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“Soleil grigri” (2/4): da “Cardine Kinski”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil griri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla seconda sezione del libro, Cardine Kinski. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, La primavera torna indietro e Salut, voilà].

 

LIGURIA MON AMOUR

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di Dario Voltolini (illustrazioni di Marco D’Aponte e adattamento di Andrea B. Nardi; da un romanzo di Marino Magliani)

È con profonda commozione che scrivo questa nota a margine dell’ottima prova congiunta di due squisiti narratori, Marino Magliani alla tastiera e Marco D’Aponte alle matite, innanzitutto per la storia che viene narrata, ma anche per altro.
La storia che viene narrata la conosco da anni e ora me la trovo qui davanti agli occhi visualizzata con raffinata perizia da chi sa come dare corpo alle parole. Da anni non la rileggevo e rivederla così, attraverso immagini sulla pagina che vanno a mescolarsi a immagini che tenevo ancora da qualche parte nella mente, è un’esperienza piena di senso. Facile sintetizzare: tavole magnifiche per una storia potente.
Ma devo ancora una volta ricordare che la “potenza” di una storia ligure è tutta dentro la cartuccia inserita nella doppietta, ma prima della detonazione.

È una potenza che sempre sta per manifestarsi. Questa caratteristica è della terra e dei suoi migliori narratori e poeti. E io amo quella terra, con i suoi narratori e poeti. Secco, compatto, lo spirito di quella regione preme per uscire e ogni volta, anziché esplodere, vibra. Vibra in modo tale da risuonare a distanza, è un suono riconoscibile, simile ad altri (per esempio qui le Ande entrano in grandissima risonanza con i muretti a secco liguri, con la loro anima) ma in fondo unico e imparagonabile.


Ho conosciuto Marino Magliani proprio attraverso il testo qui riproposto, esemplarmente sceneggiato da Andrea B. Nardi, nelle tavole di D’Aponte. Me ne innamorai subito e la gioia per me fu grandissima quando lo vidi pubblicato. Per una volta le cose erano andate per il verso gusto e la grande qualità di uno scrittore veniva colta dall’editoria, veniva accolta e fatta vivere sulla pagina. Be’ questo è un ricordo, ed è molto dolce. Così Marino e io siamo diventati amici, come si può esserlo stando uno in Italia e uno in Olanda. Ma la qualità di un’amicizia che nasce da un testo è un qualità molto particolare. È un’amicizia in qualche modo segnata da quel testo, un’amicizia che profuma di quel testo. La chiamerei, in questo caso, un’amicizia ligure, ma non cercherò certo di spiegare cosa significa “ligure” in questo contesto. “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma. Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.

 
Marino negli anni ha scritto tante storie, tutte molto belle, solide, tanto pietrose quanto ventilate, e ogni volta è una festa (senza strepiti, eh!) leggerle. Ma per me questa è “la” storia, perché è quella tramite la quale ho conosciuto Marino. Riassumerla? Non ha senso. Solo che è struggente, questo sì che lo posso dire, fatta di uno struggimento particolare che in queste tavole, per un ulteriore gioco del destino di un incontro, risuona perfetta e risuona nelle lontananze.

NdR: il testo riportato è la prefazione di Dario Voltolini al romanzo a fumetti “Quattro giorni”, con illustrazioni di Marco D’Aponte e testo/adattamento di Andrea B. Nardi, tratto dal romanzo “Quattro giorni per non morire” (Sironi Editore, 2006), di Marino Magliani, pubblicato ora da Miraggi Edizioni, nella collana MiraggInk

Sinéad Morrissey: “Perdona questo rimediare”

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di Viviana Fiorentino

 

 

Nella raccolta The state of the prisons (Lo stato delle prigioni) (Carcanet Press, 2005; vincitrice al Michael Hartnett Poetry Prize in 2005) la poeta irlandese Sinéad Morrissey declina il tema della prigionia in tutte le sue varianti di stato e di luogo: le celle di Newgate, la voce silenziata di una donna filo monarchica costretta da una mordacchia nell’Inghilterra di Cromwell, le gabbie e le limitazioni di un viaggiatore che si ritrova in una nuova cultura. Le prigioni del nostro corpo. I limiti che le percezioni pongono sulle esperienze individuali. Gli interni intimi, e claustrofobici, delle relazioni umane.

Sinéad Morrissey nasce nel 1972 a Portadown, nella contea di Armagh, Irlanda del Nord, e cresce a Belfast. Consegue la laurea e il dottorato presso il Trinity College di Dublino e, dopo anni di viaggi e insegnamento all’estero, ritorna a vivere a Belfast. Alle sue raccolte vengono assegnati molti premi, come il Patrick Kavanagh Poetry Award, il National Poetry Competition, il Forward Poetry Prize for Best Collection e il T.S. Eliot Prize. Le poesie della Morrissey racchiudono un forte senso della sua identità nord irlandese – dalla violenza di un’infanzia durante i Troubles a una Belfast vivace città moderna – ma al contempo raccontano delle lontane località internazionali, dove la poeta ha vissuto.

The state of the prisons viaggia fino alla Cina e le regioni dell’Est. Un viaggio in treno di 6.000 miglia che si trasforma in un funerale per un fratello perduto e per certi ricordi d’infanzia, mentre la scrittrice punta la “macchina fotografica / di proposito su una vasta, deserta / distesa, quindi controlla sulla schermo / se c’è qualcosa / nella sua piccola rete a occhi spalancati”. “Per un secondo non sento il bollitore bollire / e mi chiedo: se l’Iraq ha estratto il sale anziché il petrolio?”. Le illuminazioni arrivano dai mondi dell’anatomia della vita, dalla biosfera e persino dalla politica del sale. “Sono uno straniero e un pellegrino qui”, i confini si offuscano con il viaggio; e ciò non è solo una nuova prospettiva esistenziale, è anche occasione per innovazioni formali, tematiche, immaginarie e linguistiche. I paesaggi domestici entrano in dialogo con nuovi spazi e con altre culture. La casa diventa una molteplicità spaziale, un dialogo tra partenza e ritorno immaginati dalle prigionie che ci vengono imposte o che noi stessi creiamo. Forma e contenuto, nonché personale e politico, si fondono in questa collezione attraverso un’immaginazione sempre pronta a sorprendere: la raccolta si conclude con un lungo poema in prima persona sulla missione umanitaria del riformatore del XVII secolo John Howard, che si occupò di risanare le carceri inglesi.

“… Insegna loro a chiedere perdono

Possono così emergere dalla solitudine come farfalle da una crisalide.

Conducili al muro della scoperta del sé

Su cui sanguineranno, prima di vedere il loro stesso volto…”

Una sorta di tenerezza percorre i versi della raccolta, come ha descritto Paul Batchelor sul The Guardian, “l’intimità dei segreti sussurrati” e allo stesso tempo la bizzarria delle immagini e della forma; come la stessa Morrissey scrive, vi è una certa liberazione che si ottiene dall’esplorazione della “forma e articolazione della forma”.

Dice di sé: “È semplicemente come scrivo. (…) Scrivere una poesia sull’invasione della Prussia orientale da parte dell’Armata Rossa nel gennaio 1945, seguita da un’altra poesia sull’osservazione di una pioggia di meteoriti con mio figlio, non mi sembra particolarmente incongrua. La poesia può essere intellettualmente complessa e difficile, ma può essere portata con maggiore forza al pubblico attraverso il suono, i sentimenti e la comprensione dei contesti.”

E poi ancora, “Concordo pienamente sul fatto che creiamo i nostri precursori: abbiamo un disperato bisogno di quella conversazione. L’idea di influenza è troppo passiva. (…) Adoro Mayakovsky per la sua esuberanza tagliente, la sua audace rottura, per avermi mostrato il tipo di cose che lo spazio bianco può consentire in una poesia.”

Una delle prigioni della raccolta è quella dell’uomo rispetto alla natura. “Era nero come la costa scivolosa e intontita del Kuwait / sul Belfast Lough …” una risonanza cinematica capace di attraversare le mura delle prigioni e riconnettere longitudini opposte. La relazione tra uomo e natura non umana, nella poesia “Pilote”, viene raccontata attraverso l’arrivo di un gruppo di balene pilota nel Lough di Belfast. Il loro pericolo, la spettacolarizzazione del loro comportamento e poi l’incapacità umana di comprendere il messaggio che gli animali stanno tentando di trasmettere. Cinquanta balene pilota – Globicephala melaena, specifica la poeta – si sono spinte nel Lough, un’insenatura marittima intercotidale che termina nel porto di Belfast. Le narrazioni si sovrappongono per cercare di spiegare l’inaspettato arrivo: lo sfruttamento economico delle balene, la vulnerabilità dei corpi animali, l’estinzione delle specie, l’incapacità dell’uomo nel cogliere la dimensione del problema ambientale. L’avidità umana incapace di alcuna sensibilità di fronte alla vulnerabilità animale.

Il corpo come prigione. Quello animale e quello umano. E quello genetico, come nella poesia Genetics. Uno spazio liminale nel quale si incontrano universi diversi e concomitanti, uno spazio di  contraddizioni insanabili. Il corpo è il luogo privilegiato d’incontro che definisce e allo stesso tempo smantella le costruzioni sociali di ciò che è umano, di ciò che è naturale, di ciò che è culturale.

Lo stato delle carceri delinea, infatti, una natura umana che è manifestazione nel corpo; come nelle poesie “The Yellow Emperor’s Classic”, “The Second Lesson of Anatomists” e “Migraine”. La raccolta ci ricorda anche che i piaceri che riceviamo in qualsiasi forma d’arte, o anche nell’indagine scientifica, non provengono tanto da ciò che viene creato e da cosa significa, piuttosto da quanto bene qualcosa è fatto, o come fatto e poi disfatto, armeggiato, plasmato, giocato. Del resto, sensualità e giocosità linguistica, economia, serietà, classicismo sono i segni della Morrissey e di tutta una generazione di poeti nordirlandesi a lei contemporanei. Tuttavia, questo fare della scrittura proviene da una manipolazione corporea. È, infatti, a partire dall’esperienza fisica, corporea, dei Troubles per esempio, che Sinéad Morrissey, come anche Ciaran Carson, affronta le varie nozioni di alterità: divisione e frammentazione del territorio, estraneità e stranezze nell’ambiente della casa e della famiglia, esilio, tensione tra il qui e l’altrove, silenzio e violenza del e contro il corpo.

 

Pilots

 

It was black as the slick-stunned coast of Kuwait
over Belfast Lough when the whales came up
(bar the eyelights of aeroplanes, angling in into the airport
out of the east, like Venus on a kitestring being reeled
to earth). All night they surfaced and swam
among the detritus of Sellafield and the panic
of godwits and redshanks.

By morning
we’d counted fifty (species Globicephala melaena)
and Radio Ulster was construing a history. They’d left a sister rotting
on a Cornish beach, and then come here, to this dim
smoke-throated cistern, where the emptying tide leaves a scum
of musselshell and the smell of landfill and drains.
To mourn? Or to warn? Day drummed its thumbs
on their globular foreheads.

Neither due,
nor quarry, nor necessary, nor asked for, nor understood
upon arrival – what did we reckon to dress them in?
Nothing would fit. Not the man in oilskin working in the warehouse
of a whale, from the film of Sir Shackleton’s blasted Endeavour,
as though a hill had opened onto fairytale measures
of blubber and baleen, and this was the money-
god’s recompense;

Not the huge Blue
seen from the sky, its own floating eco-system, furred
at the edges with surf; nor the unbridgeable flick
of its three-storey tail, bidding goodbye to this angular world
before barrelling under. We remembered a kind of singing,
or rather our take on it: some dismal chorus of want and
wistfulness
resounding around the planet, alarmed and prophetic,
with all the foresight we lack –

though not one of us
heard it from where we stood on the beaches and car-parks
and cycle-tracks skirting the water. What had they come for?
From Carrickfergus to Helen’s Bay, birdwatchers with binoculars
held sway while the city sat empty. The whales grew frenzied.
Children sighed when they dived, then clapped as they rose
again, Christ-like and shining, from the sea, though they could
have been
dying out there,

smack bang
in the middle of the ferries’ trajectory, for all we knew.
Or attempting to die. These were Newfoundland whales,
radically adrift from their feeding grounds, but we took them
as a gift: as if our own lost magnificent ship
had re-entered the Lough, transformed and triumphant,
to visit us. As if those runaway fires on the spines of the hills
had been somehow extinguished….

For now,
they were here. And there was nothing whatsoever to be said.
New islands in the water between Eden and Holywood.

 

 

 

Pilote

 

Era nero come la costa scivolosa e intontita del Kuwait

su Belfast Lough quando arrivarono le balene

(vietati gli occhi luminosi degli aeroplani, che si inclinano verso l’aeroporto

da est, come Venere sul filo di un aquilone richiamato

a terra). Per tutta la notte emersero e nuotarono

tra i detriti di Sellafield e il panico

di pittime e pettegole.

 

Al mattino

ne avevamo contate cinquanta (specie Globicephala melaena)

e Radio Ulster stava ipotizzando una storia. Avevano lasciato una sorella marcire

su una spiaggia della Cornovaglia, e poi venute qua, in questa cisterna gola di fumi

nebbiosi, dove la marea in ritirata lascia cozze a ristagnare e odore di discarica e scoli.

Compiangere? O avvertire? Il giorno batté i suoi pollici

sulle loro fronti globose.

 

Né dovuto,

né cercato, né necessario, né richiesto, né compreso

all’arrivo – Con che cosa abbiamo pensato di vestirle?

Niente si adatterebbe. Non l’uomo in tela cerata che lavora nel magazzino

di una balena, dal film sull’Endeavour schiaffata di Sir Shackleton,

come se una collina si fosse aperta su misure fiabesche

di grasso e fanone, e questo fosse il guadagno –

ricompensa di Dio;

 

Non l’enorme Blu

visto dal cielo, il suo ecosistema galleggiante, incrostato

ai bordi dalla schiuma; né il guizzo incolmabile

della sua coda a tre strati, che dice addio a questo mondo squadrato

prima di fiondarsi sotto. Ricordammo una specie di canto,

o meglio il nostro incarico su di esso: un lugubre coro di mancanza e

malinconia

risonante in tutto il pianeta, allarmato e profetico,

con tutta la lungimiranza che ci manca –

 

anche se nessuno di noi

lo sentì da dove ci trovavamo dalle spiagge e dai parcheggi

e dalle piste ciclabili che costeggiano l’acqua. Per cosa erano venute?

Da Carrickfergus a Helen’s Bay, i birdwatcher dominavano

con i binocoli mentre la città sedeva vuota. Le balene divennero frenetiche.

I bambini sospirarono quando si rituffarono, poi applaudirono non appena riemersero

ancora, come Cristo e splendenti, dal mare, sebbene avrebbero potuto

morire là giù,

 

proprio

nel mezzo della traiettoria dei traghetti, per quanto ne sapevamo.

O un tentativo di morire. Erano le balene di Terranova,

Del tutto alla deriva dai loro luoghi di alimentazione, ma le accogliemmo

come un regalo: come se la nostra magnifica nave perduta

fosse rientrata nel Lough, trasformata e trionfante,

per farci visita. Come se quei fuochi sfuggiti sui dorsi delle colline

fossero stati in qualche modo spenti…

 

Per il momento,

erano qui. E non c’era proprio niente da dire.

Nuove isole nell’acqua tra Eden e Holywood.

 

 

 

Genetics

 

My father’s in my fingers, but my mother’s in my palms.
I lift them up and look at them with pleasure –
I know my parents made me by my hands.

They may have been repelled to separate lands,
to separate hemispheres, may sleep with other lovers,
but in me they touch where fingers link to palms.

With nothing left of their togetherness but friends
who quarry for their image by a river,
at least I know their marriage by my hands.

I shape a chapel where a steeple stands.
And when I turn it over,
my father’s by my fingers, my mother’s by my palms

demure before a priest reciting psalms.
My body is their marriage register.
I re-enact their wedding with my hands.

So take me with you, take up the skin’s demands
for mirroring in bodies of the future.
I’ll bequeath my fingers, if you bequeath your palms.
We know our parents make us by our hands.

 

 

 

Genetica

 

Mio padre è nelle mie dita, ma mia madre è nei miei palmi.

Li alzo e li guardo con soddisfazione –

che i miei genitori mi hanno fatto lo so dalle mie mani.

 

Potrebbero essere stati scacciati in terre disunite,

disuniti emisferi, dormire potrebbero con altri amanti,

ma in me si toccano dove le dita si uniscono ai palmi.

 

Nulla della loro unione rimane se non amici

che scavano alla ricerca di una loro immagine vicino a un fiume,

almeno lo apprendo il loro matrimonio dalle mie mani.

 

Formo una cappella e lì si erge una guglia.

E quando la giro,

mio padre è tra le mie dita, mia madre tra i miei palmi

 

umile davanti a un prete che recita i salmi.

Il registro del loro matrimonio è il mio corpo.

Ricreo le loro nozze con le mie mani.

 

Dunque portami con te, accogli le richieste della pelle

per rispecchiarsi nei corpi del futuro.

Lascerò le mie dita in eredità, se tu lascerai i tuoi palmi.

Sappiamo che i nostri genitori ci fanno dalle nostre mani.

 

 

 

Migraine

And it’s happening yet again:
vandals set loose in the tapestry room
with pin-sharp knives. Such lovely scenes
as this day’s scrubbed-white clouds
and shock of scarlet blooms
across the wasteground

looking abruptly damaged —
stabbed-through from the back
so that a dozen shining pin-sized
holes appear at random. Then widen.
Soon even the grass has been unpicked,
the gorse hacked open.

I can no longer see your face.
Posed in unravelling sleeves
and disappearing lace,
I have given up all hope for what was whole —
the monkey under the orange tree,
the tatterdemalion nightingale.

 

 

 

Emicrania

 

E accade ancora di nuovo:

vandali lasciati liberi nella sala degli arazzi

con coltelli affilati. Quale scena adorabile

come le nuvole di oggi bianco sfregate

e le masse di fioriture scarlatte

sui terreni incolti

 

all’improvviso danneggiate —

accoltellate alle spalle

tanto da far apparire a caso una dozzina di fori luccicanti

della dimensione di uno spillo. Poi si allargano.

Poco tempo e persino l’erba rimane non colta,

la ginestra spinosa a pezzi aperta.

 

Più non riesco a vedere il tuo viso.

In posa con le maniche srotolate

e un merletto che scompare,

Ho rinunciato a qualsiasi speranza d’interezza —

scimmia sotto l’albero d’arancio,

usignolo cencioso.

 

 

 

Polar

after Brecht

 

My darling, lest you vanish back

to the vast frontier you fled from

once its darkness

failed to break –

baying for bathwater, bedlinen, me –

without a further word,

allow these gifts:

 

six pairs of pearl-stitch knitted socks,

an Aran with a fingered ridge, a scarf

to trap a boulder in.

for even though you’re lean

and craven, I’d rather have you

round and down and rollable.

I want to hap you up

 

so that you stagger off, surrounded

by my warmth, on your journey

North. I want to wrap

your delectable backside

(which I chew on so immoderately

when I’m out of my right mind)

in all the wool of Scotland.

 

Forgive me this redress. Forgive

the need to staunch my loneliness

on your enormous absence.

Even the furniture sags without you.

I invent a war to send you

off to, but it’s only a war

with nature. They say it’s winter

 

when you’re up there

nine months of the year

(the solstice dragging its feet

with the weight of the planet);

that the sky is merely on fire

with its own futility; and the snow geese –

inconsequential company.

 

 

 

Polo

dopo Brecht

 

Mio caro, affinché tu non svanisca di nuovo

Verso la frontiera immensa da cui sei fuggito

Quella volta che la sua oscurità

Non riuscì a terminare –

Strillando per l’acqua del bagno, la biancheria da letto, me –

Senza aggiungere altro,

consentimi questi doni:

 

sei paia di calze lavorate a punto selcio,

un Aran con una costa come mani, una sciarpa

per intrappolare un macigno dentro.

Perché anche se sei magro

e vigliacco, preferirei averti

tondo e in fondo e rotolabile.

Voglio tirarti su così

 

Così che te ne barcolli via, circondato

dal mio calore, nel tuo viaggio

verso Nord. Voglio avvolgere

il tuo delizioso didietro

(quanto smoderata lo mordicchio

quando vado fuori di testa)

in tutta la lana della Scozia.

 

Perdona questo rimediare. Perdona

la necessità di tamponare la mia solitudine

sulla tua enorme assenza.

Sprofondano persino i mobili senza di te.

Invento una guerra per mandarti

via, ma è solo una guerra

con la natura. Dicono che è inverno

 

quando sei lassù

nove mesi dell’anno

(mentre il solstizio trascina i suoi piedi

con il peso del pianeta);

con il cielo che è semplicemente in fiamme

con tutta la sua futilità; e le oche delle nevi –

irrilevante compagnia.

 

 

 

On Omitting the Word ‘Just’ from my Vocabulary

 

And here I am in a room I don’t recognise, being
angular and contemporary, with its own
unabashed light source and the table clear.

I must be somewhere Scandinavian.
Where weather is decisively one way
or the other, and summer,

or winter, will not brook contradiction.
Even the ornaments (such as they are)
are purposeful: a stone dog stares into the fireplace

as though pitting itself against fire
for the next quarter-century.
(How you cannot say ‘just’ and ‘pregnancy’.)

There is a fissure in store for me here.
There are no wall hangings. Or rugs.
The door is locked against me.

My own audacity in coming here
astounds me. Yet I step purposefully.
I swell uncontrollably.

Beyond in the hallway
the tongue of a bell is banging against its shell.
It sounds like a coffin lid,

or as definitive.
It is marking the hours until I break into two
and loose/gain everything.

 

 

 

Su l’omettere la parola “soltanto” dal mio vocabolario

 

Ed eccomi qui in una stanza che non riconosco, perché

squadrata e contemporanea, con le sue

spudorate sorgenti di luce e il tavolo vuoto.

 

Sarà che sono in qualche parte scandinava.

Dove il tempo è solo in un modo

o in un altro, l’estate,

 

o l’inverno, non tollererà alcuna contraddizione.

Persino gli ornamenti (per come sono)

sono intenzionali: un cane di pietra fissa il camino

 

come se contrapposto al fuoco

per il prossimo quarto di secolo.

(Come non saper dire “soltanto” e “gravidanza”.)

 

C’è una fessura in serbo qui per me.

Non ci sono arazzi. O tappeti.

La porta è contro di me chiusa.

 

Il mio stesso sprezzo del pericolo nel venire qui

mi sorprende. Eppure entro di proposito.

Ingrandisco senza alcun controllo.

 

Oltre nel corridoio

il martello della campana batte contro il suo guscio.

Come il coperchio di una bara,

 

o come definitivo. Segna le ore finché in due io rompo e lascio/ottengo ogni cosa.

 

 

 

 

 

“Nella sofferenza che io trovi l’essenza”. Su Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio di Lorenzo del Pero

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di Francesca Matteoni

C’è chi per comprendere la natura di un sentiero deve perdersi, accettando di non riconoscere un volto, perfino il suo. È un sentiero di straniamento come di grazia, che resta sempre un po’ oltre, mentre ci teniamo al buio senza cedere e senza pelle. Ci sono artisti che giungono così alle loro opere, avendo fame e trovandosi a mordersi le ossa, ciò che ci sostiene. Nonostante una certa mitologia non c’è niente di romantico in tutto questo. Si è soli. Si può non tornare. Occorre fidarsi dei primi istinti corporali: nutrirsi, dormire come si può, respirare, resistere, anche se è il corpo che sembra tradirci. Eppure qualcuno torna, se non nel quotidiano, nell’arte, nella piccola salvezza ostinata della musica e della parola.

Mi sono ricordata di queste cose ascoltando a lungo l’ultimo disco di Lorenzo Del Pero, Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio (VREC / Audioglobe 2019). È già stato detto varie volte che l’universo autoriale di Lorenzo spazia da Bob Dylan a De André  da Chris Cornell a Jeff Buckley e molti altri studiati e sofferti in anni di esperienza – ma il gioco dei rimandi si esaurisce presto e spesso serve solo a non fare i conti con la materia poetica del disco.   Come suggerisce il titolo dall’amore animale, non meditato, innocente quanto inconsapevole si va verso l’amore dell’uomo, che non ha nulla di vittorioso, ma è un umile svelarsi delle cicatrici, e infine si cerca il confronto aspro e non pacificato dalla fede con il Dio (un Dio, fra i tanti possibili) della tradizione cristiana, costringendolo nella dimensione viva della sconfitta. Sono le tre fasi del sentiero, tre intermezzi che percorrono e ricuciono il disco in un dialogo fra l’uomo che non sente più niente/solo anche in mezzo alla gente e le figure a cui si rivolge per chiedere perdono e presenza o per donare a se stesso un riscatto raccontandole.

“Romina” e “A Silvia” sono canzoni struggenti, dove emergono ritratti di donne e di amori ostinati come gli errori, ma capaci di recuperare la dignità. Il singolo “Verrà la pioggia” è un urlo lucido contro i signori della terra, dove alle lacrime dei primi versi  che puliscono i miei occhi dalla polvere/ed il cuore dalle vostre menzogne, fa eco il pianto del mondo nella pioggia che lava le colpe di tutti, purifica e porta giù il cielo. E forse si porta via anche l’illusione del potere. “Dell’amore animale” ha l’amarezza di una verità personale: Troppo tempo è passato/prendo ciò che rimane/di una mente confusa/aggrappata a un sorriso/ quanta gente delusa/quanti calci nel viso, mentre “Misera cosa” riconduce la passione alla sua vanità, un sudario di astuta bellezza; e  “Sposa per denaro”, ben oltre il titolo, canta di chi getta via il sogno per una via facile solo in apparenza. Ma le tre vette dell’album sono, nell’ordine, “Sorella solitudine”, “Ave Maria” e “Preghiera blasfema”. La prima canta meravigliosamente una condizione esistenziale, dove si è liberi o deprivati delle aspettative riposte nell’altro, chiunque esso sia. Costante e senza volto, è la solitudine. Non può ferire con la memoria.  “Ave Maria”, è forse la canzone dal maggiore impatto emotivo, quella dove l’amore tanto annunciato, tradito e smarrito si rivela puro e terreno, la presenza gentile della madre, colei pronta a battersi fino alla fine perché Vale più l’uomo vivo/di un Dio quasi morto. Il Cristo è la fragilità di ogni figlio spezzato, sanato nella grazia materna, che sia quella di una madre reale, con un nome e un’età o madre-vita ovunque si manifesti. E così “Preghiera blasfema” è un’accusa, una richiesta e un atto di riconciliazione con il padre, per essere infine visti come si è: deboli invece che forti; impauriti e immersi in un santo delirio al cospetto di una volontà incomprensibile che non ci riconosce. Nella sofferenza che io trovi l’essenza, scrive Lorenzo. Quel nocciolo duro che è la vita e il desiderio di esserci, anche con una tristezza resistente che a volte si piega alla preghiera e alla gioia.

Non è un ascolto indenne, questo. Se ne esce cambiati, come indossando la parte di noi che ci fa più male e che pure è la nostra compagna fedele. Il talento può dare fastidio, può provocare una smorfia d’imbarazzo quando si mostra nudo. Il talento di Lorenzo è la sua voce, che è poi la sua anima. A volte l’anima non ce la fa nel mondo ordinario o in quello che crede sia tale. Si nasconde, aggredisce, urla e cade. Ma si rialza nel canto.

SE LA MEGLIO GIOVENTÙ CAMBIERÀ LA POLITICA ITALIANA SARÀ ATTRAVERSO LE COMPETENZE

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di Franz Di Maggio

Oggi venerdi 19 giugno alle 15,30 a Milano, in via Medici 4, presso la sala conferenze di “Ostello Bello” verrà presentato il primo progetto politico nato durante il periodo di lockdown: “Oltre – #unpassoavanti”. Il popolo di Oltre – a partire dai nove fondatori – è composto da giovani professionisti di tutta Italia, studenti, professori universitari, architetti, chef e imprenditori della green economy. Alcuni erano portavoce e coordinatori delle Sardine , ma molti di loro non hanno una storia politica alle spalle. Hanno ereditato da Liliana Segre l’amore per la Costituzione e l’antifascismo e quella “farfalla gialla che vola oltre i fili spinati”, simbolo di quello che vuol essere un “incubatore di buone pratiche politiche”; si ispirano alla visione indipendente, pragmatica e critica di Massimo Cacciari, cogliendo l’esigenza di far “emergere una generazione di giovani che facendo il loro mestiere, svolgendo la loro professione, si interessano davvero anche di politica e vogliono partecipare a un dibattito politico fondato su programmi, strategie, idee e non su slogan, promesse e chiacchiere”.

Franz ci ha concesso di pubblicare in anteprima (quasi contemporanea) la sua relazione d’apertura:

La verità dei primati

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di Mariasole Ariot

 
 

A volte mi affaccio nei boschi della nuca, vorrei fosse un passaggio, un passato che passa, aprire le finestre e affacciarsi alle viscere, le viscere del mondo, di quest’epoca malsana – le mie, sempre troppo esposte: quando si scorgono le mie lacerazioni e si entra per lacerarle un po’ di più.
I sonni e i sogni sono ricominciati, pullulano di grandi ambienti marini, grandi musei d’acqua, una buca nel soffitto di un vecchio marinaio da cui soffia, in una Venezia mancata, il vento del Sahara.
Piccoli accadimenti che aprono una feritoia tra grata e grata, mi accovacciano la notte. 

Dopo il turismo

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© JONAS BENDIKSEN | MAGNUM PHOTOS
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[E’ uscito per Nottetempo l’ebook Dopo il turismo di Lucia Tozzi, scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore. Ne pubblico a mo’ di anticipazione il paragrafo dal titolo La globalizzazione e il turismo, ringraziando l’editore e l’autrice. ot]

di Lucia Tozzi

La critica no global di inizio millennio, che univa lotte anticapitaliste e ambientaliste, fu archiviata in parte a causa del suo spirito comunitarista che non si adattava molto alle reti ultraflessibili dei movimenti urbani, e in parte perché il pensiero sulle migrazioni, reso nel frattempo sempre piú urgente dall’espansione del fenomeno e delle sue conseguenze tragiche, ha messo in primo piano il diritto alla libertà di movimento delle persone, spostando il focus della lotta dalla difesa dei territori all’abbattimento delle frontiere. La resistenza dei contadini indiani contro la Monsanto è apparsa tutto a un tratto meno cruciale del loro diritto di fuga dal paese martoriato dagli effetti della globalizzazione.

La crisi del 2008 ha spostato poi l’attenzione sulla critica alla finanziarizzazione dell’economia, alla liberalizzazione della circolazione di merci e capitali contrapposta al controllo selettivo del movimento di persone: libertà per i cittadini di paesi ricchi, vessazione nei confronti dei cittadini di paesi poveri. Si è consolidata da allora l’idea che esiste una globalizzazione buona, che facilita lo spostamento di popoli e individui, lo scambio culturale, l’internazionalismo politico, e una cattiva, quella di matrice neoliberista. Un’idea che si è cristallizzata fino a diventare un dogma incontestabile quando hanno cominciato a diffondersi con sempre maggior successo i “populismi” di destra. Da lí in poi ogni critica rivolta alla crescita esponenziale della mobilità viene liquidata nel migliore dei casi come una manifestazione del frusto pensiero della decrescita felice, nel peggiore come sovranismo.

E cosí, grazie all’accumulazione di scarti e tabú, è stato finora quasi impossibile avanzare un dubbio sulla legittimità politica e la sostenibilità sociale e ambientale di questa nostra isteria cinetica senza passare per reazionari e fustigatori di piaceri altrui. In una recente intervista Noam Chomsky spiega che “non c’è niente di sbagliato nella globalizzazione in sé. È bello, per esempio, fare un viaggio in Spagna”7. Identificando tout court la globalizzazione con un positivo processo di democratizzazione dell’accesso al turismo, un piacere legittimo e incontestabile, Chomsky passa poi a scaricare, come da manuale, ogni responsabilità delle storture del mondo sull’altra globalizzazione, quella cattiva, plasmata dalle forze economiche del capitalismo estrattivo.

Il problema è che questa dicotomia è del tutto astratta: il turismo è la piú feroce delle industrie neo­liberiste, equivale secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (unwto) al 10% del pil globale e occupa il 10% dei lavoratori mondiali. E non solo: nel calcolo dei volumi d’affari del turismo globale non rientrano solo gli spostamenti legati al tempo libero, ma tutti gli spostamenti. Viaggi di lavoro, di studio, di svago, per ragioni di salute, pellegrinaggi, visite ai parenti, persino migrazioni. Tutto conta, ogni arrivo nazionale e internazionale, ogni notte in albergo o in b&b, ogni ingresso al museo va inteso materialisticamente come turismo.

Turistificazione e globalizzazione non sono due processi paralleli, sono quasi interamente sovrapponibili: ideologia e industria del movimento. Il manager che fa avanti e indietro da Wuhan e il ventenne che gira per festival techno, da questo punto di vista, hanno la stessa funzione. Le città possono competere per cose apparentemente diverse come diventare sede di un’agenzia governativa o aggiudicarsi un grande evento, ma gli obiettivi appartengono alla stessa costellazione: generare mobilità, attrarre persone e fondi pubblici e privati.

Ciao, Giulio

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Giulio Giorello a un congresso nel 2014

di Antonio Sparzani
(l’altroieri 15 giugno è morto Giulio Giorello, filosofo nel senso più largo del termine, oltre che amico e compagno di percorsi culturali)

Giulio Giorello a un congresso nel 2014

non ho voglia di scriverti un necrologio, che già la parola mi fa orrore, ho voglia piuttosto di ripensare e magari raccontare a chi legge qualche episodio della nostra amicizia, amicizia che viene davvero da lontano: ti conobbi quando venisti, col tuo capo di allora, nientemeno che Ludovico Geymonat, a partecipare a un’assemblea studentesca all’Istituto di Fisica in via Celoria negli ultimi ruggenti anni ’60 del secolo scorso. Eravamo entrambi nella nostra terza decina d’anni, assetati di nuovo e, si può anche dire, di rivoluzionario. Ricordo con grande orgoglio che io intervenni nell’assemblea e che Geymonat in persona si complimentò con me, roba da camminare a un metro d’altezza per tutta la giornata.
Un po’ alla volta ci conoscemmo, caro Giulio, e mi pare che iniziammo ad apprezzarci a vicenda, io fisico quasi imberbe, giunto da poco da Pavia, tu filosofo e in più con laurea in matematica conseguita proprio a Pavia, con un grande prof che entrambi in anni diversi avemmo, Enrico Magenes (1923-2010).
Non fummo mai amici intimi, di quelli che si raccontano tutti i loro segreti, ma in qualche modo sapevamo di poter contare l’uno sull’altro. Io vivevo a città studi con la mia moglie di allora e tu stavi, nella stessa zona, coi tuoi genitori; ma, da bravo tombeur de femmes che eri, avevi affittato un appartamentino in via Inama, sempre lì in zona, che fungeva, diciamo, da garçonnière e fosti così gentile da prestarmela quando mi separai da mia moglie, gennaio 1982, e mi lasciasti stare lì finché non trovai un appartamento in cui andare a stare da single.
Venivo a trovarti qualche volta nel tuo studio al secondo piano in uno dei cortili di via Festa del Perdono e ci scambiavamo notizie e opinioni per noi assai interessanti: quando a me serviva qualche ragguaglio un po’ serio di filosofia, tu eri sempre prodigo di ottime informazioni, così come quando tu avevi bisogno per i tuoi studi di qualche dettaglio in più di fisica, ricorrevi al mio aiuto, per quel che riuscivo a darti.
Quello che mi piaceva di te era la varietà di interessi che avevi e che sei andato sempre più ampliando, da Aristotele a Topolino, come oggi dice qualche giornale, e soprattutto l’ironia che mettevi anche nelle tue più serie elaborazioni. Tu mi facesti conoscere Feyerabend e il suo straordinario Contro il Metodo, che a suo tempo mi studiai con grande interesse. Ti dicevi un po’ eretico, ma eretico da ché, poi? Dalla religione della scienza certamente, così come del resto dalla religione tout-court. Sì, ma il tuo ateismo non era di quelli assatanati dello sbattezzo, tanto che volentieri dialogasti con il cardinal Martini e collaborasti con la cosiddetta Cattedra dei non Credenti.
Fosti così gentile da chiedermi di fare qualche lezione del tuo corso bellissimo di filosofia della scienza, sempre sotto la tua supervisione, e per me fu un grande piacere e onore avere davanti una folta platea di studenti veramente interessati alle tante problematiche cui tu li avevi avvezzati. Collaborammo anche in altri scritti e sempre mi piaceva la tua onestà intellettuale, non così frequente neppure tra gli accademici d’oggidì. Amavi l’Irlanda, dove fosti più volte, amavi la birra irlandese e avevi letto e riletto l’Ulisse con raro puntiglio e accuratezza. E soprattutto, quando parlavi, anche se tenevi una conferenza, non avevi quel tono solenne e autoritario che spesso, sempre nell’accademia, si riscontra, ma un tono più pacato, semmai talvolta, quando era il caso, polemico, sembrava quasi che parlassi a te stesso, ancorché citando spesso con precisione le fonti da cui riportavi giudizi e affermazioni. Insomma, non eri noioso da ascoltare, mai.
Non so, perché era un po’ che non ci sentivamo, come mai tu ti sia preso il malefico covid, spero tu non abbia fatto imprudenze, ma so che avevi avuto pochi anni fa problemi cardiaci piuttosto pesanti e questo è stato evidentemente fatale. Mi dispiace molto non poter più usare quel numero di cellulare un po’ speciale a cui mi avevi detto ti potevo chiamare con una certa sicurezza. Se, contrariamente alle tue convinzioni, sei per caso andato da qualche parte che noi qui ignoriamo, confido che tu stia bene e che tu abbia una bella nuova esperienza, che certamente ti piacerà, come sempre ti piacevano tutte le cose nuove e belle.

Jack Spicer: “una poesia non è mai soltanto sé stessa”

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«Più che d’opera aperta (e in effetti non v’è opera più chiusa di questa) viene ideato dal poeta un lettore aperto, un organismo da attraversare per generare, nel reale, una realtà poetica» scrive Andrea Franzoni nella sua introduzione a Un rosario di bugie. Il volume, stampato da Argolibri per la collana Talee, riunisce tre raccolte – Ammonimenti, Un libro di musica, Quindici false proposizioni contro dio – composte da Jack Spicer nell’anno 1958.

Ospitare qui una combinazione di poesie tratte dal libro significa allargare in qualche maniera il movimento che le ha fatte dapprima cozzare; significa dissotterrare dal libro altri combaciamenti, sgravare sovrapposizioni, teorie del saluto repentino; essere richiamati nel sonoro colloquio del testo. Per il lettore aperto, la lettura opera il senso, tradisce la scrittura stessa.

«Le poesie dovrebbero echeggiare e riecheggiare una contro l’altra, creare risonanze. Non possono vivere da sole, non più di quanto lo possiamo noi» avvisa Spicer in una lettera contenuta in Ammonimenti. Ecco allora che con questo breve frammento ci vengono consegnati -allo stesso tempo-  l’orizzonte del libro da ricomporre, e la materia del rosario da sgranare.

 

 

da Ammonimenti (1958)

 

Caro Robin,

troverai qui la prima pubblicazione della White Rabbit Press. La seconda sarà certamente più bella. Hai ragione a dire che non ho più bisogno delle tue critiche sulle singole poesie. Ma io le voglio ancora. Credo sia una vecchia abitudine – un’abitudine fin troppo vecchia. A metà di After Lorca ho capito infatti che stavo scrivendo un libro e non più una serie di poesie, e tutte le singole critiche, di chiunque fossero, sono improvvisamente divenute meno importanti. E questo vale anche per i miei Ammonimenti, che ti invierò non appena saranno finiti (ne ho già otto e credo saranno quattordici in tutto, inclusa, ovviamente, questa lettera).

Il trucco è semplicemente quello che Duncan ha scoperto anni fa e ha provato a insegnarci – di non cercare la poesia perfetta ma lasciare che la scrittura del momento vada libera per la propria strada, esplori e poi ritorni indietro, ma senza essere mai pienamente realizzata (confinata) entro i margini di una sola poesia. Su questo aveva ragione lui e noi ci sbagliavamo, anche se poi ci ha complicato le cose dicendo che non esiste la buona o la cattiva poesia. Esiste, ma non in relazione alle singole poesie. Non esistono, in verità, singole poesie.

È per questo che tutto ciò che ho scritto finora (eccetto le Elegie e il Troilus) mi sembra marcio. Le poesie non hanno appartenenza. Sono avventure di una notte, piene d’emozioni (per le migliori di loro), ma senza alcun obiettivo, insignificanti tanto quanto il sesso in un bagno turco. Non erano la mia rabbia o la mia frustrazione a ostacolare la mia poesia, ma il mio considerare ogni episodio di rabbia o di frustrazione come qualcosa di unico – qualcosa da convertire in poesia, come si fa con una valuta straniera. È quello che ho imparato al Dipartimento di Inglese (e al Dipartimento d’Inglese dell’anima – questo grande pantano che si annida sul fondo di ognuno di noi) e ha rovinato dieci anni della mia poesia. Guardale quelle poesie. Ammirale se vuoi. Sono belle, sì, ma sono mute.

Le poesie dovrebbero echeggiare e riecheggiare una contro l’altra. Creare risonanze. Non possono vivere da sole, non più di quanto lo possiamo noi.

Perciò non inviare il pacco con le vecchie poesie a Don Allen. Brucialo, oppure aprilo con Don e piangi su ogni possibile libro che ci ho seppellito dentro – le Canzoni contro Apollo, la Galleria degli dèi magnifici, le Canzoni da bere – tutti incompleti, tutti abortiti – tutti incompleti, tutti abortiti perché, come ogni persona che abortisce, pensavo che ciò che non è perfetto non merita davvero di esistere.

Le cose combaciano. Lo sapevamo – è il principio della magia. Due cose inconseguenti possono formare, se combinate assieme, una conseguenza. E questo vale anche per la poesia. Una poesia non deve mai essere giudicata solo per sé stessa. Una poesia non è mai soltanto sé stessa.

Questa è la lettera più importante che tu abbia mai ricevuto.

Con affetto, Jack.

 

 

da Un libro di musica

(con le parole di Jack Spicer)

 

 

Cantata

 

Ridicolo

Come lo spazio tra tre violini

Possa minacciare tutta la nostra poesia.

Facciamo gruppo come degli

Scout a un picnic. Un urlo acuto.

Minaccia pioggia. Quell’istante di terrore.

Curioso come tutto ciò in cui crediamo

Scompaia.

 

 

 

da Quindici False Proposizioni Contro Dio (1958)

 

 

VII

Gli alberi in gioventù sembrano più giovani

Di quasi tutto

Voglio dire

Che in primavera

Quando mettono le foglie verdi e provano

A sembrare dei veri alberi

Giuro su Dio mi si stringe il cuore

Quando li vedo provare.

Viene Agosto e brilla il sole e la nebbia e solo il legno

cresce

E loro lì con le loro foglie ruvide stupiti

Che non sia più estate.

S’insinua la nebbia fredda e a Novembre

Non sembrano più le stesse (le foglie intendo) le foglie cadono

Un motivo così duro da cercare.

Una tale trave

Del cuore.

 

 

X

 

«Alberi. Quelle cose confuse?» domandò il nonno di Williams

o forse era sua nonna sulla strada per l’ospedale. Un viaggio

Che tutti dovremo fare.

Non ricordo bene la poesia ma so che la bellezza

Sempre diventerà confusa

E l’amore sarà confuso

E il fatto stesso di morire sarà confuso

Come un grande albero.

Allora, lasciate ch’io abbatta una ad una

Qualunque cosa blocchi la mia vista

Gente, alberi, i miei stessi peduncoli oculari.

Lasciate ch’io smembri

Con queste nude mani

Questa foresta confusa.

 

 

XV

 

Caro Signore:

ho provato in queste poesie a trovare il Dio a Tre Teste in cui a

tratti ho creduto parlando con voi e vivendo con voi.

L’abissale negozio di giocattoli

S’intromette.

(È un inferno dove nessuno

Ipotizza l’altro. È dopo

Ogni cosa.)

Nessun pensiero coerente o sensazione. Sono le cinque

               del mattino.

Se non cinguetta il bel fringuello

Mamma ti comprerà un anello

Questo è l’ultimo mistero della gioia.

La fine di tutte le ipotesi.

 

 

 

 

Notizie bio-bibliografiche

Nato a Los Angeles, Jack Spicer (1925-1965) si trasferisce in seguito a Berkeley, per raggiungere l’Università della California, dove insegna linguistica e stringe rapporti di amicizia con Ro- bin Blaser e Robert Duncan, oltre a numerosi artisti e studiosi che presero parte alla cosiddetta «San Francisco Renaissance». Morì nel 1965, a causa del suo alcolismo, dopo aver pubblicato alcuni libri in piccole edizioni fatiscenti. Contro il mercato del libro (chiamava il libro «il cimitero»), operò per una diffusione soprattutto orale della poesia, concentrando tutta la sua facoltà poetica nell’espressione di un rapporto continuo tra il poeta e le voci circolanti nella vita del poeta, reali o irreali che fossero. La sua personalità irriverente, congiunte a una palese erudizione e genialità, hanno contribuito a creare intorno a lui un interesse sempre maggiore nella comunità poetica.

 

Zeus! è donna

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Estratti da Zeus! rivista mutante n°86 – Edizione quarantena *

Compromesso
Ho un compromesso da risolvere: quello della vagina. Io odio le donne: sono più consapevoli, sono bisbetiche. Bisogna rassegnarsi. Non le conosco le donne. Le odio, quella che odiavo di più si chiamava Loredana. Mia mamma la amavo, aveva una cipria, la metteva sulla faccia. Io non posso perché sono un uomo. Non posso la gonna, non posso il rossetto: sono un uomo, l’ha deciso il Padreterno.
(Enrico)

I generi, vari e assortiti
In genere ho un buon carattere, in genere vado al bar di sabato. Avevo dei genitori e poi sono morti. Io di genere sono una donna, Tullio è un uomo o anche un ragazzo, può essere chiamato nell’uno o nell’altro modo e non cambia il sesso. Una persona degenere, degenerata, degenerante, di un’altra generazione o della nostra generazione, una persona generosa di un’altra epoca come la Belle Epoque, che era un periodo bellissimo con il Can-can e quei vestiti larghi, molto voluminosi e “sberluccicosi”. Il generale è molto importante in guerra perché deve combattere e vincere, e se non vince non gli danno il premio. A me piacciono i Duran Duran, il loro genere è il pop, a me piace anche il rap. I generi alimentari sono i prodotti che si mangiano e si vendono nei negozi alimentari: io sono golosa e li mangio tutta presa e attratta dal cibo. Il genero è un parente, che non sempre fa piacere vedere ma finché lo vedi vuol dire che è ancora vivo.
(Michela)

L’unghie
Unghie: sto mangiando. Metto smalto in estate, in inverno non metto. Mi piace rosso, sui piedi rosso e sulle mani blu. Non vado da estetista, che dici!? Unghie corte, pulite, ordinate e dopo mangio ancora, gusto formaggio.
(Monica)

Se fossi donna
Se fossi donna amerei fare un’altra vita. L’ho sempre immaginato, però una cosa che vorrei è che se fossi donna almeno non disabile. Essere una donna lavoratrice anche solo un part-time in modo da avere una mezza giornata libera. Una volta tornata a casa mi cambierei mettendomi comodi vestiti: leggendo qualche libro o mettendomi al computer. Per i vestiti indosserei jeans, camicette a fiori e sopra la giacchetta, mi sa che non indosserei mai la gonna. Come donna mi immagino magra e alta con capelli lunghi, se fossi donna mi vedrei single.
(Franco)

Le mestruazioni di Michela: terminate e io ne sono soddisfatta anche se a volte ho un po’ di mal di pancia
Non mi sono più venute le mestruazioni: sono in menopausa da poco. Anche la Paola, lo dice da tempo , sarà vero? Non sono più la stessa Michela di prima, ho cambiato. Una vera donna che si sente viva e si sente contenta è una donna con le mestruazioni, è più serena. Ogni donna deve averle, se non le hai sei una persona fottuta. Non ne faccio un dramma però, accetto senza problemi questa condizione di persona giovane con speranze reali e irreali ma senza mestruazioni nella quale sono stata catapultata improvvisamente. Dicono che si vive una volta sola e mi sa che è vero, quindi potrei morire da un momento all’altro. Ogni tanto sento dei dolori che partono dalla pancia e salgono fino al seno, dovrei parlarne coi dottori, sarebbe ora! Dovrei fare anche una dieta un po’ più specifica, sono un po’ ingrassata … Non saprei di preciso a chi chiedere consiglio però, di sicuro non chiederei all’Alessandra che pensa sempre e solo a mangiare, forse chiederei ad uno psicologo, sono sicura che può consigliarmi cosa mangiare e cosa non mangiare. Io sono una tipa ottimista comunque e vedo dell’ottimismo anche nel pessimismo e mi rassegno alla vita che viene giorno per giorno.
(Michela)

Pro e contro dell’erezione
La Paola è troppo giovane, secondo me dovrebbe andare in menopausa quando hanno perso lo stimolo sessuale, che cambia da persona a persona, a seconda se l’ha usata tanto o poco, almeno per l’uomo è così. Di menopausa ne avevo già sentito parlare, soprattutto delle scalmane, che provocano alcuni momenti di calore. Secondo me noi uomini abbiamo come un caricatore che dopo un certo numero di colpi si esaurisce. Dipende da come viene presa dall’individuo: c’è chi si è impiccato, come un siciliano che abitava nel palazzo dietro il mio, l’ha fatto davvero, si è impiccato in cantina o così si dice visto che non si sa ancora oggi se è stato davvero un suicidio. Personalmente penso che quando arriverà il mio momento non me la prenderò più di tanto, anche se un po’ dispiaciuto me ne farò una ragione.
(Gianfranco)

La donna incinta
Donna gravida, donna incinta: va in un ristorante, tipo a New York, a mangiare una pizza con porcini e grana. E’ gravida, vuole qualcosa: vuole le coccole, vuole mangiare i dolci. Non può fare il lavoro, non può fare le pulizie, non può cadere. Se si arrampica con la pancia rischia di perdere il bambino, è meglio che non salga. Può studiare, disegnare e anche andare in giro con qualcuno. Non può fumare, può bere un pirlo, solo uno però. Quando nasce il bambino lo cullerà e lo chiamerà Andrea.
(Alessandra)

Giulio
Io uomo: macaco. Nome: Giulio, lavoro: Gare con la moto.
Biondo, basso, grasso, sposato con Giulia Mottinelli con bambino piccolino. Battesimo Papa Francesco.
(Giulia)


* Zeus! é la rivista bimestrale della cooperativa “Il Cardo”. (…) L’obiettivo principale di questa rivista è quello di mettere su carta le parole degli utenti della cooperativa, per far sì che esse rimangano, che siano una traccia oggettiva dell’esistenza di queste persone. Una volta pubblicata, la rivista crea un ponte comunicativo e diventa fruibile dal mondo esterno. (…) Il taglio generale della rivista è principalmente ironico (e auto-ironico): a Zeus! interessa raccontare, far riflettere, far ridere attraverso canoni spesso non propriamente convenzionali e che non siano mediati e indirizzati dagli usuali stereotipi che il mondo esterno ha e utilizza per relazionarsi con l’handicap. (Tratto dal sito della cooperativa Il Cardo)

[L’abbonamento alla rivista ha la durata di un anno (6 uscite bimestrali) e costa 20 euro. Invii in Italia eall’estero, il costo della spedizione è compreso nel prezzo dell’abbonamento. Qui i dettagli]

Questo numero avrebbe dovuto uscire uscire in marzo, di qui il tema scelto; le illustrazioni di copertina di Zeus! rivista mutante n°86 sono di Elena Tognoli

(Nazione Indiana in passato ha ripreso testi e disegni da un altro numero di Zeus!)

La postura

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di Paolo Morelli

La formula della cosiddetta decrescita felice sembra passata di moda, se mai lo è stata. Si presenta ogni volta e si arena immediatamente sulla spiaggia delle buone intenzioni, calmierante, da ricchi. Si capisce subito che si basa sugli stessi presupposti che hanno creato la deriva in atto, un ulteriore affinamento del sapere tecnologico ad esempio che presuppone ulteriori sfruttamenti di uomini e cose, messo al servizio di una maggiore ‘facilità’, benessere, comodità o supposta semplificazione della vita. Per ogni sogno che si avvera per il mondo di qua, tipo l’auspicabile mobilità elettrica, si apre un nuovo incubo nel mondo di là, fatto di miniere, terre devastate, altre sofferenze, carestie, malattie, sfruttamento, migrazioni etc. etc. Sofferenze che poi ritornano. È la assai ragionevole ultima spiaggia di un pensiero esausto. Dopo c’è il nulla, finalmente ci si può rilassare, affidandosi all’ineluttabile.
Tuttavia una certa sostenibilità, o sopportabilità sia ambientale che mentale dovrà pur esserci, perfino dando per scontato l’ineluttabile. Una forma di resistenza diciamo cosí, giacché l’ineluttabile prende qui la parvenza di qualcosa sì di nuovo, ma con una forte somiglianza di famiglia col fascismo, e in piú con una caratteristica assai stimolante: ha tendenza globale. E noi ben sappiamo che la riuscita di ogni avvenimento che abbia una forte somiglianza col fascismo abbisogna per svilupparsi di un terreno di miseria, non povertà che può essere dignitosa, può essere perfino un buon affare, ma proprio una miseria senza riscatto. In primo luogo certo quella dei mezzi di sussistenza, esiste però anche la prospettiva concreta di un detrimento dell’intelligenza con una forte somiglianza di famiglia con la miseria piú nera.
E, naturalmente o quasi, qualsiasi catastrofe o emergenza di quelle che sembrano attenderci nel futuro non potrà che peggiorare le cose, ogni volta di un grado o più.
Il dato di fatto da cui partire è che il mutamento in atto è di quelli epocali nel senso pieno della parola, il cui esito può essere esiziale appunto, oppure una occasione per tutto quello che abbiamo fin qui chiamato umanità. Una di quelle fasi eccezionali nella storia dell’uomo in cui la scelta fin troppo radicale potrebbe formularsi come bestializzazione/mutazione, tenendo ben fermo il fatto che oggi ogni conflitto pare si sia interiorizzato.
In un presente che ci appare sempre più insensato, senza tempo né progetto, policentrico e soprattutto, checché se ne dica, senza un vero controllo da parte di alcuno, in un campo di azione in cui il vero non possiede piú alcun privilegio sul falso ed è quindi destinato a soccombere, a sparire dalla faccia della terra ed essere sostituito dalla legge spuria del basso istinto, la critica, è ovvio, non dovrebbe provare ad essere altro che radicale; la direzione, come ultima ratio certo, non può essere altra che verso le basi, all’essenziale, liberandosi in prima istanza da un intralcio che a fatica definiamo umanista, vale a dire una fiducia mal messa sulla capacità umana di controllare i cambiamenti non solo antropologici ma addirittura biologici offerti dalle tecnologie da essa stessa create. Non è mai stato vero, dalla ruota in poi, basti pensare alla perdita delle capacità mnemoniche seguito all’invenzione della scrittura ad esempio, giacché ogni strumento inventato o utilizzato, lo affermano i paleoneurobiologi, non può che finire per alterare la nostra organizzazione cerebrale. “È curioso che l’uomo occidentale non abbia mai considerato una nuova invenzione come una minaccia al suo sistema di vita”, avvertiva il visionario McLuhan già nel 1964, e già ritenendo quanto l’attributo di occidentale sarebbe divenuto superfluo. Eppure lo sentiamo dire ogni giorno che tutto dipende da come le si usa, e vale per le armi come per le tecnologie. In questo nostro caso odierno poi è la potenza invasiva del sistema nervoso centrale cui sono abilitate le nuove strumentazioni, con una velocità di esecuzione e uno schiacciamento temporale mai visto nei millenni ad aver creato le condizioni, alle prese con un atteggiamento della mente che le usa, che crede di usarle, palesemente inadeguato.
Molto ma molto piú insomma di un semplice cambiamento di prospettiva come ce ne sono stati miliardi da quando c’è aria, quasi un terremoto, un ribaltamento per le nostre modalità cognitive.
Una volta liberati da tale presunzione lesiva del nostro buon nome di esseri pensanti non potremo più dubitare di quale sia la fonte del mancato privilegio di un vero qualunque nei riguardi del falso, la causa almeno principale per cui nessun vero si distingue ormai dal falso: un modo di ragionare che non funziona più, al cospetto dei mutamenti in atto.
Stiamo entrando infatti, non proprio a passo danza, nella pazzia all’epoca della sua riproducibilità tecnica. Se il vero ha sempre avuto difficoltà a farsi credere, la menzogna e la pazzia, o ancor peggio forse la mera stupidità si sa quanto siano incontrollabili e moltiplicabili con facilità. Oggi approfittano di possibilità immense. Non si vede perché non dovrebbero riprodursi a dismisura come gli altri nostri messaggi, ma con maggiore efficacia penetrativa. Non si vede perché assieme ai forum e agli appelli per la pace la base di diffusione pressoché illimitata non debba favorire pure il proselitismo dei tagliagole o la brutalità da salotto dei frustrati di cui è pieno il mondo. O che la condivisione social non possa essere viatico per emulazione dell’idiozia stragista, giacché la violenza come gioco narcisistico non soltanto è pericolosa ma inarrestabile. O che, infine, lo stato turpe di “solidarietà negativa” (Hannah Arendt) non possa essere amplificato dalla comunicazione digitale. Non è solo il rovescio della medaglia, è la medaglia tutta che è falsa. Ecco che il vero sta diventando delinquenziale, o almeno quello che è stato selezionato per vero dalla società che ci ospita. Ecco che siamo in grado di apprezzare solo il finto, l’edulcorato, l’artificioso, il complicato e ci danno fastidio non solo le cose autentiche e le più semplici ma anche quelle ricche di complessità. Non abbiamo altra chance che prenderne coscienza.
Eccoci quindi all’ultima ratio che si trasforma in buona occasione: mai come ora può apparire chiaro come la totale esperienza del mondo dipenda dall’orientamento della mente. Ad esempio, l’ambiente mentale e umano mutato dall’invasività delle tecnologie, le condizioni percettive e cognitive del tutto nuove, rendono improvvisamente inattuale e inadatta la concezione finora dominante, quella che tende a contrapporre il tempo autentico, il tempo interiore della coscienza al tempo esteriore del mondo. E se il tempo interiore ha consentito la costituzione del concetto di coscienza individuale come luogo di emancipazione, ha anche determinato la riduzione dell’esperienza al momento della coscienza, rimuovendo gli elementi dell’inconscio come il nostro ‘essere nel mondo’ corporeo.
Dalla smaterializzazione delle esperienze e dell’esistente, con susseguente estetizzazione (l’allontanamento delle cose ritenute sgradevoli è corroborato in prima istanza dall’instaurazione del linguaggio corretto: non-vedente per cieco, ‘interrogatorio intensificato’ al posto di tortura…; viatico poi per un ulteriore passo dell’addio al buon senso: che so, il cambio del finale alla Carmen di Bizet per femminicidio com’è successo tempo fa al Maggio Musicale Fiorentino, o magari preparando il terreno con notizie che non si può sapere quanto siano false, tipo quella del blocco alla Sorbona de Le Supplici di Eschilo per razzismo), all’esilio del dalle attività della conoscenza, all’esilio dalla vita in definitiva. Altro esempio, facciamo i conti con un progressivo restringimento della nostra prospettiva dovuto a molte ragioni, e una è certamente l’ansia forzosa da presentificazione come un effetto collaterale dell’irriducibilità del nostro tempo psichico con quello informatico che tende, anzi pretende, la simultaneità di azione e reazione.
Ora che all’intelligenza per millenni considerata la più evoluta, quella ‘sequenziale’, si sostituisce quella ‘simultanea’ caratterizzata dalla capacità di trattare allo stesso tempo più informazioni senza però essere in grado di stabilire una successione o gerarchia o ordine, ecco come si impoverisce il pensiero.

 

Sarebbe un insulto ai saggi definirlo un saggio. Comunque sia, tratta (prova a trattare) della necessità, per me urgente anzi imprescindibile di un addestramento, per riacquistare lo spirito critico che ognuno crede fortemente di avere e invece perde a fronte dei mutamenti percettivi e cognitivi, per lo più senza accorgersene.
Sto cercando di spiegarlo in poche (64) parole, ma è più sghembo di così.
Poi però ci sono i disegni originali di Carlo Bordone, allora le parole diventano settantanove.

P.M.

 

NdR: il testo di Paolo Morelli fa farte della raccolta “La postura del guerriero”, pubblicato recentemente da Sossella, che ha gentilmente concesso il permesso di riportarlo qui

 

“Soleil grigri” (1/4): da “Quarto vuoto”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil grigri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla prima sezione del libro, Quarto vuoto. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Cardine Kinski, La primavera torna indietro e Salut, voilà].

 

Scuola di ballo

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di Paolo Codazzi

Mostratemi qualcuno sano di mente e lo curerò per voi…
Carl Gustav Jung

Non avrei mai immaginato che all’estrema periferia della città, dove fino a pochi anni fa la piana s’imputridiva in maleodoranti acquitrini infestati da varie specie di insetti, involontari portantini di organismi patogeni, e dove l’uomo si guardava bene dall’avventurarsi, salvo alcuni pescatori di anguille e cacciatori di volatici endemici a quell’ecosistema (definizione di recente attribuzione, prima il luogo veniva genericamente denominato pantanaio), e dove ora si addensano numerosi alveari umani in un reticolato cicatrizzato di erba ingiallita, non avrei mai immaginato, appunto, che in quel luogo ci fosse una bella villa seicentesca: residenza per secoli di un casato nobiliare discendente da un ramo inferiore dei Medici, al centro di un esteso e suggestivo parco qualificato dalla presenza di esemplari secolari di monumentali alberi sui lati di stagni punteggiati di ninfee, dove il fervore dei naturalisti ha raccomandato la restituzione della palude che un tempo infettava tutta la piana, allora guardata con ostilità anche per le malattie di cui era incubatrice, oggi con il rimpianto di un ambiente ormai del tutto estinto escluso quei tre laghetti sulle cui sponde cartelli didattici indicano le specie di flora e fauna che ancora sopravvivono in quell’estensione piuttosto ampia di alberi, campi infiorati, laghetti sui quali è pure possibile noleggiare una barchetta per romantiche crociere.
In uno dei grandi prati che interrompono la vegetazione e l’area riproducente il nostalgico acquitrino e dove il sole cominciava a distendersi giocando sui riflessi dell’erba ancora umida della brina notturna, vi erano due tende di quelle da campeggiatori, separate da un tavolo su cui era appoggiato un potente amplificatore per la diffusione della musica: simile a quelli che a volte si notano sulle spalle di giovani schiamazzanti negli stretti e rimbombanti borghi cittadini e che infastidiscono le stanche pietre superstiti alla furia degli uomini. Un emiciclo di sedie, non tutte occupate dai pochi spettatori, si raccoglievano attorno ad un improvvisato palcoscenico formato dalle tende e dal tavolo e, sedute in ordine sparso, alcune coppie abbigliate in modo stravagante con abiti di un recente passato: immobili, variopinte porcellane di Capodimonte, attendendo il via del maestro, presumibilmente di ballo, che appoggiato al tavolino, prima suggeriva alcune indicazioni sulle figure da eseguire (e ciò esemplificando con ampie e rotatorie evoluzioni delle braccia), poi detonava l’impianto e la musica irrorava il luogo facendo scattare le coppie in volteggi armonici di ballo classico in un delirio di colori simile ad un caleidoscopio animato sullo sfondo del verde risvegliato dal sole.
Quasi subito il maestro interrompeva la musica e urlando, ma sorridendo, suggeriva movimenti mimandoli con il suo aggraziato corpo, correggendo quelli che difettavano della necessaria perfezione secondo canoni codificati di ogni particolare ballo classico. Era più il tempo dell’attesa che non quello in cui lo spettatore poteva dilettare lo sguardo e l’udito con la grazia e l’armonia della musica e del ballo, ma nonostante questo gli spettatori assistevano immobili ed attenti rapiti dallo spettacolo cui erano partecipi, senza nascondere nei malcelati brevi commenti, improvvise esclamazioni, un desiderio latente del quale non avevano mai avvertito la necessità.
Mi soffermai a osservare una grande acacia di fianco ad un cipresso calvo e lessi attentamente le schede didascaliche che diligentemente dettagliavano la morfologia della pianta, l’epoca di origine e le zone della terra nelle quali attecchiva spontaneamente. Poco oltre questo gruppo di alberi secolari, quasi quattro secoli fin dalla costruzione della villa che il marchese volle in quel luogo come tributo alla passione per la caccia ai volatili, ma che pretese circondata da un’oasi verde emulando le grandi dimore che nel periodo venivano costruite per le varie e intrecciate nobiltà europee, notai alcuni uccelli acquatici giocherellanti tra loro con grandi e improvvisi balzi nell’acqua stagnante del laghetto vivacizzata dagli spruzzi dei loro svolazzi: ignari di una grande biscia che in agguato attorcigliata ad un sasso nei pressi della riva opposta del laghetto attendeva che una preda fosse alla portata della sua aggressività. Era il segnale, seppure in una progettata cattività, di una irreversibile primordialità di lotta per la sopravvivenza come del resto siamo usi vedere nei molti documentari sulle savane africane che la televisione trasmette in continuazione, quasi ad emendare le colpe dell’uomo di fronte al grande merito dell’umanità nell’aver abbandonato simili meccanismi di sopravvivenza: o comunque di averli depurati della cruda evidenza.
La musica crepitò di nuovo chiassosa, con note di un celebre tango che il maestro ballò da solo per mostrare agli allievi movimenti e ritmi adeguati alla grazia della musica: sembrava che volasse tanto le gambe si levavano da terra e vi ritornavano con la leggerezza sicura di un volatile: non certo quelli che avevo notato nel laghetto che al deflagrare delle prime note schiamazzarono dall’acqua in uno volo sguaiato e chiassoso che peraltro li salvò dalla biscia in agguato.
Una giovane e graziosa ragazza si alzò dalla sedia e raggiunse il maestro al centro dell’improvvisata pista da ballo e, unendosi a lui nel tango con la medesima leggerezza, insieme completarono tutta l’aria musicale tra gli applausi degli altri e del sottoscritto che in quell’applauso concentrava la delusione, mai risolta, di non saper ballare, pur avendolo sempre desiderato. Infatti non ero mai riuscito a trovare l’accordo con la danza e le codificate movenze di ogni particolare ballo classico, il ballo era sempre stato un meschino espediente per appoggiare il corpo a quello di una donna preoccupandomi soltanto delle sensazioni suscitate dal contatto e disinteressandomi dell’armonia gestuale e di come questa dovesse conciliarsi alle musica. Non avevo mai imparato a ballare, nel senso tecnico del termine, così come non sapevo cantare, così come non sapevo fischiare: un vuoto esistenziale, un buco nero nella personalità che ancorché non grave, e che per molti altri non avrebbe davvero costituito preoccupazione, mi opprimeva da sempre con un senso di incompiutezza, di inabilità alla vita: forse alla stessa maniera con cui l’uomo manca il volo possibile a tante altre specie animali.
Quasi che avesse improvvisamente colto le mie riflessioni, un uomo si alzò dalla sedia iniziando a cantare con una voce bellissima e un’intonazione coerente con la musica, incoraggiato dal maestro che sorridendogli e incentivando la velocità delle evoluzioni quasi l’obbligò a continuare nel melodioso canto che zittì il sorpreso brusio degli spettatori. Un’altra giovane e graziosa ragazza si alzò e guardando oltre la mia testa, verso gli alberi più alti, cominciò a fischiare facendo da controcanto al felice canto dell’uomo: La musica, il canto, il fischio in controcanto, si fusero in raffinata melodia che difficilmente si può avere l’opportunità di udire e che consentiva al maestro visibilmente soddisfatto e all’allieva sorridente di felicità, di scivolare, svolazzare sull’erba umida appena mossa da una leggera brezza nel frattempo fusasi all’insieme.
Tutto questo continuò per circa un’ora tra l’evidente soddisfazione di tutti, rendendomi gioioso per l’opportunità del luogo che non conoscevo, per la sorpresa della musica e del ballo che in vita mia non avevo mai visto eseguire in maniera tanto perfetta e, soprattutto, senza cagionarmi rimpianti di alcun genere per non saper ballare, cantare e fischiare; vivevo una felicità oggettiva che s’inseriva nel mio umore ed era come se anch’io in quel momento sapessi cantare, ballare e fischiare… Infatti, mentre un autobus infranse l’armonia del luogo con la rumorosa manovra d’accosto al marciapiede fuori del parco, e lo intravidi da una smagliatura tra le piante, corsi a passo di danza sul prato seguito da un’altra giovane e attraente ragazza che si alzò correndo verso di me e abbracciandomi nella guida di un tango che figurai in modo straordinario non avendo mai sospettato di poterci riuscire; istintivamente cominciai a cantare il motivo della canzone con un’intonazione sorprendente, ma la sorpresa maggiore fu socchiudere le labbra in un armonioso fischio che si unì al controcanto dell’altra ragazza: tutti applaudirono il maestro, le ragazze, il cantante e il sottoscritto per la grande rappresentazione di musicalità e armonia che offrivamo al pubblico nel frattempo gonfiatosi di altri spettatori. E anche numerosi bambini gioiosi applaudirono nella soddisfazione delle madri, tentando di imitare le figure di quel memorabile ballo sull’erba di un prato ancora bagnato per la brina della notte.
Alla fine del motivo il maestro si staccò dalla ragazza baciandola affettuosamente sulle guance, cosa che anch’io feci staccandomi dalla compagna di ballo, e richiamò tutto il gruppo indicando l’orologio al polso verso un qualche ritardo.
Si raggrupparono raccogliendo le proprie cose e salutando i presenti, con gesti plateali delle braccia, si diressero verso l’uscita del parco dove un capannello di anziani leggeva e commentava ad alta voce le apocalittiche notizie dei quotidiani. L’autobus era per loro, vi salirono ordinatamente sempre nel brusio di una grande felicità, e il rumoroso automezzo ripartì sfiammando una nuvola di fumo e offrendosi per un attimo in tutta la sua interezza tra il diradarsi degli alberi lungo il perimetro del parco: Centro Riabilitazione Psichiatrica e Medicina della Mente, era scritto in caratteri cubitali sulla fiancata al di sotto dei finestrini dai quali salutavano i membri della Scuola di Ballo.

NdR: l’immagine: Flores Balbuena, senza titolo, Collezione Museo del Barro, Assunción

Vesti la Giuba

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di

Francesco Forlani

La ganga dei poeti si premia e incensa sui giornali manifestamente di sinistra. Che poi tutti sanno che la poesia non è una cosa di sinistra, come la musica e la pittura del resto. Al massimo si potrà dire di tali opere che sono sinistre anche se premiate e incensate sui giornali manifestamente di sinistra. La poesia o è nuda o non è. Altrimenti è atteggiata, tronfia, saccente, insomma inutilmente addobbata. Compito del lettore dovrebbe essere, quando gli capita il miracolo di trovarsi di fronte a una vera poesia, non quello di spogliarla dei sensi e significati, ma di rivestirla timidamente come si farebbe con un amico o un’amica ai margini della vita. La poesia è mendicante, e i veri poeti dei miserabili, altrimenti, diciamolo pure, ci si trova di fronte allo stile senza verità, allo sforzo titanico della montagna che partorisce strane minuscole creature portate a credersi per strani giochi di specchi, giganti o ciclopi accecati dalle proprie frenesie. Poiché parliamo di poesia, ecco un’opera nuda, Ritratto di famiglia, Oèdipus Edizioni, di Anna Giuba, poesia che vale la pena vestire con la propria attenzione e pochi cenci.

NT (nessun tempo)

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di Alessandra Greco

Etan Thomas: We matter – racial profiling in USA

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[Pubblico alcuni estratti dal libro We Matter: Athletes and Activism di Etan Thomas, Akashic Books 2018, tradotti e introdotti da Riccardo Valsecchi, che ringrazio – JR]

Da ragazzino, il basket era tutto per me. Per la verità, non avevo un gran talento, ma conoscevo ogni dettaglio di qualsiasi giocatore NBA : dati biografici, caratteristiche tecniche, interviste, statistiche anno per anno, partita per partita. Sicché, anche se oggi vivo negli Stati Uniti, in questi tempi di COVID, quando in concomitanza con l’Italia Netflix ha trasmesso il documentario “Last Dance” su Michael Jordan ed i Chicago Bulls, non ho potuto fare a meno di parlarne con i miei compagni di squadra di allora. Mentre in Italia i miei amici si dimostravano estremamente entusiasti, riportati indietro nel tempo dalla memoria delle gesta atletiche di Sua “Airness”, io, a miglia di chilometri di distanza, ragionavo con i miei colleghi odierni sulle critiche e polemiche che il documentario aveva suscitato qui, soprattutto per il disimpegno politico di MJ simbolizzato dalla famosa frase “Republicans buy sneakers too” – anche i Repubblicani comprano scarpe – pronunciata per giustificare il suo mancato appoggio ad un candidato afroamericano democratico del North Carolina nelle elezioni per il Senato del 1990.
Poi, quando il 25 maggio 2020 George Floyd è stato barbaramente ucciso da un poliziotto di Minneapolis, scatenando proteste in tutti gli Stati Uniti, per una volta con il sostegno esplicito anche del riservato ed apolitico MJ, in Italia sono cominciati a circolare sui social network montaggi fotografici come questo qui sotto. Allora ho avuto l’impressione che per gli italiani anche MJ, probabilmente il più grande atleta di tutti i tempi, non è un uomo, non ha diritto di avere un’opinione, di pensare; in Italia, come ogni afro-europeo che corre sui nostri campi di calcio, è considerato solo un animale, tale e quale ad una bestia da trotto, che abbiamo celebrato quando era il più veloce, ed uccidiamo a sangue freddo quando decide di non seguire gli ordini – e le frustate – del fantino.
Per questo, con questi estratti, vorrei farvi conoscere il lavoro e le testimonianze raccolte da Etan Thomas, ex giocatore NBA, poeta, scrittore ed attivista. – Riccardo Valsecchi

ETAN THOMAS – WE MATTER

Dall’introduzione:

Nel momento in cui questo libro viene pubblicato, il Presidente Donald Trump ha lanciato un violento attacco contro ogni giocatore della NFL [Lega professionista di football americano] che ha protestato contro i soprusi della polizia a danno della communita afroamericana, ed alla Lega stessa per non avere sanzionato gli stessi. Il presidente ha pubblicato numerosi tweet chiedendo alla Lega di obbligare i giocatori di stare sull’attenti durante l’inno nazionale. La maggior parte dei giocatori della NFL, e gli amministratori delegati delle squadre, sembrano aver compreso che, in realtà, viviamo in una democrazia, e non sotto dittatura, e che la vera libertà di stampa e la libertà d’espressione sono i valori essenziali su cui si basa una democrazia. Trump, forse inconsciamente, ha gettato benzina sul fuoco della giustizia.

Sfortunatamente, la tempesta di fuoco creata dal Presidente ha creato solo confusione intorno a ciò per cui veramente le proteste sono nate. Non si è mai trattato di protestare contro di lui, contro i militari, o contro la bandiera. Si è trattato e si tratta piuttosto di fare sentire il proprio dissenso contro le uccisioni di esseri umani neri disarmati da parte della polizia, e contro l’inadempienza della giustizia di fronte a queste morti.

Dal cap. 1: I FIGLI DEL MOVIMENTO

Mio figlio Malcolm aveva appena sei anni quando Trayvon Martin fu ucciso. Era un bambino amabile, a cui piacevano gli sport, il cartone animato di Avatar, il nuoto. Chiunque lo considerava un bambino adorabile. Osservavano i lunghi dreads, il gigantesco sorriso, ne ammiravano la gentilezza nel parlare con gli adulti. Era anche un bambino enorme: io sono due metri e sei centimetri, mia moglie un metro ed 80, quindi Malcolm avanzava di testa e spalle sopra tutti i suoi compagni di classe. Perciò, mi sono sentito in dovere di spiegargli che non sarebbe stato sempre guardato come un dolce bambino. Dovevo spiegargli che, più cresceva, essendo così alto per la sua età, più sarebbe stato guardato con timore. Aveva un’innocenza che avrei dovuto rovinare per il suo bene. Si comportava ancora come se chiunque lo avrebbe trattato gentilmente per sempre.

Il caso di Trayvon Martin mi ha sconvolto da così tanti punti di vista che non saprei neppure da dove iniziare. Secondo il rapporto della polizia, il 26 febbraio 2012, Trayvon si sta recando presso un negozio 7-Eleven prima dell’inizio dell’All Star Game della NBA. Passeggia tranquillamente attraversando un quartiere privato dove si era recato per visitare un conoscente. George Zimmerman, non un membro delle forze dell’ordine, ma semplicemente una guardia privata di quartiere, chiama il 911 per segnalare una persona sospetta.

Zimmerman: “Hey, abbiamo avuto alcuni furti nel quartiere e c’è un ragazzo molto sospetto… sembra che abbia brutte intenzioni o che sia sotto l’effetto di stupefacenti o qualche cosa del genere…”

Zimmerman poi specifica che il ragazzo è un nero.

Infine, aggiunge: “Mi ha appena fissato minaccioso.”

Mentre è al telefono con il centralino della polizia, Zimmerman spiega che il ragazzo sta “correndo”. Quando gli viene chiesto dove, risponde, “verso il cancello d’entrata del quartiere.”

Nella registrazione si può sentire il respiro affannato mentre il centralinista chiede a Zimmerman: “Lo sta seguendo?”

Zimmerman risponde di sì, ed il centralinista replica: “Non abbiamo bisogno che lo seguiate.”

Da questa registrazione si evince che sia Trayvon quello spaventato, il che sarebbe anche comprensibile. Se io stesso mi voltassi e vedessi un uomo che mi squadra in un SUV nascosto nell’oscurità senza alcun motivo apparente, mi sentirei altrettanto a disagio.

Quando la polizia arriva, il diciassettenne Trayvon Martin, fedina penale immacolata, nessun precedente, in possesso di una borsa di plastica contenente un pacchetto di caramelle Skittles, una confezione di tè freddo, il proprio cellulare e degli auricolari, giace inerme freddato da un colpo di arma da fuoco.

Zimmerman non viene arrestato, anche se ammette di avere sparato. La polizia ritiene di non aver riscontrato alcuna evidenza probatoria e Zimmerman sostiene di essersi autodifeso.

Mi chiedo, che cosa significa esattamente auto-difesa?

La malaugurata realtà è che nella mente di Zimmerman non c’era alcun bisogno di vedere una pistola, o di notare qualche cosa di pericoloso nel comportamento di Trayvon. È semplicemente una sfortunata realtà che “giovane maschio nero” sia l’equivalente di “minaccia”, e “giovane maschio nero di notte” equivalga ad una minaccia ancora più pericolosa?

Non importa che le direttive su come debbano essere svolte le sorveglianze di quartiere prevedano come regola primaria che la guardia non sia armata.

Non voglio nemmeno soffermarmi sul fatto che nell’arco di otto anni Zimmerman abbia chiamato la polizia 46 volte, o che nel 2005 fosse stato arrestato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale — un dato che di per sé avrebbe per lo meno dovuto avanzare alcuni dubbi sulla sua compatibilità con il ruolo di vigilante di quartiere.

Non voglio neppure argomentare che la difesa del proprio territorio, garantita dalla legge in Florida, non sia applicabile in questo caso, per il semplice fatto che, come si evince dalle registrazioni, Zimmerman abbandona il proprio veicolo ed insegue Trayvon.

Sicuramente, inoltre, non ho alcuna intenzione di fare delle illazioni sul colore della pelle di Zimmerman. Come ha detto il reverendo Al Sharpton, “il colore della pelle o l’etnia di Zimmerman o di qualsiasi altro cittadino in questo scenario non conta; alla fine ciò che conta è il colore della pelle della vittima, di Trayvon. È il colore della pelle ed il gruppo demografico a cui appartiene la vittima che viene costantemente rappresentato come una minaccia, che viene ripetutamente descritto in maniera negativa nella cultura di massa.”

È questa percezione che ho dovuto insegnare a mio figlio: la mera verità che, nella sua mente, Zimmerman si sentisse giustificato e ragionevolmente spaventato appena ha messo gli occhi su Trayvon. Non ha visto un innocente ragazzino che beveva il tè freddo. Ha visto una minaccia, un criminale, qualcuno che poteva essere sotto l’effetto di droghe, o intento a qualche cosa di malvagio.

Ho dovuto rovinare la visione rosea del mondo di mio figlio. Ho dovuto insegnargli:

  1. che ci saranno persone che lo vedranno come un nemico anche se non avrà fatto nulla di male;
  2.  che spesso sarà braccato ed accusato, e ci saranno persone che saranno spaventate dal suo aspetto;
  3. che se la polizia lo ferma, deve cercare di trovarsi in una zona ben visibile, e di non fare alcun movimento brusco;
  4. di tenere le mani sempre ben visibili, di evitare di tenerle in tasca;
  5. di spiegare a voce ogni azione (per esempio, “signore, sto mettendo la mano in tasca per prendere la patente”);
  6. di tenere sempre la ricevuta di ogni acquisto, sicché nessuno lo può accusare falsamente di furto;
  7. che molto spesso non c’è differenza tra “essere colpevoli” ed “essere visti come colpevoli”

Ho dovuto anche insegnargli di Emmett Till, James Byrd Jr., Amadou Diallo, Sean Bell, Oscar Grant, Rodney King, Eric Garner, Tamir Rice, Rekia Boyd, Philando Castile, Sandra Bland, Michael Brown, Terence Crutcher, John Crawford, Alton Sterling, e Freddie Gray.

Ho dovuto insegnargli tutto questo per la sua sicurezza. Non avrei mai voluto sottrargli la sua innocenza, ma per il suo stesso bene, ho dovuto.

Dal Cap. 2 – L’attivismo degli atleti conta (ATHLETE ACTIVISM MATTERS)

Il commentatore televisivo Geraldo Rivera ha dichiarato durante il programma Fox & Friends che la felpa con cappuccio indossata da Martin quando è stato ucciso è stata responsabile della sua morte tanto quanto l’uomo che l’ha ucciso. L’americano medio sembra essere d’accordo con questa asserzione.

Ciò ha indotto atleti di ogni sport ad aderire alla protesta.

Dwayne Wade e LeBron James, verosimilmente due dei migliori giocatori nella NBA, ma, cosa più importante, anche genitori, decisero allora che era arrivato il momento di far sentire la propria voce, come stavano facendo molti altri nella Lega.

In dimostrazione di solidarietà, LeBron James ha postato una foto di tutta la squadra dei Miami Heat con felpe, testa incappucciata e mani in tasca. Tra gli hashtag aggiunti nella foto: #WeWantJustice #vogliamogiustizia.
(…)

Intervista a Dwyane Wade

Etan: Raccontami della decisione di indossare i cappucci come team.

Dwyane Wade: È stato decisamente normale per molti ragazzi della squadra. Ovviamente, essendo afroamericani, abbiamo dovuto andare a casa e spiegare ai nostri figli questa situazione, rispondere alle loro domande e preoccupazioni, tranquillizzare le loro paure. È stata una conversazione molto difficile, perché si tratta di qualche cosa che potrebbe succedere ad ognuno di noi. Giocavamo in Florida, e sapendo che Travis era un fan dei Miami Heat, ci siamo sentiti in dovere di rilasciare una dichiarazione che aprisse uno spiraglio di luce sulla situazione e cercare di capire che cosa potessimo fare. Non volevamo che si trattasse dell’ennesimo incidente passato inosservato, non ascoltato, non visto. Volevamo che fosse trasmesso in tutto il Paese ed in tutto il mondo, e, dal momento che siamo volti noti della NBA, quindi abbiamo una enorme piattaforma a disposizione, abbiamo utilizzato il nostro potenziale comunicativo per trasmettere questo messaggio. Ed ha trovato riscontro in tantissime altre persone, specialmente dopo che abbiamo mostrato quanto avesse colpito noi.

Etan: Ricordo che tu hai raccontato dei tuoi figli e di quanto adorassero le felpe con il cappuccio. Allo stesso modo, infatti, anch’io raccontavo in giro quanto mio figlio amasse indossare felpe.

Wade: Infatti, questo è il punto. I ragazzini afroamericani, quelli alti quanto i nostri figli… qualsiasi sia la situazione, tutti noi indossiamo felpe con il cappuccio. E da lì a usare quest’aspetto come giustificazione per l’omicidio, come ragione per cui questo ragazzino, Trayvon Martin, non sarà mai più in grado di assaporare i frutti della vita, e non potrà crescere, laurearsi, sposarsi, avere figli, vivere… tutto ciò è molto triste. È stato spazzato via dalla faccia della terra. Per cosa? Per il suo cappuccio? Perché non aveva il diritto di camminare nel quartiere in cui stava semplicemente camminando? Per molti di noi è stato un momento di riflessione da condividere con i nostri figli, per poter discutere il motivo per cui ci sono cose che non teniamo da conto, che diamo per garantite, ed improvvisamente tutto potrebbe finire in tragedia per un nonnulla. Ricordo di avere avuto questa conversazione con i miei figli, ed anche se non hanno capito tutto esattamente, è stato importante informali, cercare di rispondere alle loro domande e parlare di tutto ciò che stava succedendo.

Etan: C’è la percezione errata che l’organizzazione imporrebbe di non parlare pubblicamente su problemi come questo perché potrebbe essere deleterio per il business. O che il proprietario della squadra si potrebbe rivalere sui giocatori multandoli o sospendendoli o addirittura cedendoli se viene fatto qualche cosa del genere riguardo ad un tema che si è rivelato così divisivo e controverso. Ma questo non sembra essere il caso di ciò che è successo qui con i Miami Heat. Inoltre, a me sembra che anche se l’organizzazione fosse stata contro di voi, avendo fatto questa cosa tutti insieme, avete in qualche modo forzato loro la mano a seguirvi su questa strada.

Wade: Penso che oggi viviamo in tempi differenti. Con i social media così potenti, oggi tutti quanti siamo essenzialmente reporter. È diventato così difficile importi di non fare o dire una determinata cosa che tu vuoi comunicare sulla tua piattaforma social. Se l’unico sbocco fosse un giornale o televisione locale, allora forse le squadre avrebbero più controllo su ciò che passa e non passa all’esterno, ma con i social media, siamo in grado di dire praticamente tutto ciò che vogliamo. Comunque, con noi, gli Heat sono stati molto di supporto e non hanno mai provato a dissuaderci dall’essere coinvolti. Sono stati anzi proprio i nostri allenatori a fare le fotografie per noi.

Etan: Gli allenatori?

Wade: Sì, ci hanno aiutato perché sapevano che era molto importante per noi… Onestamente, non sono mai stato in un’organizzazione che non ha dato il proprio supporto ai giocatori che volevano esprimere o fare qualche cosa collettivamente.

Etan: Ora passiamo alla serata di premiazione per l’eccellenza sportiva annuale, durante la quale tu, Carmelo (Anthony) e Chris Paul siete saliti sul palco ed avete rilasciato ognuno la vostra dichiarazione, chiedendo partecipazione ed attivismo ai giocatori, nonché denunciato il sistemico svilimento di neri e latini negli Stati Uniti d’America. Che cosa vi ha indotto a fare queste dichiarazioni congiunte e usare questo particolare evento come piattaforma?

Wade: Beh, non puoi essere nella posizione di LeBron, Carmelo, mia o di Chris Paul, e dare peso a quello che la gente dice. Come sai bene, dobbiamo tutti quanti confrontarci con le critiche, questo fa parte della carriera di atleta. Il 50% del pubblico ti elogerà, il restante 50% sarà lì pronto a criticarti, non importa quello che fai… guarda solo agli attacchi che abbiamo subito per essere amici… questa è semplicemente la natura della bestia. Quindi devi essere sincero con te stesso, con chi sei, e devi compiere determinate azioni perché ci credi veramente. Per quanto riguarda noi, si trattava di un momento più grande di noi stessi, più grande del basket stesso. Era un momento in cui dovevamo rimanere uniti, usare la nostra forza, parlare di qualche cosa che sentivamo importante, e che aiutasse a spingere altri atleti a fare lo stesso… quindi abbiamo usato questo evento come piattaforma per raggiungere questo scopo.

Etan: Molte volte le persone confondono e alterano i messaggi.

Wade: Per quanto riguarda noi, ognuno aveva il proprio messaggio da presentare ed ognuno si è concentrato su questo. Volevamo parlare delle uccisioni da parte della polizia. Della brutalità della polizia in particolare. E, allo stesso tempo, ci siamo confrontati. Chris Paul ha dichiarato sul palco che suo zio e suo nonno sono poliziotti, quindi lui personalmente non è contro la polizia. Ma ha anche dimostrato di essere consapevole della violenza della polizia, delle uccisioni, ed ha fatto i nomi: Trayvon Martin, Mike Brown, Freddy Gray, Alton Sterling, Philando Castile. Quindi ci siamo chiesti quale messaggio sarebbe venuto fuori prendendo in considerazione che se da una parte siamo tra di noi come fratelli, ognuno di noi avrebbe espresso il proprio messaggio nel suo modo. Ci siamo seduti ed abbiamo scritto il messaggio particolare che ognuno di noi voleva presentare al mondo. E se ascolti i discorsi, ognuno di noi ha espresso ciò che era vicino e caro ai propri cuori, alle proprie comunità ed alle proprie famiglie. Il mio punto generale era che troppo è troppo; sono stanco di vedere tutte queste uccisioni, di prendere in mano il giornale o ascoltare il notiziario e scoprire che un’altra persona è stata uccisa dalla polizia.

Etan: Che cosa è necessario fare per cambiare? Ci sono così tanti giovani che hanno sviluppato una diffidenza nei confronti della polizia come risultato di qualche cosa che continuano a vedere. Le uccisioni, la violenza, le botte, i video sui social networks. Che cosa vorresti dire a loro?

Wade: Li capisco benissimo. Ho avuto conversazioni con giovani e anche con le forze dell’ordine. Ed uno dei miei messaggi alle forze dell’ordine è stato: “Ascoltate, sapete benissimo che c’è diffidenza nei confronti dei poliziotti, anche da parte mia: se io vedo una pattuglia dietro la mia macchina, è una situazione poco confortevole. Ed io sono uno sportivo, e so di non aver fatto nulla di sbagliato.” Ho detto ai poliziotti: “Ascoltate, se volete veramente cambiare questa situazione, dovete lavorare per colmare il divario.”

Stiamo organizzando tutti questi incontri cittadini e pannelli di discussione: sediamoci tutt’intorno ad un tavolo come comunità – poliziotti, leaders della comunità e delle organizzazioni giovanili -, discutiamo e facciamo in modo che ogni voce possa essere ascoltata. Dovete sapere ciò che le persone nella comunità provano e come vi vedono e perché vi vedono in quel modo. Non è che non hanno legittime ragioni o semplicemente non gli piacete, punto e basta. Hanno le loro motivazioni. Le loro esperienze. Cose che hanno visto. Che le loro famiglie, i loro amici, le persone a cui vogliono bene hanno visto e provato sulla loro pelle. E lo stesso dalla parte opposta. Anche la comunità deve ascoltare la testimonianza dei poliziotti. Ascoltare le loro esperienze, ciò che hanno visto e sentito. Come in ogni relazione, il miglior modo per veramente comprendere il punto di vista di ognuno, è prima di tutto ascoltarsi l’un l’altro. Non ascoltare per dissentire, piuttosto ascoltare per cercare di capire il diverso punto di vista. Ed entrambe le parti hanno bisogno di sentire verbalmente ciò che l’altra parte si aspetta. Al momento abbiamo a che fare con due lati opposti che non si capiscono affatto. E questo non porta ad una relazione costruttiva e di successo. Questo è stato il mio messaggio ai dipartimenti di polizia nelle varie città in cui ho avuto l’opportunità di incontrarmi e parlare con loro.

Dal Cap.3, Il movimento di Kaepernick conta

[Colin Rand Kaepernick è un giocatore di football americano che nel 2016 è stato bandito dalla Lega NFL per essersi inginocchiato durante l’inno in segno di protesta contro le uccisioni di afroamericani da parte della polizia. Il gesto di inginocchiarsi mostrato nelle recenti dimostrazioni per l’uccisione di George Floyd è ispirato dall’atto di protesta iniziato da Kaepernick.]

Nel settembre 2016, Kaepernick ha riferito di aver ricevuto minacce di morte a seguito della sua decisione di inginocchiarsi durante l’inno nazionale. Non è un fatto sorprendente. Muhammad Ali, Mahmoud Abdul-Rauf, John Carlos, Tommie Smith e innumerevoli altri atleti che hanno preso posizioni considerate “non patriottiche” hanno ricevuto minacce simili.

Non è però interessante il fatto che molte delle stesse persone che chiamano Kaepernick “antipatriottico” abbiano mancato di rispetto per otto anni al presidente Obama ed alla First Lady Michelle Obama?

Non è inoltre interessante che quelle stesse persone che descrivono la presa di posizione di Kaepernick come irrispettosa nei confronti dei veterani, non abbiano espresso affatto rabbia nei confronti di George W. Bush, il quale ha inviato soldati coraggiosi, le cui vite sono altrettanto preziose e degne di essere ricordate, a morire per una bugia? Non è interessante che questi stessi conservatori abbiano votato contro una migliore assistenza sanitaria e aiuti ai reduci dopo il loro ritorno a casa?

Molte persone hanno un’interpretazione confusa del patriottismo. Se non sei offeso dal fatto che uno su due dei veterani tornati dall’Iraq o dall’Afghanistan conosce un compagno che ha tentato di suicidarsi, o dal mezzo milione di reduci che non hanno un’assicurazione, o dai 39mila veterani senzatetto, ma sei offeso dal fatto che Colin Kaepernick si metta in ginocchio durante l’inno nazionale, allora c’è qualche cosa che non va nel tuo patriottismo.

È fantastico come il messaggio di Colin Kaepernick si stia diffondendo e riecheggi tra così tanti altri atleti, dalle squadre di football delle scuole superiori alle cheerleader della Howard University.

Inizialmente solo il compagno di squadra dei San Francisco 49ers Eric Reid si è unito a Kaepernick. Ma poi altri compagni di squadra, tra cui Antoine Bethea, Eli Harold, Jaquiski Tartt e Rashard Robinson, hanno alzato i pugni durante l’inno nazionale prima di una partita contro i Carolina Panthers.

Successivamente, Jeremy Lane dei Seattle Seahawks si è seduto durante l’inno nazionale. Il cornerback dei Kansas Chiefs, Marcus Peters, ha alzato il pugno ed ha esortato i giornalisti a sostenere gli sforzi di Kaepernick in modo da aumentare la consapevolezza del malfunzionamento del nostro sistema giudiziario. Durante il Sunday Night Football, Martellus Bennett e Devin McCourty dei New England Patriots hanno alzato i pugni durante l’inno nazionale.

Anche se ha perso due contratti di sponsorizzazione per questo, anche Brandon Marshall, il linebacker dei Denver Broncos, si è messo in ginocchio ed ha dichiarato che avrebbe continuato ad inginocchiarsi.
Ancora più impressionante è come questo messaggio colpisca gli atleti delle scuole superiori, che, come sappiamo, sono fortemente influenzati dagli atleti professionisti. Guardano, imparano e prendono proprie posizioni perché hanno esperienze d’ingiustizia in prima persona. Alcuni hanno coraggiosamente affrontato avversità, odio e minacce di attacchi fisici.

Nel settembre 2016, un giocatore di football del liceo di Brunswick, Ohio, di nome Rodney Axson Jr., è stato minacciato di linciaggio e chiamato con la parola N dai suoi compagni bianchi dopo essersi inginocchiato per protestare contro il razzismo.

A Seattle, l’intera squadra di football e lo staff tecnico della Garfield High School si sono messi in ginocchio durante l’inno nazionale prima della partita del 16 settembre 2016. Non si sono fatti intimidire da un folto gruppo di personaggi pubblici che hanno usato le loro piattaforme per screditare, condannare e ridicolizzare Colin Kaepernick e altri atleti che hanno avuto il coraggio morale di difendere ciò in cui credono. Si potrebbe anche obiettare che questo stesso folto gruppo avrebbe potuto usare tanta forza vocale per condannare le ingiustizie sociali e gli innumerevoli omicidi per mano della polizia che sono rimasti impuniti. Più di due dozzine di neri sono stati uccisi durante gli scontri con la polizia solo nelle prime sei settimane dopo che Kaepernick ha iniziato a protestare. Dove sono le condanne?

Questa stessa gente è rimasta in silenzio quando la polizia ha ucciso il disarmato Terence Crutcher, a Tulsa, in Oklahoma, colpevole di avere dei problemi con la macchina ed in attesa di aiuto da parte della polizia stessa. Non hanno avuto nulla da dire quando la polizia di Charlotte ha ucciso Keith Lamont Scott, un nero colpevole di stare leggendo un libro in macchina. In entrambi i casi, gli agenti sono stati esonerati con un congedo amministrativo retribuito. Come ha detto Colin Kaepernick in un’intervista post-partita, “ci sono cadaveri in strada e questa gente riceve un compenso di buonuscita e se la cava con un omicidio alle spalle.” La gente dovrebbe essere indignata per questi fatti e non per il fatto che Colin Kaepernick e altri atleti stanno seduti o in piedi durante l’inno nazionale.

Come dice un saggio proverbio, la giustizia non sarà servita fino a quando coloro che non sono influenzati dai fatti non saranno altrettanto indignati come quelli che lo sono.

Intervista a David West

È importante notare che Kaepernick non è il primo atleta moderno a prendere una posizione di questo tipo. Come Mahmoud Abdul-Rauf, la cui intervista appare più avanti in questo libro, il veterano della NBA David West è un altro atleta le cui azioni di protesta sono state ampiamente dimenticate. Molti non sanno che David West ha protestato durante l’inno nazionale per molti anni, anche prima di Kaepernick. L’ho notato personalmente in piedi per ultimo, nella fila, circa tre o quattro piedi dietro i suoi compagni di squadra, mentre l’inno nazionale veniva suonato prima delle partite nel 2004, quando giocava con i New Orleans Hornets. Quando lo incontravo, gli facevo sapere che lo rispettavo per le posizioni che prendeva, ed il rispetto era reciproco. Col passare degli anni, mi imbattei in lui durante alcune conferenze e discussioni, ed in diversi eventi, e l’ho ascoltato esprimere le sue preoccupazioni su diverse questioni che affliggono la nostra società. Ha una passione profonda e articola e dettaglia i suoi discorsi così bene che sarebbe capace di incantare le folle.

West si è concesso del tempo libero durante il suo impegno stagionale con i Golden State Warriors per parlare con me di alcuni di questi temi. Sono perfettamente in linea con tutto ciò di cui Kaepernick ha discusso in modo così eloquente, e talvolta vanno persino più in profondità.

Etan: Protesti costantemente l’inno nazionale da qualche tempo. Potrebbe essere passato inosservato perché non era un atteggiamento così drastico come inginocchiarsi come Kaepernick. Potresti spiegare le tue ragioni per posizionarti dietro al resto della squadra durante l’inno.

David West: Durante il mio secondo anno nella NBA, abbiamo avuto un incontro di gruppo in cui il proprietario ci ha chiesto di mettere le mani sul cuore mentre veniva suonato l’inno nazionale. Ho alzato la mano e ho semplicemente dichiarato la mia posizione. Ho detto che non avevo intenzione di farlo. . . Quindi il fatto di stare in piedi alla fine della fila, un passo o due dietro i miei compagni di squadra, è qualcosa che ho cominciato a fare solo a causa di quell’incontro. Non aveva nulla a che fare con qualche evento pubblicizzato. . . Volevo dare rilievo al fatto che c’è qualcosa al di fuori di questo mondo in cui viviamo chiamato sport o NBA. Quest’atto è sempre stato un promemoria per me stesso. Vedo che i ragazzi passano attraverso alcuni rituali prima della partita. Bene, per me, era qualcosa di semplice che avrei potuto fare in quel momento per riflettere su quanto sono fortunato nel fare qualcosa che amo; ma allo stesso tempo riconoscere che c’è una maggiore severità nella vita al di fuori di questa piccola bolla chiamata NBA.

Etan: Qualcuno ha tentato di dissuaderti? In tal caso, quale è stata la tua reazione e qual è stata la loro reazione? Hai mai temuto le critiche dei media o dei fan?

West: Non ho mai temuto le critiche da parte dei media o dei fan perché mi sono sempre sentito di parlare da una posizione chiara. Parlo dal punto di vista dell’onestà. Cerco di essere il più sincero possibile nelle mie dichiarazioni. Spesso, quando parlo, non si tratta di me. Non si tratta di far uscire David davanti alla telecamera o cercare di diventare un attivista. Quando fui esplicito su Donald Sterling [Ex proprietario dei Los Angeles Clippers, costretto a vendere la propria franchigia e bandito a vita dalla NBA dopo la pubblicazione di telefonate private in cui insultava giocatori e personaggi pubblici afro-americani], e fui una delle prime persone a chiamarlo per quello che era – senza mezzi termini, razzista – non c’era altro modo per descrivere in modo tangibile ciò che aveva detto e ciò che sottintendeva con quelle parole nei suoi messaggi. Si trattava di un’ideologia direttamente derivata dalla schiavitù delle piantagioni, e non mi sono vergognato, né ho avuto paura di dirlo. . . C’è questo modo di pensare, che in qualche modo perderemo seguito o saremo meno visibili se parliamo di ciò che sta accadendo nella società. Penso che sia falso.

Quello che ho scoperto è che i fan apprezzano l’intelligenza. Apprezzano l’impegno sociale. In realtà li fa sentire più a loro agio delle persone che stanno supportando e che se ne fregano di quello che sta succedendo nel mondo. In realtà ho avuto una maggiore risposta da parte di persone che apprezzano gli atleti che dicono cose positive, perché riconoscono il tipo di peso che le nostre parole hanno sui giovani. Gli insegnanti sono tra i nostri più grandi sostenitori. Li ho sentiti dire: “Grazie a Dio hai detto quello che hai detto”, “Apprezzo le tue parole”, ecc. Sono commenti che sento costantemente, apprezzano che mostriamo una dimensione diversa. . . Ora c’è la speranza di non dover essere unidimensionali. Non puoi essere uno stupido idiota. Puoi leggere libri, puoi essere socialmente e politicamente impegnato. . . Per presentare una versione migliore di te stesso, devi acquisire dimensioni diverse rispetto a ciò che sei. La tua esperienza professionale, la tua esperienza personale, la tua esperienza sociale e la tua capacità di pensare ed esprimere criticamente i tuoi pensieri attraverso il linguaggio aiutano a trasmettere il tuo messaggio. . .

Quando tutto si riconduce ad un unico scopo, non puoi aver paura di dire la tua verità, in particolare quando si tratta di un contesto storico. Non puoi aver paura di raccontare la storia come è realmente accaduta, non ciò che vogliamo sentire, e non ciò che vogliamo estrapolare da esso o revisionare. . . Questo è il motivo per cui continuo a parlare e non ho paura di essere criticato.

Etan: Ecco una citazione da una potente intervista che hai fatto in una puntata di Undefeated [Programma sportivo sul canale ESPN]: “Non posso iniziare a parlare di civiltà e di cittadinanza se non credete neppure che io sia un essere umano. Come puoi parlare di progresso e di come gli esseri umani si relazionano tra loro quando non riconosci nemmeno la nostra umanità? Prima di tutto dobbiamo essere d’accordo su questo, poi possiamo pensare di giocare sullo stesso campo “. Quelle sono parole potenti. Potresti spiegarti in modo più dettagliato?

West: Credo che il contesto storico sia il contesto più importante in questa nazione per quanto riguarda gli afroamericani, i popoli africani in America, i neri, i le persone di colore, i negri o qualunque altro nome o termine con cui si desidera chiamarci. La radice di tutti questi problemi non è solo la schiavitù. Molte volte le persone da entrambe le parti ci accusano di usare la carta schiavitù… Quando parliamo di brutalità della polizia, dei profitti delle carceri, della schiavitù dei carcerati, della pena di morte, del braccio della morte, di sotto educazione, di cattiva istruzione, di incarcerazioni di massa, di tutte le diverse questioni civili e sociali che subiamo come gruppo, in questo Paese in particolare ed in molti altri posti in tutto il mondo, ci troverai relegati in fondo…

Tutti gli indicatori socioeconomici indicano che il nostro gruppo subisce le maggiori privazioni in questo paese. E quegli stessi indicatori socioeconomici possono essere tagliati, copiati e incollati su ogni nero da qualsiasi altra parte del mondo. Siamo ben consapevoli di quanto l’Africa stessa è stata saccheggiata, distrutta e derubata per centinaia di anni ininterrottamente. . . Lo stupro costante delle risorse, la costante tortura ed il tormento dei cittadini africani si fondano principalmente sull’idea che noi non facciamo parte della famiglia umana.

Tutte queste ideologie hanno una ragione contestuale nella storia in cui sono nate. . . Per trattare queste persone nella misura in cui sono state trattate, devi renderle qualcosa di diverso da quello che sei tu. Quindi, se classifichi e crei scienze che ti innalzano allo status d’élite in termini di umanità, da dove viene chi è escluso da quelle classi? Ciò che rimane è semplicemente uguale o inferiore agli animali. Pertanto, ti è consentito di giustificare il trattamento di queste “cose” o di questi “altri” e farne uso a tuo piacimento. Vuoi sapere perché Tamir Rice [ Dodicenne afroamericano ucciso il 22 novembre 2014 a Cleveland, Ohio, da un poliziotto] è stato ucciso in meno di due secondi? Perché centinaia e centinaia di anni fa le persone hanno iniziato a propagare queste idee sul fatto che noi fossimo qualcosa di diverso dagli esseri umani. Che in qualche modo non meritassimo o non avessimo i diritti garantiti da Dio al resto dell’umanità… La più grande battaglia che abbiamo di fronte è quella di ridefenirci come esseri umani nello spettro dell’umanità. Quando osservi cosa è successo a Ferguson con Mike Brown [Diciottenne afroamericano ucciso dal poliziotto Darren Wilson il 9 agosto del 2014 a Ferguson, Missouri] e ascolti il linguaggio usata da Darren Wilson per descrivere Mike Brown, quella è stata una narrazione disumanizzante: “Le sue dimensioni… la sua forza sovrumana…” Questo è l’ABC del razzismo. Questo è razzismo antico riutilizzato nel 2015. Questo è ciò con cui abbiamo a che fare. . .

Se vogliamo affrontare e arrivare alla causa principale di alcuni dei mali sociali come l’incarcerazione di massa ed il crimine che accade nelle nostre comunità, bisogna iniziare con l’istruzione. Sebbene sappiamo che il crimine nero contro nero non è diverso dal crimine bianco contro bianco, né da qualsiasi altro tipo di crimine, dato che le persone che vivono in stretta vicinanza l’una dell’altra tendono a commettere crimini l’uno contro l’altro. Ciò che viene mostrato e visualizzato tramite immagini parla di una narrazione negativa che rafforza vecchi stereotipi e generalizzazioni. Nuove persone vengono addestrate ed istruite contro di noi. Vengono diseducati su dove ci dovremmo disporre ed adattarci sulla mappa dell’esistenza umana.

Dal Cap 10 – Parlarne con i giovani atleti conta

Un fine settimana, abbiamo organizzato con la squadra di mio figlio una raccolta fondi presso un autolavaggio in una stazione di servizio ExxonMobil. È stato un bellissimo evento, soprattutto per alcuni dei nuovi giocatori. Appartengo alla vecchia scuola, non credo nelle concessioni ai giovani. Sono dell’opinione che apprezzeranno di più quando avranno lavorato per ottenere qualche cosa.

Tutto stava andando bene fino a quando un uomo bianco non si è avvicinato a Nichole ed ha detto che i ragazzi non potevano stare lì e avrebbe chiamato la polizia. Poco dopo, il proprietario dell’Exxon mi ha chiamato e mi ha detto che l’uomo aveva chiamato la polizia per denunciarci.

Quest’uomo ha visto un gruppo di ragazzi neri fare qualcosa di positivo e ha pensato che fossero lì per compiere qualche danno? Che fossero lì illegalmente? Per molestare le persone? È triste che una squadra delle leghe giovanili non possa nemmeno fare un evento di raccolta fondi senza confrontarsi con la dura realtà della vita.

Un’altra lezione per i ragazzi è arrivata un giorno dopo gli allenamenti. Stavo portando a casa Malcolm e il suo compagno di squadra Camar quando abbiamo notato dei lampeggianti dietro di noi seguite da una sirena. Ho visto i loro occhi spalancarsi per la paura e ho detto loro di rilassarsi, fare un respiro profondo e sedersi.

Mi sono fermato e ho spento la musica. Ho azionato il registratore vocale sul mio telefono e l’ho messo nel porta bicchieri di fronte al parabrezza. Ho tolto il portafogli dalla tasca e l’ho appoggiato sul cruscotto. Ho abbassato tutti i finestrini e messo le mani sul volante. Mentre un poliziotto si avvicinava al mio finestrino, il suo collega illuminava con la torcia dal lato opposto della macchina Camar, e poi l’interno della macchina.
Il primo poliziotto: “Patente e libretto”.

Rispondo con voce molto chiara: “Il mio libretto di circolazione è nel mio vano portaoggetti, va bene se la prendo?”

Dice di sì, quindi lentamente allungo la mano verso il mio vano portaoggetti mentre il suo compagno illumina con la torcia la mia mano tutto il tempo.

Poi esclamo: “La mia patente è nel portafogli, va bene se lo raggiungo e la tiro fuori dal mio portafoglio?”
Dico di sì, e lentamente sposto le mani verso la console e recupero la patente.

L’ufficiale prende le informazioni e torna alla sua macchina. Osservo così tante emozioni diverse sulla faccia di Malcolm. Confusione, paura, preoccupazione. Guardo di nuovo Camar e vedo lo stesso. Chiedo loro se stanno bene ed entrambi annuiscono con la testa. Dico loro di fare un respiro profondo, di rilassarsi e che tutto andrà bene.

Dopo circa dieci minuti, i poliziotti tornano. Mi ridanno la patente e registrazione, quindi mi informano che ho un fanale posteriore fuori uso. Mi consegnano un pezzo di carta e spiegano che ho dieci giorni per ripararlo. Infine, il poliziotto esclama “buona notte” e se ne va.

Ho immediatamente riconosciuto che questo era un momento da cui trarre insegnamenti. Ho chiesto a Malcolm e Camar se avessero notato tutto quello che ho fatto prima che il poliziotto si avvicinasse alla mia finestra. Malcolm ha detto: “Sì, hai spento la musica, hai abbassato i finestrini e hai messo le mani sul volante”, e Camar ha aggiunto: “Hai tolto il portafogli prima che potesse chiedertelo.”

Ho detto, “corretto”.

Malcolm ha replicato: “Capisco perché hai fatto tutto ciò, ma non dovresti farlo. Non hai fatto niente di male. Tutto questo per un fanale posteriore rotto? Trattarti in quel modo e creare tutta quella tensione per questo? Non avrebbero potuto scattare una foto della tua patente con le loro telecamere speciali e spedirti una multa o qualcosa del genere? ”

Stava cominciando a ragionare.

Gli ho detto: “Okay, riepiloghiamo tutto. Uno: ho spento la musica per evitare un’atmosfera di aggressività. Stavamo ascoltando hip-hop, che è qualcosa di aggressivo per molte orecchie estranee, ed è comunque una buona idea in generale spegnere la musica quando ci si ferma.

Due: ho abbassato tutti i finestrini, anche i finestrini posteriori, perché i miei vetri sono oscurati e non volevo che la polizia avesse problemi di visibilità quando si sono avvicinati alla mia auto. La prima cosa che hanno fatto è stata illuminare l’interno. Hanno puntato la luce sulla faccia di Camar nella parte posteriore, sul pavimento, sul posto vuoto, hanno illuminato tutto quanto.

Tre: ho messo entrambe le mani sul volante in modo che potessero vedere le mie mani.

Quattro: non ho fatto movimenti improvvisi. Anche quando mi hanno detto di prendere la patente e libretto, non sono andato subito a prenderli. Ho chiesto a voce alta e chiaramente se andasse bene che aprissi il mio vano portaoggetti e prendessi il libretto. Mi sono mosso lentamente. Molto lentamente. E avevano ancora le loro torce puntate sulle mie mani per guardarmi attentamente.”

Malcolm ha continuato: “Non avresti dovuto fare tutto questo. Capisco, ma non abbiamo fatto nulla di male e ci hanno trattato come criminali. Che cosa dobbiamo dimostrargli, che non siamo criminali? Non è giusto.”

Ho spiegato a Malcolm che la fierezza non ha niente a che fare con questo. L’obiettivo numero uno è tornare a casa sani e salvi, punto. Nove volte su dieci i poliziotti hanno paura quando si avvicinano ad un’auto con dentro dei neri. È così e basta. È giusto che sia così? No, certo che non lo è. Ma è così. Hanno il potere, le armi, l’autorità, ma sono quelli che hanno paura. E quando sai che qualcuno è terrorizzato da te, e ha tutto il potere, ed è in una posizione di autorità, devi essere saggio con le tue azioni. Si tratta di tornare a casa sani e salvi. Questo è tutto ciò che conta. È la realtà, e non serve a nessuno di noi morire per dimostrare che non è giusto. Perché è quello che è, una questione di vita o di morte. La differenza sta nel tornare a casa e discuterne come stiamo facendo adesso, o diventare un hashtag ed avere il tuo nome stampato su una maglietta. Non è quello che voglio. Sono stanco di vederlo. Dobbiamo capire la differenza tra vincere la battaglia e vincere la guerra.

In questa situazione mi sono preparato per vincere la guerra. Ho messo il mio telefono nel porta bicchieri, ho mostrato verbalmente di essere pienamente in regola. E se qualcosa fosse andato storto, ne avevo le prove.

NOTE BIOGRAFICHE

ETAN THOMAS 1978

Ex professionista della NBA dal 2001 al 2011, ha militato nei Washington Wizards, Oklahoma Thunder e negli Atlanta Hawks. Poeta, scrittore, attivista, collabora con molte testate come opinionista su diritti civili e razzismo nello sport, tra cui Guardian e Huffington Post

DWYANE TYRONE WADE JR 1982

Ex cestista statunitense, professionista nella NBA. Ha militato per tutta la sua carriera ai Miami Heat, con cui ha vinto tre anelli (2006-2012-2013), fatta eccezione per una breve parentesi ai Chicago Bulls nel 2016 e ai Cleveland Cavaliers nel 2017. È considerato uno dei giocatori più forti della sua generazione.

DAVID WEST 1980

Cestista statunitense, professionista nella NBA. Ha giocato con New Orleans Hornets, Indiana Pacers, San Antonio Spurs e Golden State Warriors, con cui si laureato 2 volte campione NBA (2017-2018).

Etan Thomas
We Matter: Athletes and Activism
Akashic Books 2018

Il corpo tra i due mondi: l’ecologia pacifista nella Nausicaä di Miyazaki

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di Marco Inguscio

«Le palme insettedule rilasciano le spore del pomeriggio. Che bellezza…! Eppure è una foresta di morte dove senza indossare una maschera i polmoni imputridiscono in cinque minuti». È una delle primissime frasi pronunciate dalla protagonista in Nausicaä e la valle del vento, lungometraggio del non ancora studio Ghibli, dell’84. Un’opera di animazione per molti versi sorprendente anche in relazione a quanto accaduto in questi ultimi novanta giorni di pandemia.

Il parallelo evocato da Hayao Miyazaki con l’opera classica è esplicito: quando la principessa omerica incontra Odisseo – capolavoro di descrizione naturale e sociale della letteratura antica – accoglie lo straniero, insozzato, nudo, esausto. È la parabola per eccellenza della Xenìa greca, non ha motivi per fidarsi dell’estraneo ma decide aprirgli le porte di casa. Nel film di animazione invece, Nausicaä è la figlia di Jihl, sovrano allettato di un piccolo regno, in un mondo superstite dalla guerra termonucleare che ha rivoltato l’ecosistema terrestre e spazzato via buona parte della civiltà umana. I forti venti che soffiano dal mare nella valle riparano il piccolo stato dalle esalazioni della Giungla tossica, una foresta casa di piante con spore velenose e colossali insetti mutanti. Mentre gran parte degli uomini continuano a vivere un rapporto conflittuale con la natura, Nausicaä ha un legame d’amore inestirpabile verso ogni forma di vita, quell’intima affiliazione ai processi vitali che, fuori dal contesto fantastico, il biologo Edward O. Wilson, proprio nell’84, definiva come biophilia. Al contrario dei due regni di Tolmechia e Pejite, che si affrontano in battaglia per il possesso della potente arma in grado di annientare la giungla incenerendola, Nausicaä comprende che una convivenza è possibile, i grandi insetti Ohm sono creature sensibili e intelligenti a difesa di una vegetazione che tenta rigenerarsi, e le piante tossiche possono essere rivivificate se trattate con acqua depurata dalle scorie nucleari.

L’eroina nipponica, con il suo sguardo rivolto al nonumano, ha elaborato la lezione del mito greco in forma radicale. Nell’avvicinare e comprendere le gigantesche creature polipodi, la principessa ha capito cos’è l’ecologia: il rapporto dell’umanità con le cose, tra le conseguenze delle nostre azioni e l’ambiente. Il suo compito, anche da politica, è proprio quello di portare la pace tra la comunità nella valle, gli eserciti di regni in guerra e le sorprendenti creature-larva che scorrazzano come figli illegittimi dei nostri disastri, nel mezzo di una nuova natura. Nausicaä si immola per la coesistenza di fazioni altrimenti destinate allo scontro. Come tutte le buone storie di science fantasy o fantascienza, quella di Miyakazi indovina molti aspetti di questi nostri giorni. Baptiste Morizot ad esempio, nella sua ultima opera Sulla pista animale, parla proprio di questa mediazione tra foresta e uomo, trasferendo il linguaggio e le pratiche sciamaniche a filosofia ed etologia. Celebra l’attività diplomatica dell’animale uomo che si lascia influenzare e ragiona con l’altro, non dell’altro.

La nostra mediazione ecologica con il virus viceversa è andata a schiantarsi con il linguaggio bellico, War, Guerre, Guerra. Tutti i paesi colpiti dalla pandemia parlano di fronte, prima linea, trincea. Al di là dell’ipocrita convenienza che questa narrazione porta sempre con sé, caricare nel bene come nel male la responsabilità di quanto avviene sui cittadini, sgravando l’incapacità governativa della politica, il linguaggio militarizzato non permette concepire qualsiasi fenomeno si frapponga tra noi e i nostri sistemi di deterioramento terrestre, se non come uno scontro tra nemici. Come se il virus avesse una causa da difendere, come se fosse giunto a recare offesa, a razziare i frutti del nostro lavoro come barbari piombatici addosso da luoghi al di là delle Alpi. Questo dice molto della nostra incapacità di ragionare in altra forma, non divisiva, non dicotomica. È l’opposizione antropogenica di una umanità che vive la parola al di sopra del mondo, la “lalingua” come la chiama Lacan, che crede sempre di sapere di che parla quando ne parla, quando il virus ha mostrato proprio questo: che la vita stessa è un processo infettivo e che di questo processo noi continuiamo a saperne pochissimo. Questa è la realtà, e la nostra normalità invece è continuamente invasa, pervertita dalla finzione.

Cosa sarebbe stato di noi senza i barbari, chiedeva Kavafis. Lasciando rispettosamente da parte coloro che sono stati colpiti nelle loro esistenze e nei loro affetti, a me verrebbe da chiedere cosa sarebbe di noi senza il virus. Cosa ne sarebbe stato della valle del vento di Nausicaä senza i tafani mutanti e la giungla tossica. Nell’informazione generalista ascolto arringhe di esperti che non hanno idea di quale sia lo stato di salute della Terra, della Terra in sé, la biosfera terrestre. Non una sola parola di vero senso è spesa su un’ecologia da intendere senza ingenuità, configurata da logiche profonde, come processo critico e culturale irrinunciabile, e non il semplice ambientalismo al quale non segue nessuna pratica reale.

Gli unici riferimenti a non venire mai meno mentre terminava la fase 1 e iniziava la 2, sono quelli di economia e mercato. Così mentre minacciavamo con il lanciafiamme chi usciva da casa per una passeggiata, le industrie sono tornare riaprire i canali di sversamento nei laghi, nei fiumi, nel mare. Mentre noi tutti facevamo esperienza della condizione della solitudine e del confinamento, non abbiamo pensato per un solo istante di riaprire le gabbie degli animali e le celle frigorifere. Molti tra antropologi ed etologi, come Carl Safina, Jane Goodall, Frans de Waal, non hanno mancato di sottolineare come la pandemia sia legata alla nostra mancanza di rispetto per il mondo animale.

La riflessione sul nostro rapporto con l’animalità viaggia sempre per il lato sbagliato della carreggiata. Mentre sulla rivista Science, i primatologi si dicono preoccupati della diffusione del coronavirus nelle comunità di scimmie, che potrebbe significarne la decimazione, e vigilano affinché il pericolo venga scongiurato almeno all’interno di parchi nazionali e riserve, su Nature si legge, che i vari test per i vaccini sono effettuati, tra gli altri, sui furetti, in quanto sensibili al SARS-CoV-2. Sono un modello animale abbastanza comune per i test su influenza e altre infezioni respiratorie, perché la loro fisiologia polmonare è simile a quella umana. «Siamo sopraffatti dalle richieste» afferma Cathleen Lutz, neuroscienziata, riferendosi alle scorte di topi transgenici da allevare in tutta fretta. La struttura che la vede a capo ha già ricevuto ordini da circa 50 laboratori per oltre 3.000 topi in grado di produrre la versione umana della proteina ACE2, quella che il virus utilizza per infiltrare nelle cellule il proprio RNA. Anche le radiografie polmonari dei macachi contagiati nei laboratori cinesi hanno mostrato segni di polmonite simili a quelli degli infetti COVID-19 umani. «Ciò è stato confermato in seguito all’eutanasia di alcune scimmie, delle quali sono stati sezionati i polmoni. I ricercatori hanno ucciso due scimmie tre giorni dopo l’inizio dell’infezione e un’altra coppia dopo sei giorni».

In condizioni normali, sappiamo essere milioni gli animali nel mondo destinati ogni anno alla sperimentazione biologica negli stabulari. È molto probabile che la modalità di questi test, gli effetti, il numero e il controllo delle procedure nell’utilizzo delle cavie, risultino di difficile valutazione: il fine e l’urgenza giustificheranno i mezzi. Così passiamo attraverso la rappresaglia asettica delle parole della divulgazione scientifica, senza apparente contraddizione, pure quando l’articolo ci ricorda, en passant, quel dato che da anni viene contestato proprio ai test sugli animali, e quindi alla sostanziale inutilità di questa realtà ordinaria e feroce: «No animal model is perfect.»

L’idea degli animali come creature inferiori e per questo perfettibili per mano dell’uomo, trova la sua estrema conclusione in La straziante resurrezione di Victor Frankenstein, raccolta di racconti brevissimi di Thomas Ligotti, in cui facciamo conoscenza de «il dottor Moreau, umanista». Il tentativo, nel racconto, di avvicinare una razionalità ideale, genera una lunga catena di sacrifici: il tavolo da laboratorio è anche il banco del macellaio. Il tragico, la contraddizione irraggiungibile e più dolorosa, è che le bestie non soddisferanno mai – come non le soddisfiamo noi – le aspettative del dottor Moreau. Ogni esperimento è niente più che un’ambizione disattesa alla quale porre fine. Ligotti usa il termine ‘umano’ con amara ironia, vi ricorre proprio per coloro che usano gli animali come oggetto delle pratiche peggiori trascinandoli in una vita di atrocità e dolore senza fine. «No animal model is perfect.».

Si possono avere buone ragioni, in alcuni specifici casi, per uccidere o no, ma come scrive Donna Haraway riguardo al suo ‘oncotopo’, possiamo accettare solo in parte l’idioma di un «animale sacrificale», che sostituisca il corpo dell’uomo sul banco della sperimentazione rendendoci “servizio”. La copresenza con questi animali significa invece riconoscere, comprendere, i rapporti di utilizzo al di là del semplice bilancio di costi e benefici. Come possiamo continuare a banalizzare la pratica della sofferenza come semplice mansione impiegatizia? La discrepanza tra il benessere delle creature senzienti che vivono il pianeta è un problema che dovremmo porre continuamente.

Non abbiamo la pienezza del mondo animale che invadiamo. Il valore intrinseco del senziente rimane sullo sfondo. Ciò che appare è solo il corpo come risorsa da sfruttare, come paziente passivo, da osservare attraverso la schedatura numerica, le gabbie, i collari, gli elettrodi impiantati nel cranio, le grandi lenti sulle operazioni dal vivo, il bisturi, le iniezioni, la scarnificazione, l’organismo sezionato. Parliamo di animali tutto il tempo, senza sympatheia, il sentire con, senza mai inquinare davvero il nostro “io” umano, senza rinunciare al dominio che questo nostro sé esclude per l’altro. Neppure la sofferenza appartiene agli animali, le bestie sono condannate al non essere, è sostanzialmente questo il nostro gesto.

Le uniche intromissioni, gli unici ingressi concessi agli animali non domestici all’interno della bolla umana, sono quelli della cucina e del laboratorio medico. Luoghi escatologici, catartici, dove espiare la nostra animalità. I corpi esotici dell’altro nonumano entrano in quegli spazi solo in virtù del nostro cannibalismo, per nutrirci materialmente e metafisicamente della morte animale ed esorcizzare la nostra. L’afferenza positiva con l’animalità è sempre rinviata a un altro momento. Non entriamo mai davvero nella casa d’altri, nella moltitudine, ci fermiamo sempre sull’uscio: lo facciamo con il virus che incompreso trattiamo come criminale di guerra, così come facciamo con i furetti da laboratorio, le scimmie e i ratti.

Mentre continuano i nostri esperimenti sugli animali, c’è ancora meno spazio per la riflessione data l’urgenza nel trovare la cura. Eppure, la verità è davanti ai nostri occhi, sul banco illuminato dalla luce bianca dei neon: il nostro rapporto con il mondo, la nostra cocciuta separazione da esso, passa anche da ciò che infliggiamo a quegli animali, al di là della contingenza dell’utile, al di là del vaccino per un virus che noi abbiamo stanato dalle giungle del sud est asiatico. Consapevolezza ecologica, vuol dire questo: portare magicamente Nausicaä all’interno dei laboratori di sperimentazione animale, passare dalla lingua e dal gesto militare e violento della separazione al linguaggio ribelle della mediazione, qualcosa che percepisca i conflitti come gradazioni piuttosto che dicotomie.

I corpi degli animali sono corpi biopolitici esemplari, soggetti al potere di una politica e di una economia che hanno come scopo quello di controllare e valorizzare (monetizzare o rendere spendibili) i corpi. Tutti i corpi, non solo i corpi animali, anche e i nostri. Mai come in questo tempo parlare di animali e di virus, dell’altro non-umano, significa parlare delle nostre esistenze, parlare di una possibile mediazione transpecifica all’interno della realtà naturalculturale, ripete più volte Donna Haraway in Chtulucene, una crasi che è appunto questione di composizione, all’interno della quale natura e (tecno)cultura sono intrecciate senza priorità né fondazione.

Come per Nausicaä, il punto non è tornare a un’esistenza originaria mai conosciuta, o forse mai esistita. Semmai, trovare un modo per essere il corpo che si è: cioè quello dell’animale che sta in mezzo ai mondi, ambasciatori tra le regioni dell’umano e del nonumano. La principessa riporta la fuga dal mondo – o dall’essere mondo – al centro della vita sensibile del pianeta, attraverso il modello della pacificatrice, di colei che vuole stare nel mezzo. Se nel poema epico greco è Atena a intervenire e a incoraggiare Nausica nell’incontro con Ulisse, il personaggio di Miyazaki abbraccia istintivamente ciò che Scott Gilbert definisce «epigenesi d’interspecie»: il rifiuto del solipsismo umano e la consapevolezza di un divenire esteso nel tempo, dove il contributo dell’altro-da-noi e la nostra interazione con esso, sta alle fondamenta di tutto ciò che siamo.

Fonti

Baptiste Morizot. Sulla pista animale. Nottetempo edizioni, 2020;

Donna J. Haraway. Chtulucene. Nero edizioni, 2019;

Donna J. Haraway. When Species Meet. University of Minnesota Press, 2008;

Edward O. Wilson. Biofilia. Mondadori, 1985;

Hayao Miyazaki. Nausicaä e la valle del vento. 1984;

Thomas Ligotti. La straziante resurrezione di Victor Frankenstein. Il Saggiatore, 2019;

Cary Wolfe. Davanti alla legge. Umani e altri animali nella biopolitica. Mimesis, 2018

Un noi della specie che non smette di scivolare

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di Alessandra Greco

in dedica a Fernand Deligny

 

 

 

Caro Giorgiomaria,

gli effetti di una concertazione sono divenuti ridondanti, e non ho potuto fare a meno di scriverti, col desiderio di portarti questa mia storia, con lo stesso sentimento attraverso cui la guardo nei ricordi più cari.

 

Non mi allontano dal racconto biografico semplice di per sé, in cui c’è forse un desiderio di tenere vive queste corrispondenze come punti luminosi su una mappa immaginale e reale, un movimento costitutivo di accadimenti nel reticolo dei miei percorsi nel sud della Francia, terra di transiti e transumanze, siti preistorici, profonda cultura, nelle zone dove ogni dipartimento deve il proprio nome al fiume dal quale è percorso.

 

Dal 2005, la Linguadoca Rossiglione, divenuta Occitania undici anni più tardi, si è aperta come una grande mappa e ha accolto i nostri viaggi, i nostri ritorni, di anno in anno, sotto la guida di mio marito che va lì da trent’anni. È cominciato così per me, che normalmente non viaggio molto, un lungo periodo di itinerari nelle geografie di quei luoghi, un sentire in divenire, un’attrazione sempre maggiore.

 

Nel 2012, iniziai a scrivere testi che sono stati inconsapevolmente preparatori degli studi per NT (nessun tempo), uscito per Arcipelago itaca nel febbraio 2020, che è un lavoro sui luoghi intesi come spazi in cui agiscono zone di intensità, basato sulla topologia. Quadro, ne La memoria dell’acqua, Grésil sur l’eau pour faire des ronds, 2013, ne è un esempio, ispirato al testo della didascalia di una teca nella sezione dedicata agli squali del Seaquarium a Le Grau-du-Roi (Gard), durante un viaggio nel 2011.

 

Nel giugno del 2009, comprammo un mazet, una piccola costruzione rurale su un piccolo pezzo di terra, nel Gard. Le agenzie immobiliari vendono questi terreni come “terrain de loisir”, sono generalmente medio piccoli, destinati all’agricoltura o a pasturare il bestiame, e a seconda della collocazione edificabili o non. Da allora, ogni anno, vi torniamo. Il terreno si trova nel parco forestale delle Cevennes, e lo abbiamo denominato Juin, perché giugno è il mese che ci ha visti in relazione, noi, con quella terra.

 

Abbiamo comprato questo terreno molto di fretta. Ci sono state diverse ragioni, numerosi altri piccoli fatti singolari, ma ora per snellire il racconto non li riporterò. Poco a poco, abbiamo cominciato a conoscere i vicini. Siamo a 1 km 1/2 da St. Hippolyte du Fort, nel Gard, basse Cevennes, boschi di querce, lecci, castagni e gelsi da seta. St. Hippolyte du Fort è un paese di appena 4000 persone, in un punto qualsiasi della mappa, del tutto anonimo per me, e sempre mi sono chiesta come mai fossimo finiti lì, cosa volesse rivelarmi quel luogo, quale ragione più sottile, fino al 2018, quando ho capito.

 

André, è la persona più anziana che conosciamo residente lì, vive in una grande casa in pietra, tipiche di quella regione, a poca distanza da noi. È stato un militare francese, paracadutista, ha fatto la guerra in Indocina e in Algeria. Trascorse anche lunghi periodi in Guyana, dove viveva nel mezzo della boscaglia di pesca e di caccia e dove aveva buoni rapporti con gli Indiani Wayana e i Bonis. Quest’uomo -soprattutto- è luminoso, possiede un’aura, come nei dagherrotipi antichi: barba e capelli bianchissimi, e un forte temperamento.

 

André, 2014

 

Negli anni in cui scrivevo NT (nessun tempo), avevo guardato (anche) agli studi di Deleuze e Guattari in Millepiani, al Mnemosyne di Aby Warburg, i rivoli della ricerca mi avevano portato a Lacan (gli studi sul toro).

Un collaboratore di Lacan, Pierre Soury, consigliere topologico di Lacan insieme a Michel Thomé, mi aveva incuriosito e avevo cercato sue pubblicazioni online. Trovai un archivio dove erano inserite quasi tutte le sue pubblicazioni e i suoi disegni, un lavoro consistente, ricordo che di fronte ai tre volumi Chaines et noeuds, peraltro interamente scaricabili, scelsi di guardare il primo. In copertina c’è una foto di Soury. Alla pagina due, la didascalia, in riquadro a sinistra, riporta:

<< Pierre Soury à Saint Hippolyte du Fort, Cévennes, été 1975, photo M. Thomé >> (!!!)

 

Pierre Soury, archive: http://www.lutecium.org/mirror/www.valas.fr/IMG/pdf/pierre.soury.1.pdf

 

Nel novembre 2018, Mariasole Ariot pubblicò un tuo articolo su Deligny per Nazione Indiana. Mi incuriosii e iniziai a cercare materiali. Non so se noi siamo destinati ai luoghi, o se sono i luoghi che scelgono noi. Finalmente arrivo, trovo questo materiale in rete : http://www.jeansegura.fr/gourgas.html (la storia di Gourgas).

Riporto solo l’inizio..: Au tournant des années 60 et 70, un lieu dans les Cévennes a représenté un Eden de liberté, d’intelligence et d’imagination, Gourgas: une abbaye séculaire bâtie sur une colline perdue dans la garrigue entre Monoblet et Saint Hippolyte du Fort (dans le Gard) que le psychanalyste Félix Guattari (co-mentor de l’antipsychiatrie avec Gilles Deleuze) avait acquis en 1967.

 

Nel giugno seguente ne parlo con André. Non si scompone. Mi racconta che andava a caccia con Deligny e, con mio grande stupore, mi mostra sull’elenco telefonico il numero di telefono della famiglia Deligny. Mi indica sulla carta la posizione di Gourgas. E’ a sette km da noi, sulla strada per Monoblet. In effetti dal nostro terreno, in linea d’aria poco più di un km, è esattamente dietro le due montagne che ogni sera osservavo dal nostro piccolo chalet, con quella forma tutta particolare che mi ricordava quella di un sorriso..

 

L’elenco telefonico, Gard 2017

 

 

Andiamo alla ricerca di Gourgas, non abbiamo molto tempo  Lungo la piccola statale che porta a Monoblet, seguiamo le indicazioni fin dove possibile, svoltiamo al bivio dove un piccolo cartello riporta “Gourgas”, scritto a mano. Arriviamo fin dove finisce la strada. Crediamo Gourgas sia quella grande casa. Il proprietario ci accoglie, siamo al Domaine Le Sollier, la cantina dei vini, il pavimento con le pietre fossili. Degustiamo, acquistiamo vini squisiti. I clienti che vengono lì sono anche inglesi, André vi acquista regolarmente. E quando tutti sono andati via, ci parla a lungo di Deligny e di Gourgas. La grande tenuta, appartenuta a Guattari, che non vi aveva mai abitato, al momento della sua morte fu suddivisa in tre porzioni: una divenuta Le Sollier, Gourgas, e una terza riservata ai coltivatori di bachi da seta. Gourgas si trova poco prima della tenuta Le Sollier, ed è ancora in parte attiva, gestita da allievi di Deligny. Lui lo aveva conosciuto che era un bambino …

… Immagino Jeanmari disegnare infiniti piccoli cerchi, uno dopo l’altro, coprire fogli di carta su entrambi i lati. C’è un cammino che diventa un sentiero sterrato, nel bosco dove stiamo, è la vecchia strada che porta a piedi a Monoblet. Non ho ancora visitato Gourgas, sarei voluta andare quest’anno, con più tempo e più calma davanti, se non fosse sopraggiunta la situazione difficile che stiamo vivendo oggi.

 

Nello scorso agosto, André mi spedì il numero 3 della rivista trimestrale Causses&Cevennes,  2019, interamente dedicato a Deligny, del quale ti inviai qualche immagine. Arrivò il giorno stesso del mio 50esimo compleanno. André era sceso per me a St. Hippolyte, nell’unica libreria del paese, dove il libraio è suo amico e chiaramente conosce bene la storia di Gourgas.

 

Il mio terreno confina con le terre di Guattari, le due montagnole, Les Jumelles, io le vedo davanti a me, quando mi affaccio dal piccolo chalet. Sono lì, abito lì, nella terra dei ‘partigiani’, dei combattenti algerini detti « des porteurs de valises », dei bambini di Deligny, degli artisti, dei filosofi e dei matematici di Lacan.

 

Forse siamo destinati ai luoghi, o forse sono i luoghi che ci scelgono. Anche il più piccolo pezzo di terra appartiene a qualcuno. E i luoghi della letteratura ricercata e studiata in quegli anni, sono venuti a coincidere esattamente sulla carta, e in questo modo particolare, con i luoghi della mia vita reale.

 

È quello che si direbbe un momento Kairologico, adempiuto, non cronologico, dove si vengono a creare particolari connessioni fra le cose e gli avvenimenti. Un tempo così esiste, appartiene alla coscienza ed è ricolmo di qualità ‘atemporali’, un noi della specie che non smette di scivolare nei tornanti di sé stessa.

 

 

Il piccolo mazet

 

 

   Les Jumelles, dietro gli abeti e i lecci, al centro, viste dallo chalet.

 

 

Au flanc d’une vague de chênes-vert

un territoire

il ne faut pas avoir peur de la recommencer

l’histoire

sans se lasser

il était une fois des hommes, et des arbres, et de l’eau,

et des pierres

et il ne s’agit pas de l’histoire de chaque UN là mais de

celle d’un certain NOUS

une espèce de nous

un nous d’espèce qui n’en finit pas de déraper

dans les virages

du S

de soi-même

et les vagues érodées de la chaîne hercynienne

se prêtent volontiers à la présence là

de radeaux très précaires à la recherche

du commun d’avant l’un et l’autre

se nourrir alors s’écrivant ce nourrir.

 

(Fernand Deligny, Nous et l’innocent, Maspero, 1976)

 

 

Grazie per ricevere questa mia breve storia.

Con empatia,

Alessandra

Giordano Bruno, o la “nova filosofia”

1

 

di Adriano Ercolani

in conversazione con Michele Perrotta

 

 

Il 9 giugno 1889, giorno di Pentecoste, venne inaugurata nella piazza romana di Campo de’ Fiori la celebre statua in bronzo in omaggio di Giordano Bruno, realizzata dall’artista massone Ettore Ferrari, esattamente nel luogo dove avvenne il rogo del filosofo il 17 febbraio del 1600, per intuizione di Armand Lévy, uno dei carismatici agitatori della Comune di Parigi del 1871.

Solo quattro anni prima era stato formato un comitato internazionale per richiedere la costruzione del monumento, supportato da figure del livello di Victor Hugo e Michail Bakunin.

L’idea di una statua dedicata al grande eretico a poco più di un chilometro dal Vaticano aveva indotto papa Leone XIII a minacciare clamorosamente l’abbandono dell’Italia per l’Impero Austro-Ungarico: sarà un duro intervento del Presidente del Consiglio Crispi (“Sua Santità dovesse andare via dall’Italia non potrà più tornare”) a farlo ripiegare su un teatrale digiuno in ginocchio sotto la statua del capostipite in Vaticano, nel giorno dell’inaugurazione.

Dopo la sua erezione, la statua resistette al tentativo di distruzione che Pio XI voleva inserire nei Patti Lateranensi (provvidenziale fu l’amore per il Nolano di Giovanni Gentile, filosofo tenuto in alta considerazione da Mussolini) e dalla caduta del Fascismo divenne una sorta di meta di pellegrinaggio laico per i fautori del libero pensiero (pensiamo ai ricorrenti omaggi offerti dal Partito Radicale).

Ma, al di là della potenza dell’icona e della commemorazione del martirio, è corretto fare di Giordano Bruno un simbolo del pensiero laicista o addirittura una bandiera dell’ateismo?

In realtà, a studiare in maniera approfondita il pensiero del grande sapiente rinascimentale non si trova certo una negazione dell’esistenza di Dio, al contrario: “Dio è in ogni luogo e in nessuno, fondamento di tutto, di tutto governatore, non incluso nel tutto, dal tutto non escluso, di eccellenza e comprensione egli il tutto, di defilato nulla, principio generatore del tutto, fine terminante il tutto. Mezzo di congiunzione e di distinzione a tutto, centro ogni dove, fondo delle intime cose. Estremo assoluto, che misura e conchiude il tutto, egli non misurabile né pareggiabile, in cui è il tutto, e che non è in nessuno neanche in se stesso, perché individuo e la semplicità medesima, ma è sé.” (De trìplici minimo et mensura).

Dunque, va bene farne un’icona del libero pensiero, un ricercatore affrancato dai dogmi millenari di una Chiesa oscurantista, ma solo se consapevoli di quanto Bruno sia, tramite il neoplatonismo, molto più vicino alla tradizione orfico-pitagorica e cabalistica che al razionalismo illuminista.

Ne abbiamo parlato con Michele Perrotta, ricercatore e studioso di esoterismo e filosofia rinascimentale, del quale già abbiamo apprezzato un lungo trattato sulla bhakti (la devozione illuminata nella mistica induista), Krishna e la Metafisica del Divino Amore. Perrotta ha dedicato al Nolano un saggio dotto e appassionato, Giordano Bruno e la dimensione simbolica del Mondo delle idee, il cui sottotitolo recita: “Un percorso esoterico nel cuore della Nolana filosofia”.

Perrotta, dopo aver mostrato le radici della visione bruniana (il superamento della concezione aristotelico-tolemaica, il ritorno ai numeri come principi divini come nella tradizione orfico-pitagorica, la dottrina della metempsicosi nel mito platonico di Er accanto all’atomismo di Leucippo e Democrito) accosta la sua ricerca a quelle dei contemporanei Telesio e Campanella, per poi addentrarsi con competenza negli aspetti più strettamente esoterici della “nolana filosofia” (la magia naturalis, i sigilli bruniani, le connessioni con i Rosacroce).

L’interlocutore ideale, insomma, a cui proporre una riflessione critica sulla moderna mitizzazione di Bruno.

Qual è stata l’ispirazione di questo saggio?
La figura di Giordano Bruno è sempre stata presente in me sin da quando rimasi colpito dalla sua vicenda storica dodici anni fa. In lui vedevo l’incarnazione del vero ricercatore di verità, anche se i suoi trattati filosofici all’inizio mi sembravano invalicabili data la loro complessità. Piano piano, però, dopo anni e anni di studi, sono riuscito a penetrare la scorza di quella complessa forma mentis e, vedendo che altri autori avevano carpito molto del suo pensiero ma non tutto, mi sono sentito in dovere di offrire un mio contributo sull’argomento – anche perché Giordano Bruno ha un contenuto esoterico non di poco conto all’interno della sua ‘nova filosofia’.

Come riassumeresti l’importanza di Giordano Bruno nella storia del pensiero e della ricerca spirituale occidentale?

 

Giordano Bruno è il filosofo che più di tutti è riuscito a comprendere Dio infinitizzandolo. Nel mio saggio spiego come egli riuscì a percepire l’essenza stessa di tutto ciò che ci circonda: Dio in ogni atomo della creazione; perennemente vivo in ogni particella della materia. Mentre il nostro universo sta continuando ad espandersi, come ci ricorda Bruno che lo identifica come infinito (e non solo come non chiuso), l’Anima dell’universo è sempre operativa e operosa in ogni ‘minuzzeria’ (piccola cosa) all’interno della creazione.

Bruno è diventato, comprensibilmente, un’icona del pensiero libero. Farne però un santino ateo è in netta contraddizione con la sua visione mistica e filosofica, concordi?  

Concordo in pieno. Il Nolano è oltre ogni tipo di etichetta: egli è un neoplatonico, ma va ben oltre il neoplatonismo; egli è un seguace di Ermete Trismegisto e della Prisca Sapientia, ma egli va oltre tutto ciò, e così via.
Definirlo quindi ‘martire del libero pensiero’ è un volergli mettere un vestito troppo stringente, un limite a ciò che è per sua stessa natura tende ad andare oltre tutto e tutti. Poi Bruno, se vogliamo dirla tutta, era tutto fuor che ateo: non c’è filosofo occidentale che parla di Dio più di lui (nonostante il concetto di Dio nella Nolana filosofia sia qualcosa di diverso rispetto alla concezione religiosa). Addirittura per Bruno ci sono due aspetti di Dio: uno trascendente e uno comunicato, ossia riscontrabile in Natura (visibile e misurabile).

Ogni cosa che germoglia e vive nel piano fisico è per Bruno figlia della stessa sostanza divina: la materia divinizzata.

 

Quali sono le tradizioni spirituali ed ermetiche a cui Bruno ha maggiormente attinto?


Come ho accennato in precedenza, egli fu un neoplatonico e un fervente studioso dell’ermetismo, ma anche un pitagorico. Tutto il Rinascimento italiano fu in qualche modo impregnato di queste dottrine misteriche e filosofiche che hanno  contribuito a formare il pensiero bruniano. In aggiunta, Bruno ha attinto dal grande filosofo e matematico tedesco Nicola Cusano, dal Naturalismo di Bernardino Telesio e Tommaso Campanella; nella sua filosofia troviamo anche l’Atomismo di filosofi presocratici quali Leucippo e Democrito.  Ma ripeto, e questo ci tengo a sottolinearlo: Giordano Bruno va oltre tutto e tutti.


Quali sono secondo te gli “eredi” di Bruno o comunque i pensatori successivi più accostabili alla sua ricerca?                                                    

Si potrebbe pensare a filosofi naturalisti come Baruch Spinoza, il grande pensatore ebreo che mise addirittura in discussione la sua fede ebraica entrando in diatriba con la casta sacerdotale – tanto da guadagnarsi il titolo di antesignano dell’Illuminismo e della moderna esegesi biblica. Vi sono poi altri grandi iniziati ai misteri che fecero parte della confraternita dei Rosa+Croce, come Michael Maier, Robert Fludd, e molti altri illustri medici, pensatori, scienziati e filosofi. Se devo essere sincero, non vedo però un vero e proprio erede del Nolano. Bruno è una sorta di “maestro” quasi irraggiungibile dal punto di vista filosofico-esoterico; non a caso egli amava definirsi un ‘Capitano di Popoli’ e un ‘Dormitantium animorum excubitor’, ossia un risvegliatore di anime dormienti.  Nel mio saggio cerco di illustrare il suo insegnamento incentrato sulla ‘magia naturalis’ e sulla ‘Geometria sacra’ (Magia matematica).  Non è facile trovare nella storia una figura simile a lui.


Qual è il ruolo di Buno sul pensiero rinascimentale?

Filippo Giordano Bruno ha avuto un ruolo chiave in quell’epoca: è stato al centro di questioni politiche che hanno visto la sua persona entrare in contatto con le più alte personalità dell’Europa del XVI secolo; addirittura è stato accusato di essere una spia di sua maestà come l’occultista John Dee -che però Bruno non apprezzava-; il Nolano ha poi avuto il merito di portare su questo piano di realtà una visione del tutto nuova che infinitizzava il Copernicanesimo oltre che l’essenza stessa di Dio. Non è una tematica da prendere sotto gamba dato che in quei tempi si credeva ancora che il Sole girasse intorno alla terra  e che l’universo fosse chiuso (la concezione aristotelica-tolemaica).  Bruno è stato senz’ombra di dubbio un ‘protoscienziato’, un visionario: Galileo Galilei ha attinto molto dalla sua filosofia, nonostante egli tenne nascosta questa sua simpatia. L’astronomo e matematico Keplero in una lettera rimprovera Galileo per non aver mai citato Bruno nei suoi trattati (soprattutto ne Il saggiatore), dato che vi si ritrovano concetti propri della Nolana filosofia. Insomma: quest’uomo minuto di Nola dal carattere irascibile e dall’intelligenza sopraffina ha dato molto all’umanità.  Si dice(e nel mio saggio riporto le fonti) che Bruno fondò anche una confraternita esoterica, i Giordanisti, che fu l’avamposto del movimento dei Rosa+Croce, la confraternita iniziatica molto importante che nel XVII secolo cambiò la faccia dell’Europa dilaniata dalle guerre di religione e frammentata da continue divisioni.

 


Quali opere suggeriresti a un neofita per iniziare la grande avventura di esplorazione delle opere di Bruno?

Consiglierei  il Sigillus Sigillorum, il De la Causa principio et uno, il De immenso et innumerabilibus e il De Magia.  Ma, come spiego nel saggio,  l’uomo moderno deve fare vari passaggi prima di calarsi nella forma mentis di Bruno e comprendere il ‘Mondo delle idee’: la dimensione metafisica costituita da simboli e archetipi!

Le anime dei ragazzi a Napoli #2: un colloquio con Giulia Sagliocco

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di Mario Schiavone

Quanti grammi pesa il cuore di un ragazzo di strada a Napoli? mi sono chiesto nel primo articolo di questo nascente confronto con alcuni esperti del tema della criminalità adolescenziale a Napol.

Il privilegio della pelle bianca

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di Sara Marinelli (San Francisco)

Non sono americana. Ma vivo negli Stati Uniti da 13 anni, e quando vivi in America da tanti anni, non puoi ignorare, malgrado il tuo rifiuto e la tua indignazione, che la tua pelle bianca è la linea di demarcazione del tuo privilegio.

Ecco, l’ho convocata subito la parola innominabile, la parola campo di battaglia e terreno di controversia, soprattutto per chi nella vita non ha mai creduto di essere privilegiato. Sto parlando del white privilege, il privilegio bianco.

Sono certa che quasi nessun immigrato o espatriato italiano negli Stati Uniti si considera un privilegiato. La storia è lunga, e anche la memoria. L’emigrante italiano a cavallo tra fine ‘800 e metà ‘900, vittima di discriminazione razzista quando veniva confinato nel ghetto e scartato sul posto di lavoro (“Italians Do Not Apply”, “Italians Not Wanted” era scritto su muri e giornali) conosceva tutto dell’umiliazione di non essere considerato bianco—e di quanto fosse caro il biglietto d’ingresso nella whiteness.[1]* E venendo agli anni recenti, anche quando l’immigrato italiano è un cervello in fuga, mette in conto che spesso dovrà ricominciare da zero, e che a suo modo parte da una condizione di svantaggio.

Molte volte mi sono chiesta il significato profondo di questa espressione, “privilegio bianco”, e quanto mi riguardasse. Nella società americana è uno di quei termini che urta, spesso irrita, quasi sempre ferisce come un’accusa o una colpa dalla quale si sente la necessità di assolversi. E alla quale si può facilmente controbattere con un’argomentazione difensiva: “Ma io non ho alcun privilegio, e non lo esercito.” Così come si controbatte allo slogan Black Lives Matter (Le vite nere contano) sostenendo: “Tutte le vite contano.” Oppure ancora: “Sì alle manifestazioni pacifiche, ma niente rabbia e sommosse, altrimenti vi imponiamo il coprifuoco” (in America l’ordine di coprifuoco non si imponeva dal 1943).
Dunque, li ho elencati in fila alcuni dei termini e concetti scomodi che infuriano in America. Quelli che ti chiedono di esprimere un’opinione, quelli ti invitano a uno schieramento che, come dimostrano le numerose manifestazioni di massa di questi giorni, non può più essere rinviato. Il silenzio, come si legge su molti murales dipinti sulle tavole di legno che bardano i negozi delle strade americane, è complicità. Il silenzio è violenza.

Ho cominciato affermando che non sono americana. Di proposito. Quest’affermazione di identità per negazione —  assieme alla mia storia — è stata per lungo tempo la mia “assoluzione.” Per lungo tempo ho rivendicato dentro di me la mia dissociazione ed esclusione dal privilegio bianco ragionando con me stessa che io qui non ci sono né nata né cresciuta; che non ero qui durante il compimento di questa storia di oppressione e razzismo; che in quanto immigrata sono ancora per certi aspetti un’outsider che, appunto, ha dovuto ricominciare da zero; che il mio luogo di origine — Napoli — oggetto di razzismo italiano e ineguaglianze, non mi farà mai schierare col privilegio, anzi lo aborrisce; che la mia appartenenza al sud del mondo mi avvicina sempre verso le minoranze; che la mia identità di donna è sempre in guerra contro la sopraffazione; che tutto ciò che ho creato per me, la mia educazione e anche il mio femminismo, emergono precisamente dalla necessità di riscatto.

Ma a un certo punto della tua vita qui, se hai attenzione e cura per dove vivi, capisci che si tratta di un altro ordine di discorso, e che se ti è difficile identificare il colore bianco della tua pelle, con il quale sei nata, come privilegio è proprio perché non dovrebbe esserlo. Ti sta infatti chiedendo di scrutarne l’assurdità.
A un certo punto, non potrai più ignorare che chi non ha la pelle bianca non ha la stessa garanzia di immunità e libertà nelle medesime circostanze; piuttosto, le giudicherà umilianti, pericolose o frustranti quando a te saranno sembrate neutre. E se non osservi, capisci e sondi questa ingiusta differenza, non potrai mai denunciarla, soprattutto davanti a chi nella sua daltonìa, o cecità, dichiara che nero equivale a bianco, che il colore non conta.

Poter affermare che il colore non conta è un altro aspetto del privilegio bianco. Il privilegio di non avere fra i molti stress e fardelli della vita quotidiana quello ulteriore ed estenuante della razza: un peso posto sulle spalle di uomini e donne nere dalla storia bianca, e che ancora schiaccia nel presente. È il privilegio di chi non subisce le micro-aggressioni del quotidiano, di chi possiede la libertà di non pensare che se ha il cappuccio della felpa alzato sulla testa è un teppista; che se entra in un negozio sarà sospettato di furto; che se guida l’auto di sera sta sbrigando un affare losco; che se sta con gli amici a fumare in un parcheggio (qui non ci sono le piazze) sta spacciando o complottando una rapina; che se è eloquente e istruito è un’eccezione; che se è alto e di corporatura abbondante incute timore; che quando esce di casa la mattina non sa se ci tornerà la sera; che in ogni ora del giorno potrebbe essere fermato, incriminato, ammanettato perché corrisponde al profilo di un altro uomo con cui condivide l’unico elemento di essere nero; che se cerca di difendersi dichiarando che non è lui, può essere insultato, malmenato, soffocato a morte da chi abusa del proprio potere in nome della legge—che non è uguale per tutti.

A questo si aggiunge che tutto quanto elencato di sopra, e altro ancora, non gli riguarda; non è un suo problema.

Ma c’è una cartina al tornasole efficace, un semplice test che ciascuno può fare con se stesso per comprendere istantaneamente il privilegio bianco. È quasi banale come fare uno di quei test che girano sui social, quali “Come saresti da donna? Da uomo?” “Come sarà tuo figlio?” “Come sarai da vecchio?”
Basta soltanto spingere la fantasia oltre e porsi domande scomode che risulterebbero scorrette e offensive in uno dei suddetti test: “Come sarebbe la tua vita se tu non fossi bianco?” “Come sarebbe la vita di tuo figlio/figlia se non fosse bianco/a?” “Come sarebbe stata la vita dei tuoi genitori e dei tuoi antenati se fossero neri in America?”
Domande che scrivo con estremo rispetto per le identità nere, e con la consapevolezza della loro black joy, beauty e pride — la gioia, la bellezza e l’orgoglio di esserlo.
Ma domande che persino molti attivisti neri stanno ponendo apertamente in questi giorni, riconoscendo con amarezza e indignazione che questa domanda tanto semplice, quanto controversa e potente, può essere una chiave di accesso alla coscienza bianca, e alla sua indifferenza. Un risveglio dal suo torpore.

Me le sono poste anch’io un po’ di anni fa, e solo quando ho cominciato a rispondermi con onestà ho superato il mio risentimento nell’accettare che non sono immune dal privilegio bianco; e che non riconoscerlo e capirlo fino in fondo era un ostacolo alla mia vita qui, al rapporto con la mia comunità artistica e la sua storia, al mio lavoro di docente universitaria, al mio desiderio di giustizia, al mio senso civile.

E le scrivo qui in chiusura come nostro continuo promemoria.
Come sarebbe la tua vita quotidiana, la tua esistenza ed essenza, se la tua pelle non fosse bianca. Se tu fossi esattamente chi sei, con il tuo nome e cognome, la tua vita così come te la vivi, il tuo stesso lavoro, i tuoi viaggi nel mondo, le tue corse in auto, la tua vita sociale e affettiva  — tutto — se la tua pelle non fosse bianca.
Se tu fossi costretto, tutti i giorni che respiri, senza volerlo o no, a dimostrare, convincere, e gridare che la tua vita conta.

[1] “The Price of the Ticket” è il titolo di una raccolta di saggi dello scrittore James Baldwin.