Nell’estate del 2019 le Favole dal secondo diluvio hanno inaugurato quella che sarebbe diventata una collana di scritture poetiche curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce: “Edizioni volatili” e volanti, come quel cervo -maestro di rinascite- che portava braci tra le mandibole. Il secondo volume della collana è Selected Love di Andrea Franzoni, scritto a Brooklyn facendo “salti da scoiattolo” tra le lingue. Le partiture visive (segnalibri ed illustrazioni) sono sempre di Giuditta Chiaraluce.
In anteprima, ospito qui una selezione di alcune pagine insieme ad una nota dell’autore –Sull’Amore Scelto– che non spiega il testo, ma ne illumina la precaria necessità: «A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare.»
ll libro verrà presentato nei prossimi mesi.


SULL’AMORE SCELTO
L’uso della lingua corrompe la lingua dell’uso – non altrimenti avviene in questa capitolazione del sistema identitario «io sono, quindi parlo». New York, per alcune settimane, in una stessa casa due italiani parlano (male) inglese e (pas mal) francese per comunicare con un’israeliana e un americano (yiddish), i quali parlano (male) italiano e spagnolo e (pas mal) francese. La lingua comune, come in tutte quelle situazioni in cui si incontrano destini esuli, non c’è. L’espressione profonda viene ridotta in queste situazioni ad un lessico basilare – necessario, e per questo fortemente poetico (dotato cioè di aderenza specifica e non generale) – che poggia principalmente sul lessico ricevuto dalla cultura generale (canzoni, film, inglese scolastico, tutto ciò che il certificatore di poeticità disprezza). Le grandi idee delle persone aderiscono in queste situazioni come uno slittino alla superfice necessaria: esiste un popolo che parla la panlingua, esiste già la panlingua (o paralingua), solo che, come in tutte le devianze, in pochi osano esporla in quanto tale. Ebbi in quei giorni la coscienza che la (mia) lingua italiana era un sottosistema di un movimento linguistico più importante. La lingua detta «nazionale» non esisteva che per i destini «nazionalizza(n)ti»
Per gli altri, il limbo. L’intristimento/rallentamento/allestimento ecc. formale delle produzioni nazionali mira forse alla tradizionale stagionatura del prodotto, ma credo avrebbe grande giovatura ad alimentarsi della lingue correntemente in uso in neuropa e altrove. Il cambiamento storico della lingua non è nazionale, ma trans-nazionale (anche i dialetti sono trans-nazionali). Esiste un popolo di locutori che già parlano la-lingue. Perché dunque non portarne avanti una corrispettiva letteratura?
Altra questione fu quella del senso. Andava in me un discorso violento, rotto ad ogni confronto con il senso. L’unità significante era già allora meno della frase (ogni frase si svuota con l’altra), ma non si accontentava per questo dell’uso poetico delle spezzature, né del doppio-polisillabo epico o rappizzato o teso di altri versatori. A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare. Ogni lingua o linguaggio che parliamo, ha una memoria propria, e un proprio modo di pensare. Non c’è il gestore unico della memoria, ma tanti ripetitori, ognuno con le informazioni che gli sono arrivate (spesso, come gli impiegati nelle biblioteche, nessuno sa cosa ha fatto l’impiegato del turno precedente). Non posso ricordare in italiano una cosa che la mia mente ha recepito in francese. Posso tradurla (rappresentarla), ma il ricordo (con quella sua caratteristica ambiguità manipolatoria) non può prodursi che nella lingua in cui l’esperienza si è originata. Tolto il freno inibitorio (il «ma che sto dicendo»), questi pezzi si sono ritrovati così a conversare secondo le proprie naturali caratteristiche. Perché tanti sforzi per diventare qualcuno, se sia il senso che l’identità che ne deriva non sono altro che frutto di dialogo tra le parti (testo-contesto, casa-paesaggio, io-tu)? Ogni dialogo ha genuine necessità di comunicazione (finzione), e un proprio ritmo direttamente orale, non oralizzato. Pas d’oeuvre, giusto un’ascrittura della sfuocatura del cuore. Un ritmo rilassato per dire quello che la mia lingua mamma e la mia lingua amante non riuscivano a dire. Eliminare il significante, osare restituire la perdita (e non colmarla con nuova accumulazione), canalizzare in circuiti linguistici sostenibili la migrazione lessicale e la dispersione annessa, fare la musica dello sbaglio, cioè dell’uso. Letterratura = raccontare la storia che vivi a coloro con cui la vivi, non come la vivi, ma come la vive chi resta immobile in ciò che tu muovi, e che se non incanti con i canti del divenire, ti narrerà domani la stessa storia, ma ripulita, nel bagno delle esigenze degli altri. Una grammatica adatta ad una lingua disadattata esiste già, non va dunque cercata: va detta.
Andrea Franzoni














nante di quella particolare lucidità che è di una visuale di straniero il cui prisma ottico venga trasfigurato dall’arte.
Al centro c’è la realtà, ben più dei suoi pittori, per quanto lo sguardo di Pavel Muratov sa moltiplicarsi fondendosi con gli occhi di grandi artisti del passato. Diffrazione indotta, senza che il risultato in termini di resa sia meno potente; l’entusiasmo del coltissimo ricercatore è contagioso, tanto quanto inaspettato ed enorme fu il successo di Immagini dell’Italia. Libro “culto” negli ambienti degli emigrati russi (nella postfazione Rita Giuliani dice della grande ammirazione che per Muratov nutriva Joseph Brodskij). Una lezione di sguardo, e di sguardi incrociati. La visione di uno studioso d’arte si interseca con quella dei pittori, il guardare di chi scopre e s’innamora di un paese nuovo quasi si sovrappone a quello di chi ritorna là dove si è svolto il passato. Punto medio di ciascuna traiettoria, la nostalgia. Un moto illogico quanto del tutto poetico: dove il rammarico di poter solo ipotizzare un tempo raffigurato dall’arte converge con la nostalgia di un passato amato e odiato – quando si torna “a casa”, anche se per poco, e mai si sarebbe voluti tornare.








Conversazioni a cura di Stefano Modeo























Leggendo Leonardo Luccone e il suo La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie) mi sono detta che forse eccola qui, una possibile risposta, che si rivela però più enigmatica e trasversale di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Il grande romanzo italiano parrebbe essere in realtà un grande romanzo americano; un romanzo che rompe gli argini dell’italianità tradizionalmente intesa.
