che toccherà proprio a Pietro scoprire che nella vecchia torre normanna abbandonata si nasconde un gruppo di clandestini africani.

L’avvenimento irrompe come un cataclisma nel borgo, scatenando i più bassi istinti di conservazione, i peggiori rigurgiti identitari, il populismo più vieto nei confronti di questi migranti. E Pietro stesso non ne sarà esente, osservando Josh, uno dei clandestini (suo coetaneo), come fosse un essere misterioso, affascinante e pericoloso. In una realtà piegata da vecchi conti mai saldati, paralizzata dalla memoria e dal passato, il gruppo di clandestini diventa il perfetto capro espiatorio di ogni male, quasi fosse una maledizione, un monito inviato dagli dei.

E tu splendi è, soprattutto, un tributo alla letteratura meridionalista del novecento. L’affetto di Giuseppe Catozzella alle terre che descrive è palesato dal calco quasi pedissequo della sua scrittura alla tradizione neorealista dei Silone, dei Levi, degli Jovine. Il Sud di Catozzella sembra fotografato in bianco e nero, con sfumature seppiate; incapace di conoscere la modernità, persino di raggiungerla. Ma non si faccia l’errore di credere E tu splendi un romanzo “realista”. In realtà non di romanzo dovremmo parlare ma di fiaba. O, forse, di fine del periodo fiabesco della vita. L’estate raccontata in queste pagine è, in definitiva, quella del passaggio della linea d’ombra del protagonista, che abbandonerà l’infanzia verso una nuova consapevolezza dell’esistenza. Tutta da raccontare.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 20 del 15 maggio 2018)

Matteo Meschiari: Il treno per Ballachulish

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«nel mondo ghiaioso bruciato

 nel mondo vago

nel mondo verde ramarro

del venerabile Kutkh

il Corvo del Cosmo.»

 

Il Treno per Ballachulish di  Matteo Meschiari è il settimo libro dei Cervi Volanti, la collana che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autore. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

56°40′24″N – 5°09′53″W, Ballachulish, sulle sponde di Loch Leven, Scozia, quella dei grandi ghiacciai scomparsi, quella dove vorrei finire il mio viaggio carnale nella caduta dei tempi. Un villaggio che non sapevo che esistesse e che un giorno, per un insolito inceppamento del caso, è apparso non richiesto sul mio portatile, mentre la fiamma di un camino scaldava gennaio. Un angolo di mappa che riempiva lo schermo, un pop up tra fiaba e poltergeist che mi ha turbato per molti giorni. Perché? Che cosa c’è a Ballachulish? Quale destino intercetta per uno come me che non crede a nulla se non a una grande marmellata di energia, senza scopo, senza Dio? Decido di scoprirlo, voglio andare a vedere, faccio un biglietto aereo per Edimburgo, il volo è previsto per fine maggio. Quando, rinchiuso nel mio studio-soffitta, tra febbraio e marzo, capisco che invece non ci andrò mai a Ballachulish, comincio questo poema narrativo, come promessa smaterializzata, come riparazione, progettando un mondo che nei miei calcoli avrebbe dovuto raggiungere i 10.000 versi. Era il mio modo per arrivare là mentre eravamo tutti nascosti in casa, magari non da Modena, ma dalla strada più lunga. Quali sono quindi gli antipodi di Ballachulish? Lo stretto di Bering? Come attraversare la Grande Asia artica e subartica? In treno? Con chi se con tutti gli esseri, umani, animali, divini, in un ultimo viaggio delle specie, dei saperi, del mondo vivente e immaginato, sopra una specie di Orient Express metafisico, proiettato come un fantasma contro la volta di una caverna? Il treno per Ballachulish non è solo un viaggio mai fatto o un poema mai finito. Nella sua confezione cartacea si interrompe addirittura prima, a metà di un verso, a metà di un dialogo, e continua nel mio manoscritto come una specie di organo-vestigia che un giorno potrei decidere di rianimare, ma in realtà, così com’è, è già il nostro ultimo viaggio nell’Antropocene, un percorso a senso unico, verso una Ballachulish-fine-dei-tempi che è più in là della portata della mia mano. In questo Snowpiercer verbale volevo metterci tutti, in terza classe gli umani proletari, in seconda gli animali parlanti, nella prima gli Dei, che banchettano per mesi. E, come Poirot, avrei voluto cercare l’assassino della divina Inanna, vestendo i panni di Fierabraccia Matisson, un leopardo delle nevi dal sangue di ghiaccio e dalle feline capacità investigative. Intanto, fuori, la steppa, la tundra, la brughiera, le costellazioni che per l’ultima volta vedremo prima di entrare nel lago di Leven, dove il Mondo finisce. Ma, dopo marzo, è arrivato aprile e Il treno per Ballachulish si è fermato poco dopo la partenza. Non doveva neanche uscire dalla soffitta e invece l’ho passato per affetto a un ragazzo. Mentre il vecchio sognava i leoni, il ragazzo ha deciso di farlo diventare un libro di ventotto pagine che, assieme a tutti gli altri di queste aeree Edizioni volatili, con disegni che sono in bilico tra le miniature irlandesi e i bigliettini di Auschwitz, incarna per me il futuro del libro e dell’editoria: antropologia del dono contro neoliberismo, cura contro merce, durata contro fretta, inattualità contro cronaca. Non doveva neanche esistere Il treno per Ballachulish, ma ora c’è, e oltra alla storia che lo precede e a quella che contiene, in poche centinaia di versi difende un’idea di poesia, epica, fantastica, cosmogonica, antropocenica. Ora, io non andrò a Ballachulish, il treno l’ho perso, ormai, ma voi che ci andrete seguite la mappa contenuta nel libro: seconda brughiera a destra, questo è il cammino, e dopo dritto, oltre il declino.

 

 

 

 

Matteo Meschiari (1968) è geografo, saggista e scrittore. È professore associato dell’Università di Palermo, dove insegna Geografia e Antropologia. Ha scritto diversi libri, tra cui Artico Nero (2016) e Neghentopia (2017), entrambi pubblicati per Exorma. Con Antonio Vena ha ideato il progetto TINA-LA GRANDE ESTINZIONE sull’immaginario collettivo nell’Antropocene.