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I due volti della corona

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ph. David Dawson
ph. David Dawson

di Marco Viscardi

Willis: "Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune. 

Alcuni dei miei matti fantasticano di essere re. 

Lui è il Re, e dove andrà a rifugiarsi la sua fantasia?"

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Regina: "Sì, signor Re, siamo stati felici."

Re: "E lo saremo ancora. Lo saremo ancora."

Alan Bennett, La Pazzia di re Giorgio. 

 

Nella trama magnifica e incontenibile dell’Orlando Furioso, la battaglia di Parigi è lo scontro fra la civiltà e la forza bruta. Il campo pagano, dopo lungo assedio, ha deciso di varcare lo spazio umano della città, protetto da mura secolari. Il campione degli infedeli, Rodomonte – incarnazione della pura forza distruttiva – fa strage del più nobile sangue cristiano. La città, devastata dal suo furore, sembra oramai caduta ma quando i cittadini, tutti radunati in una piazza, vedono re Carlo in pericolo, si accendono guidati da un’unica volontà. «La persona del re sì i cori accende, | ch’ognun prend’arme, ognuno animo prende» (XVIII, 12, 7-8). La moltitudine urbana si slancia contro la bestia e la sovrasta, costringendola alla fuga. Il corpo collettivo ha battuto il nemico, ispirato dalla sola presenza del sangue regale.

Questo nel testo del poema, ma l’Orlando è una terra smisurata, difficile da contenere con lo sguardo. Un continente composito di cui fa parte un arcipelago di canti, cinque per la precisione, che nessun cartografo è stato capace di collocare nella giusta posizione. Cinque canti scritti forse prima del 1521, a cui persino Ariosto non ha saputo trovare uno spazio, una collocazione. Vi si racconta una storia cupa di divisioni del campo cristiano, di lealtà tradite e fratelli che uccidono i fratelli. Si combatte sui campi di Germania e di Boemia, gli stessi in cui, mentre Ariosto lavorava al poema, si era diffuso il verbo protestante. Il mondo diventava incerto, le stelle fisse cominciavano a vacillare, nulla di quello che pareva incrollabile si sottraeva in realtà alle leggi del movimento e dell’entropia. I Cinque Canti sono il lato oscuro del Furioso. La loro conclusione è tremenda e ridicola: si vede Carlo cadere da cavallo nella rapida ritirata dal campo di battaglia, e ciascuno è così preso da sé e dal proprio destino che i vincoli sacri del dovere non esistono più. Il re dei re scivola dalla sella e nessuno semplicemente se ne accorge.

I Re sono l’ordine del mondo, ma quando cadono nessuno se ne accorge. L’edificio della monarchia è solido solo per una illusione ottica, ma le sue strutture sono deboli, possono cadere da un momento all’altro se il sovrano è incapace di conservarle e trasmettere a chi verrà dopo di lui. The Crown è la serie televisiva sul potere monarchico e sulla sua fragilità nascosta. La prima stagione era sembrata un po’ incerta, impelagata in cose già viste e digerite, ma con lo scorrere delle puntate la narrazione si è fatta sempre più stringente, i personaggi meglio delineati, gli abiti e gli arredi sempre più credibili. The Crown non è una serie sulla regina ma sulla corona, sulla sua impersonalità, sul peso e le rinunce che comporta quella vita di lusso.

Con l’incedere delle stagioni, diventa sempre più chiaro che il sacrificio imposto dalla corona è accettare un destino di impersonalità e di inazione. Il trono ordina di abdicare alla propria individualità: accettare il destino supremo di essere il primo motore immobile, con la consapevolezza che anche il sole fa parte di una meccanica celeste che non può in nessun modo alterare. È una volontaria rinuncia, una abdicazione appunto, che porta chi non la compie ad abdicare alla corona. Se esiste un cattivo in The Crown non è Mountbatten, con le sue velleitarie pretese di incidere nella storia britannica, ma il duca di Windsor: il dandy che si è svincolato dai propri obblighi per godere di un palcoscenico mondano, il predestinato che ha rifiutato l’unzione.

Una delle puntate meglio riuscite di tutta la serie è quella dedicata alla consacrazione reale, all’incoronazione che eleva il sovrano al di sopra dello stato umano. La contrapposizione fra il dovere e l’individualità, verrebbe da dire fra l’invisibilità e l’individualità, è resa dalla partita doppia della giovane principessa che prende possesso dei simboli antichi della regalità mentre lo zio, diventato estraneo, di quell’avvenimento è spettatore a distanza che segue la cerimonia in televisione commentandola per i suoi raffinatissimi ospiti nel salotto d’esilio. Era il 2 giugno 1953, non esisteva più l’impero britannico e molte delle monarchie che erano in piedi al tempo dell’incoronazione di Giorgio VI erano scomparse, ma il momento dell’unzione del sovrano, della sua elevazione sopra gli altri uomini, conservava la sua sacralità, tanto da essere sottratta allo sguardo onnivoro delle macchine da presa. Marc Bloch era eroicamente morto per la libertà francese, ma i re taumaturghi esistevano ancora. La divinizzazione della regina è privilegio solo di chi è presente fisicamente nell’abazia; gli altri, anche e soprattutto se re in esilio, non possono vederla.

Il duca di Windsor è una figura patetica, incompiuta, impotente. In questa stagione, la morte di colui che era stato Edoardo VIII, al di là delle forme, è una fine senza riconciliazione. La linea della rinuncia e del servizio e quelle della vanità e persino della vitalità non si incontrano neppure alla fine, non vengono accordare in un momento di pietas. Il bacio è un bacio mancato.

L’ultima puntata della prima stagione, solennemente titolata Gloriana, segna il passaggio dall’umano all’atemporale, da Elisabeth Windsor a Elisabeth Regina. La narrazione culmina nella formula magica della sovranità, in latino – antica lingua del potere appena sporcata dall’uso dei britanni che trasforma ‘regina’ in ‘regiaina’. Elisabeth Regiaina! Cecil Beaton, fotografo di corte uso a recitare versi di Tennynson e Shakespeare mentre ritrae i regali, pronuncia queste parole arcane mentre ritrae la giovane sovrana con tutti gli apparati del potere. La regalità è uno spazio profondo, abissale, in cui Elisabetta si inoltra sempre più, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Ma anche cristallizzato su francobolli e monete, il profilo regale non è uno spazio bianco, non è il profilo di ognuno. Ancora una volta si tratta dei due corpi e dei due volti del re: quello mistico e quello umano, quello immortale e quello corrompibile, quello destinato a occupare la propria casella nella lunga galleria dinastica e quello su cui si deposita il passare delle ore e delle emozioni. Il volto del re non è uno spazio bianco: in quella totale rinuncia della volontà che è la regalità, si può inscrivere la propria forma. Non agire è il più pesante degli obblighi, questo la sovrana lo sa autorevolissimamente sin dalla prima stagione, e in questa ammette che la Royal Family vive nascosta al mondo pur essendo sotto gli occhi di tutti. Sembra la lettera rubata di Poe, ma non è un ingranaggio giallo, bensì un gioco di potere.

Il volto modifica la regalità e la regalità modifica il volto, ma qual è la cera e quale il sigillo? Questa terza stagione è tutta inscritta nella fuga dal volto. Prendiamo la prima e l’ultima scena della stagione. Nei primi minuti della puntata d’apertura, vediamo la nuova Elisabetta, qui per la prima volta interpretata da Olivia Colman, specchiarsi nel confronto fra i due nuovi francobolli della royal mail. In uno la giovane sovrana, il profilo romantico di Claire Fox che l’ha incarnata nelle prime due stagioni, e nell’altro il mento cadente e lo sguardo spento della sovrana consapevole. Il tempo che passa non ha clemenza. Difficile capire se sia un caso: ma in questa serie il gioco delle somiglianze si fa stringente: Tobias Meziens è un impressionante Filippo, Josh O’ Connor ed Erin Doherty sono praticamente nati per le parti di Carlo e Anna, Principe di Galles e Principessa Reale. Fanno eccezione solo Olivia Colman ed Helena Bonham Carter. La prima, più che alla regina, assomiglia al ritratto di Elisabetta fatto da Lucien Freud: è un volto sull’orlo del disfacimento, in cui si mostra tutta la fatica di tenere insieme le cose, di non cedere alla legge di dissoluzione che regola l’universo. È un volto atemporale, staccato dal fluire del tempo, cristallizzato in una mezza età che è età del ripensamento e del sospetto. La seconda è una principessa Margaret che non ha più nulla della sensualità di Vanessa Kirby, ma discende anche lei la scura china degli anni, verso solitudini più prosaiche di quelle della sorella: fallimenti umani, confusione del vivere, raggelarsi degli amori domestici e ansie di fuga. Questa stagione racconta anche della formazione intellettuale e sentimentale, nonché erotica, della principessa reale e del principe di Galles. Carlo viene qui investito, secondo antico rituale feudale, di quell’antico dominio inglese. Ma la corona su di lui, come precedentemente sul padre Filippo elevato a Principe del Regno, ha un aspetto ridicolo, è un peso troppo grave per quel giovane collo, sta quasi di traverso, come a sottolineare che non tutti la possono portare. Anzi che nessuno può portarla, salvo colei a cui immediatamente sta bene, colei che si è allenata a farlo.

Spesso il piano narrativo di The Crown si basa sulla tecnica del double plot: i personaggi hanno sempre un doppio che li segue, li perseguita, arriva dove vorrebbero arrivare. Così nella generazione dei padri – re Edoardo e Giorgio – e così in tutte le generazioni. L’annullamento di Elisabetta nella funzione regale è amplificato dalle irrequietudini di Margaret, dalla sua ricerca di una forma, dal senso della sua inessenzialità, dal piacere delle sue sperimentazioni. La corona si nutre delle antitesi, dei conflitti, delle storie che non si conciliano e che restano irrelate per tutta la vita. Vedere il proprio alter-ego vivere aumenta la gloria rancorosa della sovrana, la rassicura sulla sua importanza.

Questa stagione si chiude con l’anniversario d’argento di Sua Maestà Britannica. 1977, venticinque anni di regno. L’argento è un triste metallo, i suoi riflessi sono malinconici, il suo colore ricorda il grigio della mezza età e delle sue incertezze. Così alla fine, la regina esce di scena in carrozza, scortata dalle guardie d’onore e fra queste anche da Carlo, oramai Principe di Galles ed erede al trono. L’erede smania sempre, vuole che il mondo conosca i suoi pensieri, le sue visioni. La sua voce. Ma nello scontro più terribile che un figlio possa avere con una madre, Elisabetta ricorda a Carlo che nessuno è interessato a quella voce. Nessuno è davvero attento al Discorso del Re, gli basta che il monarca sappia occupare la sua casella, riempire quel vuoto in fondo alla scena.

Ancora una volta una partita doppia: la radio descrive la pompa e la circostanza della memorabile giornata, la camera ci mostra una incerta Elisabetta al risveglio: il tè della mattina a letto, i bisogni del corpo, il bagno caldo. Gesti lenti, per allontanare il pensiero sgradevole dell’uscita: dell’accettazione del tempo che passa. Piccole quotidianità di un giorno solenne.

La cerimonia deve iniziare e la sovrana va in carrozza scortata dall’erede al trono.  È un gioco di espressioni e di non detti: la camera passa dal volto del principe smanioso a quello della sovrana che, negli ultimi secondi, passa dalla luce all’ombra. Ombra metaforica al pari di tutte le ombre. E non solo per la tradizionale semantica della maturità come shadow line, ma perché queste ombre le abbiamo viste addensarsi nell’arco delle puntate. Abbiamo visto Elisabetta sprofondare nel ruolo, sentire la propria imprescindibilità. La monarchia porta inscritta nel nome la solitudine. Il re è solo: molos e monoch, l’erede è una funzione necessaria ma insolente, non tanto perché è un ineludibile memento mori, ma perché ricorda che, nel gioco dei due corpi, nessun sovrano è essenziale, ciascuno verrà sostituito e alla fine tutti daranno il loro nome a qualcosa, poco importa se un’età gloriosa, il taglio di una stoffa, la razza di un cane. Nessuno, neppure il re, è insostituibile.

Jacopo sul palco

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di Umberto Piersanti

Jacopo, tu non conosci
palchi,
non conosci
balconi o luoghi
che sopra gli altri
per la gioia s’alzano
o la rabbia
di chi ascolta,
tutto per te si svolge
a rasoterra,

Overbooking: L’Impero che si tace

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Nota di lettura

di

effeffe

a L’Impero che si tace di Ilaria Seclì

 

 

Seguo da diversi anni il lavoro di Ilaria Seclì e proprio su Nazione Indiana ho avuto il piacere di pubblicare alcune sue cose. Di quest’opera che ho potuto leggere nel suo farsi, disfarsi, compiersi, per un decennio, è difficile dire, scrivere qualcosa senza provare, consapevolmente, un profondo disagio formale, un’inadeguatezza da lettore e da critico per certi versi imprescindibile. È infatti possibile accogliere la parola dell’autrice solo alla condizione di rinunciare al canone, qualsiasi canone, e seguirne il passo ovunque esso conduca, senza affatto sapere il disegno che ne determinerà la parabola, il percorso, il destino. Potrebbe apparire un oracolo l’incipit, sprovvisto di titolo, quasi un’ingiunzione al lettore su cosa fare per “ricominciare”. Non abbiamo infatti un tempo definito da un prima e un dopo, scandito dai testi – poesie? prose? note?- quanto un flusso di immagini e di cose che quasi approfittando del silenzio del rumore di fondo, dell’impero che appunto si tace, lasciano apparire per pochi attimi un’esperienza importante, un nome proprio, un toponimo, un’indicazione, che nonostante la sua concreta distanza da noi, risuona in noi come familiare.

Il mito, la storia, le voci si susseguono in una sorta di passaparola da esistenza a esistenza, in un gioco di specchi tra io narranti e io senzienti, talvolta declinato nelle sue forme plurali, voi e noi. È un corpo a corpo tra parola e parola, a tratti iconografico, luci ed ombre, delicatamente poste ai margini di elenchi, inventari, cataloghi di cose ed esperienze. Un viaggio non affatto mentale che questo diario ci invita a intraprendere con lo stesso coraggio dei pionieri a ridosso dei confini dell’impero.

*

 

La somma del tempo (Pozzis, val d’Arzino)

Quel posto che pochi vivi vedono. Tizzoni fermi, valli, estinta civiltà. 7 oblique lapidi rotte dalla neve, bianchi intatti ripetuti e ripetuti su occhi inesistenti, inesistente mano o impronta che li macchi, li corrompa.
Su nomi e lettere cadute, cadute date, resiste un petalo d’argento nero. La somma del tempo non consuma. Non consuma il tempo delle cose, della neve, vento gelido padrone, impero vuoto. La botola che narrano in città, voci e colori ingoia. Un grigio resta, un marrone incenerito, cinghiali e mufloni hanno versi, ma lontani. Uno sparo coi suoi cerchi. Il gallo è vicinissimo. Forche, ruote, zappe. Materia senza nome fatta roccia, basto che il gelo mima fioritura. All’improvviso un uomo.
Giura l’impossibile, alto bastone grezzo, polenta nel paiolo, suo capriolo a legna e fuoco. Sole avaro spento nel caffè dietro la montagna.
22 fotogrammi, passaggi umani, aperte cose oblique e il dubbio di essere appartenuti, stati vivi. Passate cose fra le cose.

 

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Venti turchi

Ci sono venti contrari ai lini che albeggiano su joniche azzurrità. Portano leggende che ingrossano letti di fantasmi e mietono amanti e morti nei pomeriggi tra fine estate e inverno quando più insolente è il cielo e lo scirocco insidia. E sopravvivere è arte di pagliacci e stregoni, se a levante voci di Babilonia e Costantinopoli arrivano da venti umettati di mandorle, fichi, caramello e cinnamomo. E lenzuola di salsa rossa hanno deposto il calice e tutto muore ben prima che negli inverni freddi ad altre latitudini, e tramonti veloci incastrano creature dentro i cancelli dei cimiteri. È tempo di stringersela l’anima sotto feltri doppi e scialli come al petto chiavi e monete d’altri tempi.
Sebbene non faccia freddo i venti compiono razzie da far impallidire i peggiori tiranni.
Ben s’intendono coi pascià turchi di cui ancora sibilano fatti a voce sommessa e guardinga.
In quei mesi il vero è fluido impasto di caotiche lingue che s’adatta ad ogni forma chiusa come acqua che trovi all’occorrenza letto e tetto. È sostanza di mare e vento. Ad altro non puoi far affidamento. Le case sono abitate da presenze inquiete mal identificate. Devi conviverci. Fuori è uguale, non hai scampo. Se la vicina per due volte ti vede senza sorriso, ti chiama, ti fa sedere, mette in un piatto l’uovo, ci spolvera un po’ di sale e ti dice di stare lontano da chi ti porta invidia. Dai domenicani non va meglio, se confidi al padre dall’orientale barba un tuo tormento, non esita a dirti che sei presa di mira da pericolose entità e ti congeda con sufficienti segni della croce, antidoto al nemico.
La porta del paese nei mesi che vi dico ha tanti cerchi di grigi vecchi attorno, ingoiati da una luce di vischio lattescente, e quando quella luce l’accompagna il vento è tutto un venerdì santo, un’eterna via crucis, un lamento che strozza. I sospiri, gli sguardi, le parole devono filtrare la solenne perturbante autorità, pregna di tutto fuorché di sola aria. Le nonne tra questi fatti segnano una tregua. ne hanno viste di ancora più terribili, teste di cavallo negli armadi, cani parlanti, bianchi vecchi su strade nere spariti in un colpo di palpebra. Le loro nenie pomeridiane biascicate in coro e rimbalzanti bocca a bocca in danze allucinate portano pace, acquietano. Auspicano – ora pro nobis – un passaggio veloce e indolore dei mesi terribili, dall’addio alla vendemmia al carnevale. Mesi colonie di spiriti ghignanti e beffardi che nessuna autorità è mai riuscita a tenere a bada né a scacciare. Questo il nostro mondo fino a ieri. Ora supermercati, super ruspe, super voragini. Divelti alberi e panchine, radici profondissime, solenni corredi di ville, dimore regali di gnomi e vari abitanti di pini, ulivi e querce secolari. Ora sapete che da qui a lì, da questo all’altro punto cardinale, è tutto uguale. Dal girotondo al mercimondo.
Ogni tanto passa un ambulante la cui voce ricorda quel vento spaventoso. Tutti ridono e gli fanno il verso compresi i vecchi nella piazza. Solo qualche bimbo e i matti, tra sonno e veglia, sentono strozzati lamenti, pianti finali e avvertimenti di guerre incombenti.
Orfane di vento ma terribilissime.

Edizioni volatili: Selected Love di Andrea Franzoni

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Nell’estate del 2019 le Favole dal secondo diluvio hanno inaugurato quella che sarebbe diventata una collana di scritture poetiche curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce:  “Edizioni volatili” e volanti, come quel cervo -maestro di rinascite- che portava braci tra le mandibole. Il secondo volume della collana è Selected Love di Andrea Franzoni, scritto a Brooklyn facendo “salti da scoiattolo” tra le lingue. Le partiture visive (segnalibri ed illustrazioni) sono sempre di Giuditta Chiaraluce.

In anteprima, ospito qui una selezione di alcune  pagine insieme ad una nota dell’autore –Sull’Amore Scelto– che non spiega il testo, ma ne illumina la precaria necessità: «A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare.»

ll libro verrà presentato nei prossimi mesi.

 

 

 

 

SULL’AMORE SCELTO

L’uso della lingua corrompe la lingua dell’uso – non altrimenti avviene in questa capitolazione del sistema identitario «io sono, quindi parlo». New York, per alcune settimane, in una stessa casa due italiani parlano (male) inglese e (pas mal) francese per comunicare con un’israeliana e un americano (yiddish), i quali parlano (male) italiano e spagnolo e (pas mal) francese. La lingua comune, come in tutte quelle situazioni in cui si incontrano destini esuli, non c’è. L’espressione profonda viene ridotta in queste situazioni ad un lessico basilare – necessario, e per questo fortemente poetico (dotato cioè di aderenza specifica e non generale) – che poggia principalmente sul lessico ricevuto dalla cultura generale (canzoni, film, inglese scolastico, tutto ciò che il certificatore di poeticità disprezza). Le grandi idee delle persone aderiscono in queste situazioni come uno slittino alla superfice necessaria: esiste un popolo che parla la panlingua, esiste già la panlingua (o paralingua), solo che, come in tutte le devianze, in pochi osano esporla in quanto tale. Ebbi in quei giorni la coscienza che la (mia) lingua italiana era un sottosistema di un movimento linguistico più importante. La lingua detta «nazionale» non esisteva che per i destini «nazionalizza(n)ti»

Per gli altri, il limbo. L’intristimento/rallentamento/allestimento ecc. formale delle produzioni nazionali mira forse alla tradizionale stagionatura del prodotto, ma credo avrebbe grande giovatura ad alimentarsi della lingue correntemente in uso in neuropa e altrove. Il cambiamento storico della lingua non è nazionale, ma trans-nazionale (anche i dialetti sono trans-nazionali). Esiste un popolo di locutori che già parlano la-lingue. Perché dunque non portarne avanti una corrispettiva letteratura?

Altra questione fu quella del senso. Andava in me un discorso violento, rotto ad ogni confronto con il senso. L’unità significante era già allora meno della frase (ogni frase si svuota con l’altra), ma non si accontentava per questo dell’uso poetico delle spezzature, né del doppio-polisillabo epico o rappizzato o teso di altri versatori. A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare. Ogni lingua o linguaggio che parliamo, ha una memoria propria, e un proprio modo di pensare. Non c’è il gestore unico della memoria, ma tanti ripetitori, ognuno con le informazioni che gli sono arrivate (spesso, come gli impiegati nelle biblioteche, nessuno sa cosa ha fatto l’impiegato del turno precedente). Non posso ricordare in italiano una cosa che la mia mente ha recepito in francese. Posso tradurla (rappresentarla), ma il ricordo (con quella sua caratteristica ambiguità manipolatoria) non può prodursi che nella lingua in cui l’esperienza si è originata. Tolto il freno inibitorio (il «ma che sto dicendo»), questi pezzi si sono ritrovati così a conversare secondo le proprie naturali caratteristiche. Perché tanti sforzi per diventare qualcuno, se sia il senso che l’identità che ne deriva non sono altro che frutto di dialogo tra le parti (testo-contesto, casa-paesaggio, io-tu)? Ogni dialogo ha genuine necessità di comunicazione (finzione), e un proprio ritmo direttamente orale, non oralizzato. Pas d’oeuvre, giusto un’ascrittura della sfuocatura del cuore. Un ritmo rilassato per dire quello che la mia lingua mamma e la mia lingua amante non riuscivano a dire. Eliminare il significante, osare restituire la perdita (e non colmarla con nuova accumulazione), canalizzare in circuiti linguistici sostenibili la migrazione lessicale e la dispersione annessa, fare la musica dello sbaglio, cioè dell’uso. Letterratura = raccontare la storia che vivi a coloro con cui la vivi, non come la vivi, ma come la vive chi resta immobile in ciò che tu muovi, e che se non incanti con i canti del divenire, ti narrerà domani la stessa storia, ma ripulita, nel bagno delle esigenze degli altri. Una grammatica adatta ad una lingua disadattata esiste già, non va dunque cercata: va detta.

Andrea Franzoni

 

Il giardino di Pedro

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di Nicola Fanizza

Pochi conoscono Pietro Di Giorgio, una singolare figura di architetto e di pittore, vissuto dal 1923 al 2007; eppure le sue opere furono accolte favorevolmente dalla critica in diversi Paesi dell’America latina e tutt’oggi sono oggetto di studio anche in Francia, Germania e Olanda. Ha fatto bene, pertanto, Valeria Nardulli a dedicargli un attento e documentato saggio dal titolo Il Giardino di Don Pedro, Edizioni Ideapress, 2018, pag. 109, Euro 18.

Il volume ricostruisce la sua biografia artistica – era nato a Mola – a partire dagli anni della sua formazione presso l’Istituto Tecnico per Geometri di Bari. Così veniamo a sapere che subito dopo aver conseguito il diploma di geometra, Di Giorgio si era iscritto alla facoltà di Ingegneria, ma non aveva portato a termine i suoi studi, poiché nel 1947 si era trasferito in Venezuela. Il Venezuela era allora la meta prediletta degli emigranti italiani che non potevano recarsi negli Usa. Offriva, infatti, discrete possibilità di lavoro nell’ambito delle costruzioni, poiché era investito dalle dinamiche di un sensibile sviluppo economico.

Qui si era immerso nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Caracas del secondo dopoguerra, quella delle costruzioni avveniristiche e, insieme, dei caffè letterari, delle mostre di pittura e delle riviste d’arte.

La sua enorme curiosità lo porta a frequentare i circoli di stampo teosofico e alchemico. Gli antichi teosofi greci e orientali gli avevano insegnato che la verità risiede soprattutto dentro di noi, nei principi intellettuali e nella vita spirituale dell’anima. Il contenuto di questa verità stava a fondamento di tutte le religioni. Ed era possibile coglierlo attraverso la sapienza profonda dei grandi profeti che quelle stesse religioni avevano creato, sostenuto, diffuso. Da qui il suo sincretismo che troveremo dispiegato in tutte le sue articolazioni e declinazioni nei progetti preparatori del suo Giardino.

L’alchimia gli apparve per molti versi come l’arte dei viaggiatori, l’arte degli individui che sono in transito, l’arte della trasmutazione. L’alchimista, con il suo lavoro, cerca di produrre nel materiale su cui sta operando, la Materia Prima, una serie successiva di mutamenti per condurlo da uno stato grezzo a uno stato perfetto e incorruttibile. La sua bottega diventò così un laboratorio alchemico, dove si esercitava nella rappresentazione delle forme e soprattutto nell’uso dei colori, rendendoli adatti alle sfumature.

La pittura per Di Giorgio assume ben presto un valore esistenziale. Lo aiuta a mettere a fuoco le sue visioni ad occhi chiusi, lo aiuta a far sì che nella sua anima affiorino colori e forme, lo aiuta, insomma, a pensare con le immagini. Nello stesso tempo controlla la sua effervescenza magmatica senza soffocarla e senza lasciarla cadere in un confuso e labile fantasticare, permettendo così alle immagini di cristallizzarsi in una forma ben definita.

Con il nome d’arte di Don Pedro, Di Giorgio intraprende così la sua carriera pittorica, presentando le sue opere in diverse mostre che si tennero in diversi paesi dell’America latina. I suoi quadri danno allo spettatore la sensazione di sentirsi incluso nello spazio della rappresentazione. Cosa che avviene tramite alcuni accorgimenti, quali i diversi punti di fuga o la linea dell’orizzonte alta. L’ambiente così sembra avvolgente. Tutto ciò avviene in ossequio all’immaginario alchemico, che postula per l’appunto l’intima interazione tra macrocosmo e microcosmo umano. Lo spazio è pertanto tutt’altro che chiuso e finito, anzi spesso nei suoi dipinti si aprono finestre che fanno intravedere un paesaggio lontano, come un’apertura verso l’infinito.

Nel frattempo Don Pedro conosce gli architetti Carlos Raul Villanueva e Felix Candela. Villanueva, con cui collabora alla realizzazione della Città Universitaria di Caracas, gli insegna la necessità di promuovere l’integrazione fra arte e architettura. A sua volta, Candela – il progettista degli umbrellas (paraboloidi) – lo invita a valorizzare gli elementi tradizionali dell’architettura dei diversi Paesi.

L’interesse per le diverse culture e in particolare per le civiltà precolombiane lo spinge a visitare il Messico. I materiali mitici qui raccolti gli serviranno in seguito nell’approntamento della sua opera più importante: Il Giardino di Pietra.

Passeranno, però, diversi anni, prima che Don Pedro possa utilizzarli. Solo nel 1981, quattro anni dopo il suo rientro in Italia, Don Pedro ottenne dall’Amministrazione comunale di Mola l’incarico di progettare e realizzare un giardino pubblico. Il suo obiettivo era palese: coniugare le tradizionali forme e tecniche costruttive presenti nel Mezzogiorno con gli stilemi dell’architettura dell’America centrale.

Il libro della Nardulli è incentrato proprio sulla sua ultima avventura architettonica. Il volume si articola in due parti: nella prima vengono individuate le motivazioni che hanno ispirato la sua opera; nella seconda, invece, vengono analizzate le tavole dei progetti rimasti incompiuti.

Benchè scelga di non relazionarsi con la sterminata letteratura sulla storia del giardino, la Nardulli avverte comunque l’esigenza di individuare la genealogia del giardino e le tappe fondamentali nella sua evoluzione.

Don Perdo – asserisce la Nardulli – «rifugge dall’idea di un giardino fortemente antropizzato». Il suo è un giardino di «pietra», un giardino che ricoprendosi di licheni diventa «oggetto vegetale vivente».

I quattro elementi empedoclei che stanno a fondamento dell’universo – aria, terra, acqua e fuoco – vengono rappresentati mediante figure geometriche (triangoli), che hanno una valenza simbolica. Trovano, infatti, il loro punto di ancoraggio nel Timeo di Platone.

Il Murale – l’opera più rilevante – è collocato nella parte sud del giardino ed è costellata dagli archetipi delle diverse religioni. Il suo sincretismo di stampo teosofico si dà giustapponendo alle immagini inerenti al Cristianesimo i simboli delle altre religioni. Il suo è un ecumenismo che mira a sensibilizzare i fruitori del giardino all’incontro con le altre religioni e con le altre culture. Il legame fra le diverse civiltà – egizia, mesopotamica, indù, maya, mixteca – viene esplicitato a livello simbolico, veicolando sulla parete un «filo blu di smalto».

L’immagine che più delle altre viene rappresentata sulle pareti del giardino è quella di Quetzalcoatl, il serpente alato. L’interesse di Don Pedro nei suoi confronti dipende probabilmente dal fatto che nella mitologia azteca Quetzalcoatl – il dio dei gemelli – appare, con la sua duplicità, come protagonista di alcune metamorfosi, che hanno una notevole inflessione alchemica. Sono proprio le sue metamorfosi, con il suo sacrificio, a consentirgli di mettere al mondo l’uomo.

Non è un caso che lo stesso Don Pedro nei suoi appunti affermi che «Sul piano simbolico Quetzalcoatl è l’uomo che non è più legato alla terra, dove ha strisciato come serpente … si alza verso il cielo, quale uccello, con la potenza del suo spirito con il coraggio del suo sacrificio».

La dimensione sacrificale presente nella parabola di Quetzalcoatl e, insieme, la sua apertura nei confronti dell’altro da sé viene colta acutamente dalla Nardulli quando afferma che Quetzalcoatl a livello simbolico non è solo un «portatore di civiltà (una sorta di Prometeo), ma anche il primo maestro spirituale», che aveva invitato gli uomini a «bruciare le radici dell’Ego».

Don Pedro legge il mito di Quetzalcoatl con le lenti del Cristianesimo. Il suo sacrificio e quello del Cristo hanno per lui la stessa valenza simbolica e diventano a loro volta comprensibili attraverso il grande vetro della teosofia. Il mito di Quetzalcoatl è un portatore di senso, rimanda all’esigenza di coniugare la trascendenza con l’immanenza

La scorsa estate, dopo aver letto il bel libro di Valeria Nardulli, ho visitato verso l’imbrunire il giardino di Don Pedro. La salsedine dardeggiata dal sole si era rappresa sulle piante e i fiori, curati dal custode Martino. Quest’ultimo ce la mette tutta per estirpare la gramigna che sta infestando il terreno e non può porre certo rimedio allo sgretolarsi delle pareti. Tutto ciò va a detrimento dei colori che stanno perdendo la loro originale brillantezza. Di fatto il lavoro della Nardulli doveva servire proprio per salvaguardare ciò che resta dell’opera di Don Pedro. Solo il tempo ci dirà se la sua fatica è stata vana. Chissà? Quando sono uscito, nel cielo stavano sbocciando le stelle d’Oriente!

Il Giardino di Don Pedro, sulla scorta dell’esegesi di Dante Alighieri, non è sbarrato; e soprattutto, non v’è alcuna traccia del Cherubino con la spada infuocata a sorvegliarlo; non è concepito come un passato perduto, né come un futuro a venire, bensì come simbolo di una comunità sempre attuale.

Buena Vista Social: la classe

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Questa nuova rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

Cosimo era morto in primavera

di

Rosella Postorino

Cosimo era morto in primavera, a quattordici anni. La morte non aveva fatto in tempo a riscattarlo dalle bravate commesse ma aveva riempito il suo nome di mitologia. Io avevo nove anni, facevo la quinta elementare, e in classe ero nuova. Ero nuova in paese, a dir la verità, e di Cosimo non sapevo nulla. Ma a settembre parlavano ancora tutti di lui, i compagni, la maestra, come se l’incidente in cui aveva perso la vita fosse appena accaduto. Il suo nome saltava fuori ogni giorno, durante una partita al campetto – Cosimo sì che ficcava la palla in porta – o se scoppiava un litigio tra quelli delle medie – Cosimo, se gli girava, poteva pure picchiare un compagno; e poi sputava, e bestemmiava.

Io mi sentivo a disagio quando gli altri raccontavano storie su Cosimo. Perché le storie di Cosimo avevano il potere di escludermi. Ma come, non ti ricordi quella volta che ha centrato col motorino il cancello della scuola? Ah già, tu non c’eri.

No, io non c’ero, ero in un’altra città, in un’altra regione, e la regione in cui sarei venuta ad abitare occupava due pagine appena del sussidiario, tanto che la mia maestra l’aveva saltata nel programma, una strisciolina di terra, non valeva la pena. Io quella primavera passavo i pomeriggi a pedalare in cortile, e ignoravo che dall’altra parte dell’Italia ci fosse un paese pronto ad accogliermi, e che in questo paese facesse a pugni un ragazzino di nome Cosimo, pronto a morire, senza saperlo. Sembrava ci fossimo dati il cambio, sembrava se ne fosse dovuto andare per fare spazio a me, che per giunta non sapevo giocare a calcio e nemmeno dicevo parolacce, non ero una sostituta memorabile. Si scordavano di me persino al campetto, quando qualcuno esordiva con una storia di Cosimo, e lui d’improvviso ricominciava a esistere, mentre io sparivo, soltanto perché non l’avevo conosciuto, e non potevo sorridere, fare un pettegolezzo. Non potevo annuire né replicare quando dicevano che Cosimo era un ragazzo cattivo, a bassa voce perché non arrivasse all’orecchio della maestra. Si poteva parlare così di un morto? Non lo difendevo, e diventavo colpevole.

Ero in colpa per la morte di Cosimo. Perché non gli avevo mai voluto bene e il suo corpo imprigionato dalle lamiere non mi commuoveva come una cosa vera. Mi sforzavo di figurarmi la sua morte, nel tentativo di spremere una lacrima per lui, ma era più facile figurarmi la sua vita, fingere che avesse fatto parte della mia, per sentirmi come gli altri, per non essere esclusa.

Era stato un evento, l’incidente di Cosimo. Il primo grande evento nell’infanzia dei miei compagni. Aveva tagliato in due la primavera dell’87, l’aveva resa epica. Io da quell’evento non ero stata colpita, ero arrivata troppo tardi.
La sera pensavo a Cosimo, e mi chiedevo come si sarebbe comportato se mi avesse incontrata. Forse lui non mi avrebbe fatta sparire, forse mi avrebbe trovata divertente, persino carina, mi avrebbe chiesto di aspettarlo seduta sulle scalette della scuola mentre scartava un avversario, di tenergli la felpa sulle ginocchia; alle sei del pomeriggio se la sarebbe infilata sopra la maglietta umida di sudore e saremmo andati via insieme, mano nella mano, sotto gli occhi di tutti.

Morendo era diventato uno straniero, Cosimo, proprio come me. Apparteneva a un altro mondo, e a me quel mondo non faceva paura. A letto la sera potevo parlare con lui, in fondo era come pregare, leggere una favola, giocare a facciamo che ero. Facciamo che ero amica di Cosimo, facciamo che gli dicevo tutto, facciamo che mi ascoltava, che mi credeva, facciamo che potevo anche barare, pur di farlo stare dalla mia parte. Facciamo che alla fine forse ci innamoravamo anche, Cosimo e io, facciamo che mi mettevo con uno delle medie, uno che dava a tutti del filo da torcere, uno che solo io sapevo come prendere.
A nove anni non è reale ciò che tocchi, è reale ciò che ti tocca. Cosimo era diventato questo, una cosa che mi toccava.

La mamma della maestra morì d’estate, avevamo già finito gli esami. Ci portarono al cimitero dopo il funerale, nessun genitore pensò che fosse troppo presto per noi. Dopo l’incidente di Cosimo, la morte aveva fatto il suo ingresso nell’immaginario dei bambini: spaventosa o no, ormai era libera di essere nominata. Era passato un anno esatto dal mio arrivo, e in quell’anno avevo imparato non solo a ridere delle storie di Cosimo, ma a raccontarle a mia volta. A furia di sentirle le conoscevo a memoria, e nessuno obiettava, ma che ne sai, tu? mica c’eri, anzi capitava che qualcuno dicesse, proprio a me, ti ricordi quella volta che Cosimo, e io assentivo convinta, davvero me la ricordavo. Erano stati gli altri a dimenticarsi di lui a poco a poco, finché pure io avevo smesso di parlargli la sera.

Non ero mai entrata nel cimitero del paese. Mia madre mi aveva ordinato di non allontanarmi, ma io non potei fare a meno di seguire i miei compagni, partiti in una disordinata marcia in mezzo alle tombe, tra spintoni e pizzicotti, calci nel sedere e strilli, una lunga ricreazione.

Quando si fermarono, uno addosso all’altro, all’inizio non capii. Fissavano immobili, in apnea, una foto sfocata. Dovetti leggere il nome per sapere che era lui. Non dissi nulla, qualcuno si fece il segno della croce, qualcun altro si grattò la testa, finché il primo non si mosse, tana libera tutti, e gli altri gli andarono dietro, riprendendo a parlare. Forse proprio di Cosimo, non so. Perché io rimasi lì, con la lapide.

Per la prima volta vedevo il suo viso. Avevo voglia di passare le dita sul vetro ovale della foto, presentarmi, ciao Cosimo, eccoci finalmente. Ma gli altri mi avrebbero vista, che cosa avrebbero pensato? Mia madre forse mi stava cercando, se mi avesse trovata lì, che avrebbe detto? I miei compagni mi chiamarono, presi la rincorsa per raggiungerli.

Ti sbrighi?, urlavano, e io pensavo che Cosimo non sorrideva, nella foto, aveva una specie di ghigno sbruffone, i capelli sulla fronte. Che facevi?, mi chiesero, e Cosimo portava un giubbotto sportivo, invernale, ma strizzava gli occhi come se ci fosse troppo sole. Mia madre aveva detto non allontanarti, e chissà se conosceva la madre di Cosimo, se le aveva mai parlato. Io avevo parlato con lui ogni sera e non l’avevo detto a nessuno, e adesso che l’avevo guardato in faccia ero scappata via, perché chiunque avrebbe pensato che ero pazza, che parlavo coi morti, pure i morti che non avevo conosciuto. Cosimo fu il mio primo tradimento.

Chissà se lo avrei mai rivisto, se sarei tornata al cimitero, se mi sarei pentita di non averlo ringraziato – di cosa poi? Avevo usato le sue storie per prendermi uno spazio, lo avevo trasformato nel personaggio di una storia tutta mia, e nemmeno mi sfiorava l’idea di avergli fatto un torto. Il naso, per esempio, il naso non me lo ricordavo già più, se solo l’avessi guardato un po’ più a lungo, magari sarei riuscita a tenere a mente la forma delle labbra, magari sarei riuscita a capire com’è lo sguardo di uno pronto a morire senza saperlo, di uno che moriva mentre io pedalavo in cortile, dall’altra parte dell’Italia, uno che non ha fatto in tempo a conoscermi e non saprà mai niente, niente di me, uno che non ho fatto in tempo a conoscere, eppure so tutto, proprio tutto di lui.

Non mi accorsi nemmeno di girarmi, tornare indietro, camminare fino alla lastra di marmo con il suo nome, le sue date, 1973-1987. Chissà se gli altri erano rimasti in silenzio a guardarmi, se erano stupiti: del resto ero una straniera, dovevano aspettarselo. Non mi importava più.

Mi piazzai di fronte alla sua faccia da bandito. Aveva narici piccole, Cosimo, il labbro superiore si gonfiava al centro. Gli occhi socchiusi sembravano posati su di me. Restammo così per qualche minuto, lui intrappolato dietro il vetro, io sempre più vicina, per spiare ogni centimetro del suo volto. E forse avete ragione, lo ammetto, non si indaga una lapide con tanta avidità, è irrispettoso se non si tratta di un morto tuo. E non ci si appropria delle storie che non ci appartengono, ma io non ho fatto altro, nella vita, non ho creduto che in questo. E non avevo il diritto di considerare amico uno che non mi aveva scelto, che non avrebbe potuto scegliermi mai, eppure niente era stato più naturale, più giusto, dei miei monologhi a Cosimo. Forse ero un po’ strana a nove anni, a dieci, a trentasei, o forse era solo troppo bello, Cosimo, per morire a quattordici anni. Forse, quando poggiai le labbra sulla foto, quando lo baciai, qualcuno la considerò una violazione, invece era il mio saluto a Cosimo. Commosso perché era l’ultimo, e anche il primo.

Racconto letto via Facebook ma pubblicato anni prima su Doppiozero qui 

L’immagine di copertina è di Luciano D’Alessandro, pubblicata sul numero 2 di Sud

Dublino dentro. L’Europa che non si vede

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[Lo scorso settembre è uscito “Dublino dentro. L’Europa che non si vede” di Luca Bozzoli, un reportage, parte della collana di Geopoetica di Prospero Editore, che racconta Dublino e la comunità senzatetto che la abita. Pubblico uno stralcio della prefazione di Andrea Segre e alcuni estratti del libro. ot]

di Luca Bozzoli

 

(dalla prefazione di Andrea Segre)

L’unico uomo capace di scalare una parete rocciosa di 500 metri senza protezione.
Gli ultimi aborigeni che non conoscono il telefono.
La donna con più figli al mondo.
La miniera dove lavorano e muoiono i bambini più poveri del mondo.
Dentro le barche dei più disperati, le barche della morte.

Eccezionale.
Stupefacente.
Unico.

Questo vuole il mercato del racconto documentario, del racconto del reale in questo mondo malato di spettacolo, malato di competizione. Lo spettatore deve poter essere risvegliato dal suo torpore quotidiano attraverso l’esperienza virtuale dell’eccezionale, dell’irraggiungibile. Dell’unico, nel senso di non ripetibile e soprattutto di non “inseribile” nella normalità.

In fondo ciò che i fornitori di spettacolo suggerisco-no al consumatore è di emozionarsi per qualcosa che altrimenti non potrebbe vedere e che di sicuro non ha nulla a che fare con la normalità della sua vita: un’unione perfetta di stupore e deresponsabilizzazione. Divertiti o prendi paura o piangi, ma soprattutto non preoccuparti, che tutto ciò che stai vedendo è molto diverso e tanto lontano da te.

È una regola del mercato quasi basilare: produci soddisfazione e non creare problemi.

E il mercato agisce ovunque, anche nei settori che ne sembrano nati come antidoto, anche nel cinema documentario o nella narrativa documentaria.

Il libro di Luca Bozzoli che avete in mano è un esempio di istintiva resistenza a questa tendenza. Non c’è un calcolo elitario di costruzione ideologica di un’alternativa al mercato, ma c’è l’istinto libero e diretto di una pratica che produce resistenza.

Il libro di Luca non è un racconto sulla vita degli ultimi di Dublino, come forse un marketing manager proverebbe a venderlo. Non è un surrogato di espe-rienza della povertà estrema o dell’incontro compassionevole con gli espulsi dall’economia turbo-liberista. Non è nemmeno una guida sulla vita di strada. Non è né spettacolo né implicito invito alla deresponsabilizzazione. E non è tutto ciò, ripeto, non perché ha scelto ideologicamente di non esserlo, ma perché questo libro è prima di tutto una pratica, una pratica spazio-temporale e una pratica corporea […].

 

(dal II capitolo)

Sono seduto alla banchina del tram: non aspetto nessun tram, né ho un’idea chiara riguardo a dove andrò, non mi sto riparando dalla pioggia, non sto aspettando un amico.

Sono seduto accanto a Carlow, Carlow è stato chiaro: «Prenditi un giorno intero quando vieni per incontrarmi, non c’è niente che si possa capire in poche ore, in due chiacchere». Mi sta accanto e comincia a parlare, di tanto in tanto allunga una mano chiedendomi il registratore vocale e la fotocamera, scatta foto e racconta cose che intorno a quella banchina ci sono sempre state; indica, nomina, e un mondo di relazioni tra cose, un mondo di storie, è immediatamente chiaro e scoperto, davanti agli occhi di oggi e davanti agli occhi di sempre.

Dublin Heuston è un posto diverso da come l’ho conosciuto per un anno intero, assomiglia sempre meno allo spazio vago a cui l’ho sempre associato: di ora in ora è come se diventasse più dettagliato e decifrabile: si rivela come luogo intessuto da costanti, sostenuto da un ritmo proprio.

Quattro piedi: i piedi di sempre, i piedi di oggi.

A Dublin Heuston ci sono persone che non vanno in nessun luogo. Un popolo immobile non abita la stazione come un luogo di transito verso un altro spazio, ma come un qui.

 

(dal III capitolo)

Stazione. Transito. Strada.

Un’infrastruttura sta nel mezzo, collega due strutture. La strada è uno spazio deputato a una funzione, coincide con essa: quando ce la immaginiamo in astratto è “la strada per”, “la strada da”.

A differenza delle strutture a cui dà accesso, la strada, spesso, non è chiusa, né privata. Non appartiene a qualcuno, non è coperta.

Non offre riparo e perciò non ha un uso indipendente dalla sua funzione di tramite.

 

La strada intorno sfugge dentro il cielo, senza proteggere, senza resistergli. A Dublino le pensiline sono un riparo mi-nimo dalla pioggia, e bisogna farsi piccoli per non bagnarsi, sperare che non tiri vento. A Dublino non ci sono portici: per ogni fermata con una pensilina, due constano invece di un cartello giallo, con sopra uno schermo a led, o sotto una bacheca girevole a tre facce, su cui leggere destinazioni: verso altrove.

Sono seduto al riparo di una pensilina da qualche ora, accanto a me c’è Doy, Doy legge. Il fatto che non mi muova, che non vada in nessun posto, non stia per salire su nessun tram, nessun autobus, insospettisce la sicurezza della stazione di cui ho incrociato gli sguardi già due o tre volte. Sono un corpo estraneo alla città perché non partecipo al movimento che la anima ed è come la tenesse insieme.

Dublino è un moto centripeto nelle ore diurne, frenetico e fitto, e un moto centrifugo, lento e scomposto, la notte.

Un polmone gigante che espleta la sua funzione fisiologica, caratterizzato da un respiro netto e inalterabile.

Visto da un posto lontano, il suo paesaggio, seppure can-giante, ha senz’altro una sua ragione d’insieme, una sua compattezza; è come se quel moto, preso tutto insieme, sapesse sostenersi da sé, ruotando.

(dal IV capitolo)

«Una casa e il Natale». Ho creduto fosse una risposta banale quella che mi ha dato Blackie quando gli ho chiesto cosa sognasse la notte, e non ha esitato un istante.

Ora che ci ripenso una casa è la prima cosa che ho fatto, la prima notte, con i rami di un cespuglio e il mio impermeabile.

Dentro una casa si può avere un Natale, si può intraprendere qualcosa di nuovo, addobbare una parete o un albero, sentirsi a proprio agio e protetti, rispecchiarsi in una struttura stabile.

 

Le case, gli uffici, i negozi appartengono a una o più persone. I parchi, le stazioni, la strada appartengono invece a delle comunità: in Irlanda alla comunità dei cittadini irlandesi, e sono a disposizione di chiunque ne sia parte o ne sia ospite, come turista, lavoratore con visto, residente con permesso di soggiorno, ecc.

L’incontro, in uno spazio aperto, conserva quasi intatta la sua componente di imprevedibilità: non è come l’incontro in uno spazio chiuso – una farmacia, una banca, un ristorante – dove spesso si incontrano persone impegnate in quello spazio, allo stesso modo o in modo complementare a noi che ugualmente ci troviamo in quello spazio.

Sebbene si tratti di luoghi aperti e disponibili, gli spazi pubblici sono intensamente controllati. Se il carattere pubblico, aperto, ovvero la disponibilità di un luogo, è un suo tratto peculiare, è vero, allo stesso tempo, che una serie di oggetti e norme ridiscute costantemente questo aspetto facendone, anche paradossalmente, luoghi aperti regolati e luoghi aperti controllati.

Se nel caso della stazione o del parco abbiamo a che fare con luoghi aperti ma che possono essere chiusi o recintati, a cui perciò si possono limitare gli accessi tramite la pianificazione di orari d’apertura, il caso della strada è unico. Non potendo ricorrere a limiti che la contengano, il controllo della strada passa attraverso l’uso di alcuni dispositivi che agiscono dal suo interno. In questo caso non si tratta di rendere inaccessibile uno spazio, ma di renderlo non-disponibile a un uso specifico, in particolare al suo uso non transitorio.

Quattro immagini riassumono, meglio di altre parole, quanto appena detto.

 

[Seguono esempi di dissuasori, braccioli divisori che impediscono di sdraiarsi sulle panchine e borchie disseminate su tratti di pavimentazione.]

 

 

Cesar guarda la città come una foresta. I vetri fitti che nascondono l’orizzonte come una fioritura precoce. Il cielo assente, scomparso.

Gli alberi sono come la folla di un marciapiede. Il suolo è scomparso come se il palmo di una mano si fosse rovesciato, indecifrabile.

Cesar guarda la città come un destino, la tiene forte fino a fidarsene, finché la sete e la fame di riposo non sono una certezza.

«Lascia che anche la pioggia non cambi il tuo cammino».

 

Cercare riparo in una città può sembrare simile a cercarlo in una foresta, su un monte, in una località dove ci si sia recati per campeggiare. Tuttavia, la città ha una sua dimensione specifica di cui tenere conto, i criteri orografici e idrografici possono essere di scarsissimo rilievo, ma altri criteri, legati ad esempio alla stima della propria reperibilità e del rischio a cui si espone il proprio corpo, diventano cruciali.

Ma cos’è un luogo protetto in uno spazio urbano?

 

Ho creduto fosse una risposta banale quella che mi diede Blackie quando gli chiesi cosa sognasse, «una casa e il Natale» mi rispose senza esitare un istante.

Ora che ci ripenso una casa è la prima cosa che ho fatto, con i rami di un cespuglio e il mio impermeabile.

Dentro una casa si può avere un Natale, si può intraprendere qualcosa di nuovo, addobbare una parete o un albero, sentirsi a proprio agio e protetti, rispecchiarsi in una struttura stabile.

 

Sguardi incrociati

3

 

 

di

Lisa Ginzburg

 

Nel 1956, dopo sette lunghi anni trascorsi lontana, a Londra, Doris Lessing torna in Africa. Torna in Rhodesia (attuale Zimbabwe) lì dove dopo un primo trasferimento dalla nativa Persia (attuale Iran) ha trascorso infanzia e prima giovinezza. Non sta tornando per desiderio, ma perché costretta; non osserva il paesaggio in una condizione di felicità, con occhio infine ricompensato, bensì abitata da una strana euforia impastata di delusione. Preda di simili sentimenti misti attraversa i paesaggi del deserto del Karroo, a lei ben noti. Going home: quel breve ritorno lo ha voluto la vita, non lei; lei lo subisce. Lei che infelice e convinta di ritornare per sempre (non sarà così) si prepara a riabitare quegli stessi luoghi che faranno da sfondo a tante pagine della sua autobiografia.

Come si scrive se si torna, o invece si parte, o invece se si viaggia, si è in transito? Quali traiettorie controverse e ambivalenti legano l’ispirazione letteraria a sentimenti di appartenenza o non appartenenza a un luogo?

Stato d’animo dominante può essere la stizza, una rabbia incollerita nei confronti di “casa propria” e più forte di qualsiasi incantamento. Litigare con le proprie radici: quanto di più facile. Al contrario, si può guardare e scrivere entusiasti, pervasi da una meraviglia di “neofiti” stranieri. Quando i luoghi non sono le nostre radici, eppure belli tanto da farci preda di un innamoramento per il lontano – ora vicino – che acuisce le percezioni rendendole dicibili (dove il contesto straniero fa da stimolo per impressioni che già il solo scrivere fa sentire “a casa”).

Le traiettorie si intersecano: rotte di sguardi di viaggiatori, di ritornanti, di autoesiliati, di stranieri per necessità o invece per libero volere e desiderio proprio. Diverse anche le prospettive generate: c’è la visione di chi ritorna, quella di chi va via, e c’è lo sguardo di chi arriva in visita – occhi questi ultimi ammaliati dal luogo estraneo, una terra cui non si appartiene realmente e che invece per misteriose ragioni viene scelta come la più importante, la più intima, un posto nuovo ma che inspiegabilmente è nostro – parrebbe –  da sempre.

La “patria dell’anima” che per Gogol è stata l’Italia, tanto per intenderci. Gogol che a Roma si entusiasma, lavora come un pazzo a Le anime morte; Gogol che tra i paesaggi italiani trova un se stesso del quale non aveva la più lontana idea. Gogol che in Italia si sente a casa come mai gli era accaduto in Russia. Non così diverso lo sguardo, questo anche straniero ed entusiasta, di Pavel Muratov, delle cui Immagini dell’Italia Adelphi pubblica il primo volume (a cura di Rita Giuliani, traduzioni di Alessandro Romano e Valentina Parisi, pp. 465). Cronaca di viaggio culturale, saggio di storia dell’arte, ode alla forza ispiratrice dello straniamento, esempio illuminante di quella particolare lucidità che è di una visuale di straniero il cui prisma ottico venga trasfigurato dall’arte.

Perché se uno scrittore osserva i luoghi considerandone non solo la bellezza, anche lo stimolo creativo che quegli stessi luoghi esercitano sul suo scrivere, l’occhio dello storico dell’arte partorisce invece un’altra forma di racconto. Le descrizioni di paesaggi e città italiani in Muratov prendono forma a partire dalle loro rappresentazioni in figura: dai quadri. Dove raffigurabilità è sinonimo di dicibilità: per essere stati magnificamente dipinti, ora quei paesaggi possono venire restituiti sulla pagina scritta con una prosa di meravigliose eleganza e bellezza. La grande passione per la laguna di Venezia arriva a Pavel Muratov da Giovanni Bellini, dal San Giorgio di Carpaccio, da Tintoretto, ed è utilizzando come bussola l’arte di questi pittori che lo studioso russo viaggia, esplora, rendiconta, infiamma il lettore di tutto quanto dell’Italia ha infiammato lui come visitatore. Tintoretto è “ultimo grande artista del Rinascimento italiano”, colui il cui sguardo appare a Muratov come il più limpido, simbolico di quanto lui come viaggiatore va scoprendo e amando. Il procedimento narrativo funziona per raffigurazioni successive, e ogni stile e maniera di dipingere si espande sino a includere (e narrare) il tempo storico in cui quelle tecniche sono maturate. La Venezia del Settecento dipinta da Pietro Longhi, in un’epoca in cui “la maschera è autorizzata e protetta dalla Repubblica” – ed ecco la Commedia dell’arte, ecco Tiepolo, Francesco Guardi, prima ancora la Toscana di Giotto che sarà poi l’altra, successiva, quella dipinta da Donatello e Masaccio. Oppure Padova, “dove si sta bene solo di sera dopo aver passato la giornata in compagnia di Giotto e Mantegna”.

Anni di studi e limpido osservare assumono così forma di memorie, e le immagini evocate si trasformano da tele in pietre miliari di ricordo: dietro la mirabile cronaca di quadri, di città, di paesaggi, sempre appostato c’è il Muratov autentico “spatriato”, che tutto annota e nel mentre scruta ogni particolare indaga se stesso. Perché ciascuna opera d’arte parla allo scrittore di qualcosa che va ben oltre quel che rappresenta; la raffigurazione si fa passaggio chiave di una profonda esperienza di spettatore/narratore. In un’osmosi tra sguardo e oggetto, fusionale come può essere per un artista di fronte a un materiale sublime, ecco il Rinascimento narrato da un rinascimentale, e l’Italia descritta da un aspirante italiano.

Al centro c’è la realtà, ben più dei suoi pittori, per quanto lo sguardo di Pavel Muratov sa moltiplicarsi fondendosi con gli occhi di grandi artisti del passato. Diffrazione indotta, senza che il risultato in termini di resa sia meno potente; l’entusiasmo del coltissimo ricercatore è contagioso, tanto quanto inaspettato ed enorme fu il successo di Immagini dell’Italia. Libro “culto” negli ambienti degli emigrati russi (nella postfazione Rita Giuliani dice della grande ammirazione che per Muratov nutriva Joseph Brodskij). Una lezione di sguardo, e di sguardi incrociati. La visione di uno studioso d’arte si interseca con quella dei pittori, il guardare di chi scopre e s’innamora di un paese nuovo quasi si sovrappone a quello di chi ritorna là dove si è svolto il passato. Punto medio di ciascuna traiettoria, la nostalgia. Un moto illogico quanto del tutto poetico: dove il rammarico di poter solo ipotizzare un tempo raffigurato dall’arte converge con la nostalgia di un passato amato e odiato – quando si torna “a casa”, anche se per poco, e mai si sarebbe voluti tornare.

La nostalgia: che orienta gli sguardi e ne legittima l’intersezione, creando un effetto strabico, come strabico è l’osservare sia di chi veda il mondo attraverso le lenti delle sue raffigurazioni, preda della passione per nuove radici auto-attribuite, sia di chi, impaziente di volgersi al futuro, torni a visitare paesaggi che pensava salutati per sempre. Prospettive distorte come distorce i ricordi il sentimento, eppure vigili: punti di vista attenti a cogliere dettagli, gli occhi lucidi per quella febbre del racconto di cui certi sguardi incrociati sanno far ammalare.

 

 

“È la storia di Sarah” di Pauline Delabroy-Allard

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Ana Hatherly, O encontro

 

Ana Hatherly, O encontro

 

di Ornella Tajani

La prima caratteristica dell’ossessione è la percezione al contempo ridottissima e aumentata del soggetto che la prova: in quel tempo parallelo, dissociato dalla realtà, che è il tempo dell’ossessione, non esiste altro che l’oggetto che ne innesca il meccanismo; il soggetto si eclissa dietro il suo astro abbagliante. Così accade nel primo tempo di È la storia di Sarah, romanzo d’esordio di Pauline Delabroy-Allard, arrivato dritto nella cinquina del Prix Goncourt 2018 e vincitore di vari premi, tradotto per Rizzoli da Camilla Diez.

Già dal titolo l’ossessione si rende manifesta: pur raccontando la passione fra due donne – la prima della vita per entrambe -, il romanzo è infatti la storia di Sarah, di Sarah innanzitutto, che irrompe nella vita della protagonista travolgendola, colmandola di un senso fin ad allora sconosciuto e costringendola a gestire il peso e la fatica di una presenza totalizzante.

Un mattino di marzo mi scrive che è nel quartiere del mio liceo, chiede se possiamo pranzare insieme. Non posso. Non ho abbastanza tempo, ho troppe cose da fare, se i miei colleghi mi vedessero sarebbe imbarazzante. Rispondo di sì.

Inizia in questo modo, l’ossessione, spingendo il soggetto al di fuori dei propri limiti, e al contempo paralizzandolo in un’attesa perenne: che l’altro si palesi, invada tutto lo spazio disponibile e lo occupi trionfante. Sarah è una violinista, così la narratrice – che resta senza nome per l’intero romanzo – si ritrova di colpo a rimpiangere di non aver studiato abbastanza quand’era al conservatorio; Sarah mangia gallette, beve birra e l’altra ordina sempre «lo stesso, esattamente lo stesso». La quotidianità si trasforma, si plasma d’improvviso sui dettami del desiderio dell’altra, costringendo l’esistenza nel raggio di luce riflessa che solo riesce a illuminarla. Poiché la presa sulla realtà si riduce, la cronaca tumultuosa della passione fra le due protagoniste, il racconto ben governato che la narratrice ne fa si aggrappa a pause di commento dal sapore enciclopedico, quasi delle ancore di salvezza: fra le descrizioni degli appuntamenti appaiono così degli incisi sulla composizione dello zolfo, che ha per simbolo la «s» di Sarah; sulla morfologia dell’hinterland parigino; dei dati storici su Campo San Bartolomeo a Venezia, dove loro si incontrano mentre stanno conducendo due viaggi indipendenti, scoprendo la meraviglia del vedersi per la prima volta fuori dai luoghi abituali; il tutto accompagnato da un continuo ricamo di citazioni musicali, poetiche, filmiche.

Se il romanzo attinge molto all’universo letterariamente ricchissimo dell’ossessione, va però detto che si tratta della storia di un amore ricambiato e sofferto da entrambi i personaggi. Nel secondo volume dei suoi diari, appena uscito per Nottetempo, Susan Sontag annota: «Amare = la sensazione di vivere in una forma più intensa. Come l’ossigeno puro (diverso dall’aria)»; e chi resta troppo a lungo in un ambiente di ossigeno puro, muore. Così, in questo romanzo, mentre i corpi «avanzano l’uno verso l’altro come calamite malefiche», la protagonista si ritrova spossessata di tutto ciò che aveva prima della comparsa in scena di Sarah:

In questa nuova vita accanto alla sua, ci sono treni e ci sono stazioni, ma non per me, mai. […] Ci sono aeroporti, aerei, orari di imbarco, orari di atterraggio, nastri dove recuperare il bagaglio; ci sono taxi, metro e cambi di metro. Non per me, però, mai.

Il tempo è colonizzato dalla presenza dell’altra, organizzato sulla base delle tournées del quartetto in cui Sarah suona, e si dilata nell’attesa fra una presenza e un’assenza, fra il pieno e il vuoto. La giostra diventa presto insostenibile, così come la volubilità di Sarah, la sua continua altalena fra l’entusiasmo, la vitalità irresistibile e la durezza, le accuse di privazione, le insofferenze. Arriva, necessaria, una separazione temporanea, una pausa nel rapporto che riesca a tagliare la purezza dell’ossigeno.

Marsiglia, Milano e soprattutto Trieste si alternano sullo sfondo, mentre la seconda parte del romanzo ruota intorno alla malattia di Sarah: elemento annunciato sin dall’incipit – dunque nulla si sta svelando a futuri lettori e lettrici -, sviluppato però in modo più confuso, a tratti posticcio. Nell’esilio che la narratrice s’impone – mentre con echi machbetiani si autorappresenta con le mani sporche di sangue -, la figura di Sarah è più che mai presente e si trasforma da ossessione in fantasma. Sconcerta, all’indomani della separazione dall’oggetto amato, che «la vita senza di lei [sia] comunque vita», e che la bellezza di un tramonto o dell’Adriatico scintillante perduri dopo la catastrofe, in tutta la sua inaccettabilità. La spirale che conduce al finale può ora cominciare.

È la storia di Sarah racconta un amore e una seconda, inattesa educazione sentimentale; la prosa trascinante, che almeno nella prima parte non subisce alcuna battuta d’arresto, riesce a descrivere con grande efficacia lo stupore estasiato di una nuova forma di desiderio scoperta a trent’anni, e gli abissi che questo spalanca.

Il merito dell’edizione italiana va tutto alla splendida traduzione di Camilla Diez, che ha saputo seguire il testo nell’impetuosità del discorso della passione così come nell’incedere volutamente esitante, rallentato del commento che diventa pausa, riflessione, controcanto, senza mai neutralizzare lo stile ora chirurgico del frammento, ora informale dei dialoghi, pieni della vivacità della conversazione quotidiana. Il demerito, invece, sta nell’aver messo in commercio un bel romanzo con una copertina improbabile, presumibilmente catchy, che strizza però l’occhio a una generica letteratura “femminile” e ricorda le copertine dei libri di Annie Ernaux per la stessa Rizzoli prima che L’Orma editore iniziasse a pubblicarne i titoli, laddove l’edizione francese è apparsa nella sobria veste grafica delle Éditions de Minuit.

 

Mots-clés__Montessori

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Montessori
di Francesco Forlani

Vasco Rossi, Asilo Republic -> qui

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Da L.-F. Céline, La bella rogna, trad. Giovanni  Raboni e Daniele Gorret, Milano, Guanda, 1982

Tutto deve riprendere dalla scuola, nulla si può fare senza scuola, fuori della scuola. Ordinare, vezzeggiare, far sbocciare una scuola felice, gradevole, allegra, fruttuosa all’anima infine, niente affatto cupa e rattrappente, costipante, incrinata, malefica.
[…] Da dove gli viene questo gusto-catastrofe? prima di tutto, soprattutto dalla scuola, dalla prima educazione, dal sabotaggio dell’entusiasmo, delle primitive gioie creatrici, con l’affettazione declamatoria, la tronfiezza moralistica.
La scuola dei riempimenti ripetizioni, delle imbottiture di mucchi secchi ci conduce al peggio, ci scredita per sempre davanti alla natura e alle onde… Mai più imprese di pedanterie! fabbriche per tarpare i cuori! per appiattire l’entusiasmo! per sconcertare la gioventù! per non lasciarne uscire che noccioli, piccoli grumosi rifiuti d’impagliatura, incartapecoriti uso laurea, che non posson più innamorarsi di nulla salvo che di gramole-segatrici-frantumatrici a 80.000 giri al minuto.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].

Deepfake

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di Marco Canneva

Una voce distante mi telefonò quella mattina in clinica per chiedermi di restarci fino al primo pomeriggio. Richiesta superflua, poiché io ci lavoravo in quel posto e ci stavo volentieri anche dodici ore al giorno. Continuò elencando stancamente le mie doti di medico che mi facevano, a detta sua, uno fra i migliori chirurghi del paese. Immaginai che parlasse per altri perché gli incensi lasciavano pensare a una rassegnazione che aveva me come oggetto, come se la voce si rivolgesse a qualcuno di morente o vissuto nel passato. Scacciai queste impressioni e mi accomodai nei cerimoniali. Mi piaceva infatti essere considerato solo un chirurgo. Forse perché da bambino pensavo che chi portasse un camice, o una qualsiasi uniforme, lo portasse ininterrottamente: che dormisse, amasse, facesse la spesa, persino la doccia, sempre indossandolo. Ho sempre creduto che fosse un buon contrappeso per l’anima.

Dopo pranzo raggiunsi la stanza che mi era stata indicata, al cui interno non c’era nessuno. Al centro una sedia sotto a un tavolo di legno su cui erano posati una videocassetta e una pesante cartella da cui spuntavano fogli sparsi, come fette di prosciutto da un panino. Appoggiato a una parete un mobiletto su cui stava un televisore, fra di essi un videoregistratore. Mi sedetti al tavolo, aprii a caso il faldone più o meno alla sua metà, e iniziai a leggere qualche riga: all’imperativo c’era scritto che al paziente occorreva un taglio d’occhi ben preciso; il colore di questi era invece solo un dettaglio perché le giuste lenti a contatto avrebbero sopperito alla differenza cromatica. Più sotto si sottolineava invece l’esigenza di un labbro inferiore carnoso e di gote asciutte, senza tracce di grasso. Di certo in altre pagine avrei trovato delle foto che mi avrebbero detto di più, ma all’improvviso mi scoprii annoiato, cosa non molto abituale in me. Uscii dalla stanza e feci due passi nel corridoio deserto fino al tavolino basso su cui era appoggiato il telefono di servizio. Vicino a questo un distributore automatico di bibite. Curiosai distratto al suo interno, poi notai la piccola finestra aperta sopra di esso, di cui non mi ero mai accorto. Oltre questa gli ultimi due piani di un palazzo. Oltre ancora, un cielo sporco, come se si trattasse di un vetro impolverato in qualche salotto o studio.

Ritornai lentamente nella stanza senza che il desiderio di studiare le carte si fosse fatto più vivo. Visionai allora il filmato. Si apriva con alcune scritte, avvertimenti legali che ignorai. Mandai avanti il nastro fino al volto di un uomo che parlava. Un uomo conosciuto, intendo conosciuto non solo da me, ma da molti, quasi tutti, un politico famoso. Nella prima sequenza il suo labbro scimmiesco oscillava con aria enfatica su un microfono. In un’altra, seduto su una poltrona, dialogava, più rilassato, con un presentatore televisivo. Mandai ancora avanti fino a trovarlo con aria decisa, a monologare, scarno, davanti a un parlamento silenzioso, quasi intimorito. Spensi il televisore. A quel punto mi accomodai sulla sedia, aprii il faldone e lo lessi dall’inizio.

Dopo un po’ che leggevo avvertii dei passi di più persone nel corridoio, il cui rumore crebbe fino ad arrestarsi. Poi la porta davanti a me si aprì ed entrò un uomo non molto alto, col viso increspato dall’insonnia e seminato da una barba irregolare. Portava la mano sinistra nella tasca dei pantaloni, ma nulla faceva pensare a un gesto disinvolto quanto al goffo tentativo di proteggere qualcosa. Mentre i passi fuori si allontanavano, l’uomo mi salutò. Pensai fissandolo: si assomigliano molto, chi lo ha scovato è stato bravo. Pensai: adesso lo saluto, ancora un attimo. Poi pensai con sollievo che era troppo tardi per farlo e che di grasso sulle guance non ce n’era, e che era una cosa in meno di cui preoccuparsi. Il labbro era invece troppo sottile, ma non importava perché il collagene che avrei iniettato l’avrebbe trasformato in una piccola salsiccia. Poi disse di chiamarsi Amadeo, ma a me interessava solo quanta carne avrei dovuto tagliare e cucire. Lui se ne accorse e i suoi occhi si abbassarono, lontani sulla tasca sinistra all’interno della quale intuivo il muoversi nervoso delle dita. Persi altra umanità quando mi alzai dalla sedia, mi avvicinai e feci due passi intorno a lui per analizzare profilo e nuca, le spalle ossute e le scapole distanti su cui era appesa una maglietta grigia. Nonostante le carte non lo richiedessero, forse per eccesso di zelo, mi soffermai sullo scheletro ben definito e lo immaginai come pasta molle da modellare. Poi, forse fraintendendo la mia indagine a tergo, si sentì in dovere di assicurarmi che non gli era stata fatta violenza, non molta. A quel punto volli indagare l’immobilità del braccio sinistro, ma non appena lo toccai l’improvviso sospiro, feroce e trattenuto di Amadeo mi fece desistere. Tornai allora sul suo viso, sugli occhi che mi facevano preoccupare: intendiamoci: né ernie di grasso né palpebre ipertrofiche lo differenziavano dall’originale, dal politico, l’anatomia era pressappoco identica. Ma il groviglio di muscoli che circondava il bulbo aveva una mobilità unica che di certo affondava nel carattere di Amadeo.

Conoscevo la chirurgia necessaria in questi casi, sapevo che portava a una cicatrizzazione lunga, ignoravo invece il tempo che avevo a disposizione. Andai al tavolo e sfogliai il faldone in cerca di tempistiche e, in loro assenza, di un contatto, magari un numero telefonico. Quando ormai fui certo che non ci fosse nulla che potesse servirmi, il telefono nel corridoio squillò. Mi sentii in dovere di rispondere: lasciai la stanza con al centro Amadeo, dritto nella sua posizione contorta. Raggiunsi spedito la cornetta per poi stupirmi di trovarci dall’altro capo la voce distante. Mi aveva anticipato come se mi avesse seguito attraverso i muri o attraverso il cielo tinto di un blu innaturale, che ora stavo un’altra volta guardando attraverso la finestra.

Chiesi e la voce mi intimò di fare presto perché c’era poco tempo. Quanto tempo, chiesi. Dapprima fu riluttante, poi, come se poco importasse se sapessi o non sapessi, mi disse di più. Scoprii che entro un mese il tipo della videocassetta, il politico, avrebbe dovuto tenere un discorso a reti unificate. Un messaggio che i suoi oppositori e i suoi compagni di partito non si aspettavano. O che invece attendevano, ma evitavano di parlarne con un pudore venato di paura e di fede. Aggiunse però che alcuni di loro si erano spogliati della fede, non della paura, come di una maglietta sporca, e reclamavano segretamente più candore. La voce aggiunse che, al suo posto, Amadeo avrebbe dovuto recitare altre parole davanti alle telecamere, e che no, non conosceva il testo, il copione, e che non gli interessava, ma di certo sarebbe stato un discorso solido perché non era il tempo di idee e di princìpi. Poi mi uscì una sciocchezza: cosa ne pensasse il politico di tutto questo. Al mio orecchio, prima che la voce riagganciasse, giunse un qualcosa fra il silenzio e un verso soffocato da una lastra di plexiglas.

Nello stesso momento in cui posai la cornetta, avvertii un respiro sopra la mia spalla sinistra. Mi voltai e Amadeo era lì, non so da quanto tempo, con un sorriso abbozzato. Nella mano destra, la sola libera, aveva due monete che infilò nella fessura del distributore causando l’uscita di un paio di lattine di cola. Le aprì entrambe e una me la porse. Pensai che un paziente non avrebbe dovuto offrire da bere al suo chirurgo, che sono cose che si fanno solo fra esistenze che scalpitano per diffondersi. Dopo mi chiese se mi sentivo utile. Tirai giù un sorso di cola e orrendamente risposi che tutti serviamo a qualcosa. Fece finta di niente e volle sapere del mio lavoro. Da quanto tempo operavo. Che ne facevo della carne in eccesso. Su cosa stessi lavorando in quel periodo. Gli raccontai che stavo mettendo giù qualcosa di sperimentale che agiva sul profondo, dalla pelle al sistema nervoso, da fuori per il dentro. Amadeo sorrise. Un procedimento, continuai, che modificava il volto per cambiare i pensieri del paziente, anche il suo carattere, anche la personalità, la persona. Sciorinai dati e risultati e di tanto in tanto Amadeo mi diceva distratto: è molto bravo in quello che fa. E io continuavo, anche se la conversazione iniziava a languire, cercando di allontanare quell’attimo che chiamiamo “senza speranze”. Arrivò comunque e ci ritrovammo entrambi, silenziosi, a osservare attraverso la finestra l’imbrunire. Poi Amadeo disse che finalmente non c’era più nessuno dall’altra parte, e continuava a guardare in alto. Gli chiesi cosa intendesse. Credo che fra qualche anno, disse, non ci sarà più bisogno di noi. Qualcuno, o qualcosa per quel qualcuno, osserverà la persona che non gli piace, che dice cose che non vanno bene. Magari attraverso uno schermo, come quello della televisione, magari attraverso il cielo, come adesso. E un attimo dopo, grazie a qualche magia o a calcolatori che ora ignoriamo, il politico, il giornalista o il magistrato, il non gradito insomma, dirà cose che non avrebbe mai affermato. Non potrà farci nulla, come preso da altre volontà. Arrivati a quel punto…

Poi Amadeo si interruppe e perse il tono sognante. Neanche per un attimo pensai che fosse pazzo tanto che rimasi lì, fermo, aspettando che continuasse. Ma lei è un bravo chirurgo, riprese portando lo sguardo sulla mia figura, quando quel momento arriverà qualcosa troverà di certo da fare. Anch’io mi osservai, posai gli occhi sul mio camice e provai una leggerezza torbida. Gli chiesi allora che ne sarebbe stato di lui. Sarò sempre io anche con un’altra faccia, rispose quasi di buon’umore. Poi tirò finalmente fuori dalla tasca la mano sinistra e l’aprì. E ogni secondo che mi separa da quel momento, continuò con lo sguardo sull’orecchino a goccia d’ambra posato al centro del palmo, è un secondo in più per un’altra persona.

Foto di Joshua_Willson da Pixabay

El siglo de oro

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di Gabriele Galloni

Osservo mio padre che guarda un film al computer. Un musical. Ogni tanto alza gli occhi verso di me; sorride a disagio. Domani io e lui partiremo per le vacanze pasquali. Un viaggio che avrei volentieri evitato; ma la morte di una madre comporta anche degli oneri. Tra questi, di solito, il riavvicinamento forzato con il genitore rimasto. E così.

 

 

Mio padre ha quarantadue anni. Devo spezzare una lancia in suo favore e dire che ne dimostra venti di meno. Mi schernisce spesso, per questo: io ho la cosiddetta panza e rispetto a lui sono cupo e basso. Basso anche per la media di questo paese – quindi basso davvero. Mio padre si allena molto; ultimamente ci alleniamo insieme. Mi dice che a vent’anni, la mia età, sollevava settanta chili su panca piana. Io ne faccio a malapena trenta. Mio padre afferma che la bassezza non è uno svantaggio per un sollevatore di pesi: tutt’altro. Più sei basso, più hai possibilità di mettere massa muscolare in breve tempo. “Però quella panza…”

 

 

Il musical finisce, sfuma in una canzonaccia volgare cantata in coro da tutti i personaggi. Mio padre chiude il pc, si alza e va di là in cucina. Mi chiamerà a cena pronta. Nel frattempo finisco di fare la valigia e, come da tradizione, in mezzo alle canottiere (almeno dodici: sudo molto) nascondo un coltellino svizzero. Non sia mai che nel sonno mio padre decida di umiliarmi e fottermi alla sua maniera giovanile. Mai capitato; ma la prudenza non è troppa mai – come posso fidarmi di una persona che mi ha eiaculato per scherzo dentro un bucaccio umido?

 

 

Andremo a Roma e ci resteremo per cinque giorni; i cinque giorni più lunghi della mia vita, li immagino; o quantomeno i più alienanti. Io e mio padre non abbiamo granché da dirci. Sono io che lo ascolto per la maggior parte del tempo. Quando mi parla delle proteine in polvere e quando mi racconta di mia madre da giovane. Mio padre è un nostalgico vero, checché possiate pensarne voi che lo conoscete appena. Lo so: il suo vitalismo, la sua energia. Ma fidatevi quando vi dico che mio padre è un piagnone; spesso si allena in lacrime, non riesce proprio a trattenerle. E non piange soltanto per mia madre. Tanti e vari i motivi del suo pianto.

 

 

A Roma non ci sono mai stato. Uno scrittore l’ha definita uguale a Los Angeles ma con le rovine. Paradossalmente sono stato a Los Angeles; ero molto piccolo e ricordo solo una grande luce.  Mia madre era fissata con l’America, le varie routesixtysix, le strade infinite, la polvere che si alza al passaggio di una macchina, cascame trito e ritrito da donna cresciuta negli anni ’80. Mio padre dice che Roma dovrebbe piacermi. Io non ne vedo i motivi, i presupposti. Non posso ascoltare il piagnone ottimista durante i pasti. Mi chiudo, letteralmente; curvo le spalle più di quanto non lo siano già e mangio in silenzio. Non penso a nulla, semplicemente smetto di ascoltare mio padre; che pure continua a straparlare.

 

 

Partiamo di mattina presto, nonostante le mie rimostranze. Mio padre mi dà del ragazzino e io non posso dargli completamente torto, perché durante il viaggio mi guardo spesso nello specchietto laterale e il mio viso è quello; quello di un bambino, per l’appunto. Una specie di gigantesco neonato con le guanciotte macchiate dall’acne (ma neanche troppo).

Per rendere il viaggio più snervante, mio padre si ferma a ogni autogrill che incontriamo. All’ottavo compra una compilation di successi anni settanta. Tre dischi; tutta la gloria di quello che mio padre descrive come el siglo de oro del Novecento.

“Sai cosa è successo negli anni ’70?” mi domanda.

“Sono successe tante cose negli anni ’70,” rispondo.

“Dimmene una.”

“L’omicidio di Kennedy,” butto lì distratto.

“Acqua, oceano. Kennedy è stato ucciso nel ’63. Hai altre due possibilità.”

“Il golpe di Pinochet.”

“Bravo. Poi?”

“Moravia che pubblica il suo capolavoro, La vita interiore.”

“Non conosco. Ancora: vai.”

“I Residents pubblicano…”

“Basta con le tue nozioni culturali. Avvenimenti storici; concreti; che riguardino l’umanità.”

Rifletto.

“Negli anni ’70 sono nato io,” conclude mio padre.

 

 

A Roma fa caldo e si sta male.

Alloggiamo in periferia, in un quartiere chiamato Casetta Mattei e che sembra l’appendice stronza di una cittadina marittima. L’hotel dispone di una piscina coperta; per prima cosa andiamo lì. Nello spogliatoio mio padre passa in rassegna davanti allo specchio le pose da culturista che conosce. Mio malgrado ho una erezione di cui forse mio padre si accorge, perché tutto a un tratto smette di posare e mi dice laconico andiamo. Non avrei dovuto indossare lo slip attillato. Mio padre mi chiama coscine di pollo.

Mio padre nuota; io rimango nella parte dove l’acqua è bassa. Faccio qualche capriola, qualche verticale. Per fortuna non ho gli occhialetti: in questo modo, se sono sott’acqua, mio padre è soltanto una macchia sfocata che si avvicina e si allontana. È come tenere gli occhi chiusi quando un pensiero imbarazzante ti visita.

 

 

 

 

 

 

Furono nomi di carne. Arruina, di Francesco Iannone

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Caro Francesco,

avevo promesso di accompagnare l’estratto da Arruina con una piccola nota. Ti mando, invece, questa lettera. Ho agito così perché temevo che la tua vicenda potesse uscirne fuori sciancata; che i nomi si occordassero con un gesso già duro. Invece un nome deve essere, come nella favola che narri, quella mezzanotte abbastanza luminosa da battere il discorso della lampada, che è discorso dominante, impero della letteratura contro le vere possibilità del libro.

Qualcuno ha scritto che basta un nonnulla (o meglio: un “sovrappiù”) per slogare la gretta andatura del presente; pochi sono però i testi che lo fanno con il prodigio della trasparenza, dicendo apertamente: «ecco, tutto ricomincia dal retro del foglio. L’altroieri è un gigantesco pagliaio, ma il nostro discorso non ha più timore d’indebitarsi con la miccia.» Arruina mi parla in questa maniera.

A chi prende la via della favola (ovverosia la via della «figura») sarebbe bene ricordare che “il giglio profuma la rosa”. Arruina evade ogni altra premessa, se non quella già formulata da Maria Zambrano:

«Cè una speranza, infatti, che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice.»

Finisco qui. Ci vuole un lungo tirocinio per insegnare che le ossa possono essere anche pettini: questa l’incantagione, e l’unica economia nel viaggio verso Roccagloriosa.

Ti abbraccio,

Giorgiomaria

 

A seguire, un estratto da Arruina, per gentile concessione dell’editore.

 

La Briganta

Questo chiede la Briganta al mondo: che ogni corpo ritorni, perché ogni corpo è la casa della madre. Date alle madri il corpo come dareste un pezzo di terra ad un contadino disperato. Lo sanno tutti. Da quella volta che in piazzetta tre monelli le fecero capitombolare un teschio davanti agli occhi. Un teschio bianchissimo. Un enorme fiocco di neve. Un teschio che fu un nome. Un nome pronunciato, un nome mantenuto sulla bocca da qualcuno, una volta era, il nome suo, l’elemento attaccato alla radice, una volta era. Lo raccolse. Scacciò i bambini urlandogli contro cose. I bambini cattivi col nero sui denti. I bambini zoppi che raschiano i muri con le loro voci forti. «Chi sei?» la Briganta chiese al teschio. «Chi sei?» e così dicendo pianse. Nessun nome ruppe l’incantesimo. «Ti chiamerò ’o figlio. Per te e per tutti ij te so’ mamma. E tu si’ ’o figlio mio bello.» E quando passava per la piazza le donne le dedicavano un inchino, le scuotevano la polvere sulle spalle: «La Briganta porta la luce ’ngoppa a la terra, la Briganta stuta la morte cu li vase».

Poi passarono le notti. Molto lunghe erano le notti. E tutti i turbamenti per le vite tristi, erano i suoi turbamenti. E tutte le gioie per le vite allegre, erano le sue gioie. Se c’è un compito, la Briganta non lo sa e per questo si agita nel sonno, scaccia i diavoli addormentati sul suo petto. Lo disse una mattina in cucina stringendo l’orlo della veste nelle mani: erano sei. «Li ho visti. Sei giovanissimi dai colli lunghi con vistosi tagli sulla faccia. Parlavano lingue sconosciute. Muovevano le braccia come onde. I loro corpi nudi contro la prima luce dell’alba.» «Sono triste» ripeteva la Briganta. «Sono a pezzi. Questa solitudine ci rende monchi, ci piega le ginocchia, ci sbocconcella con la ferocia di una bestia, ci morde i fianchi e fa brandelli di me, di te, di tutti.»

«Devi credermi» ti dico mentre camminiamo verso la Briganta. «Per di qua, per dove soffia il vento, lungo il sentiero disegnato dalle foglie. La Briganta ci condurrà dalla Sperduta. Lei sa tutto. Vedremo i petali volarle via dai palmi e formare nell’aria mulinelli azzurri.»

La Briganta ci guarda, lei sa dove andare, non dobbiamo preoccuparci. C’è un odore di zinco terribile, la Briganta sistema le casette una accanto all’altra. Estrae un arto addossando la terra ad un masso. Lo bacia e poi intinge la pezzolina nella tinozza per pulirlo prima di adagiarlo nella cassetta di zinco. Allargando la fossa ne scopre di nuovi: una gamba un piede una mano con due dita monche due crani vicini dietro la colonna vertebrale una medaglietta annerita che non si legge più. Si sente un rumore di bianco che urta se stesso. La Briganta dispone le ossa con la premura del dio che sistema gli astri nel cielo.

«Sono i miei figli» dice rivolta a noi o a nessuno. «Furono nomi di carne. Furono i trionfi delle madri. Ed ora hanno perduto la calimma dei corpi, il tiepido fluire dei globuli nel sangue, hanno perduto anima e ammuina. Resta solo la fissa collocazione degli scheletri costretti nell’angustia delle cassette. Li terrò con me» dice la Briganta, «saranno gli animaletti che si posano sulla fronte ampia di un orco. Oppure saranno la polvere soffiata nella piaga. Perché ho una piaga qui, al centro, fra una grinza e l’altra del cuore. E nella piaga alluccano le madonne dei santi uomini ripiegati nella zolla, anneriti sopra l’orma umida dei loro passi. Faccio la mia preghiera, intono così la mia ultima giaculatoria di dolore» dice la Briganta e si strappa una ciocca di capelli, poi apre le mani sulla terra. E piange e ne escono oscuri slittamenti sillabici. Si gonfia la vela sulla sua testa, è la sua capellera alata, è la sua ombra di fata che si propaga nel buio. «Anema dei muorti accisi e iettati nella fossa» dice sommessamente. «Arruina cresce come il segno rosso del muorzo di una vampira. Morte ingannaruta come la sete dei serpienti di montagna.»

Comunisti dandy: le retour

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Portrait of Italian politician Antonio Gramsci (1891-1937). (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)
Portrait of Italian politician Antonio Gramsci (1891-1937). (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)

 

Moda uomo, “classica”come la vanità maschile

Nell’inserto che La Provincia di Como ha dedicato alle recenti sfilate della moda uomo per l’autunno-inverno 2020-2021, l’intervista (versione integrale) al Furlèn a cura di Vera Fisogni.

La “vanitas” è sempre più evocata nelle cronache della moda maschile. Quali coordinate le appartengono?

Mi piace la vanità quasi come elogio dell’effimero, proprio come facevano i grandi maestri con le nature morte, che poi l’occhio attento sa essere per lo più dei falsi d’autore, come ho appreso da una delle guide del magnifico museo mediceo di Poggio a Caiano. Vi si rappresentavano infatti fiori di stagionatura diversa e dunque in un’impossibile convivenza temporale. Della vanità della moda come rivolta alla morte vi sono splendidi ragionamenti a riguardo, da Leopardi, Baudelaire fino al magnifico saggio di Gillo Dorfles, Mode e Modi del 79. E come nell’invenzione delle Nature Morte allo stesso modo certe avanguardie dello stile, diremmo Underground, penso a un nome su tutti, Vivienne Westwood, propongono in termini di tessuti e forme, vere e proprie composizioni in canti e controcanti, polifonie per dirlo alla Bachtin, ovvero voci, urlate o sussurrate contro l’ordine stabilito che è la vera morte, se ci pensa. L’altra vanità, quella narcisa e kitsch non m’interessa per quanto sia sempre di moda.

Dandy è un termine che lei ben conosce e ha fatto anche la fortuna di un suo saggio (Manifesto del comunista dandy). Chi è oggi, il dandy autentico?

Una parola misteriosa come Tango, Dada, Jazz, precisa e vaga. Diciamo che nella vestitura militare di guerra di posizione nel mondo, i Dandy sono coloro che indossano divise e mai uniformi. È il trionfo della bellezza del “non so che”, dell’avere stile senza determinarne la natura precisa. È sicuramente un marchio e mai una marca. Abitiamo i nostri capi disobbedendo agli ordini.

Quanto conta la moda nella sua vita?

Credo che pensiero e cura siano strettamente legati e che l’esercizio del pensiero si faccia anche attraverso l’attenzione all’apparenza. È una questione politica fondamentale. Quando il romanziere americano Vonnegut descrive nel suo immenso Mattatoio n°5, i prigionieri inglesi che ottemperavano a tutti i doveri dell’apparenza, barba fatta, esercizi fisici ogni mattina, distanti anni luce dalla trascuratezza dei militari americani, ci vuole dire che il primo atto di resistenza alla morte è non rinunciare ai rituali della vita. Ricordo di aver seguito a un certo punto le tappe di un importante festival jazz che per cinque settimane si svolgeva lungo tutta la cintura parigina, Banlieues Bleues. Grandissimi jazzisti di tutto il mondo. Da Michel Petrucciani a Miles Davis, da Nina Simone a Chuck Berry, Art Blakey per citarne alcuni. Bene , molti di loro animavano nei quartieri caldi degli atelier per giovani e quando le cités vedevano sbarcare dei black con giacca e cravatta, scarpe lucide, si potrà immaginare l’effetto che aveva, sull’equazione, quartieri poveri trasandatezza, assolutamente infondata. Del resto qui a Parigi le migliori scarpe inglesi le trovi in un quartiere popolare come quello della Gare du Nord.

Cosa sente più congeniale dell’idea di eleganza francese e cosa di quella italiana?

Un trentennio interrotto da un periodo di esilio a Torino che mi ha permesso di capire meglio certe differenze tra noi e loro. Direi che la Polifonia si realizzi quasi naturalmente a Parigi, un Underground che è vera e propria aristocrazia dello sguardo, con una componente italiana davvero importante. Potremmo dire che il Made in Italy una volta nel paesaggio francese acquisti un senso nuovo, grazie del resto ai tantissimi giovani stilisti italiani che sono venuti in Francia come del resto fece il nostro Leonardo da Vinci, anche lui creatore di moda, per quanto già sessantenne alla corte di François Ier.

Su quali accessori punta?

Per affrontare il senso della vita bisogna avere scarpe, cravatta e cappello giusti. E le faccio un’anticipazione, vedrà che la bombetta esploderà di nuovo nelle strade occidentali, con tutte le sue varianti da Charlot, Totò fino ad Arancia Meccanica e quella sensuale da una delle protagoniste dell’Insostenibile leggerezza dell’Essere di Milan Kundera.

Barba e baffi sono tornati a imporsi, nelle ultime stagioni della moda uomo. Che interpretazione dare di un trend così in apparenza solo “modaiolo”?

A proposito di quanto dicevamo all’inizio della nostra conversazione, il Dandy è agli antipodi dell’Hipster, divisa e non uniforme, La barba e i capelli modellati, dominati dalle linee sono la negazione della dimensione selvaggia. È il trionfo del giardino all’italiana e alla francese, della legge del giorno mentre il dandy asseconda lo spirito irrazionale e romantico dei giardini all’inglese e della notte. Ci vuole molta più cura nel dialogo con il caos di quanto non ne occorra per l’asservimento all’ordine.

Conversazioni con Italo Testa su poesia & città

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Conversazioni a cura di Stefano Modeo

con Italo Testa

Su Poesia&Città (pubblicata su “Atelier” n.96 di dicembre)

 

 

S.M.: La città è il luogo in cui si muove il poeta. Nel corso del secolo scorso la letteratura ci ha mostrato le diverse trasformazioni del rapporto individuo-città. Basti pensare alla città-ciminiera a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, quella elettrificata dal progresso e dalla velocità dei futuristi, e poi ancora la città-mercato, luogo eletto al consumo, la città della società di massa che diventa un deserto, vuota e sorda nei confronti del singolo; sino ai giorni nostri in cui probabilmente è il luogo del turismo mercificato, del decoro, la vetrina in cui la città intera si fa business.

Todesfuge

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di Paul Celan da Papavero e Memoria

TODESFUGE

SCHWARZE Milch der Frühe wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne
er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz

Tempimorti #2

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di Filippo Polenchi (testo) e Andrea Biancalani (foto)

(#In ufficio) Sono nel dominio vacuo e inospitale del post-insonnia. Un luogo nient’affatto gradevole. Penso a Kafka, Beckett: se la fine è la fine di tutto, allora lo è anche della fine stessa: quindi la fine uccide se stessa e si condanna a non finire. La fine non finisce. È quello che viviamo tutti. Giorni di ossessione: i cinesi. Ormai sono notti intere che non dormo completamente: mai del tutto insonne, mai del tutto riposato. Penso ai cinesi, ai cambiamenti, alle urgenze del clima, al neoliberismo, alla tenaglia, all’oblio, al limbo, all’impotenza. Vorrei fare qualcosa ma non so cosa e tutto mi pare oltre le mie forze. Descrivere. Bisogna continuare a de-scrivere. È l’unica. E lamentarsi, vedi alla voce cahiers de doléances (cfr. Bruno Latour).

(#Lavanderia a gettoni). Questo odore di disinfettante che rinchiude l’aria in un guscio detergente. Una cappa plumbea di odore caldo, una specie di panificio del sapone, la traccia indiana sul confine tra un profumante che dovrebbe coprire un odoraccio ma è esso stesso un odoraccio remixato. Sono le 7 del mattino, sono qui soltanto per usare l’asciugatrice. Mi sono sempre piaciute le lavanderie, la loro esperienza urbana, intrinsecamente provvisoria, da studentato perpetuo, luogo di socializzazione tra gente in calzoncini e ciabatte che non ha più niente di pulito se non pochi stracci addosso. Invece qui, a Pae, la lavanderia a gettoni è una stanzetta piccola, dipinta di giallo, con alle vetrate decalcomanie di bolle di sapone. Tre lavatrici (due da 9 kg, delle quali una ha un cartello «Guasta», una da 16 kg – per un piumone matrimoniale: è quella l’unità di misura) e due asciugatrici. Cartelli con le istruzioni sul muro. Telecamere a circuito chiuso, una tinozza di plastica azzurra, quel ceruleo standardizzato per queste tinozze da Interstock, un carrellino di metallo bianco e un po’ rugginoso, nessuna sedia comoda ma panche di legno con la seduta scomoda attaccate al muro e un tavolo centrale per piegare i panni asciutti. Ci vogliono 24 minuti per asciugare il mio carico di panni. Cerco più volte di aprire la porta, ma il gancio di ottone che serviva per l’operazione è stato strappato dalla porta stessa, così come l’asola di ferro, sul muro, che serviva per ricevere l’uncino. Con la porta chiusa l’effluvio ambiguo è ancor più insopportabile. C’è un mucchio di riviste sulle panca: due pile più o meno identiche di settimanali, mensili scandalistici, tabloid, «Chi», «Gente», «Grand Hotel», «Panorama» e così via. Accanto, una più misera pila di dépliant illustrativi di pizza-a-taglio, mindfulness, corsi di Yoga, corsi di nuoto e giocoleria per bambini. Prendo un blocchetto di quei volantini e tento di bloccare la porta, ma non funziona: non funziona neanche con tutto il mazzo, quindi rimango con l’odore soffice di muffa e deodorante.

(#In ufficio). In attesa si apra Photoshop. Storicamente le mie percezioni si sono rivelate errate. Statisticamente quello che vedo, il ragionamento che ci faccio dietro per spiegarmi cos’ho visto, è sbagliato.

(#In auto). Credo di essere dalle parti di Monteroni d’Arbia, zona Buonconvento, Cassia. Poco avanti Siena, verso l’Amiata. Sono uscito dal raccordino, ho imboccato una strada piovosa piena di capannoni ai lati, imboccato una di queste viuzze liminari ad uno dei capannoni. Sono officine, argenterie, mobilifici, showroom con sanitari domestici, magazzini all’ingrosso di stoffe, un’insegna dice «TOYS» con font puerile, tutto nebuloso, ogni lettera ha un colore diverso e una forma lievemente obliqua, divergente, come se le lettere della scritta T O Y S fossero state ritagliate ciascuna da una rivista diversa e incollate sullo sfondo dell’insegna da un maniaco. Ho accostato e spento il motore. Siamo qui, tutti e tre. Le ragazze già dormono. È per questo che ci siamo fermati: il postprandiale. Mando indietro il sedile, stendo le gambe sopra il volante. I muscoli si liberano dalla prigionia della posizione seduta. L’anidride carbonica delle giunture scoppietta. Sul tettuccio cade una pioggia continua, fragrante, catatonica. Sento che qui il tempo, tutt’altro che morire, rinasce. È tempovivo, appena rigenerato. Qui dentro posso contemplare le pozzanghere trafitte dalle stilettate fittizie delle gocce d’acqua, gli aghi di pino caduti più avanti, ridotti quasi a poltiglia, il grigio cementizio che non stritola, perché siamo protetti nel guscio di madreperla dell’automobile. Il suono attutito dall’esterno è anch’esso protettivo. La quasi totale assenza di umanità in transito o, semplicemente, in attività, è protettiva. La dismissione è protettiva. La dissipazione senza angoscia, l’osservazione di questa dispersione di minuti è protettiva, di più: è desiderio realizzato, fa godere. Insieme al tempo che scorre scemano anche le ansie, le emergenze, i doveri. Persino la desertificazione d’intorno, questa piana pre-montuosa plumbea, sottratta alla sua storia rurale e al suo destino industriale, povera, incarognita, depressa, ora come ora, è ansiolitica, è geo-Xanax urbano.

(#Q8). In attesa che la pompa mi riempia il serbatoio di GPL. Dal vetro opacizzato per la condensa, punteggiato dall’acne della pioggia, s’intravedono due macchie più luminose, rifrazioni dell’insegna. Scatto una foto col telefonino. La foto è bella, mi soddisfa: due aloni pallidi in un cosmo nero, palpitante di formazioni d’acquerugiola stellare. Il benzinaio è un po’ tocco, però: borbotta tra sé e sé, non gli s’attacca mai l’augello al dispositivo del gas delle vetture; attacca briga con molti clienti. Da un po’ di tempo non vedo Mustafà: spero non lo abbiano barattato con questa specie di naziskin che, oltretutto, mi dava l’impressione di prendersi gioco di Mustafà stesso. Non mi sorprenderebbe, tuttavia. Il tempo di oggi è il tempo della Belva.

(#In cucina). Attendendo che il lavello si colmi di acqua e sapone. Schiuma e bolle iridate. Shining libro (più del film): è evidente che i fantasmi siano poco più che dispositivo drammaturgico. Nel film, invece, il Male è Totale: è storico, metastorico, è cosmogonia malvagia, è fondazione nazionale al nero, è oscura teologia, è mito perpetuo saturnino e rete neurale di HAL 9000 trasferita nel corridoio con tappeti e arazzi arabescati con fantasie sioux o comanche (lo scrive Ghezzi: Shining è lo stesso film di 2001: Odissea nello spazio). Il che rende ovviamente il film molto più grande del libro. Ma non m’interessa, mentre il lavello si riempie e penso a quest’oggi, alla pausa pranzo trascorsa in auto, chiuso nell’abitacolo con l’alito tiepido del riscaldamento e la pasta fredda trangugiata diaccia tutta sullo stomaco, ma, curiosamente, senza abbiocco post-prandiale, mentre, appunto chiuso in auto, scrivevo e godevo, autentica ‘gioia di vivere’, mi viene in mente che Jack Torrance è sì un alcolizzato, padre violento figlio di un padre a sua volta violento, ma soprattutto Jack Torrance è un tizio che non scrive più. E allora lo assalgono gli spettri. Come dire: finché scrivi sei salvo. Il che fa di Shining libro una variante di Sherazade. E questo è tutto.

(#In cucina). A e C giocano con la zia. A tenerissima stende la pasta per le tagliatelle che mangeremo a pranzo. C le scatta una foto anch’essa tenera: la piccola ha due treccine ai lati, corte come i suoi capelli che ora hanno una tonalità giallo limone. È una scena di quiete domenicale, in questa bella cucina dove, da fuori, arriva una luce pallida. Il grande vento di scirocco scuote le fronde dei castagni perché si facciano male: ma qui dentro non entra alcun dolore. È il tempo della festa: non posso fare a meno di pensare a domani, agli impegni di frustrante quotidianità salariata che mi attendono. Scrivo a F, dicendogli che la domenica il realismo capitalista si realizza con tutta evidenza nelle oscillazioni tra «peggio» (il lavoro che c’è là fuori, fatto di gretto sfruttamento, di selvaggio liberismo da caballeros) e «meno peggio» (il mio lavoro, noioso e stolido, che disattiva ogni acume, ma almeno con stipendio regolare e diritti lavorativi garantiti: una pacchia per qualcuno, la morte per altri, ma pur sempre quintessenza di un /ufficio/). F risponde che è per via della «festa» (ponte lungo dei Morti): dopo ogni festa ci fanno sentire in colpa per esserci divertiti, per non essere stati connessi al lavoro. La festa è un lemma interessante, viene dalla Comune di Parigi, da Rimbaud e poi Marx e infine Furio Jesi (bibliografia da rinvenire in rete: del resto ogni giorno, un poco alla volta, cerco ‘bibliografie’ in rete, qualcosa per fuggire, derive, piani di uscita o, come dice F, «se il foglio è occupato dal salario scrivi sui margini»: è quello che faccio – o cerco di fare ogni giorno un poco – scrivere sui bordi): le cannonate di Mac Mahon hanno cancellato la festa, il trionfo dell’alternativa, la vendemmia degli entusiasti, degli insorti, del popolo: non gli avevano perdonato la sconfitta di Sedan, ma non era neanche questo: era la possibilità, la liberazione del desiderio, una mesata di democrazia. Niente, via, tutto finito, spazzato via, piombeggiato. Ci fanno provare vergogna, durante la festa, dal 1871 fino a ora: non c’eri, i doveri ti aspettano, il bromuro del capitalismo è un farmaco da banco del supermercato – e se non è vergogna è ansia e se non è ansia è depressione e se non è depressione è bipolarismo e se non è bipolarismo è disturbo narcisistico di personalità: e su tutto è teologia del capitalismo (Benjamin).

(#Pausa pranzo) A vederlo da fuori, cioè passandoci accanto con l’auto, l’ex-bar Luisa (ex Arcangeli pure), appare sempre più in disfacimento, in dis-aggregazione. Cataste di sedie irrimediabilmente sciupate, slabbrature di forassiti, calcinacci. Ma dopo, con l’intenzione di fermarmi lì davanti per consumare il mio pranzo nel Tupperware, vedo che ci sono due muratori che stanno portando via dall’interno secchi di detriti e disgrazia. Stavolta, immagino, qualcuno avrà già pensato a un piano di ristrutturazione per trasformare il vecchio bar in una tavola calda alla moda. O magari, invece, diventerà qualcos’altro; il terzo concessionario, dopo gli altri due che occupano i cubi in quest’area di cemento posta accanto al cimitero (che in definitiva non è che un arcipelago di pompe di benzina/autolavaggi/neon/cubi concessionari/parcheggi privati con pilomat delimitante/aiuole sfibrate). Un salone come gli altri, con le auto parcheggiate dentro, il baule aperto, lucidate, su un tappeto lindo di moquette, tanto da chiedersi come le abbiamo materializzate lì. E accanto alle auto le scrivanie in compensato Ikea, il porta ombrelli ai piedi del tavolo, una coppa smaltata in ottone (qualche premio aziendale? Il miglior venditore del trimestre?); la tristezza di questi uffici, la loro squallida referenza gestionale, da foglio Excel, ma anche, al tempo stesso, una sorta di sedazione cartesiana, qualcosa di ordinato, un effetto placebo del settore terziario o, più probabilmente, un’illusione per chi guarda da fuori, attraverso la protezione dello schermo di vetro, fuggevolmente, una cosa estranea tra tante cose estranee, ma solo più pulita. Ineccepibile lo sgomento metafisico, poi, che offre, a tal proposito, la visione della saletta contrassegnata come «Area di consegna»: uno spazio di circa 10×5 m, praticamente sgombro di tutto: ogni oggetto disposto ai lati: macchinetta del caffè con cialde, uno schedario, due pile di sedie (plastica+seduta di tessuto sintetico ceruleo), alcuni birilli arancioni stradali, come quelli che vengono utilizzati nelle scuole guida, per gli esami della patente A; un aspirapolvere, anch’esso accanto alle sedie. Due piante (a me la specie è ignota), dal fusto lungo, magro, le foglie esanimi e lanceolate, senza più grazia, solo ciuffi da appartamento, da perimetro disinfettato.

La climatologia emozionale di Palandri

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di Enrico Palandri

Ho deciso di riprendere in mano e riscrivere questi romanzi e riproporli in un unico ciclo nel 2010. Ero tornato a vivere a Venezia da qualche anno, stavo terminando I fratelli minori e avevo in mente anche un altro titolo: Le condizioni atmosferiche. A concludersi, oltre al romanzo che stavo scrivendo, era il ciclo di quel che avevo scritto a Londra, dove avevo vissuto dal 1980 al 2003.

‘e riavulille

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di Maria Lenti

Chi è il diavoletto (riavulille) del romanzo di Tullio Bugari? Dove agisce? Come? Quando? Con quali armi, strumenti, compagni e amici?

Chi ha vissuto gli anni Settanta del Novecento lo riconosce subito. È lo spirito dei giovani di quel periodo. Fabbriche da difendere e da far proprie, comunicati stampa, volantinaggi, radio private, scioperi contro i decreti Malfatti, amori più o meno effimeri, risvegli in promiscuità

Ruben Stefano Boari: il disegno non dà tregua alla pagina

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Ruben Stefano Boari è nato nel 2009 a San Severino. Attualmente abita a Macerata, ma ha vissuto anche a Cuba. Frequenta la quinta elementare e, quando vuole, disegna.

Ospito qui una selezione di alcune sue opere: fogli zeppi di linee come materie del vento, talvolta sbalorditi dal colore, e a cui  il disegno non vuole dare tregua. Queste leggerissime battaglie quasi fluttuanti, questi eserciti mandati a cariare ogni contorno ci ricordano che la pagina può essere visitata senz’altro sostegno che lo stupore operante nel polso.

Per questo ringrazio Ruben. 

 

 

 

 

 

 

 

È finito il mito del grande Iran?

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Giuseppe Acconcia

Le autorità iraniane hanno ammesso l’abbattimento del volo Boeing 737 dell’Ukraine International Airlines per “errore umano”. Questo “imperdonabile” errore, come lo ha definito il presidente Hassan Rouhani, è avvenuto a poche ore dal raid alle basi degli Stati Uniti in Iraq, ordinato dall’esercito iraniano, in seguito all’uccisione nella notte tra il 2 e il 3 gennaio scorso del comandante delle milizie al-Quds, Qassem Soleimani, in un raid Usa nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. Questa spiazzante ammissione di responsabilità (per certi versi rivoluzionaria se confrontata con i silenzi di altri Paesi in situazioni simili) è senza dubbio un segno di trasparenza, voluto dalla Guida suprema, Ali Khamenei. Non solo, le forze armate iraniane si sono dette pronte a “riforme essenziali nei processi operativi per evitare simili errori in futuro” e che chi ha commesso l’errore verrà punito. Eppure il ministro degli Esteri, Javad Zarif, ha giustificato l’errore iraniano dovuto a un “momento di crisi causato dall’avventurismo degli Usa”, rilanciando così le responsabilità in campo avversario. Purtroppo, l’abbattimento del Boeing e le 176 vittime che ha causato segneranno inevitabilmente un ridimensionamento sulla valutazione delle capacità militari iraniane.

 

La fine di un mito?

Se, da una parte, la limitata risposta iraniana che ha colpito la base Usa di Ain al-Asad in Iraq poteva essere giustificata da un calcolo razionale per evitare un’escalation del conflitto, dall’altra, l’errore del Boeing 737 non ha nessuna giustificazione. Non solo, ha messo in luce una mancanza di accuratezza più generale del sistema di difesa iraniano, senza precedenti. In altre parole, ha offuscato il mito di un Paese che ha conquistato sul campo e suo malgrado un ruolo essenziale per la gestione dei conflitti nella regione. Fino alla morte di Soleimani, sebbene l’Iran non abbia davvero mai voluto esportare il modello della Repubblica islamica, nata dopo la rivoluzione del 1979, ha dovuto sopperire alle mancanze e alle assenze degli Stati Uniti che non hanno saputo gestire le fasi post-belliche in Iraq e in Afghanistan. Il riconoscimento di questa azione di bilanciamento essenziale, negli interessi dei maggiori attori regionali, inclusa la Russia di Vladimir Putin, è culminato nell’approvazione dell’accordo sul nucleare, raggiunto a Vienna nel luglio del 2015. Ora però si apre una nuova stagione, in cui la vulnerabilità militare iraniana è stata smascherata dagli errori nella risposta all’uccisione di Qassem Soleimani.

 

Iran più forte o più debole?

Che il ruolo regionale iraniano fosse ormai in crisi lo hanno dimostrato altri due eventi che hanno preceduto l’escalation degli ultimi giorni. Prima di tutto le proteste in Iraq dello scorso autunno. A essere attaccati dai manifestanti non sono stati solo gli interessi statunitensi nel Paese ma anche il ruolo iraniano nel periodo seguente alla disastrosa guerra del 2003 che ha segnato la fine del regime di Saddam Hussein. Per ben tre volte è stato attaccato il consolato iraniano a Najaf così come le proteste contro nepotismo, corruzione e disoccupazione giovanile hanno preso di mira sia gli Stati Uniti sia l’Iran. E così Teheran è stata smascherata. Nel perseguire questo ruolo di stabilizzatore regionale ha curato fin qui principalmente i suoi interessi economici, bypassando le sanzioni Usa in Iraq, riempiendo il mercato locale di prodotti iraniani a partire dalle automobili, beneficiando dello status quo, e non ha fatto gli interessi di tutti gli iracheni. Questo è successo non solo in Iraq ma anche in Siria (pensiamo al sostegno incondizionato di Teheran per Bashar al-Assad), in Yemen, in Afghanistan e negli altri Paesi dove movimenti locali come, Hezbollah in Libano, fanno riferimento continuamente nella loro ideologia politica alla Rivoluzione iraniana del 1979. Se il parlamento iracheno ha chiesto la fine della presenza militare statunitense dopo il raid non concordato contro Soleimani, la piazza ha chiesto anche la fine delle interferenze iraniane nel Paese e del sistema settario che incancrenisce le divisioni e continua ad arricchire solo le élite curde, sunnite e sciite. Questo dimostra anche un’altra cosa e una volta di più che la strategia di esportazione della democrazia e di “Grande Medio Oriente”, inaugurata da George Bush con la guerra in Iraq, è completamente fallimentare.

 

Soleimani: un simbolo che muove le masse?

Eppure la possibile fine del mito del grande Iran non sarebbe mai arrivata senza l’assassinio del carismatico generale Soleimani. La sua morte, oltre a favorire chiaramente gli interessi israeliani nella regione, ha suscitato il risveglio dei sostenitori della rivoluzione iraniana della prima ora che sono scesi a milioni in strada (con decine di morti nella calca) per partecipare ai suoi funerali e ricordarlo, in un moto di unità nazionale che mancava in Iran dalla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Non sono mancati i giovani iraniani, della diaspora nel mondo e anche nel Paese, che hanno gioito su Instagram e altri social network per questa uccisione, augurandosi un attacco statunitense che finalmente mettesse fine al regime degli ayatollah e alle restrizioni che opprimono tanti giovani iraniani. Dopo la morte di Soleimani, i conservatori iraniani sono più deboli all’interno del sistema politico iraniano e nella regione. Lo dimostrano le lacrime della guida suprema Ali Khamenei ai suoi funerali e l’impossibilità di una risposta militare dura contro gli Stati Uniti per evitare un conflitto che distruggerebbe la Repubblica islamica per come la conosciamo.

 

La natura anti-sistema delle nuove proteste

L’uccisione di Soleimani ha avuto l’effetto immediato di archiviare la stagione delle proteste anti-governative per il caro vita, la disoccupazione e il ritardo nel pagamento dei salari del 2018 e del 2019 per aprire forse una nuova stagione di contestazioni. I giovani iraniani che si sono riuniti alle porte dell’Università di Teheran e a Isfahan dopo l’ammissione di responsabilità nell’abbattimento del Boeing ucraino da parte dei pasdaran iraniani lo scorso sabato hanno una natura anti-sistemica (tra gli slogan si sente “Via il bugiardo”, “Morte a Khamenei”) in continuità con le ondate di proteste, nel 1999, 2003, 2009 e 2011 che chiedevano una radicale riforma del khomeinismo, delle istituzioni e delle consuetudini su cui si fonda la Repubblica islamica. L’uccisione di Soleimani e le seguenti rappresaglie hanno riaperto quindi una spaccatura che non si è mai davvero sopita tra le correnti politiche iraniane, divise tra sostegno incondizionato alle istituzioni post-rivoluzionarie e la necessità di modernità e riforma che parte dai giovani iraniani.

 

Tutto questo non vuol dire che da domani il “grande Iran” sparirà dalla regione o non sarà più lo “stato canaglia” odiato dai Repubblicani che è stato fino ad ora. Non vuol dire neppure che gli Stati Uniti d’ora in avanti avranno vita facile in Medio Oriente con gli annunci strampalati di Trump che avrebbe voluto colpire i siti culturali iraniani, subito smentito dal Pentagono, mentre saranno proprio i jihadisti dello Stato islamico (Isis), fortemente osteggiati da Teheran, ad avere vita più facile del previsto per qualche tempo. L’Iran continuerà invece a essere un attore regionale essenziale e questo lo dimostra la nomina del successore di Qassem Soleimani, l’altrettanto conservatore, Ismail Qani. Non solo, la straordinaria superiorità che hanno dimostrato sul campo le milizie controllate dai pasdaran dalla Siria all’Iraq fino all’Afghanistan proseguirà, soprattutto per le strutturali mancanze degli Stati Uniti. Non è detto poi che questa debacle dei conservatori non apra una strada nuova ai moderati di Zarif e Rouhani per rinegoziare l’accordo sul nucleare, reso carta straccia dall’uscita unilaterale voluta da Trump nel 2018, dalla ripresa dell’arricchimento dell’uranio, dalle debolezze europee e dalle nuove sanzioni annunciate dagli Usa. Questa componente politica potrebbe aprire la strada a una nuova pagina nei rapporti bilaterali con Washington, come auspicato dallo stesso Trump che vorrebbe un Iran “prospero” e utile per fare “business”, come ha chiaramente detto annunciando di non voler rispondere militarmente al raid iraniano alla base di Ain al-Asad. I moderati iraniani potrebbero sfruttare questa fase per avvantaggiarsi in vista del voto per le presidenziali del 2021 che sembravano sicuro appannaggio delle componenti conservatrici di Raisi e Qalibaf, approfittando delle nuove mobilitazioni e della dura sconfitta che l’uccisione di Soleimani chiaramente ha avuto per i conservatori iraniani. Eppure con il 2020, il mito del grande Iran potrebbe essere archiviato. Il suo mito di invulnerabilità, di capacità militare, di difensore anti-imperialista in Iraq, Siria e Afghanistan risulta incontrovertibilmente offuscato. Gli iraniani fanno errori di calcolo, come tutti gli altri attori regionali, e l’abbattimento del Boeing ucraino lo dimostra, anche gli iraniani sono malvisti, come gli Stati Uniti, da parte delle popolazioni di questi Paesi, e le proteste in Iraq lo dimostrano, l’Iran non può fare passi falsi sul piano militare, pena l’annientamento, e la reazione ai raid Usa lo dimostra.