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La ley del cammino

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Questo discorso è stato tenuto al Congresso del Partito Socialista Ticinese nel 2018. Mi pare che valga ancora e ben oltre i suoi confini geografici. Ho chiesto all’autore di poterlo quindi riproporre su Nazione Indiana. L’originale si trova qui:  http://www.ps-ticino.ch/care-compagne-cari-compagni-discorso-fabio-pusterla/ (f.m.)

di Fabio Pusterla

Discorso per il congresso del Partito Socialista, Arbedo 18 novembre 2018

Care compagne, cari compagni,

ho pronunciato quattro parole, o meglio due, declinate al femminile e al maschile, e sono già costretto a fermarmi. Queste due parole sono state a lungo, per più di un secolo, una formula ovvia d’apertura, dietro la quale tutti potevano capire una realtà comune e almeno entro certi limiti chiara. Ma oggi è ancora così? Io ne dubito, e penso che questa formula nota a tutti oggi forse ponga qualche problema, e chieda di essere interrogata seriamente. Tutto il mio breve intervento sarà dunque basato sugli interrogativi sollevati da queste due parole così importanti e oggi così incerte.

Tanto per cominciare: ci siamo davvero ancora reciprocamente “cari”?  E cosa vorrebbe dire “cari”? “Aver caro qualcuno” vorrebbe dire, e questo è il significato che la parola porta con sé da secoli, e anzi da millenni, salendo a noi almeno dall’epoca latina, riconoscerne il valore, la preziosità, e provare una forma di affetto, di tenerezza, persino di amore. Da “caro” deriva del resto il concetto importante di “carità”. Allora: è questo che proviamo reciprocamente: un senso di preziosità, di affetto che ci unisce al di là delle differenze e delle divergenze? Una comune carità? Tutti noi sappiamo benissimo che la storia della sinistra è una complessa dialettica di unità e frantumazione; e che, entro certi limiti, proprio questa effervescenza ideologica ha a lungo costituito una grande ricchezza e un grande serbatoio di idee e di energie. Ma in certi momenti storici, di solito contrassegnati da una particolare difficoltà, come quello che stiamo affannosamente vivendo, le divergenze hanno preso il sopravvento; le rivalità oscurato la coscienza della comune carità; le ambizioni individuali o di parte annichilito la dimensione ideale. Il mondo in queste epoche è spazzato da un vento cupo e nero, lo stesso vento di cui ha parlato recentemente Igor Righini in uno suo articolo, e di cui oggi sentiamo la presenza quotidiana, nel piccolo della nostra realtà, ma anche allargando lo sguardo: dal Brasile di Bolsonaro all’Italia di Matteo Salvini, dall’America di Trump alla Turchia di Erdogan, quasi da ogni dove giungono le raffiche gelate di questo vento, e, come nella pagina iniziale del grande romanzo di Emile Zola, Germinale, la strada davanti a noi sembra aprirsi dritta come un molo nel buio accecante delle tenebre. Ma intanto che il vento infuria e le tenebre si infittiscono, cosa fa la sinistra? A volte, come dimentica di sé e di ciò che sta accadendo, litiga, si frantuma, si annulla. Perde di vista la “carità”. Colpa dei gruppuscoli più estremi, si dice allora di solito, che in nome della loro intransigenza  e presunzione di verità assoluta favoriscono la dispersione. Ma una simile spiegazione è insufficiente, e soprattutto ingiusta, perché non considera che la vera forza di un grande movimento di sinistra, di un grande partito di sinistra, sta nella capacità di contenere e accogliere in sé queste divergenze, di non lasciarle esplodere in maniera distruttiva; e questo è possibile solo quando, al di sotto delle contingenze e delle diversità, si mantiene viva e forte una idealità comune, vigorosa e riconoscibile, una forza progettuale che va ben al di là delle scadenze elettorali, delle tattiche e delle preoccupazioni spicciole.

Ma questo ci conduce alla seconda parola: “compagni”. Tutti ne conosciamo la splendida origine, che riconduce alla concreta realtà del “pane”, l’alimento primario della nostra cultura, e ai suoi significati simbolici. Colui con cui spezzo il mio pane è il mio compagno: e l’immagine è così bella e così forte, la parola così ricca di significato evidente, che tutti coloro che la avversano la invidiano anche, e per questo la irridono non appena possono: il disprezzo con cui le destre pronunciano come se fosse un insulto o una parola ridicola il termine “compagni” è l’altra faccia dell’invidia e del timore: perché si sente rimbombare, in questa semplice parola, qualcosa di grande. E tuttavia oggi le cose sono più complicate. L’8 luglio 1974 Pier Paolo Pasolini, che sarebbe stato trucidato nell’autunno dell’anno successivo, scriveva su «Paese sera» un articolo memorabile, in cui rispondeva a certe critiche che gli aveva mosso Italo Calvino. E diceva, Pasolini, che un’epoca della storia umana, lunghissima, che lui riassumeva nell’espressione età del pane era terminata, perché eravamo ormai entrati nell’età della merce. Nell’età del pane, osservava, «gli uomini erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita». Se, come credo, Pasolini aveva ragione, dobbiamo chiederci cosa possa significare la parola “compagno” nell’età della merce, che non è più quella del pane. Dobbiamo chiederci quale possa essere, oggi, il nuovo pane da spezzare tra di noi e con gli altri, perché solo in questo modo potremo continuare ad usare il termine “compagni” senza essere patetici.  Naturalmente non mi illudo di avere la risposta; ma suggerisco di considerare con attenzione l’idea che a dover essere condivisi, oggi, siano soprattutto i diritti. I diritti che già esistono, che sono il frutto di una faticosa conquista del progressismo otto e novecentesco, e che oggi vediamo costantemente minacciati da un vasto progetto di restaurazione volto a indebolire, e talvolta addirittura eliminare questi diritti umani e sociali, cosa che spinge da molto tempo le forze della sinistra su una posizione difensiva e logorante, che rischia di minarne lo slancio, l’inventiva, la creatività. Bisogna senz’altro difendere con forza i diritti esistenti dalla furia del neocapitalismo selvaggio e del suo talvolta inconsapevole braccio armato, il populismo dilagante; ma bisogna anche avere il coraggio di immaginare i diritti che ancora non esistono, quella fetta enorme di giustizia e di equità che ancora non è stata riconosciuta. Per fare questo, io penso che ci si debba spingere verso territori ancora sconosciuti; che si debba avere il coraggio di varcare i confini dei diritti attuali, delle leggi attuali, per esplorare e illuminare ciò che sta oltre. Perché i diritti non sono immobili nel tempo, ma mutano con il mutare delle condizioni, con l’emergere di nuovi soggetti storici, politici, economici. Oltre la soglia della legalità non abita soltanto l’illegalità, bensì anche il nuovo volto dei bisogni, la possibilità di una giustizia sociale che oggi non sa ancora essere pensata. Andare oltre la legalità, in questo senso, significa non accontentarsi di ciò che già esiste; non appiattirsi su posizioni difensive; non credere che l’attività politica sia definita semplicemente dal mantenimento delle posizioni e dalla gestione del potere. Il diritto di avere dei diritti, intitolava alcuni anni or sono Stefano Rodotà la sua ultima grande opera. Sono certo che, ascoltando queste parole, la mente di molti di voi sta pensando ai migranti, ai nuovi diseredati, alle terribili negazioni dei diritti che li concernono, tanto nei luoghi da cui cercano di fuggire tanto in quelli a cui provano ad approdare, con tutti gli ostacoli che conosciamo bene. Ma non si tratta soltanto di questa nuova realtà. Gli studenti che incontro nel mio lavoro a scuola: hanno il diritto di sperare? Di provare a essere felici? Di superare il disagio, il senso di catastrofe familiare ed esistenziale che spesso li accompagna? Di credere nel futuro? Gli anziani: oltre ai diritti già esistenti hanno anche quello di sentirsi utili e ascoltati, non emarginati e ghettizzati? E come concretizzarlo? Gli apostoli che spezzavano il pane con Cristo durante l’ultima cena era tutti uomini; le donne forse erano di là, a lavare i piatti. Che diritti hanno le donne? In uno scrittore svizzero di lingua tedesca che certo non simpatizzava per il socialismo, Meinrad Inglin, trovo un po’ a sorpresa questa domanda: «Ma noi, chi siamo noi alla fin fine? Siamo degni, siamo all’altezza di questo spazio nel quale abitiamo?». Inglin si riferiva al Canton Svitto, ma anche noi potremmo porci lo stesso interrogativo; siamo degni dello spazio, del territorio in cui abitiamo? Troveremo la forza di arginarne lo scempio e la rovina, o ci siamo già rassegnati ad accettarne la trasformazione in parcheggio e supermarket, in merce da consumare in fretta tra nuove passerelle sui laghi e rinnovata svendita delle acque? Solo mantenendo vive e brucianti queste domande inquietanti potremo sperare di sentirci ancora reciprocamente cari, ancora compagni di qualcosa e per qualcosa; partecipi di un’avventura che è infinitamente più importante di una votazione o di una percentuale. In una lettera del 30 novembre 1969 un poeta italiano, Giovanni Giudici, scriveva ad un altro poeta, Franco Fortini, comunista e traduttore di Brecht. Gli diceva: «Ai livelli del temporale, penso che la “compassione” sia ancora una delle virtù meno indegne di ciò che la nostra specie vorrebbe essere». Compassione: cioè il patire, il provare passione, insieme; compagni: cioè il condividere insieme il pane. Perché, come ho letto una volta in un romanzo di Cormac Mc Carthy, «el compartir es la ley del camino».

E allora, care compagni e cari compagni, adesso provo ad usarle di nuovo, queste due parole, con tutta la cautela e con tutta la speranza di cui posso disporre; per augurare buon lavoro a questo congresso, ma soprattutto per augurare a tutti di saper andare oltre, oltre i regolamenti, oltre le contrapposizioni inutili e persino oltre le preoccupazioni elettorali, per ritrovare lo slancio, l’idealità e la forza. La ley del camino.

Mots-clés__Alba

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Caspar David Friedrich, “Donna all’alba”

Alba
di Lisa Ginzburg

Raquel Tavares, Madrugadas serenas -> play

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Caspar David Friedrich, “Donna all’alba”

 

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Wallace Stevens, Mattino domenicale, xiv, (Einaudi 1954 e 1988, a cura di Renato Poggioli)

Prima un raggio, poi un altro raggio, e infine
Mille raggi s’effondono nel cielo.

È stella e globo; ed è tesoro
Della loro atmosfera la giornata.

Il mare appende a stracci le sue tinte.
Banchi di molle bruma son le rive.

Si dice: un candeliere di Germania –
Un cero basta a illuminare il mondo.

Chiaro lo rende. Anche a mezzogiorno
Luccica in essenziale oscurità.

Rischiara a notte il frutto, il vino, il pane,
Il volume e le cose come sono,

Dentro a quella penombra ove seduti
Si sta suonando la chitarra azzurra.

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First one beam, then another, then
Thousand are radiant in the sky.

Each is both star and orb; and day
Is the riches of their atmosphere.

The sea appends its battery hues.
The shores are banks of muffling mist.

One says a German chandelier-
A candle is enough to light the world.

It makes it clear. Even at noon
It glistens in essential dark.

At night, in lights the fruit and wine,
The book and bread, things as they are,

In a chiaroscuro where
One sits and plays the blue guitar.

 

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Da “I ferri corti”

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di Paolo Maccari

[Presentiamo quattro testi inediti in volume, inclusi nella raccolta antologica I ferri corti, in uscita per Lieto Colle, collana Gialla Oro, pordenonelegge.]

 

Viali

È sempre lotta tra asfalto e radici.

Dune sbrecciate

nei parcheggi obliqui

dei nostri viali.

E profferta di simbolo

anche ai poeti

che sanno appena

cinque o sei alberi.

Nomi bastanti

a lunghe metafore

d’oppressione e rivalsa:

Sollevazione delle radici,

ribellione se erompono come…

Ma il Comune riasfalta.

Sradica, se vuole, il Comune, e ripianta.

Anche questa metafora

occorre far fiorire: il Comune innaffia e cura

la rivolta futura,

la scruta, la concima,

poi stende il nastro scuro.

Poi stende il nastro scuro

con nostro sollievo

sopra l’incuria

del viale insicuro.

 

*

Fratelli

Marchino a dieci anni non sapeva parlare. Il fratello più grande di un anno lo portava per mano; bestemmiava quando doveva asciugargli col fazzoletto la bava. Marchino sbavava mentre rideva e anche quando masticava i suoni cercando di imitare i discorsi che sentiva. Amava straordinariamente abbracciare le persone. Dopo l’abbraccio, non avendone mai abbastanza, appoggiava il palmo della mano sulla testa di chi aveva appena abbracciato e ce lo lasciava finché l’abbracciato non glielo toglieva.

Quando era nervoso Marchino rimetteva la mano sulla testa che si era sottratta. Rideva se gli veniva tolta, e la rimetteva. Ma se era molto nervoso, dopo due o tre volte che gliela levavi la stessa mano l’usava per dare uno schiaffo. Dava schiaffi forti. Interveniva allora il fratello e lo picchiava. Mentre veniva picchiato Marchino rideva e il fratello picchiava più forte. Il fratello smetteva e bestemmiava prima che Marchino smettesse di ridere, ed era esasperato. Era l’unico il fratello a non intuire che la risata di Marchino mentre veniva picchiato era diversa, più infantile e salmodiante, da quella solita – anche meno bavosa-, perché era il suo modo di intercedere per se stesso col picchiatore e farlo smettere. Nessuno comunque lo faceva notare al fratello e lui non era disponibile a queste sottigliezze. Credo, incredibilmente, che non fosse disponibile per una forma di rispetto verso Marchino.

A noi piaceva abbracciare Marchino, ci faceva sentire buoni, oltre al fatto che abbracciare è quasi sempre bello, però raramente rimanevamo fermi mentre lui, con il passo dondolante e asimmetrico, si avvicinava per abbracciarci. La testa sulla mano, lo schiaffo, le botte del fratello a Marchino. Evitavamo. Tutti a parte Carlo. A Carlo piaceva veder picchiare Marchino. In verità, gli sarebbe piaciuto soprattutto picchiarlo lui. Una volta dopo aver preso lo schiaffo infatti gli tirò un cazzotto. Era un esperimento: se il fratello non avesse protestato avrebbe inaugurato un piacere. Dovemmo levarlo dalle mani del fratello, che continuava a colpire Carlo anche quando lui era svenuto. Il fratello di Marchino gli aveva tirato un pugno nello stomaco e uno in faccia mentre gli teneva l’altra mano stretta al collo. Carlo andò giù. Noi ci mettemmo in mezzo. Il fratello di Marchino prese Marchino per mano, e si avviò a testa bassa verso casa. Marchino rideva. Anche Carlo, in terra, rideva. Aveva fatto finta di svenire e anche se il fratello di Marchino gli dava le spalle camminando verso casa, Carlo non smetteva di fissarlo, e centellinava il rimorso di quelle spalle. Che tipo Carlo. E chissà di che tipo era il rimorso che sentiva, e che magone, il fratello di Marchino.

La sera spesso ripensavo a Marchino e a suo fratello. Ero troppo piccolo per domandarmi come mai i genitori affidassero sempre Marchino al fratello. Mi figuravo di essere Marchino, incapace di parlare (ma come pensava Marchino, come vedeva?), e a volte di essere suo fratello. L’adolescenza pontificante e piena di risposte mi distolse da queste fantasie, che erano domande.

Quei due bambini non so che fine abbiano fatto. Carlo invece, ancora oggi, ogni tanto ho voglia di picchiarlo, di cacciare a pugni il luccichio desiderante dai suoi occhi. Con tutto che a suo modo mi vuole bene e mi aiuta, e che rimane il mio fratello maggiore.

 

*

Le divise

Indosseremo ancora le divise,

felici delle giubbe d’un colore.

Saremo le colonne.

Ci faremo compagnia.

 

Sapranno conservare il malumore

soltanto i saggi,

scontenti dell’unisono dei passi,

feriti dai cantari

di cadaverica allegria.

 

Ancora più saggi e in meno,

marceranno con noi

alcuni che sapranno

questa o l’altra compagnia

o gli sfregi alla colonna

o i fanatici osanna

essere niente

di nuovo né drammatico.

 

Pochi, e inconsapevoli,

nelle nostre colonne e tra i nostri osanna

non rinunciando a farci compagnia,

altri ameranno senza dircelo.

Senza dirselo altri ameranno

con gli occhi

straordinariamente come i nostri.

 

E noi non capiremo,

li scambieremo per noi stessi:

ogni peccato

dentro questa incomprensione

sarà magnificato.

 

Quindi il corteo proseguirà

obbedendo alle svolte

che alla sera imporrà

fragorosa la sorte.

 

*

Janis Joplin

I.

Dovunque in Italia, lo sanno tutti, basta spostarsi di qualche chilometro e cambia il modo di parlare. Il mio paese ha una parlata quasi forbita, ma già a sei chilometri di distanza, in un paese vicino, dicono ‘icché tu voi?” e ‘vu credee’. Sono differenze che chi abita qui sente subito, e i miei compaesani se ne vantano, mentre gli abitanti del paese vicino giudicano il nostro modo di parlare poco espressivo, senza sapore, forse ipocrita.

L’amico che conobbi a dodici anni veniva da una frazione del paese vicino. Il suo modo di parlare un po’ mi urtava, ma non mancavo di avvertire il fascino di una naturalezza terragna, che suppliva all’imprecisione designando le cose con energica attinenza. Il suo carattere somigliava alla sua lingua, irruento e gioviale sebbene venato di indecisioni, di improvvise timidezze. Lo conobbi perché venne a giocare nella mia squadra come portiere. Era alto quanto me, che a quell’età ero tra i più alti della squadra; era in carne; si tuffava bene. Non cercava la rissa ma non ne aveva paura.

Io a quell’età ero litigioso e in campo spesso mi attaccavo con gli avversari. Durante una partita ricevetti un fallo intenzionale, poco prima di entrare nell’area avversaria: una pedata da dietro sul piede d’appoggio. Andai giù, mi rialzai veloce e detti una spinta all’avversario. L’arbitro era lontano e altri due avversari mi furono sotto. Io per la rabbia non sapevo frenarmi e spintonavo chiunque mi si avvicinasse. Quasi subito erano più le spinte che prendevo di quelle che riuscivo a rendere. Ingloriosamente, prima che arrivasse l’arbitro, fui di nuovo in terra. Da terra vedevo i miei compagni che mi difendevano, chi con più chi con meno vigore.

Tra le gambe assiepate intorno a me vidi a un tratto una corsa estranea, di uno che non aveva la maglia né del colore della mia squadra né di quella avversaria. Per una frazione di secondo non capii, poi riconobbi la maglia di portiere del mio amico, che dalla nostra porta stava arrivando, con la faccia determinata, a difendermi. Il coraggio che mi sentivo crescere a ogni passo di quella corsa mi rimise in piedi. Quando il mio amico arrivò, l’arbitro aveva già provveduto a mostrare il cartellino giallo a chi mi aveva sgambettato e quello rosso a me. Uscii dal campo tra le urla dell’allenatore che un po’ protestava contro l’arbitro un po’ mi brontolava. Fu la prima e ultima volta che giocai da capitano. Ma negli spogliatoi, quando la partita finì, tutti commentavano ammirati e allegri la corsa del mio amico. Lui non diceva niente. Ci guardavamo con gli occhi che ridevano e ci capimmo.

 

II.

All’età di quattordici o quindici anni parlavo al mio amico della musica che mi piaceva. Lo potevo fare perché lo stimavo. In prima superiore si era iscritto a una scuola nel mio paese, e spesso ci vedevamo anche sul bus, la mattina o all’ora di pranzo. Lui era diventato amico di una bella ragazza, di due o tre anni, insomma un’enormità, più grande di noi. A un’amica di quella ragazza io piacevo: me lo disse il mio amico, ridendo insieme alla bella ragazza. Non me l’hanno però mai presentata e quando chiedevo perché loro ridevano ancora di più. Deve essere brutta, pensavo, e non insistevo. Il mio amico, grazie alla bella ragazza, era stimato dai compagni di autobus, e lo ero anch’io, che stavo simpatico a tutti e due e spesso facevo il viaggio nell’ultima fila, dove stavano loro e i grandi in classe della bella ragazza.

In generale, eravamo due ragazzi che sapevano stare con le ragazze, che giocavano a pallone, che si facevano crescere i capelli, che avevano nemici con cui scambiavano occhiatacce: ci sentivamo, sul piano sociale, piuttosto a posto. Io mi sentivo simile al mio amico, e mi avrebbe fatto piacere se avesse apprezzato quello che a me pareva bello. Allora, davvero, la nostra sarebbe stata un’amicizia forte, e protesa verso una vera intimità. La passione per la stessa musica e i pensieri più segreti, infatti, mi sembravano stare su uno stesso piano d’intesa. La lettura, che in quel periodo occupava uno spazio sempre più grande tra le mie occupazioni, vicina a spazzare via tutte le altre per essere la prima, la concepivo ancora come qualcosa di simile a un vizio, una mollezza, assimilabile quasi all’immaturità che mi faceva guadare, di nascosto e con gusto, certi cartoni animati giapponesi.

Fui felice quando il mio amico mi chiese una cassetta di qualcuno dei cantanti di cui gli avevo parlato. I termini in cui me lo disse rivelavano un desiderio autentico di erudirsi in un campo che gli appariva allettante. Credo che anche la bella ragazza gli parlasse di una musica diversa da quella dozzinale che lui ascoltava. Il mio amico mi stava concedendo un’autorità che sentivo di poter sopportare e che mi lusingava. Una domenica mattina, al ritrovo dei giocatori nella piazza del mio paese, gli portai una cassetta di Janis Joplin. Giocavamo in trasferta e ci aspettava un’ora di macchina. Io sarei andato con il pulmino della squadra ma, siccome non ci entravamo tutti, il padre del mio amico avrebbe portato il figlio e altri tre giocatori con la sua macchina. Ero molto fiducioso. Avevo simpatia per il padre del mio amico, un uomo barbuto e silenzioso, con i capelli abbastanza lunghi e gli occhiali da sole, che durante le partite non urlava né commentava come altri padri; restava composto a seguire il gioco dietro gli occhiali da sole, e la sua presenza mi dava un senso di matura sicurezza. La sua BMW doveva avere una buona autoradio, pensavo. L’ascolto avrebbe dato buoni frutti. Quando arrivammo al campo scesi veloce dal pulmino e mi avvicinai al mio amico. Mi circondarono subito anche i tre che avevano fatto il viaggio con lui. Da solo, lui certamente avrebbe sfumato il giudizio, o forse se lo sarebbe tenuto per sé, ma di fronte alla rumorosa unanimità del terzetto non riuscì a negare che Janis Joplin fosse strana, strane le sue canzoni, il suo modo di cantare, il fatto che a volte cantasse quasi senza accompagnamento musicale, che altre la sua voce si trasformasse in un urlo indefinito, e insomma quella musica non si capiva e, tutto considerato, faceva cacare. Forse, terminò il mio amico con imbarazzo e parlando più piano per non farsi assalire dagli altri tre, il secondo lato della cassetta era meglio del primo, e qualche pezzo non era male.

Io ci rimasi malissimo, lì per lì, e iniziai dentro di me ad accusare di rozzezza il mio amico, e a dirmi disingannato, e che mi servisse di lezione. Invece di lezione mi fu il modo addolorato in cui lui cercò di farsi perdonare, con i propositi che goffamente avanzava di vederci quel pomeriggio al suo paese, con il modo che aveva di starmi accanto negli spogliatoi, quasi a non volermi lasciare solo con la mia delusione. Soprattutto, i suoi occhi buoni continuavano a studiarmi quando non lo guardavo, e io li sentivo come una carezza di calore. Quel giorno capii che la musica, e tutto il suo giro di mozioni e risonanze sentimentali, era – per i ragazzi come me – una sublime scorciatoia, che unisce un momento, per poi svaporare come i fumi dell’hashish dentro cui si fraternizza, e dopo l’estraneità torna a aggredirti. Ancora di più: è tollerabile ogni differenza se l’affetto non nega che è dolorosa, ma rilancia se stesso come altra via, più accidentata, faticosa, per ritrovarsi e cercare affinità diverse. A quindici anni, per un giovane arrogante e insicuro come ero, non è la banalità che sembra.

 

III.

Passò poco tempo e un’altra passione ci venne incontro e ci avvicinò ancora: le moto. A quattordici anni mi avevano comprato – ricordo sempre: per quattrocentomila lire – un motorino da cross, con il grosso difetto di non avere le marce (a me andava bene perché temevo di non saper cambiare), ma comunque piuttosto prestigioso tra i Ciao i Sì e i Bravo di quei tempi. Non ricordo quale cinquantino avesse il mio amico, ma doveva essere ancora più prestigioso e sicuramente più potente. Per i sedici anni ricevetti in dono l’Elephant 125 che era stato di mio cugino. Una moto vera, con sei marce, che andava a centotrenta. Ne ero fierissimo. Il mio amico scelse una moto da strada, che secondo me era meno bella, non ci poteva fare i salti né impennare bene come sapevo fare io, però raggiungeva una velocità impressionate.

Qualche volta abbiamo fatto una girata insieme: io preferivo le strade di campagna, dove potevamo levarci il casco e fermarci a fumare in qualche posto isolato. A lui piacevano le strade piene di curve, in cui piegava, con il ginocchio vicinissimo all’asfalto a emulazione dei campioni di motociclismo.

Proprio sui sedici anni, per la mutevolezza di quel tempo instabile, iniziammo a vederci meno. Io ero andato a giocare in un’altra squadra, e dopo poco litigai con l’allenatore e smisi di giocare. Anche lui, se non ricordo male, aveva smesso. Mi misi con una ragazza, in quel periodo, e stavo quasi sempre insieme a lei. A volte capitava comunque, nel paese vicino al mio, dove parlano male, che lo incontrassi per la via principale a fare le vasche. Io con il mio gruppo e lui con il suo, i cui rispettivi membri non si conoscevano se non di vista. Ci fermavamo a chiacchierare per poco, presto richiamati dagli altri, promettevamo di vederci, un giorno, e di fare qualcosa insieme.

Non è mai successo. Fu la ragazza con cui stavo, una mattina d’estate, a dirmi che era morto. Non ho mai capito, nonostante il gran parlare che se ne fece, quale fu con precisione la cosiddetta dinamica dell’incidente. So che era in moto, in una strada piena di curve dove si può piegare fin quasi a toccare il ginocchio sull’asfalto. Poi, so quello che sanno tutti. Che non invecchierà mai, come i cantanti che ascoltavo a quindici anni, ma resterà più giovane di loro, indeciso ancora su quale giovane uomo diventare tra poco. Che aveva una sorella più piccola. Che è successo più di venticinque anni fa.

Non andai al suo funerale. Me ne vergogno ancora. Compatisco chi si giustifica delle proprie inadempienze con frasi edificanti. Chi non va a trovare chi muore perché, dice, vuole ricordarlo com’era. Chi non va ai funerali perché ormai a cosa serve.

No. Glielo dovevo e sono mancato. Con tutte le arie che mi davo, ebbi paura del dolore e di non meritare di piangere con i suoi amici veri, quelli stretti, che parlavano come lui e ascoltavano godendosele le sue stesse canzoni. Da allora, e ancora oggi, continuo a rivederlo negli adolescenti che mi sfilano davanti, per strada o a scuola. Eccolo, un po’ in carne, che si mette il casco. Lo ha indossato, la visiera è aperta, capisco che mi sorride dalle rughe che gli si formano intorno agli occhi. Il casco gli copre la bocca, se parlasse non lo sentirei.

Al parco dove porto mio figlio, in uno spiazzo in cui l’erba non fa in tempo a crescere, si gioca tutti i pomeriggi a pallone. Sono ragazzi e non bambini. È quasi insostenibile quanto uno gli somiglia. Stamani ero a sedere, a vedere mio figlio arrampicarsi su una ragnatela di corda. Spesso mi giravo e seguivo la partitella. Il mio amico correva. Poi si è fermato. Il cross era preciso ed è stato facile per lui colpire di testa. Gol. Ha alzato le braccia, le mani ben aperte, ha sorriso. Quando io facevo gol correvo verso il centrocampo, e chi ha giocato sa quanto si può essere felici, per qualche secondo. Guardavo verso la nostra porta, quando si calmava l’esultanza. Il mio amico aveva le braccia alzate, le mani aperte; quando si accorgeva che lo guardavo, si stringevano a pugno e vibravano. Ci sorridevamo. Poi la partita riprendeva e avevamo gli occhi, tutti e due, solo per le traiettorie del pallone.

 

 

 

Il dolore degli altri

1

di Domitilla Di Thiene

 

-Chi sei?- mi chiedi brusco quando provo a girarti sul fianco.

-Stai attento, se ti muovi così si spostano i drenaggi- ti dico e mi dai uno sguardo fisso allora, di quelli che davi anche un tempo, la nebbia dello sguardo dissipata per un momento. Ti riappoggi docile sul cuscino, gli occhi socchiusi.

La camera è inondata dalla luce che viene dal giardino, apro le porte finestre per accostare le imposte e farti un po’ di scuro nella stanza.

Crollo sulla poltrona accanto al letto; mi sento esausto, chiudo gli occhi che bruciano; ho dormito poco insieme a te, queste prime notti di nuovo a casa, magari riuscissi a dormire, almeno un secondo.

Il campanello della porta, una sveglia di soprassalto. La stanza è immobile, il rumore del respiratore continuo, quanto ho dormito, non riesco a capirlo. Vado verso la porta, mi fanno male le gambe per la posizione costretta nella poltrona, forse non ho dormito poco. E’ Clara, che è venuta a trovarci. Porta una piantina di peperoncino che sa che ti piace tanto. Mi fa bene vedere Clara, è così bella, allegra, pulita. Ha un vestito verde brillante, fuori moda e bellissimo, che le lascia parte della schiena abbronzata scoperta. Mi sento un barbone davanti a lei, la tuta macchiata, la barba sfatta.

-Mi faccio una doccia ti dispiace?-

– Figurati, ma guarda che mica è un neonato, lo puoi lasciare qualche minuto da solo- dice lei ed ha ragione. Hai notato? Quando si parla del dolore degli altri, hanno sempre tutti ragione.

M’infilo sotto l’acqua calda e il beneficio è immediato, il getto violento mi avvolge e mi toglie il fiato. Il pensiero di Clara nella stanza con te, al mio posto, mi fa fare piu´in fretta.

Uscito dalla doccia mi cambio i pantaloni e infilo una camicia pulita. Non posso fare a meno di concentrarmi sul ronzio del respiratore che viene dalla tua stanza, per essere sicuro che vada tutto bene. Mi fido di Clara, ma non posso farne a meno. Il rumore è regolare, forse potevo farmi anche la barba, ma ormai il momento è passato.

Torno nella stanza e sei sveglio. Le imposte sono di nuovo aperte, la luce è meno forte e il tiglio in fondo al giardino è in fiore, arriva l’odore fin dentro la camera. Clara ti ha preso una mano, quella senza agocannule, e vi guardate. Siete in silenzio, non voglio disturbarvi ma mi chiedo se tu l’abbia riconosciuta. Tu socchiudi gli occhi, come i felini e fai un cenno con la testa verso di me. Non lo fai a me, il cenno, ma a lei indicando me.

-Sì, sì- sento che ti mormora- ora mi occupo di lui, non ti preoccupare-

-Ma Clara, rimanete pure, io non ho bisogno di nulla- dico, e il tono della voce è un po’ troppo alto rispetto ai vostri silenzi, non posso non vergognarmene.

Clara si volta verso di me e mi prende per un braccio per portarmi fuori dalla stanza. Tu hai di nuovo appoggiato la testa sulla spalla, gli occhi socchiusi.

-Il caregiver ha bisogno di più attenzioni, lo sa lui quanto lo sai tu- mi dice sorridendo.

-Hai fame?- prosegue- ci facciamo qualcosa da mangiare? Ho una fame terribile e tu hai l’aria di non mangiare da giorni

Effettivamente se si esclude il semolino che hai lasciato l’altra sera credo di non mangiare da settimane, forse mesi. Mi rendo conto in quello stesso momento che anche io ho una fame terribile, pazzesca, onnivora.

-Cosa possiamo preparare?- chiede aprendo il frigorifero. Ci sono le mele che ti grattugio e gli odori per fare la minestra. Null’altro di propriamente commestibile.

-Bene- dice Clara- credo proprio sia venuto il momento di spaghetti aglio olio e peperoncino. Che ne dici? Vino ne hai? Perché non apri una bottiglia mentre preparo?-

Ci sono a volte persone nella vita che sono così. Portano benessere, cose facili, spaghetti cotti al dente, peperoncino piccante ma non troppo, io accasciato sulla sedia che riprendo vita e colorito, ha messo anche la brocca per l’acqua, quella in vetro colorato che piaceva a te (sarà un caso che scegliete le stesse cose?). Anche di bere mi devo essere scordato in questi giorni, la pipì sotto la doccia aveva un colore più vicino al marrone che al giallo; bevo la brocca intera e lei la riempie di nuovo mentre parla di tutto e di niente, il primo bicchiere di rosso a stomaco vuoto mi stordisce, la pasta mi riempie,

-Ma quanta ne hai buttata?-

-Mezzo chilo-

-Mezzo chilo in due?-

-Sembravi affamato-

E’ la pasta più buona che abbia mai mangiato, glielo dico, anche la bottiglia di vino è finita e ora mi sento un po’ sbronzo,

-Perché non ti vai a stendere un po’? Posso stare ancora un paio d’ore e mi fa piacere se mi posso rendere utile-

Non riesco neanche a rispondere, mi allungo direttamente sul divano, la luce del tardo pomeriggio che taglia il pulviscolo nella stanza.

Di nuovo mi sveglio, di nuovo senza sapere che momento è della giornata. Mentre faccio pipì, in piedi, faccia alle mattonelle bianche sento una presenza dietro di me. Non ci può essere nessuno, in bagno con me. Mi volto di scatto, c’è il vestito di Clara, il vestito verde in crespo appeso sopra alla doccia. Rimango a fissarlo inebetito, non capisco subito, con cosa è uscita Clara penso per un poco, il suo corpo abbronzato, esco dal bagno velocemente, ed eccovi qui, Clara è nuda, adagiata sul tuo corpo, dormite sodo, c’è un’altra bottiglia di vino finita ai piedi del letto, tu sei coperto col lenzuolo. Mi siedo sulla poltrona e inizio a piangere come uno scemo e cerco di farlo anche piano, per non disturbarvi.

Poi penso che, se è mattina, la sacca del catetere sarà piena, vado a lavarmi le mani, acqua calda e strofinare anche i pollici, torno e inizio ad armeggiare con la sacca.

Sei il primo a sentirmi, Clara russa profondamente, la bottiglia se la sarà scolata lei per lo più, almeno spero. Mi tocchi con un piede, per farti notare e mi fai cenno di avvicinarmi

-Spostala- sussurri –pesa- aggiungi.

Finisco di svuotare l’urina, la spingo piano verso il bordo del letto e la ricopro con parte del lenzuolo.

Mi rivolto verso di te

-Stai bene?- ti chiedo

-Puzzi d’aglio- mi rispondi. Ti guardo trattenendo un sorriso, poi dico

-Anche lei, immagino-

-Lei fra poco va via, tu no- Il tuo sguardo non è poi così appannato quando dici queste cose. Scoppio a piangere di nuovo, so che non ti fa piacere vedermi piangere.

-Scusa, scusami- dico

Mi prendi il braccio con una mano. Quella senza agocannule. Stringi, neanche poco. Forse Clara ti fa meglio di quel che penso.

-Mandala via, per piacere-

Clara è morbida, a quanto pare in tutto. Non si arrabbia che la sveglio bruscamente, né che le passo il vestito verde e un bicchiere d’acqua. Dopo essersi rivestita con calma, e senza nessun pudore, mi saluta con un rapido bacio sulle labbra.

Quando torno da te ti sei appisolato. O almeno così penso. Non mi fido più di te, o della mia percezione. E infatti appena mi siedo sulla poltrona apri un occhio.

-Mi ha chiesto di ammazzarmi- mi dici. Non hai mai girato intorno alle parole. Almeno non a quelle.

-Non ti ho mai visto così lucido in settimane-

-Forse la morte mi lucida i pensieri- dici, ridacchiando

Fingo di ridere anche io. Tu finisci la tua risata tossendo e io aspetto

-E cosa le hai risposto?- chiedo, finalmente, quando la tosse si è calmata.

-Che se proprio qualcuno lo deve fare quello devi essere tu- dici, fissandomi- magari con una valvolina messa male o una bolla d’aria in qualche iniezione- Abbasso lo sguardo. Mi conosci meglio di quanto vorrei.

-Intanto mi prepari un aglio e olio anche a me? In mezzo a voi due vampiri mi è venuta una gran voglia-

Torno in cucina e metto l’acqua sul fuoco. Pulisco la padella sotto l’acqua calda, con poco sapone. Metto a scaldare l’olio e schiaccio l’aglio. C’ è un uccellino sul davanzale della finestra, dove ho appoggiato la piantina, vorrei fartelo vedere.  Salo la pasta con un’abbondante presa di sale grosso. Non c’è il prezzemolo, ma se ricordo bene non ti piace. Mi devo ricordare di lavarmi le mani bene, potrei farti molto male con questo peperoncino sulle dita. Accarezzo l’idea per qualche secondo e lecco le dita, a una a una.

Che sia così per sempre, poterti accudire in eterno.

Storia del compagno Rick Gin

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di Andrea Migliorini

1. All’interno del microcosmo d’ogni classe scolastica si generano gerarchie: è legge di natura, di pseudo-natura. Il Capitale studentesco non è inteso come valore del lavoro, dello studio o della fatica: corrisponde bensì all’immagine che ogni studente costruisce di sé, tramite l’ausilio di doti innate che la comunità gli riconosce unanime. E le relazioni che si generano nelle trame di questo tessuto iconodulo determinano l’ascensione di una nuova élite, oltre che la conseguente frattura fra padroni e non padroni: l’egemonia dei pochi è garantita dallo Spettacolo non soltanto quando si discute delle astratte macro-dinamiche del metodo di produzione occidentale, ma anche — e soprattutto — all’interno del microcosmo d’ogni classe scolastica, ovvero del sistema-terzaC.

2. In terza C — seconda porta del primo corridoio, Son Row School, Vike City — le forze storiche della dialettica assumono le sembianze d’una società matriarcale e vulvocentrica: dalla cui piramide sociale — non priva d’una propria particolarità raffigurativa — emergono le profetesse della Nuova Era: a sinistra mordicchia la matita certa Lisa More, futura attivista social wwf, ad oggi ancora teorica vegetariana non praticante; a destra si volta — e sorride non senza malizia — certa Linda Blunt, occhiali tondi e profilo bloccato per ragioni di sicurezza. Il potere, in terza C, è una diarchia bivaginale.

3. La coscienza di quest’infinito potere d’acquisto — tanto astratto quanto empirico — si palesa nella descrizione che le due paladine del sistema-terzaC giudicano quale opportuna sintesi delle proprie ambizioni esistenziali: ovvero le didascalie da esporre sulle vetrine dei mezzi di comunicazione di massa. Luogo di nascita: marchio d’un infanzia dura. Anno di nascita: giorno e mese sono opzionali, si venera il demone della Privacy nel politeismo digitale. Luogo di residenza, espresso con patriottico tradizionalismo, specie se coincide con quello di nascita. Passioni tecniche e sportive: giustificano l’esposizione muscolare nell’atto del cosiddetto uork-aut. Qualità scolastiche: giustificano le lamentele continue sui duri tempi della vita. Risorse fotografiche a disposizione: “Reflex”. Eventuale esperienza lavorativa: ben venga se questa sezione tradisce una qualunque esterofilia. Citazioni d’autore: le statistiche indicano come più quotato uno tra Murakami e Bukowski. Infine, la corrente filosofica d’adesione: generalmente il buddhismo zen.

4. La capacità di vivere negli egosistemi digitali si situa a metà fra l’ars e l’ingenium: una qualità innata e orizzontale, che necessita affinamento ed esperienza; un fiuto politico per il successo che deve essere coniugato allo sviluppo d’un moderato cinismo; il sorgere d’un individualismo proto-populista che nemmeno Darwin avrebbe considerato come fattore discriminante per la sopravvivenza della specie — e che d’altro canto si rivela necessaria per la preservazione dell’Io: chi non si vede, non esiste. Lisa e Linda eccellono in questa pratica sociale, che nel gergo accademico è definita con l’anglofona curva sonora di socialmedia-managing, nuovo ramo etimologico dell’antica radice del social-ismo. Eppure la diarchia istituzionale presuppone un confronto costante e serrato fra le due matrone di Governo, la cui indipendenza è relativa: bisogna creare due poli comunicanti, onnipresenti nella dialettica delle comunicazioni sincroniche. Per questa ragione, la costituzione dei profili sociali di Linda Blunt e Lisa More è speculare, l’una pensata in relazione alla fisionomia html della compagna; e quest’architettura a distanza non lascia spazio ad aperture nel vuoto apparente che le separa: nessuno spiffero, nessuna ipotesi così come nessuna certezza; soltanto una corrente continua di dati, senza sosta. La relazione umanoinformatica è ermetica, d’una dialettica figlia più delle binarie dicotomie kierkegaardiane che del triadico pensiero hegeliano, il quale comunque non si astiene dall’influenzarne indirettamente il paradigma. Nella realtà del sistema-terzaC non vi è sintesi, e alla tesi non s’oppone un’antitesi: la vittoria è della negazione che nega se stessa, non senza un briciolo alquanto sfavillante di burbero esistenzialismo camusiano. E’ questa l’affermazione: Lisa More e Linda Blunt restano — seppur simili, se non identiche — entità separate e distinte, nonché complementari: basti uno sguardo rapido ai volti espressivo-semiotici prescelti come manifesti dell’impianto messaggistico delle Vuote Zappe. Del resto, ubi scripta volant, l’epigrafe comune ai due profili è ugualmente rivelatrice: “io sarò per te condanna, L.”, affianco l’eros-kai-thanatos di due labbra disegnate, colorate di rossetto.

5. Ogni società rielabora le medesime ingiustizie, variandone tuttavia le forme, i significanti. A seconda della prospettiva, ogni individuo può essere considerato sia oppresso che oppressore. Tuttavia, è innegabile l’esistenza d’una sorta di classifica primigenia di qualità inalienabili, la quale si condensa in doveri e divieti e diritti. Per quanto concerne questi fattori primi, la struttura della classe scolastica si può tradurre nella forma di un triangolo isoscele — la suddetta piramide non priva di particolarità — che non si esibisce d’altronde come una consueta piramide socio-economica: la descrizione alto-bassa delle classi non termina alla base ampia e larga del disegno. Si produce, invece, una deviazione opposta e contraria al di sotto della comune piramide. Una spinta newtoniana scava le falde del terreno per dare un posto ai dannati, rendendoli sommersi: un disegno di studi cosmologici danteschi, senza amore e senza stelle. La parte inferiore della nuova figura appare come un riflesso pittorico nei campi francesi di Renoir: non meglio definito, non meno rappresentativo. E il quadro finale somiglia, più che a un panorama egizio lungo il Nilo sanguinoso, ai campi perfetti della geometria di Flatlandia: un rombo incomunicabile. Sbiadito, tumefatto. O meglio, un assetto romboide in cui l’asse inferiore perde consistenza; di cui l’ultimo gradino è rovesciato e minuscolo: si direbbe tana di formiche, a vederlo. La vera rivoluzione — quella pratica, quella autentica; non intellettuale — dovrebbe sorgere da qui, ma ne mancano le forze piuttosto che la coscienza, nonostante le presenza sporadica di qualche profeta: talvolta è più arcigna e violenta la volontà dei salvati di salvare i sommersi piuttosto che quella dei sommersi di salvare se stessi.

6. Gauss è cristallino. Per la maggioranza degli studenti la medietas rappresenta una condizione accettabile: di debole sopravvivenza, con gradi differenti di sconfitte e mutilate vittorie. E’ la normalità che dà la normatività. La teoria di Gauss suggerisce dunque che ai vertici opposti si concentrino i numeri più bassi, nel Bene e nel Male: infatti, nel sistematerzaC sono pochi i padroni dei mezzi di produzione; allo stesso modo i veri miseri — ovvero coloro che nemmeno prendono parte alle dinamiche di mercato — rivelano la propria esigua quantità. Costoro si trovano apparentemente fuori dal sistema, e vengono inglobati solo nei momenti di furore mistico: quando si ha necessità d’uno sfogo inerme. Sono accolti per la loro negatività intrinseca: null’altro. Stanno appostati alle gambe nel banchetto dei grandi, si nutrono delle briciole della nuova avida sapienza: fra questi, sgattaiola carponi e sgomita anche l’affamato stomaco di Rick Gin, futuro compagno cui la tradizione epico-scolastica — tanto quella orale quanto quella epigrafica — ha affiancato l’epiteto formulare di “Scopa”, nelle seguenti varianti: “Rick Gin la Scopa”, “Rick la Scopa Gin”, “la Scopa Rick Gin”, o, per brevità e licenza poetica, semplicemente “la Scopa”. Il gusto perverso dei nomina –- quae ne sunt consequentia rerum, sed opposita –- sussume varie circostanze che smussano l’autostima mai appuntita del compagno Rick Gin — metaforico compagno, s’intende. Non è forse una condizione tragica quella cui è sottoposto l’eroismo del giovanissimo proletariato post-moderno? La domanda si alza e la risposta è lo specchio dopo la sveglia delle 7:30, in pigiama, i traumi mattutini di Rick: le mani sudate; il cuscino sbavato; l’iride di sterco, la forma mandorlata delle palpebre, così poco fascinosamente orientale; i capelli duri come il frumento, il cui colore richiama il giallo d’urina che indora la paglia campestre nei mesi più afosi — prima di “la Scopa”, gli aedi avevano proposto una pena nominale per contrappasso: “e se lo chiamassimo il Biondo?”. E poi quella statura da sedicenne in attesa, che ancora sogna. I piedi che cominciano a somigliare a quelli di un Bilbo Baggins; il meteorismo inestinguibile come la sete. Ma s’aggrappava a una frase, Rick, all’alba delle mattine più dure: una sententia antica pronunziata con la voce grave e calda degli adulti più cari, la più alta delle speranze post-pubertà: “fino ai vent’anni; fino ai vent’anni si cresce” — s’era dato quel limite prima d’ammettere la sconfitta del metro e settanta. L’ultimo gesto compreso nella ritualità del risveglio consisteva nell’indagine delle foreste ascellari: quell’odore sapeva creare un’aurea circolare attorno alla sua figura, pareva descrivere una lotta furiosa fra ormoni in conflitto, che s’incornavano l’uno con l’altro a graffiare i respiri. Tempo al tempo: un giorno, era sicuro, ne sarebbe andato fiero. Il profumo non era altro che una moda: sarebbe passata.

7. Son Row School, Vike City, seconda porta del primo corridoio. L’intervallo è concluso: gli alunni tornano ad occupare i punti del sistema. Rick Gin non si è alzato: ha seguito i movimenti di Lisa More, il docile oscillare delle gambe dalla porta al banco. Ora, dal basso, osserva con cupida brama la cima della piramide, partecipe ignaro dello Spettacolo. E gli sovviene un fruscio estivo ma fresco, una brama tattile e prensile, che sviluppa le immaginifiche capacità del pollice opponibile: ovvero Rick Gin, cadendo lo sguardo sulla scollatura di Lisa More che s’era voltata verso una collega, s’accorge d’un tratto che vorrebbe toccarla, la vetta. Toccare. Già. Osservare non lo sazia più. Rick si convince che la contemplazione non può essere l’ultimo stadio dell’itinerario della mente: non può esserlo se ancora avanza un desiderio più concreto e fisico. Toccare. Già, perché più gli occhi restano concentrati, più i neuroni impazziti s’informano di dettagli succosi: una leggera oscillazione del campo visivo mostra che la vetta della piramide è bipennata. Toccare. Non solo Lisa More, anche Linda Blunt. Toccare. Toccare le vette, di Linda Blunt. Di Lisa More. Le vette. Toccare. Toccare. Toccarle. Strizz-“Oh!”, una voce maschile, estranea lo distrae, un gomito lo sfiora: “sta entrando la Mc Pie”. Rick respira con più calma, finge una smorfia di ringraziamento. Stringe le dita, che quasi gli dolgono. Lo zoom visivo si allarga, ponendo gli oggetti ermeneutici nel loro contesto storico-naturale. Eccole lì: una fila di banchi davanti alla sua, l’una di fianco all’altra. Le vette. Toccare.

8. Nonostante l’ingresso della professoressa Mc Pie, Rick ritorna all’analisi autoptica. L’attitudine allo studio lo conduce all’elaborazione d’una precisione chirurgica della volontà: lo zoom si restringe, il campo torna a concentrarsi sulle cime della piramide. Un primo piano d’autore di film per adulti. Non vorrebbe più soltanto toccarle, le vette. Vorrebbe averle, entrambe: possederle nella totalità grassa e unta del mondo vero. Averle entrambe: stringerle. Già. Strizzarle. E poi apparire con esse: apparire era l’ultimo punto, ma contava meno. Era speculativo. Arrivò a provare dolori simili a quelli che i Werther d’ogni adolescenza — insicuri e imbottiti di retorica — provano per il feticcio romantico del possesso: ma la causa ora non era Amore, era il conflitto. Immerso in queste riflessioni, Rick non s’accorge di ciò che appare nel mondo dei fenomeni: la pressione del suo sguardo dev’essere così graffiante da portare una delle due — Lisa More, come per istinto — a compiere una scattante proiezione del torace verso la radice pulsante di quell’energia ossessiva, di cui l’inconscio borghese avvertiva l’inadeguatezza. Rick, sconvolto tanto dalla velocità quanto dalla leggerezza dei gesti — i capelli avevano seguito il corpo in crescita come un cagnolino distratto segue la padrona — mantiene la fissità generatasi dal terrore, le sopracciglia paiono gonfiarsi di folte preoccupazioni, le mani sudano, scivolano dal banco; piove sulle foreste ascellari, sulla pianura frontale, sui piedi da Hobbit. “Ehi, Linda, guarda un po’”, “Guarda ‘sta Scopa”, “Cosa?”, “Ci fissa”. Non appena si voltano —entrambe, questa volta, sempre mantenendo la speculare struttura tanto misteriosa quanto naturale delle mestruazioni parallele — lo sguardo di Rick, quale passero poggiato sul ramo, s’invola spaventato verso le mete ignare della prima finestra disponibile: appena in tempo, prima che il fuoco fatuo dei cristallini si riveli fuoco incrociato. Ma la simulazione — così come la spontaneità — non costituivano la specialità personale del repertorio qualitativo di Rick Gin, ed ogni gesto risuonava nell’aria vuota come goffo, imprudente accusa alla società intera: società incarnata, in questo frangente, dalle paladine della giustizia interna. Ogni gerarchia — dalla comunità medica al microcosmo d’ogni classe scolastica — si autoregola: è come un termosifone troppo intelligente.

9. Lisa gli parlò: non era una domanda elevata nella forma. Si chiedeva, a metà fra retorica e sincero disgusto, quale specifico tributo dionisiaco-fallico, ligio alle usanze d’alcune tradizioni giapponesi, desiderasse da loro. La semantica violenta non giunse alle remote zone della psiche di Rick Gin: quegli spazi che traducono i concetti recepiti — ininterrotta musicalità — e li digeriscono, quali molecole alimentari, scindendoli in foni, fonemi, morfemi, sintagmi. Il tutto rimase nel limbo delle percezioni interrotte, nel traffico mattutino delle metafore pendolari. Ciò che contava, nell’universo costruttivista di Rick, stava nel destinatario: il destinatario, era il messaggio. Ed era lui, il destinario. Era lui che contava. Era la prima volta che si rivolgevano a lui — già, proprio a lui — con la seconda persona? “Tu, Gin?” Davvero? La frenesia delle circostanze pervadeva la classica razionalità che lo contraddistingueva nelle fervide lotte di Pokemon alle elementari. Ma era vero: Lisa parlò a lui –- già, proprio a lui –-, la voce era ormai quella dei sogni per il giovane Rick, ammaliato ed estasiato dalla sola apostrofe iniziale. Eccitato: un sincretismo di folklore digitale s’alzava; ed era gioia e imbarazzo.

10. La reazione alla domanda di Lisa More non giunse: non vi fu risposta. Non fu tanto un’assenza d’azione, quanto un’incapacità psicofisica, pineale. Conscio della propria goffaggine, Rick preferisce rispettare il principio della conservazione di massa, mai pienamente compreso nelle lezioni di fisica –- bisogna dire che Rick la Scopa Gin era rappresentazione icastica dello stereotipo scolastico ribaltato: molto impegno e molta applicazione, risultati scarsi. In principio, Lisa e Linda non colgono il nesso fra l’attacco e la reazione vuota –- sempre più attesa, come un segno del nemico in una guerra di posizione. Quando il silenzio e l’immobilità paiono volgere, come neve, su ogni fonte di luce, l’animo bellico di Linda ha un sussulto che si direbbe d’orgoglio, se non d’affetto verso il proprio universo razionale: privarle d’un confronto, ma come si permette, ‘sta Scopa?!, ‘sto scemo!, ‘sto coglione!: già, ’sto fetente!. “Gliela facciamo pagare, questa!”. “Aspetta che la Mc Pie si gira”, “Non farti beccare”. Rick restava immobile: nella sua mente conservava la massa, ed era la scelta migliore. Fuori dalla finestra, oltre le fessure delle tapparelle, un corvo muto e scuro: elegante fugge.

11. Rick non parlò e non si oppose durante l’esecuzione della condanna, subìta non senza una coerenza giurisprudenziale interna, il cui verdetto inappellabile fu “colpevole”. Di cosa, poi, ben non si sapeva: figurarsi su quali basi. Rick patì senza dare aperta mostra di rassegnazione, come si accetta un’esistenza priva di senso: la coscienza d’essere un capro espiatorio. Doveva farsi eroe, per sopravvivere. Per dare una speranza a se stesso e alla classe dei sommersi: qualcuno lo avrebbe ammirato, oltre che compatito. Fu una visione progressiva, che iniziò con quella sopportazione inattesa e volgare. Maturare una tacita svolta. Era deciso a sviluppare una vendetta, nell’incomunicabile mutismo della sofferenza umana ingiustificata, nonché inevitabile. Comprese che era giusto, doveva essere così: che non potendo attuare una rivoluzione collettiva nel sistema-terza C — une vera Lotta di classe — l’oppresso doveva agire con tecniche di rivolta individuali. Uscì per ultimo dall’aula, sotto gli occhi impotenti e pietosi della signora Mc Pie, il cui pensiero va pur sempre alle vittime. E gli sovvenne un’intuizione, sul pullman, a Rick Gin: logica conseguenza delle prime ammissioni. Una conoscenza intuitiva a corroborare la tempra delle tesi precedenti, stratificatesi ormai nell’inconscio. Venne come un ladro, come le istanze dell’Essere: mentre osservava dal finestrino le gocce di pioggia ferme, immobili prima di cadere, condannate. Le gocce che poi si trascinavano giù, come lumache. Ripensò al corvo, ultimo fotogramma prima della tragedia: si disse “mai più”, con la convinzione del tossicodipendente. Lo colse poi una serie di questioni, una raffica psicologica d’origine masochistica: c’era un piacere nell’essere sopraffatti? E la risposta, ora come per i successivi quesiti, fu sempre la stessa. C’era un senso nell’etica del dolore? Mai più. Perfino la libertà può essere oggetto d’alienazione? Mai più. E le sensazioni? Mai più. Provava rancore? Mai più. Che cosa cercare, illusioni? Mai più. Mai più: mentre cadeva l’ultima goccia del quadro sovvenne l’idea finale, parvenza di orizzonte totale sul cosmo al crepuscolo. L’illuminazione politica, personale. Non era una risposta. Era una forma del pensiero che superava le canoniche dinamiche della quaestio. La verità svelata d’un tratto, sui misteri del tempo umano, sulle leggi della dialettica, sulla condizione dello Stato e sull’amore puro, sulla Rivoluzione: più che articolarsi per essere comunicata, questa verità si tradusse in un proposito d’azione.

12. Rick entrò in camera, chiuse la porta a chiave. La madre — Dorothy Fletcher — sentì il rumore della serratura e della chiave che gira, un vuoto di cecità giocastica le corse lungo i reni: atavico ed eterno. Un lampo le illuminò ogni errore di madre: la separazione genitoriale si traduceva nei confini interni alle mura domestiche, entro le quali non si viveva come in una comunità, ma come in un groviglio di solitudini destinate a marcire: la conoscenza procede per illuminazioni irrazionali; si direbbe eredità cristiana. Dorothy Fletcher si fermò: si sedette. Dorothy Fletcher accese il telefono ed espose sulle bacheche immateriali la trasposizione linguistica stereotipata del proprio disappunto, per affermare con volto piangente che “Dorothy Fletcher è preoccupata”.

13. La nuova società di vergogna spingeva Rick a farsi utente passivo delle comunicazioni mediatiche, piuttosto che leader attivo e propositivo: un’esistenza silenziosa a non rendersi noto, a scomparire nell’ombra. L’esperienza orizzontale non si adattava al verticale senso delle cose vissute, che si facevano storiche nella memoria; e coloravano le stanze. E questa stanza: dell’infanzia, di noi che siamo terra e gioco. Saper giocare è essenziale. Ma ora, adesso: quale ruolo nel grande gioco del mondo? Che cosa poteva mostrare Rick Gin ai pollici del cosmo? Quale parte fisica di sé poteva prostituire nella sublimazione degli sguardi passionali? Le domande erano giuste, sensate. Ma la vendetta doveva passare da qui: dai loro mezzi, oltre i filtri razionali. Mai più, s’era detto. Rick accese il telefono — lo aveva spento per evitare di notare racconti d’icone rappresentanti la trasmissione della propria tragedia — ed entrò nel network. Attraversò la foresta derisoria delle nuove tribù digitali. Passò per la violenza e il degrado, per la stagione del calore e i ghiacci, per le teorie di Girard e gli uomini di Malinowski, per i terrori apocalittici e le profezie di Babele. Passò fra Lestrigoni e Ciclopi: fra hipsterici vestiti ed egocentrici urli; noiose vanità notturne nascoste nel linguaggio dell’anticonformismo radical. Passò fra natiche panoramico-marine di ninfe in bichini, fra superfici d’amicizia e clientele cesariane. E vette. Enormi vette. Finché, ormai fatto savio e stanco — era impossibile tornare a Itaca: dov’è Itaca? — giunse al caloroso nocciolo della propria alienazione, annunciato dall’epigrafe: “Io sarò per te condanna, L.”. Alla fine del viaggio Rick Gin ebbe come l’impressione d’essersi lasciato alle spalle un deserto. Alle spalle il peso di un Dio turbinoso e fraudolento. Come se il rumore, nell’eccesso, avesse raggiunto quella soglia oltre la quale ogni suono ritorna nel silenzio. Rick continuò nei suoi propositi: la prima vittima della vendetta sarebbe stata Linda Blunt, la quale, fra le due matrone di Governo, era parsa agire con maggiore rabbia nell’applicare la colla vinilica ai capelli color paglia — non che a un trattamento simile sarebbe sfuggita, in seconde nozze, anche Lisa More. Rick poteva ammirare, assieme ad altri mille pollici, le immagini che Lisa — previa accettazione iniziatica — aveva scelto per presentarsi al mondo: l’insieme lo colpì, poi l’analisi delle singolarità lo spinse a scorrere verso il basso; era una forza gravitazionale dell’estetica corporea. L’attenzione si fermò sui prodotti della stagione estiva: i più gettonati dagli utenti sconosciuti, oltre che i più riconoscibili. Si fermò lì dove la kantiana cosa in sé si mostra intellegibile, sebbene non esplicita: ai confini fra il conoscibile e il noumeno delle curve e dei seni — d’altronde bisognava che ci fosse della creatività nell’atto vendicativo. L’occhio cade poi su alcune figure particolari, che tradiscono una confidenza intima e, si direbbe, teneramente femminile con il terreno, su cui poggiano le ginocchia sporche di bianca sabbia. E’ il momento della vendetta: Rick si slaccia la cintura. Una mano a reggere lo schermo, l’altra a cercare il falco alto levato della repressione sconfitta, della rivolta individualistica e minoritaria, del mondo sommerso di coloro che non comunicano, del “Mai più” -– “Dorothy Fletcher è preoccupata”, e a quattro persone piace questo elemento. Rick Gin agisce senza un pensiero, coglie la radice dei problemi con la precisa volontà d’alleggerire il bagaglio dell’oppressione: s’aggrappa all’arma del risorgimento proletario. Tutto sarebbe partito da qui.

14. L’epilogo della lotta, breve e priva d’amore, non è altro che un ghigno. Sul viso di Rick Gin resta una smorfia impossibile da connotare in positivo o in negativo: il fulgore rivoluzionario s’attenua piano; si comprende soltanto l’odore sudaticcio e acre del fiore goduto, bergsoniano inno all’amarezza dei piaceri. Un alone di tristezza lo avvolse d’un tratto, una volta appoggiato il telefono sul comodino. Oltre le tende pensò esserci il corvo della mattina: non parlava. L’epifania di Rick Gin fu tragica e tardiva come quella d’Aiace Telamonio: alla pazzia si sostituisce una frustrazione che non conclude e non distrugge; che è sottile, asintotica. L’epifania di Rick Gin fu la realizzazione che esiste soltanto una vendetta per l’oppresso, ed è una vendetta autoreferenziale, priva di riconoscimento. Che esiste un distacco fra il reale corso delle cose e l’universo delle icone. Che nello spettacolo delle illusioni, il problema resta la proprietà privata dei mezzi di produzione. L’epifania di Rick Gin fu sintetica, fu un seme disperso nei campi dell’intelletto: che le immagini non si possiedono, mai. Che i sommersi resteranno sommersi.

15. E poi c’è l’alienazione, ovvio. L’alienazione.

(foto: Perry Como, When you were sweet sixteen, New York Public Library)

Guglielmo Embriaco detto il Malo

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di Luigi Preziosi

Marzo 1116. Dal porto di Genova salpa una galea, carica di merci, comandata da Guglielmo Embriaco detto il Malo, appartenente ad uno dei casati più illustri della città (gli Embriaci), e circondato dalla fama di eroe della crociata da poco terminata: è anche grazie alla sua idea di smontare le navi della flotta genovese per trasformarle in macchine da assedio e torri d’assalto che Gerusalemme è caduta.
Dalla Terra Santa ha portato un vaso di smeraldo esagonale, in cui si dice che Cristo abbia mangiato l’agnello nell’ultima cena: qualcosa di molto simile al Graal, o forse proprio il Graal. Quindici anni prima, a Cesarea, un vecchio sapiente ebreo ha insinuato il dubbio che fosse un falso, asserendo che l’originale era stato trafugato: labili indizi lo darebbero rintracciabile in qualche località della Cornovaglia bretone. Dopo tanto tempo, ora Guglielmo vuole conoscere la verità. Per questo arma la Grifona, una galea di nuova concezione, e con più di 190 uomini fa rotta verso Gibilterra, puntando poi verso l’Atlantico, fino alla remota Bretagna francese, seguendo una rotta raramente prima battuta. Dopo un viaggio drammatico, ricco di avventure e di-savventure, di incontri, di agguati ed inseguimenti sul mare, di tempeste oceaniche di proporzioni mai viste dai marinai genovesi, arriverà alla meta, dove si confronterà con le memorie di antiche leggende, relative al regno di un tempo remoto di re Gradlon e e alla antica città sommersa di Ys.
Ma gli episodi più inquietanti avvengono sulla galea, dove, nelle notti di novilunio, quando le tenebre avvolgono la nave, si sgrana la lugubre sequenza delle efferate uccisioni di tre ufficiali, ai quali viene viene ogni volta estirpato il cuore dal petto. Il comandante è costretto allora ad improvvisarsi inquisitore, con l’aiuto di un giovane scrivano, Oberto da Noli: l’indagine non dimostrerà altro che l’impotenza del comandante ad arrestare gli omicidi, e la soluzione si paleserà con diverse modalità, mostrando quali inaspettate forme possa assumere l’affermarsi della giustizia tra gli uomini. In parallelo alla ricerca di Guglielmo si dipana la storia di Giannetta Centurione, figlia di un ricco mercante genovese, mandata in moglie per motivi di fusione di patrimoni familiari al rampollo di una delle famiglie più in vista della città. Odiata dalla matrigna, e riottosa all’idea di un matrimonio di convenienza con chi non ama, riesce a far fiorire in sé un senso di spiccata indipendenza, manifestato sia nello scegliere un amore diverso da quello a cui è destinata, sia nel coraggio che la sorregge nel compiere scelte decisive per la sua stessa esistenza.
Questa, in estrema sintesi, ed omettendo per evidenti motivi il finale, la storia raccontata da Giuseppe Conte in I senza cuore (Giunti, 2019), recente prova narrativa di un autore che ha percorso gli ultimi decenni della nostra letteratura cimentandosi innanzitutto con la poesia (si veda, a definirne l’accertato valore, l’Oscar Mondadori del 2015, giunto al culmine di una trentennale attività), ma capace di svariare con esiti altrettanto convincenti nella saggistica, nel teatro e nel romanzo. Nella prove narrative Conte applica con esito felice la propria disponibilità all’esplorazione di temi, trame ed anche soluzioni stilistiche diverse: se ne può misurare l’ampiezza anche solo confrontando il medioevo (non privo però di rimandi sottintesi alle penombre della nostra modernità) di I senza cuore con la bruciante contemporaneità del suo penultimo romanzo, Sesso e apocalisse ad Istanbul, uscito appena un anno fa, teso a rappresentare le angosce, che, pur radicate in un remoto passato, popolano ancora a pieno titolo i nostri giorni.
I senza cuore fa propri i topoi classici di più di un genere letterario. E’ con tutta evidenza un robusto romanzo storico, per la sua precisa collocazione temporale: af-fascina il senso di autenticità che percorre tutto il libro, derivante dall’accurata ricostruzione storica, e dall’altrettanto accurata descrizione del mondo marinaresco medievale (a fine libro è presente perfino un glossario dei termini utilizzati). Figura sto-ricamente accertata è poi Guglielmo il Malo, detto anche Guglielmo Testa di Martello, a cui Conte attribuisce una personalità perennemente oscillante tra carnale ferocia ed ingenua religiosità: ne testimonia le gesta Jacopo da Varagine nella Cronaca della città di Genova (Guglielmo poi, prima di diventare protagonista del romanzo di Conte, attraverserà rapidamente anche la Gerusalemme liberata). Ed è Guglielmo che, di ritorno dalla Crociata, porterà con sé il vaso di smeraldo, che, altro elemento di verità storica, è attualmente conservato nel Tesoro di San Lorenzo a Genova. Di lui, però, dal 1112 in avanti non si hanno più notizie nelle cronache dell’epoca, il che autorizza la virata verso quel grado di libertà superiore consentita in linea generale dal romanzo di avventura, senza che perciò solo ne debba scapitare la densità di significato etico della narrazione. Con ciò Conte supera un pregiudizio storico (ultimamente per fortuna un po’ attenuato) nei confronti del romanzo d’avventura, e rende allo stesso tempo omaggio ad alcuni classici della narrativa anglosassone: basti pensare a Melville, Conrad, Stevenson…
E l’avventura che sostanzia il romanzo è originata dall’ansia di conoscere la verità che ritorna dopo anni a tormentare Guglielmo, che trova occasione di manifestarsi anche durante l’infruttuosa inchiesta sugli omicidi dei suoi ufficiali. La declinazione (anche) poliziesca della trama, con tutto ciò che implica in tema di tensione verso la verità, può indurre ad accostare il protagonista al Guglielmo da Baskerville del Nome della rosa. Ma lo sforzo investigativo del Guglielmo di Eco tende all’affermazione della ragione sulle tenebre della superstizione: la conoscenza intuitiva empirica (la dimestichezza con l’uso del rasoio di Occam gli consente le semplificazioni necessarie allo scopo) è in grado di svelare i misteri del mondo che ci circonda. Guglielmo il Malo, pur respingendo le ipotesi di creature demoniache come autrici dei delitti, come invece sostiene il cappellano di bordo, vive invece un medioevo pieno, nel quale non si percepiscono ancora premonizioni del futuro umanesimo. La sua ricerca punta ad una verità metafisica: per gli uomini del suo tempo lo spirito pervade la materia ed il mondo non è tutto conoscibile.
Guglielmo non è l’unico a cimentarsi con la ricerca della verità. Il romanzo brulica di personaggi, di cui Conte tratteggia bene i tratti essenziali a mano a mano che a ciascuno tocca una parte nella complessa macchina narrativa: dagli ufficiali massacrati Primo Spinola, Lanfranco Piccamiglio e Astor Della Volta, ognuno con caratteristiche caratteriali ben definite, al gelido tesoriere Bernardo Malocello, al cappellano don Rubaldo Pelle, al mastro d’ascia Carnac il mancino, arruolato durante la traversata e diventato in breve braccio destro di Guglielmo, a padre Brennan, custode nella biblioteca del suo convento di un insieme indistinto di memorie storiche e leggende, e tanti altri. Ed una rinnovata riflessione su se stessi, un diverso riconsiderare il modo di rapportarsi con il mondo sommuove alcune coscienze durante la navi-gazione: in particolare il mastro d’ascia Pietrabruna, che, sbarcato a Lisbona, lascia i compagni ed il suo antico comandante per immergersi nel misticismo sufi, e lo scrivano Oberto da Noli, che cerca armonia ed equilibrio in Seneca e Virgilio, autori appassionatamente compulsati durante la traversata; anche Giannetta in fondo sperimenterà la tensione verso il rinnovamento di sé, al termine di un itinerario psicologico certo non consueto.
Ma la nostalgia della verità innerva una ragione più specifica, fondamento del viaggio della Grifona e del suo capitano. La ricerca di Guglielmo solo apparentemente è simile alle tante quêtes che affollano le narrazioni medioevali: ha, al contrario, una sua specifica originalità. Guglielmo non cerca, infatti, un oggetto miracoloso dall’incerta esistenza: lo possiede già, cerca invece la prova della sua autenticità. E’ dal possesso non dell’oggetto, ma della verità sull’oggetto, che potranno derivare gli effetti miracolosi che Guglielmo si aspetta, ed in cui crede. Ed allora, l’itinerario per questa ricerca non attraversa le selve in cui si erano aggirati Parsifal e Galaad, ma il mare, tant’è vero che è durante la lunga navigazione che gli uomini in ricerca a bordo della Grifona giungono a qualche forma di composizione delle inquietudini che li affliggono. Alla malia del mare, rappresentata con mano felice nella sua obiettiva naturalezza, nelle bonacce e nelle tempeste, Conte pare attribuire una sorta di funzione catartica, che supera la contingenza necessitata dall’economia della narrazione: se è ve-ro (Keats insegna) che la verità si rivela nella bellezza, è proprio nello smisurato splendore del mare che i naviganti della Grifona (e noi con loro) la possono cercare.

Lo spazio duale

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di Nicola Fanizza

( il libro di Waldemaro Morgese verrà presentato alla Spazio Milano, viale Montenere 6, il 31 ottobre 2019, alle ore 18.30; oltre all’autore, interverranno Nicola Fanizza e Stefano Boldorini, letture di Paola Martelli, g.m.)

Duecentoventi pagine costituiscono I guerrieri cambiano, l’ultimo libro di Waldemaro Morgese pubblicato da Homo Scrivens, nel quale vengono trascritti il vagabondaggio e i sogni di un uomo che da diversi anni è catafratto nella sua identità e che poi, improvvisamente, si mette in transito.

Scisso, disorientato, maschera della propria maschera, Ugo, nel primo dei due racconti che compongono il volume, è il prototipo dell’uomo moderno, di un uomo che fa della dissimulazione il proprio credo, di un uomo che da alcuni decenni vive in una società, caratterizzata da una fobia per l’esterno e da un’affermazione identitaria. Tutto ciò ha portato alla cancellazione dell’alterità e a un interno ridotto a mera cassa di risonanza del discorso canonizzato della polis.

I sogni di Ugo, come tutti i sogni, si configurano come lo spazio in cui da una parte vanno in scena le paure e le angosce che costellano la sua vita e, dall’altra, come ciò che consente ai suoi desideri di assumere una forma. E cos’è la forma se non una ricerca di senso?

Così, nel primo racconto che ha per titolo Oltreoceano, il viaggio di Ugo in America diventa l’occasione per desituare il male fuori dall’orizzonte in cui stazionano i protagonisti oppure in un lontano passato. Assistiamo alla celebrazione dei buoni sentimenti e del sogno americano: Ugo ha finalmente l’occasione per realizzare sul piano fantasmatico gran parte dei sogni che gli venivano negati in patria, sogni che l’autore aveva sognato nel corso della sua vita.

Il primo sogno si realizza presso l’Emotive Theatre di New York. La messa in scena del suo libro di racconti che ha per titolo Città buie evoca le recondite ambizioni, che l’autore, come critico teatrale, aveva coltivato durante la sua giovinezza. Tradisce, infatti, il suo desiderio di promuovere l’arte totale, una particolare teoria dell’arte di cui aveva parlato per primo Antonin Artaud e in seguito Carmelo Bene. Si tratta di una miscidanza dei generi e soprattutto della valorizzazione del corpo come strumento di comunicazione.

L’incapacità di Ugo di comunicare con l’altro da sé appare al lettore sin dall’inizio dei lavori preparatori alla messa in scena del suo romanzo. Salvo che con Marguerita, che aveva provveduto a tradurre il suo romanzo in inglese, le relazioni con gli altri membri della compagnia teatrale sono cordiali e stazionano nell’atmosfera del mero interesse. Sin dal loro primo incontro, Marguerita gli appare come un «simbolo aurorale, l’annunzio di un nuovo sperato amore». La loro relazione, però, si mantiene solo nell’ambito dei rituali della reciproca seduzione, non riesce ad andare oltre. La paralisi di Ugo è riconducibile alla sua incapacità di accogliere e far posto all’altro da sé. Marguerita da una parte gli appare come una donna che è attraversata da un processo di alterazione che la rende inafferrabile e, dall’altra, Ugo non sa rinunciare alla sua integrità, la passione identitaria è così pervasiva da spingerlo a porre l’altro solo fuori di sè.

Le conferenze tenute da Ugo – «scrittore di successo» – e soprattutto la curiosità manifestata dal pubblico nei suoi confronti rimandano per molti versi a un sogno che ci sogna: il desiderio dell’autore – e anche nostro – di godere di quella visibilità che, invece, gli è stata negata. Si tratta di un desiderio che abita nei nostri pensieri, un desiderio che, tuttavia, ci fa sognare i sogni del potere, un desidero che è oltremodo pervasivo. Da qui l’esigenza di negare non solo il desiderio di potere, bensì il potere del desiderio in quanto tale.

Suggestiva è, invece, la descrizione di Buffalo, una città attraversata da ferite e laceranti scissioni. La povertà e il degrado caratterizzano le abitazioni dei quartieri operai e le facciate scolorite dei palazzi delle zone semicentrali denotano la crisi della classe media. Il tutto fa da contraltare agli agglomerati di gran lusso, dalle architetture neoclassiche immerse nei parchi. Si tratta, però, di costruzioni che si sottraggono allo sguardo, poiché sono protette da guardie armate.

Buffalo è anche la meta finale del viaggio di Ugo negli Usa. Qui deve partecipare a un ciclo di conferenze incentrate sul memoriale del figlio di un immigrato italiano che negli anni Trenta, dopo aver vissuto alcuni anni proprio a Buffalo, si era trasferito nell’Urss, sperando di trovare il paradiso in terra. La sua scelta, tuttavia, si era rivelata esiziale, in quanto era stato imprigionato per quindici anni in un gulag siberiano. Il senso della partecipazione di Ugo a questi rituali, con la relativa denuncia dei crimini dei comunisti sovietici, serve per desituare il male in un lontano passato. D’altra parte, consente all’autore di prendere le distanze da quel periodo della sua vita in cui era stato fin troppo acquiescente nei confronti del comunismo albanese, che si richiamava esplicitamente agli insegnamenti di Stalin.

Finalmente nel secondo racconto Oltreverso, con la comparsa del negativo, le vicende narrate diventano avvincenti come in un giallo. Il male questa volta non lo troviamo relegato in un lontano passato da emendare oppure nella natura matrigna o situato nell’altro che sta fuori dall’identità di Ugo, bensì abita proprio nei suoi pensieri.

«Vivo bene – dice Ugo – in mezzo alle contraddizioni», sente di essere diventato un altro, è attratto dalla nuova vita che lo afferra e lo travolge, le esperienze estreme amplificano le sue capacità vitali. I rituali erotici sempre più appaganti diventano il fuoco da cui dovrebbe originarsi un flusso di energie capaci di sortire la «sconfitta totale della morte». Questi riti, però, hanno un esito comunque tragico, poiché sono connessi – come confessa lo stesso Ugo – al «desiderio di far piazza pulita intorno a me».

Il viaggio di Ugo in Brasile – meta del turismo libidinale – si configura anch’esso come un sogno. Si tratta però di un sogno diverso da quelli precedenti, un sogno in cui si dà il groviglio dell’esistenza. Così vengono rappresentati i conflitti e le contraddizioni che agitano la nostra vita, ciò che è certo diventa incerto, le maschere del potere possono trovare il loro contraltare nel desiderio di andare oltre le identità cristallizzate, in cui il potere vuole per sempre inchiodarci. Tuttavia nei sogni le situazioni che amplificano le nostre capacità vitali possono trovare il loro contraltare nelle pulsioni di morte, in ciò che rende possibile la violazione deliberata di alcuni tabù (l’unica definizione accettabile del male!).

Ciò che va in scena in Oltreverso non è il «Teatro della Crudeltà». Morgese è attento alla sensibilità del lettore e cerca per quanto gli è possibile di stendere un velo di silenzio sulle scene di violenza. Il suo obiettivo, a differenza di Artaud, non è quello di produrre, con le scene di violenza, il disagio del lettore e la sua successiva catarsi, bensì quello di dar vita a uno spazio duale, in cui si delinea un’alterità più sottile e complessa. Mentre nel primo racconto l’altro si trovava fuori dall’identità, ora invece in questo nuovo spazio esistenziale l’altro che era fuori di noi viene a trovarsi anche e soprattutto dentro di noi, ossia l’altro è fuori di noi e, insieme, dentro di noi.

L’identità in questo modo non appartiene in tutto e per tutto alla zona dell’essere sempre identico, bensì anche e soprattutto alla potenza del divenire. È di fatto riconducibile all’insieme delle identità che ciascun individuo, in modo differente dagli altri, immagazzina nel suo essere nel mondo. Ognuno di noi sperimenta a volte la sua estraneità a se stesso, sa che il suo sé è inaccessibile anche a se stesso e perciò sacro. Da qui l’esigenza di rigettare ogni pretesa di pervenire a un’identità totale.

Si tratta di una condizione umana che più di ogni altra corrisponde alla concezione sintetica degli opposti, a una dialettica aperta. La cifra della nostra esistenza diventa così incessante reinvenzione, non escludendo le identità passate, tende sempre a riproporle in modo diverso. Tutto ciò mira ad aprire per l’appunto uno spazio duale, uno spazio in cui si manifesta una sorprendente azione creatrice, uno spazio in cui si è sempre in transito. Possiamo solo andare oltre!

Genocidio in Libia – Eric Salerno

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Genocidio in Libia

Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (Manifesto Libri)

 

INTRODUZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

 

Nel 1979 Genocidio in Libia fece conoscere al grande pubblico e, per una parte importante, anche al circolo ristretto degli studiosi le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana nel paese nord-africano. Stragi, l’uso dei gas contro le popolazioni che lottavano per difendere case e accampamenti nel deserto, processi-farsa e impiccagioni, l’estesa rete di campi di concentramento saltarono fuori da documenti ufficiali italiani, molti dei quali inediti. Alle parole fredde della burocrazia aggiunsi, dopo un lungo viaggio attraverso la Libia – dalla zona costiera che lega Tripoli e Bengasi al profondo sud desertico – la voce delle vittime sopravvissute a ciò che per la sistematicità dei comportamenti ordinati dalla Roma fascista, appariva come un vero e proprio genocidio. Particolarmente drammatiche sono le testimonianze, i ricordi di vita e morte nei numerosi campi di concentramento allestiti in Cirenaica e dove morirono decine di migliaia di libici. Oggi, quaranta anni dopo, l’Italia repubblicana finanzia i nuovi campi che in Libia raccolgono migliaia di migranti africani e non solo, scappati dai loro paesi e alla ricerca di una vita migliore in Europa.

Nel 2005 Genocidio in Libia fu ristampato da Manifesto Libri perché, come raccontai nell’introduzione a quella nuova edizione, nel silenzio della maggioranza si stavano facendo avanti voci a difesa della politica coloniale che la storia aveva condannato. Tre anni dopo uscì «Uccideteli tutti-Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana» (il Saggiatore, Milano), la mia ricerca sui campi di concentramento fascisti allestiti in Libia per gli ebrei di quel paese. Lo stesso anno, il 30 agosto 2008 a Bengasi, Berlusconi e Gheddafi firmarono un trattato di «Amicizia e Cooperazione», a riconoscimento dei danni provocati dal colonialismo italiano in Libia: non furono meno gravi rispetto a quelli di cui furono responsabili le altre potenze europee che spezzettarono e fecero scempio del grande continente africano. Del significato storico e pratico di quel trattato e degli eventi degli ultimi quindici anni in cui i rapporti tra i nostri due paesi sono profondamente cambiati racconto in un capitolo a chiusura di questa nuova edizione. Lascio ad altri la tragica cronaca della guerra civile e del grande gioco, o meglio massacro, geo-politico voluto da chi oggi compete per le ricchezze di ciò che più di cento anni fa Gaetano Salvemini aveva definito lo «scatolone di sabbia».

Purtroppo il presente richiama il passato. Oggi, quaranta anni dopo la prima pubblicazione di questo libro, con i suoi documenti e le sue testimonianze registrate in Libia, la Storia, in qualche modo, si va ripetendo. Per questo ho aggiunto un capitolo dedicato al nuovo vecchio razzismo, ai nuovi vecchi campi, alle nuove vecchie vittime e alla nuova vecchia indifferenza che continuiamo a vedere nei curriculum scolastici dove la Storia, quella più vicina a noi, non viene raccontata se non in modo superficiale lasciando i nostri ragazzi senza quelle basi fondamentali indispensabili per combattere le fake-news, il revisionismo, il negazionismo sia dell’Olocausto degli ebrei sia dei massacri coloniali. La Storia è composta di fatti, percezioni e interpretazioni. I coloni italiani cacciata da Gheddafi sono convinti di aver dato un contributo di crescita e civiltà alla Libia. Sicuramente sono stati strumenti di un disegno che non fu loro e per il quale molti hanno sofferto. Per il leader libico, che li cacciò, rappresentavano soltanto l’eredità del male che il suo paese aveva subito. In Italia il dibattito su quel passato ha avuto e ha ancora molte sfaccettature. C’è chi prova a giustificare l’azione nostra e delle altre potenze coloniali europee. Chi rifiuta ogni responsabilità per ciò che è accaduto in Africa – continente immenso con tutte le sue diversità – dalla cosiddetta decolonizzazione a oggi. Chi non si rende conto che una più oculata politica europea (d’insieme o da parte delle singole nazioni) avrebbe potuto far crescere i paesi africani evitando lo tsunami – ricorda le grandi emigrazioni dall’Europa verso mondi nuovi – di genti alla ricerca di una vita migliore.

In Libia l’impatto della storia in comune con noi è meno dibattuto. Per questo trovo particolarmente interessante il recente intervento di un regista libico, Khalifa Abo Khraisse (sull’Internazionale, 9 marzo 2018). Contesta una parte della storiografia libica e degli storici «al servizio» del regime e del pensiero di Gheddafi. «Oggi – scrive – il dibattito su quell’epoca è complicato, e nessuno è interessato a comprendere le complessità…Per esempio, agli studenti a scuola non s’insegna che molti libici collaborarono con i fascisti, che intere brigate e molti capi tribù lavorarono e combatterono per loro e si divisero al proprio interno per questo. Non leggiamo delle reclute che marciarono al fianco dei soldati italiani per conquistare l’Etiopia. Per non parlare del dibattito sui crimini commessi contro gli ebrei libici: era ed è ancora un tabù. In realtà alcune delle famiglie più ricche nella Libia di oggi devono la loro prosperità a quel periodo, ai soldi e alle proprietà che rubarono agli ebrei costretti a lasciare il loro paese. Alle generazioni postbelliche sono stati insegnati solo alcuni fatti, che non potevano in nessun modo essere contestati. Per più di quarant’anni il governo libico ha scelto di ignorarne alcuni e amplificarne altri».

Abo Khraisse accusa sia Berlusconi che Gheddafi di non aver compensato le vittime dei campi ma di aver in qualche modo premiato i loro carcerieri. E conclude: «È paradossale che, oltre a ignorare i campi di concentramento e premiare i collaboratori che ci lavoravano, l’accordo abbia gettato le basi per una nuova epoca di campi di concentramento finanziati dall’Italia con l’aiuto di collaborazionisti libici che vengono pagati generosamente».


Eric Salerno è giornalista, scrittore, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, scrive per l’Huffington Post. Tra i suoi libri più recenti: Uccideteli tutti! (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013), Intrigo (2016); Dante
in Cina (2018).

 

Il bosco è vivo

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di Oreste Verrini

Il bosco è vivo, seppur io non veda animali o non senta rumori. Scruta i miei passi, controlla i miei gesti, trattiene il respiro come un osservatore. Un osservatore nascosto per non farsi scoprire. Eppure c’è! Una presenza antica, potente, aliena. Un’entità interessata al mio comportamento, ché io non sia minaccioso, e al contempo indifferente alla mia sorte. L’ampia depressione davanti a me, un tratto di sentiero di una ventina di metri di lunghezza, sprofondato di un paio di metri, è l’esempio di quanto la terra, il clima, la natura se ne freghino di noi animali zampettanti.
È l’esempio di quanto detto, la magnificenza di una forza, non saprei come altro definirla, che risponde a proprie leggi e non porta rispetto che per sé stessa. E mi sia concessa una breve, brevissima parentesi; per come la stiamo trattando, mi pare il minimo. Mentre scendo sul tratto accidentato provo, non per la prima volta, il sapore amaro della soggezione. Tonnellate di terra si sono mosse, cedendo al lavorio dell’acqua, ammassando a valle rocce e alberi come se fossero briciole di pane spostate su una tovaglia. Un essere umano presente a quella frana sarebbe stato sbalzato, scaraventato, spinto, colpito, travolto, abbattuto e sradicato come un albero, con percentuali di sopravvivenza quasi nulle.
Insignificante è pure troppo, mi dico.
Di fronte a manifestazioni così violente, prepotenti e inarrestabili non abbiamo mezzi. Dobbiamo solo sperare di esserne ben lontani. Non affretto il passo per abbandonare la conca ma, poco ci manca, pensieri e riflessioni di questo tipo, solo nel bosco, non aiutano. Mi trattiene dal mettermi a correre quel poco di rispetto che provo per me, sebbene la solitudine dovrebbe farmi preoccupare meno del mio amor proprio.
Il lungo falsopiano mi porterà fuori dal bosco, lo preannuncia l’azzurro del cielo che scorgo sullo sfondo e quelle che mi sembrano macchie di arancio che associo a tetti di case. Non devo aspettare molto per scoprire di avere ragione. Si tratta di tre case, almeno mi pare, visto che non sto a contarle, ben tenute, con infissi nuovi e lucidi, giardini ben curati e fioriere colorate. La strada passa sul loro fianco destro, aggirandole. Sono a Ca’ de la Conta ma lo scoprirò solo dopo, guardando la mappa. Un’anziana esce dalla porta di casa nello stesso momento in cui le passo davanti. Distratta dal tenere con due mani il contenitore per la cenere, non si accorge del mio passaggio. Se non fosse per il buongiorno che le rivolgo passerei senza che lei lo sapesse.
Alza il viso e mi saluta sorridendo. Poi mi chiede se ho incontrato dei cacciatori. Alla mia risposta negativa sembra quasi inquieta. Mi spiega che due di essi sono i nipoti che il giorno prima le hanno detto sarebbero venuti a cacciare da quelle parti. Ora è preoccupata, data la loro assenza, che possa essere successo qualche cosa.
Le dico che forse hanno solo cambiato zona di caccia, succede e non c’è nulla di strano. Sembra concordare o per lo meno così pare a me. Credo la nostra conversazione sia finita, mi appresto a ripartire ed invece mi chiede da dove vengo e dove vado. Faccio bene – sottolinea, ascoltata la risposta –, sono giovane e ho gambe buone. «Camminare fa bene» ci tiene a ricordarmi; anche lei ogni giorno fa la passeggiata ed ogni tanto, quanto il clima lo permette, va fino a Piolo – quasi quattro chilometri andata e ritorno – a piedi. Non male per una signora che ha quasi ottantatré anni.
Infine, come spesso succede, ed ogni volta mi riprometto di ragionare sulle motivazioni che spingono le persone a farlo, mi racconta la sua vita; il figlio che, per una gassosa, ma giuro non capisco il nesso, ha rischiato di rendere l’anima a Dio. Tanto che è ancora ricoverato in ospedale. E poi il marito morto, ma anche qui qualche pezzo me lo perdo, l’incidente al marito della figlia e altre brutte faccende che le fanno esclamare più volte che nessuno può dire non ne abbia passate. «Mai da star tranquilla,» mi ammonisce «mai, perché di pensieri, soprattutto brutti, ce n’è quanti se ne vuole.» E lei ne ha avuti davvero tanti.
Le dico che succede un po’ a tutti, e mi dà ragione.
Ma anche in questo caso un po’ di fatica a seguirla la faccio. Lei dimentica troppo spesso che non capisco il dialetto. Nella fretta di raccontare, nel piacere della conversazione, mette parole e inflessioni che non riesco proprio a decifrare, non sempre almeno.
La casa è molto bella e ben tenuta, glielo dico per farle i complimenti e lei ringrazia facendo presente che è anche merito della figlia che ogni fine settimana sale con la famiglia. Infine è ora dei saluti, mi ha fatto piacere parlare con lei e quasi mi spiace lasciarla sola. Non glielo dico, ma immagino che in qualche modo lo capisca perché dopo che ho percorso una decina di metri mi richiama: «Ho un bel gatto in casa. Passa tutto il tempo con me. Sapesse che compagnia mi fa!».
Nemmeno una parola in dialetto, forse perché possa cogliere appieno il valore delle sue parole e possa portarle con me. Posso stare sereno perché lei non è sola, anche oggi che non c’è nessuno nel minuscolo borgo.

 

NdR: questo brano è tratto da “Madri”, di Oreste Verrini, edito da Fusta (2019)

Ipazia, Tahirih, Shaima, Hevrin e le altre

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di Daniele Ventre

Le culture figlie della rivoluzione neolitica e del patriarcato si contraddistinguono, fra l’altro, per quella peculiare sottospecie di femminicidio rituale di cui sono oggetto donne che non sono conformi al modello dominante, e fanno “lavori da uomini”. In determinati contesti storici, il femminicidio rituale avviene su larga scala, come nelle ondate di caccia alle streghe che funestano la storia del mondo occidentale fra il basso medioevo e la prima modernità; la circostanza per cui le cacce alle streghe mietono anche molte vittime di sesso maschile, paradossalmente conferma, più che smentire, l’appartenenza del fenomeno a tale dinamica femminicidiaria ritualizzata, che sia essa sancita o meno dallo Stato o dall’autorità religiosa: gli uomini processati per stregoneria spesso si occupano di alchimia o di cose celesti, vale a dire, non fanno “lavori da uomini”; occasionalmente, interviene anche l’omofobia come motivazione aggiuntiva. Va da sé che connotati di femminicidio rituale (inseriti nel più ampio novero dei crimini dettati da intolleranza religiosa, etnica o politica) si riconoscono facilmente anche nella persecuzione di religioni o etnie indesiderate per il potere costituito, sia che si parli di sante cristiane tardoantiche o di donne di fede Bahai e zoroastriana martirizzate in Iran dal 1852 a oggi, sia che si tratti dell’olocausto o di un altro qualunque degli innumerevoli stermini di massa di cui è graziosamente adorna la storia umana. In altri ambiti antropologici, e in sistemi giuridici meno formalizzati (tribali), il femminicidio rituale è l’effetto di un’azione esemplare immediata, quasi il portato di una sorta di spontaneismo primitivo.

Tale forma di femminicidio rituale si distingue da altre tre casistiche omicidiarie con vittime di sesso femminile: il ritualismo violento di alcune tipologie di serial killer, il semplice delitto d’onore, il sacrificio umano di ragazze. Quest’ultimo è tipico delle civiltà arcaiche. Per il movente, non va confuso con le torture e le condanne della caccia alle streghe, ma nasce da una forma di distorsione del sacro in contesti storico-antropologici degeneri, in ogni caso inquinati dalla violenza patriarcale (“la uccido perché è ciò che ho di più caro da offrire al dio; la uccido perché la vittima diventa dio” -a logiche in tutto simili obbedisce anche il sacrificio della vedova, realtà attuale dell’induismo fanatico e memoria mitologica ancestrale delle civiltà mediterranee antiche). Il femminicidio seriale (per procura o su commissione, come quello dei mostri di Firenze, o per azione in prima persona, come nel caso di Ed Kemper) appartiene ovviamente alla casistica dell’omicidio maniacale, per quanto possa connotarsi, data la “firma” distintiva dell’omicida, per elementi ritualistici pseudo-religiosi (e in taluni casi, addirittura para-esoterici) -tuttavia è banale osservare come a fare la differenza tra il ritualismo compulsivo del Lustmörder e il femminicidio rituale sia sempre la mancanza totale di un avallo anche solo generico da parte della dimensione normativa della comunità tribale, che anzi costruisce naturaliter una rete di deterrenti spontanei per gli omicidi seriali (assenti, per esempio, nelle zone rurali ad alta densità mafiosa). Il delitto d’onore ai danni di figlie o mogli o fidanzate è la tipologia criminale più vicina al nostro caso, ma ne differisce per un tratto specifico: l’omicida agisce più spesso da solo, inscenando una presunta reazione immediata, e dunque non riflessa, presuntivamente istintiva, al torto subito (“l’ho uccisa perché la amavo troppo, l’ho uccisa perché ha infangato il mio buon nome”), non è investito né implicitamente né dichiaratamente di uno scopo politico, non cerca necessariamente l’umiliazione del corpo della vittima (e da ogni analogia coi femminicidi rituali si escludono altresì le casistiche di omicidio passionale preterintenzionale, per ovvie ragioni). Nei casi di femminicidio suicidio, sia che il suicidio riesca o meno, il delitto per gelosia sfocia in una sorta di aberrante suicidio per procura (“non posso più vivere senza di lei, la uccido/mi uccido”) -è il paradigma maschile dell’infanticidio di Medea. Inoltre, a proposito di infanticidi e feticidi, vanno escluse dal novero dei femmincidi rituali specificamente definiti anche le pratiche di aborto selettivo ai danni di feti di sesso femminile e l’infanticidio delle bambine, fenomeni anch’essi propri delle civiltà rurali arcaiche, ma dettati da altre ragioni, di natura non tanto assiologica, quanto piuttosto brutalmente economica.

Le caratteristiche di un vero e proprio femminicidio rituale, quanto a movente, contesto e dinamiche di esecuzione, sono tre: 1) la vittima, che si distingue per il fatto che pubblicamente riveste ruoli o svolge attività “da uomini”, una presunta aberrazione che la privazione violenta della vita pretende di punire; 2) gli esecutori, mai da soli, che presumono e pretendono di rappresentare, con la loro pluralità, la comunità dei padri/mariti che reagisce all’aberrazione -la presunta “vigliaccheria” o la presupposta “strategia”, o le pretestuose ragioni del delitto di Stato, sono solo connotati accidentali, rispetto alla più grave pretesa e arroganza di rappresentare/costituire la comunità che punisce; 3) le sofferenze inferte alla vittima, tese a umiliarla e a mutilarla in quanto donna -le lesioni sul corpo della vittima, la cui eventuale bellezza alimenta in modo distorto la spinta omicida e la ferocia degli esecutori, dimostrano particolare efferatezza nell’infliggere dolore e nel distruggere l’identità fisica della persona torturata e uccisa in quanto è femmina -e si può parlare, da questo punto di vista, di genericidio in un senso differente, e opposto, rispetto a come intende il termine la sociologa Mary Ann Warden, che lo coniò per il massacro di Srebrenica, con riferimento allo sterminio selettivo degli uomini (per una guerra anch’essa connotata da marcati tratti contadini e tribali). Si aggiunga che le circostanze criminogene alla base del delitto sono quasi sempre legate a situazioni di crisi economica, politica o francamente militare –e tuttavia ci preme di evidenziare che quest’ultimo dato non è un’attenuante, bensì un’aggravante, perché nella totalità dei casi, la crisi è effetto delle politiche aggressive o di rapina della stessa egemonia sessista di classe che genera il crimine e la dinamica femminicidiaria in questione.

Il femminicida rituale patriarcale è pertanto l’incrocio fra un fanatico totalitario, un serial killer e un padre padrone, e il suo gesto si configura in tutto e per tutto come l’attuazione di una escalation dello stupro punitivo di gruppo. A ben riflettere, il suo crimine, sul piano giuridico, è in prospettiva potenzialmente più grave e pericoloso del generico omicidio o del genocidio, o del genericidio etnicamente marcato à la Warden, perché  non colpisce tanto il singolo individuo o la singola etnia, ma costituisce piuttosto un attentato all’umanità come tale; sul piano stricto sensu antropologico, appartiene allo stesso livello di civiltà in cui si estrinseca il rito del cannibalismo.

Troppo tardi per non credere in Dio. Lilith, di Davide Nota

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In questi giorni esce nelle librerie Lilith, primo romanzo di Davide Nota -scritto tra il 2015 e il 2019-. «C’è, subito, il sentimento di una profondità. Il bisogno di aprire ferite» ebbe a scrivere Roberto Roversi in un commento ad una delle primissime pubblicazioni di Nota, e lo stesso appunto allarga la sua ombra sino a Lilith, diventandone l’ennesimo incipit: «[…] Il testo mi ricorda che non sempre nell’inferno c’è soltanto il fuoco.»

Le formule con cui la letteratura italiana attraversa oggi la narrazione della meccanosfera sono spesso sovraffolate di catastrofi. Stanche catastrofi. Ecco perché il mosaico di appunti che Davide Nota ha voluto capovoltare in romanza è una lettura decisiva, e lo è in quanto dichiara l’inattualità di ogni momento storico, e quindi l’invasamento dei tempi, la scollatura in cui inscenare un radicale ripensamento della tecnologia come luogo di riscatto degli universi sepolti e nascituri: «Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente.». Oppure: «Si torna alla figura dell’ebreo errante, dentro la storia come corpo (di schiavo) eppure mai come spirito (libero). Il tempo che egli attraversa, non l’ha mai contenuto. Per questo non può esistere in nessuna dialettica (e dunque in nessuna avanguardia). E il suo ritorno non si svolge a ritroso.»

Ma decisiva lo è anche in quanto contravviene all’impiego della tecnologia per stuccare i mancamenti della pagina, le sempre più insistite defezioni rispetto all’imporsi di linguaggi altri. In questo senso, Davide Nota sceglie di abitare in pieno quel vibrante tracollo che è forse l’andamento proprio di ogni alfabeto nel momento della sua riscrittura: «Oggi l’antenato mi ha detto che la nostra è una crisi dell’alfabeto mentre nel nuovo mondo regnerà l’ideogramma.»  Bene che Luca Sossella abbia saputo intuirne il fermento, e bene che il testo continui ad infittire la sua già vasta piattaforma di colloqui (alcuni nomi: Mariangela Guatteri, Alice Piergiacomi e il Collettivo ØNAR -con cui si è sviluppato un percorso di ricerca teatrale-) 

«Io mi sento davvero come dice Gide (altro angelo custode del testo) nei Nutrimenti terrestri solo un lettore» mi scrive Davide durante una nostra conversazione prima dell’uscita del libro, confermandomi così quanto già vien fuori da una prima lettura: l’autore ha da essere responsabile soltanto dell’orlo.

Torneremo a parlare di Lillith. Per il momento, ne pubblico alcuni estratti in anteprima.

 

13.

Il mio nome è Brenda ma non sono sempre stata io. Ero un bambino timido. Mi chiamavo Alexander. Le generazioni passano ma il mondo è sempre lo stesso. Come uno spirito vagante egli ora vive in me. Come un ricordo. Una barca. Una bara che arde nei mari del Nord. Ho fatto l’esperienza della morte. Della mutazione lucida. Ho costruito un cerchio di pietre sul pavimento della stanza. Al suo centro ho posto una sfera dove mi osservo capovolta come nell’occhio di un ciclope. Una biglia è una biglia di smeraldo sa di terra nera e felci. Adesso suonano alla porta. È il mio omicida ma io non lo ricordo. Così farò finta di danzare, di esserne lieta. Gli offrirò un drink. Lui mi darà in mano cinque banconote. Poi mi condurrà nel piccolo corridoio in ombra dove inizierà a toccarmi spingendomi da dietro, come un breve assaggio prima del pasto finale. Eccolo, mi strangola. Ora ricordo. Uscendo dalla cucina avevo sempre la visione di un manichino bendato. Aveva un largo seno e vaste gambe da atleta. Non aveva le braccia e dall’incavo del collo si espandeva questo fungo di plastica nera che mi terrorizzava. Dal vetro della por- ta-finestra s’affacciava un gatto ed io pensavo che voleva dire la morte. La sorte. Quando iniziai a masturbarmi sognando di avere una fica era troppo tardi per non credere più in Dio. Così scelsi di avere entrambi i sessi ed entrai nella mitologia.

 

57.

Il distacco finale dell’occhio dalla carne umana. È diventato un uovo, l’occhio, da deporre tra le pieghe della sorgente. L’uomo è tornato cieco, finalmente. Ha partorito il suo intelletto. Adesso non gli appartiene più. Adesso può toccare il sole.

 

76. 

(per Mariangela Guatteri)

Il carro ha l’incarnata assassinata che si è persa tra le foglie da cui cade la yogin, la riassorbita. Oggi l’antenato mi ha detto che la nostra è una crisi dell’alfabeto mentre nel nuovo mondo regnerà l’ideogramma. Ma esiste un terzo livello (lei dice) in cui l’immagine viene toccata. A questo ci prepara il culto che prepariamo. Lilith tesse le felci, le piante tintinnano in coro. Lega un anello di crini al ramo giovane d’un faggio mentre un seme ad elica vola come fuggendo lontano. Era il linguaggio delle streghe quando rubavano il cavallo. È più profonda lei dice la vita senza più simboli quando l’icona non predice altro che sé stessa.

 

83.

Endimione

 

I.

Tutto è raccolta. Quando l’astro eclissa

come un veliero l’uovo luminoso

da cui risorge Fanes, esistiamo.

E tutto è luce. O dove il caos si schiude

una saetta improvvisa. E il fiume scorre.

Qui siamo, nelle forme destinate,

accolti. Non io o tu ma questa palpebra

di luce prenatale, questa sfera

che ora chiami “il motivo”. È come un sogno dove

non scisso ma infinito il flusso

di energia e materia pervade il fine.

E dunque nasce. Un grattacielo ha occhi

di fuoco e mille pensieri. Il pianeta

è in fiamme. Io contemplo lo sbocciare degli eventi

come rivelazione. È un vento tiepido di marzo

nella notte fatale, dove tutto accade.

I lampioni esalano sangue. Il seme.

 

95.

L’Yggdrasill è addobbato. Prende fuoco, si spezza. Le luci erano dolci ma non furono risparmiate dall’evento sterminatore. Gli infissi cedono. Una fotografia, una foglia di ippocastano, una mano serrata di cadavere è un guscio vuoto che affonda nella terra nera. Siamo giunti allo specchio di noi stessi che sono tutte le cose nella solitudine in cui svanisce la menzogna di credersi in un cammino. Eppure non è vero, perché anche queste sono solo parole, utili al giudizio, a chi ha una posizione. I ripugnati mangino merda quanto gli scettici! La stirpe dei terrorizzati è stupida quanto quella del lume. Ribellarsi allora signifi cava contemplare senza interpretazione il giano bifronte delle possibilità. Ma anche l’impossibile sarebbe a portata di mano se solo prendessimo atto di non essere un uno ma in uno. Non secondo nostra volontà, tuttavia, ma in Cristo, Buddah e Allah nostri signori e nella figlia loro e sposa ventura Fatima, vale a dire lo spirito santo, vale a dire la Maddalena madre Maria degli universi sepolti e nascituri.

I poeti Apartheid: Angelo Vannini

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Tre poesie inedite

di Angelo Vannini

 

 

Un uomo

Aggiornato. Un uomo

mi era saltato vicino,

col suo nudo

vestito di passi. Era

nero come la notte, freddo

più del volto, stanco

N come noncuranza

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[Questo pezzo è uscito sulla rivista “Qui Libri” di settembre. Mi è stato chiesto di scegliere una parola che testimoniasse in qualche modo, stilistico ma anche tematico, per la scrittura del romanzo Parigi è un desiderio. In coda al pezzo, un breve estratto del romanzo.]

di Andrea Inglese

 

La noncuranza è il paradiso degli ansiosi, e l’età dell’ansia è la nostra, contemporanea, senza scampo, in costante precipizio di nuove prestazioni.

cinéDIMANCHE #31: Vertov, Frampton, Gioli

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Cineocchi, per uomini senza macchina da presa

 

 

 

1.

“Vertov: lo sguardo e la pupilla”

di Mariasole Ariot

 

 

 

Un cineocchio”, un manifesto, una dichiarazione: togliere dal cinema ogni forma di teatralità, di soggettività per (ri)portare il cinema alla sua essenza, dove il raccontarsi (il film che racconta il film) precede e quasi cancella il raccontare. 

È con L’uomo con la macchina da presa che Vertov libera lo spazio dalla sceneggiatura, dalle storie, dai personaggi, esponendosi allo sguardo dello spettatore nell’intento di svegliarlo dalla teatralità e metterlo di fronte al reale.


Un reale fatto di movimento, di metasignificati, di spazi, luoghi cavi da riempire. Un cinema vuoto prima dell’arrivo del pubblico, poi la città addormentata, il risveglio, la ripresa del lavoro, la frenesia, e di nuovo il ritorno alla sala, a quello spazio di significati che non ha bisogno di entrare nella soggettività possibile alla ripresa ma piuttosto farla scomparire. Una distrazione necessaria alla dichiarazione di intento: nessuna posa, nessuna recitazione, nessun’intimità manifesta se non raccolta in un corpo di spalle.

Catena di montaggio, una ciminiera.

E’ il 1929: lo stalinismo è già pienamente affermato. Eppure, all’interno di questo dispositivo di potere la zona occupata dall’arte non è ancora “sotto controllo”. Il lavoro di Vertov è quindi tra gli ultimi della avanguardie artistiche russe che si muovono libere dalla costrizione.

Se gli elementi già prefigurano lo stato delle cose successivo, l’intento non va in quella direzione. Si tratta piuttosto di una ribellione nei confronti di ciò che lo precedeva: un passato di costruzione, fantasia, messa in scena. L’artista, nato in Polonia e trasferitosi poi a San Pietroburgo, si ribattezza – nella scia del futurismo – con il nome con cui poi verrà riconosciuto: Dzigva Vertov che in urcaino è: trottola.

Se nell’epoca del cinema muto fondamentali alla narrazione erano le didascalie che intervallavano e preparavano lo spettatore tra una scena e l’altra, nell’Uomo con la macchina da presa ogni spiegazione salta, viene cancellata. Resta solo ciò che resta della vita al suo grado zero, non scrittura che ri-racconta il mondo, ma un mondo nel suo darsi in quanto mondo.

Un manifesto contro il teatro, contro la costruzione. Ma la stessa costruzione che voleva distruggere si sposta direttamente sull’apparato di ripresa: è la telecamera, come un occhio in movimento, a costruire la realtà: sformandola, velocizzandola, rallentandola ( stop motion, freeze frames), innovazioni tecnico stilistiche che mostrano come sia l’obiettivo stesso della macchina a dettare legge sul corpo dell’esistenza.

Non una realtà che viene plasmata a servizio della ripresa, ma una ripresa che – nel suo movimento, nel gioco di assemblaggio e decostruzione – mette in forma un reale duro, secco, di sottrazione.

È forse quindi la forma più estrema del cinema muto, perché se il mutismo precedente tentava di sopperire alla voce attraverso sguardi e racconti, in Vertov il mutismo non chiede giustificazioni, non si pone come “difetto” o un “non ancora” ma all’opposto diventa esso stesso parte integrante e fondante di ciò che non dev’essere detto ma solo visto.

L’occhio all’interno della cinepresa,  nell’ultima inquadratura, fa da protagonista. E’ il senso della vista, non la parola scritta, non la parola che l’immagine produceva, ma pura rappresentazione di un reale nudo.

Un intento che si spinge verso la straniamento dell’osservatore. Ed è forse proprio questo straniamento che non permette di poter raccontare ciò che si è visto (come lo si potrebbe fare rispetto ai lavori precedenti cinematografici o ad un libro, una pièce teatrale) : l’impossibile da raccontare diventa allora la possibilità di avvicinarsi al dispositivo. 


Il protagonista vero è dunque ciò che sta dietro : lo sguardo, la pupilla. 

 

2.

Film, “Ultima Macchina”

estratto* da Hollis FramptonFor a Metahistory of Film (1971)

 

Ho voluto chiamare il film “l’Ultima Macchina”.

Per quanto possiamo ricordare, un tempo le macchine grossomodo corrispondevano per dimensioni alla gamma dei mammiferi. La macchina-chiamata-film è però un’eccezione. Siamo soliti pensare alla cinepresa e al proiettore come a delle macchine: in verità non lo sono. Li potremmo definire “parti”. La pellicola stessa, così flessibile, è tanto parte della macchina-chiamata-film quanto il proiettile è parte dell’arma da fuoco. […] Dal momento che tutte le parti combaciano, la somma di tutti i film, e di tutti i proiettori e cineprese del mondo costituisce un’unica macchina, una macchina che è sino ad ora il più ambizioso artefatto mai concepito da un essere umano (con l’unica eccezione della specie umana stessa). Un continuo rinnovo di materia prima va ad ingrossare ogni giorno questa gigantesca macchina; non ci deve sorprendere dunque il fatto che qualcosa di così grande possa inghiottire e digerire l’intera sostanza dell’Era delle Macchine, soppiantando finalmente l’interezza con la sua carne illusoria. Avendo divorato tutto il resto, la macchina-chiamata-film è l’unica sopravvissuta.

Se siamo dunque condannati al compito […] di smontare l’universo e fabbricare da questo ammasso di cose un artefatto chiamato Universo, è ragionevole supporre che un simile artefatto somiglierà alle cripte di un infinito archivio di film, costruito per conservare -in un eterno e gelido immagazzinamento- il Film Infinito.

 

*L’estratto fa parte di una prima ipotesi di traduzione italiana -curata da Giorgiomaria Cornelio (La Camera Ardente)- che verrà presentata durante il Weekend on the Moon (Nomadica, Bologna)

 

 

3.

L’uomo senza macchina da presa

di Paolo Gioli (1973-’81-’89)

 

«Questo film, come dice il titolo vertoviano è stato eseguito senza macchina da presa, più precisamente è un utensile autoprogettato per restituire immagini, liberate dall’ottica e dalla meccanica. Lo sostituirsi alla cinepresa tradizionale fa parte di un mio, ormai prolungato gesto verso la spogliazione di una tecnologia di consumo, tossico della creatività pura. Questa strana cinecamera è una semplice asta cava di metallo, spessore cm 1, larga cm 2 e alta poco più di un metro. Alle estremità due bobine raccolgono il film in 16 mm. Il suo trascinamento avviene manuale, con tempi e spazi intermedi. Le immagini entrano simultaneamente attraverso 50 fori distribuiti su di un lato in prossimità di ogni fotogramma, i quali vengono in sostanza a comporre 50 piccole camere obscure a foro stenopeico (dal greco Stenos=Corto e dal Tema Op di Orao=Vedere). Questi piccolissimi fori messi di fronte, per esempio, ad una figura in piedi, la vanno ad esplorare nella sua verticalità senza però alcun movimento, proprio perché ogni foro riprenderà il punto, il dettaglio in cui si verrà a trovare. Uno dei risultati più evidenti sarà appunto, quello di trovarsi di fronte ad un “movimento di macchina” mai avvenuto. Compulsazioni pneumatiche un po’ stregate; allontanamenti e attraversamenti sul volto e sul corpo ricostruiti con cinquanta punti-immagine.»

 

 

 

⇨ cinéDIMANCHE

Il mio Antropocene

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di Giacomo Sartori


Sull’utilità pragmatica del concetto di Antropocene, e sulla sua propensione, così come è nato e viene propalato, a nascondere l’origine dei singoli problemi e le responsabilità, e quindi anche a complicare l’individuazione di strategie non velleitarie per contenere le catastrofi, mi sembra che ci sia molto da discutere, moltissimo. Ma è innegabile che l’Antropocene, con i suoi sconquassi e minacce, sia ormai sotto gli occhi di tutti, ogni giorno di più. Meno noto, ma fondamentale, è che molti, tra gli altri Charles Fourier (Détérioration matérielle de la planète, 1820-21, pubblicato postumo nel 1847), l’hanno visto arrivare per tempo, e che quasi tutti i suoi passi più nefasti sono stati volontaristici e tutt’altro che consensuali, insomma politici. E quindi non era poi così ineluttabile come si da per scontato, sopravvalutando il peso della demografia, e l’umanità non è parimenti colpevole. Per quanto mi riguarda l’ho avvistato, nel mio piccolo, ben prima che il suo nome venisse coniato. E mi ha poi affiancato, come un compagno ormai inseparabile, nel lavoro che faccio.
Quando avevo sei anni la mia famiglia ha traslocato dall’appartamento che avevamo in affitto in città alla villa di mia nonna in collina. Erano solo una manciata di chilometri dalla città di distanza, ma era un altro mondo. Un complesso meccanismo dominato dalla vegetazione, addomesticata ma pur sempre fieramente autonoma, con la sua energia linfatica e i suoi cicli, e dove subordinatamente c’erano muri, viottoli, boschetti, piccole frazioni con case coloniche e qualche villa signorile. E dove si muovevano a loro agio animali di varia taglia e indole. E anche naturalmente, pure essi di casa, abitanti umani, con le loro abitudini e la loro lingua. Lì ero straniero. Sapevo intrufolarmi e farmi accettare, tessendo amicizie intrinsecamente asimmetriche, come ho poi fatto tutta la vita, ma ero un essere alieno.
Questa funzionale coabitazione di natura e essere viventi traeva la sua forza dalla continuità e dalla ripetizione, era radicata in un passato che si avvertiva molto antico. Era evidente che ogni più piccolo elemento affondava nel tempo, dal quale traeva una sua invincibile inerzia, ribadita dalla lingua e dai gesti. E proprio per questo le novità avevano dirompenza di meteore. Perché in realtà tutto stava cambiando. Un’estate è comparsa una falciatrice a motore, pilotata da un ragazzino appena più grande di me seduto come un motociclista, che con le sue due larghe chele di aragosta faceva in due ore il lavoro che richiedeva molte giornate di fatica con la falce. E l’anno dopo è comparso un trattore a cingoli Fiat, che avanzava minaccioso e ostinato con un frastuono di ferraglia, e con le sue unghie dure incideva le carreggiate e faceva tremare la nostra vecchia casa come ci fosse un terremoto. E subito sono scomparsi, subito non ci ho fatto caso che le due cose erano legate, i buoi, diventati ingombranti e desueti. D’improvviso basti, finimenti, fruste, aratri di legno, erano reperti impolverati e quasi curiosi.
La stradetta secolare cinta sui due lati da alti e bianchissimi muri a secco che saliva dal paese a valle, è stata trasformata in carreggiabile a doppia corsia, dove ci passava comodamente un autobus, delimitata da cemento. L’asfalto guadagnava terreno come una lingua ingorda, mangiandosi perfino il saliscendi finale per arrivare da noi, un tratto della via romana Claudia Augusta. Per decenni ha resistito solo la piazzetta del borgo, poi quando si è riempita di auto è stata sigillata anche quella. In pochi anni la plastica ha invaso case e aie, le spazzature sono proliferate come infestazioni micotiche, e la dieta è cambiata: la pasta ha sostituito la polenta di mais, la carne è diventata normale. Intere piane sono state invase da caseggiati di calcestruzzo e parcheggi. La vita era più facile e molto meno dura. Nessuno dei giovani faceva più il contadino a tempo pieno, semmai era un secondo lavoro, finiti i turni in fabbrica. Prima di bere l’acqua delle fontane bisogna però vedere se c’era scritto che era potabile. E anche la frutta non si poteva più mangiarla dall’albero. Le lucciole e le rondini si sono diradate, e poi sono scomparse per sempre. Le fumosità marroncine che tappavano ormai la valle hanno preso l’abitudine di salire verso di noi. A cose ormai concluse, sarebbe poi arrivata anche la nuvola micidiale di Chernobyl. Moltissime persone morivano di cancro, vai a sapere le cause precise.
Tutto stava cambiando, e mia nonna si stizziva, sentiva che lei non poteva stare con le mani in mano. Era già anziana, e ormai del grande patrimonio non restava quasi più niente, però doveva muoversi, se non voleva rimanere tagliata fuori. Si è sbagliata anche in quello. Ha comprato un cavallo magro e collerico, che non ha mai ubbidito a nessuno, e un carro troppo pesante, che non è mai uscito dalla rimessa. Non aveva capito che la rivoluzione era ben più radicale, e era basata – i lontani anni in America avrebbero dovuto metterla sulla via buona – sui motori. Del resto i suoi vigneti erano troppo pendenti, per portarci le macchine.

Senz’altro la mia scelta di studiare agronomia va ricondotta in qualche modo a quel groviglio di natura e tecniche umane che mi aveva tanto colpito. Mi sono iscritto a Firenze, facoltà rimasta inceppata nell’Ottocento, e per certi versi al Rinascimento. Tra gli allievi c’erano conti e marchesine bronzineschi, e erano completamente assenti i computer, la statistica, i modelli matematici. C’era però una rinomata scuola sui suoli, e io ho fatto una tesi in quel campo, e poi ho continuato per tutta la carriera a occuparmi solo di terra. Noi specialisti ci sgolavamo per dire che i terreni soffrivano, spesso morivano, erano spazzati via. Nessuno ci ascoltava, eravamo visti come patetici passatisti. Solo negli ultimi anni ci si è resi conto che le terre coltivabili sono limitate e fragili, e sono insostituibili. Spesso però è troppo tardi.
Studiavo soprattutto i suoli di montagna, che interessavano ancora meno. Un pomeriggio ho sorpreso il direttore della istituzione per la quale lavoravo che mi prendeva in giro per la mia attrezzatura e la mia strumentazione antiquate. Un professore di Zurigo è però venuto a cercarmi: quegli studi antiquati che avevo fatto, che legavamo i caratteri dei suoli all’altitudine, e insomma al clima, potevano essere utilizzati secondo lui per prevedere gli effetti dei cambiamenti climatici. In Italia nessuno parlava di cambiamenti climatici, lì da loro li davano per scontati. Abbiamo lavorato per tanti anni assieme. Lui era il mago delle tecniche più innovative, io ero principalmente il braccio organizzativo, che conosceva come le sue tasche i terreni di montagna e le loro minime paturnie, però insomma respiravo anch’io quel fermento scientifico. Finché è arrivata la crisi, e fondi per quelli studi, e più in generale ambientali, nel nostro paese non ce ne sono più stati. Avevo comunque imparato che di molte questioni basilari, e men che meno degli intrichi di correlazioni che caratterizzano gli ambienti complessi, non ne sappiamo nulla, e che non si può modellizzare ciò che non si conosce. Di qui la mia diffidenza per i cosiddetti modelli climatici, e per la scienza stessa, che da sola – senza coinvolgere gli uomini e le loro strane passioni – non può dare risposte.
Negli anni successivi ho dovuto ripiegare sui terreni dei meleti e dei vigneti, dicendomi – certo ingenuamente – che conoscendoli beni si sarebbero potuti proteggere e risparmiare, limitando i danni al contorno. Anche lì quello che facevo e faccio non interessava quasi a nessuno, lasciando stare le parole. Gli istituti di ricerca parlano e spendono per l‘agricoltura di precisione, come se le conoscenze di base, che mancano, potessero essere surrogate dai gps e dai sensori dei droni, o dall’intelligenza artificiale. E si inebriano di ingegneria genetica, come se si potesse far quadrare il cerchio delle risorse energetiche e degli inquinamenti con quella. Quando ogni vero conoscitore dell’agricoltura del mondo, e non solo dei paesi ricchi, sa che sono le tecniche antiche che sfamano, e sfameranno, la maggior parte degli uomini, dando sollievo al pianeta. E che solo tornando a quelle, certo affinandole e migliorandole, potremo forse sopravvivere. Ma queste cose gli antropocenisti, inebriati dalle stesse tempeste tecnologiche delle quali vituperano gli effetti, e sviati da fantascientifici sogni di redenzione, non le sanno, e forse non le vogliono sentire.

 

NdA: queste consideraizioni mi sono venute riflettendo in vista del dibattito di oggi al Book Pride di Genova, moderato da Michele Vaccari, e con Laura Pugno, Matteo Meschiari e il sottoscritto: Dopo la grande cecità. Scrivere l’Antropocene.

 

Da “Dire il colore esatto”

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[Pubblichiamo alcuni testi del nuovo libro di poesia di Matteo Pelliti, Dire il colore esatto, con disegni di Guido Scarabottolo e prefazione di Fabio Pusterla, Luca Sossella, 2019.]

 

di Matteo Pelliti

 

Coraìsime – In un mondo figlio di un tempo sbagliato

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di Domenico Talìa

«Le aveva viste da bambino fuori dalle case in campagna. Appese per un laccio nero. Vecchie bambole mutilate con il viso squagliato dal sole. I capelli uniti in un unico grumo nero avevano superato inverni e lunghe piogge estive. Ad alcune mancavano gli arti, erano solo una testa e la parte superiore del busto […] Le chiamavano coraìsime e tenevano lontano il maligno […] Stavano a difesa della casa con i loro volti sfigurati dal tempo e gli abiti stracciati di chi lotta col buio. […] Adesso che la strada passava proprio in mezzo a quelle case, le bambole non c’erano più. Non c’era più niente da difendere, tutto era stato predato.»

Sono le atmosfere intense del Sud, lontane da stereotipi purtroppo molto frequenti, a riempire questa storia chiusa tra l’Aspromonte e il mare. Un padre imprigiona la figlia in una vecchia casa dopo la morte della moglie e s’imprigiona insieme a lei. Bernardo Migliaccio Spina è un regista che ha già intrecciato amore e magia in un lungometraggio e con il suo romanzo breve Coraìsime (Rubbettino Editore, 2018) ritorna nella sua terra per riempire le vite di sensazioni, impulsi e flussi di sentimenti che ingarbugliano quel mondo. L’unico rischio è la nostalgia, ma i pomeriggi noiosi del Sud hanno contribuito a comporre la forma del narrare di questo piccolo libro che non manca certo di originalità e lascia una netta impronta sul lettore scosso da una narrazione tormentata tra dolori taglienti e affetti infiniti.

Paolo è un piccolo commerciante, figlio di un contadino e di una bidella. Ha studiato ma è tornato a casa perché non sa stare lontano dagli ulivi della sua terra. Sposa Adele che gli dà una figlia, Marta, ma muore troppo presto. Dopo la morte di Adele, Paolo decide di lasciare il suo mondo e si chiude in casa con la figlia. Marta abbandona la scuola e segue il padre in questa tragica scelta. Quando Paolo rapisce Giuseppone, la sua vita e quella di Marta prendono un abbrivio definitivo e Marta riesce a fuggire «quel male che l’aveva sedotta per troppo amore». In questa storia brandelli dei fatti appaiono di tanto in tanto tra pagine dominate dal racconto della coscienza del protagonista. Un uomo vede la fine di un mondo e vuole finire con esso. Un universo vicino alla sua fine nel quale gli «uomini parlavano ai sassi, ai semi, somigliavano alle felci, alla fitta ginestra, alle zolle ruvide a lato delle mulattiere». È una grammatica di visioni quella di Migliaccio Spina, è una narrazione di parvenze che amplificano la realtà anche quando sembrano attenuare le sue manifestazioni.

Le coraìsime, bambole di pezza da appendere davanti casa, un tempo in Calabria scandivano il trascorrere del digiuno quaresimale tramite sette penne di gallina conficcate a raggiera in un’arancia, una patata o un limone sulla testa o sotto i piedi delle pupe. Ogni domenica si sfilava una penna. L’ultima certificava la fine del digiuno quaresimale e veniva tolta la sera del Sabato Santo, quando le campane ritornavano a suonare a festa per la Resurrezione di Cristo. Nel racconto di Migliaccio Spina le coraìsime sono il simbolo di un mondo perso, gettato via dai figli che alla morte dei loro vecchi hanno venduto tutto perché non si sono sentiti più parte di quella terra, di quel modo di vivere. In questo nostro tempo le coraìsime non servono più a ricordare una quaresima che nessuno vuol fare in un’epoca di bulimia, in una società che non sente alcun bisogno di digiunare, non avvertendo alcun senso del limite. La storia di Paolo, Marta e Giuseppone, dei loro luoghi bellissimi carichi di sentimenti estremi ci chiede di sforzarci per poter comprendere cosa è realmente avvenuto e cosa sia diventato oggi quel mondo figlio di «un tempo fotocopiato male».

Tempimorti

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di Filippo Polenchi (testo) e Andrea Biancalani (foto)

(#Ufficio, 2017) Ho sentito prima M. che sospirava. Un rilascio di aria veloce, rapidissimo epperò pieno di respiro, al colmo di una boccata d’ossigeno catturata nei polmoni e poi rimessa in libertà, alla svelta, perché forse aria già avvelenata, già corrotta dall’anidride carbonica che dovrebbe essere l’ultimo passaggio dell’atto. E invece no. Invece qui tutto t’avvelena. Mi rendo conto che tutti sospirano. Sospira M. come oggi, ma più di tutti sospiriamo io e E. Me ne sono reso conto da poco: E. sospira tantissimo, soprattutto quando cammina e quando sta seduta, quindi sospira praticamente per tutto il tempo che rimane in ufficio. A volte la sento mollare questi pacchetti d’energia sotto forma di respiro, tutta questa accelerazione quantica d’infelicità fin da qui, da questa stanza. C’è lei che sembra sempre così sola e che sospira. Inspira aria ed espira questo mix tossico di cose andate storte. Poi invece cammina qui, accanto a me, per contingenza, nel corridoio. Replica la stessa solenne liturgia nera. Non si sfugge dalla sua vita, dal suo appartamento solitario (lo immagino: non ci sono mai stato), dal suo pendolarismo cittadino e automobilistico, abbastanza irritante perché accumuli qualche minuto di ritardo ogni giorno: un paio di minuti al lunedì per una coda sul Piazzale, un paio il martedì per i lavori della tramvia eccetera eccetera. Dai suoi piccoli malori isolati e senza nessi, grappoli di sintomi senza significato e conseguenze, che però le fanno aumentare il ritardo mattutino. Mi sono sentita male, dice a volte, non spesso, ma talvolta sì. Non riesco a immaginarne una vita oltre a questo recinto di sospiri e di fastidi. Non riesco a vederla al cinema, con gli amici, a bere, a fare l’amore. Ora ha attaccato il telefono: una chiamata a una collega che lavora a distanza (beata lei), una conversazione cordiale, gentile, su aspetti legati a un singolo lavoro, ma insomma, quella che diremmo una telefonata tranquilla e quando ha attaccato, salutando la tipa di là dal telefono con un “ciao cara” ha sospirato. Non uscirà mai dai suoi sospiri. E anch’io sospiro. Lo faccio spesso, per rabbia. Il sospiro è il lamento, il lamento è vento biblico di impossibilità ad agire. O sospirando si agisce?

(#In coda, 2019) In auto, per andare a lavoro: grande anello di auto imbottigliate intorno. I soliti paesaggi di vegetazione disfatta, cementizia, indistinguibile. Case e villette costruite su questa porzione di Chiantigiana che è trafficatissima. Qualche volta, soprattutto negli anni scorsi e in inverno, ho percorso questa strada a piedi, per andare a lavoro (30 minuti da casa), ma è un percorso pericoloso, senza marciapiede, senza protezione, affogato nel gas di scarico delle auto. È un tragitto che fa ammalare ai polmoni. Ci sono case arroccate contro la massicciata del raccordo autostradale che passa proprio qui sopra, che designa dunque uno spazio-di-sotto con manifesti teatrali di spettacoli sfranti e disperati, stratificazioni di carta e colla, volti di attori ormai bolliti che si rincorrono nei teatri di provincia (Firenze è tutta provincia) per darsi un’ultima occasione di rilancio – faranno battere le mani a un pubblico anch’esso sfinito dall’inedia e dall’abitudine a ricevere il Nulla – ma anche cassonetti divelti, detriti di ogni genere, l’onda di comparsa-e-scomparsa delle siringhe per terra, un materasso mezzo bruciacchiato, sassi e resti di cemento sgretolato dalle colonne del viadotto: e quella casa che apre la finestra proprio sulla strada. Chi viene prima? La casa o la strada? Poco importa, per chi apre la finestra, fa entrare CO2 fra le stanze, espone le coperte della notte all’aria velenosa, poi le ritira, le rimette nel letto, ci dorme, le respira nottetempo. Questo paesaggio non lo capisco: è una giungla; liane e alberi infestanti, verde scuro, spugnosi, appiccicosi. C’è poco da capire: è così e basta, disordinato e rampicante, così proliferante che mi sembra una buona approssimazione dell’angoscia che si prova nei sogni, quando non si riesce a divincolarsi dalla prigionia di una stanchezza ottusa. C’è apparente vitalismo in questa vita che si riproduce incessantemente. È il selvaggio? È terzo paesaggio, biodiversità, dovrei amarla, rispettarla. Osservarla in maniera empatica, ma non ci riesco. Su Novaradio, al mattino, ascolto sempre un programma di musica soul. Non danno mai notizie, al contrario delle altre emittenti, solo musica soul. È una scelta de-responsabilizzante, forse, sebbene il momento delle news sia solo rimandato di poco. Adoro, però, ascoltare Otis al mattino: quando lo passano alzo il volume. Ma non stamani. Stamani non trasmettono niente che riconosca.

(#Area di sosta Q8, 2019) Ho fatto pausa pranzo, come spesso il venerdì, in auto: sportello aperto, gamba sul telaio del finestrino, all’ombra del cubo di cemento, ora vuoto, che ospitava prima il bar Luisa poi il bar Arcangeli e ora, appunto, niente. La successione ereditaria di quei bar è un romanzo naturalistico. Ora attraverso le pareti della zona-pranzo del bar, che sono tendoni di nylon trasparenti, ma sporchi perché da un anno e mezzo nessuno li pulisce, s’intravedono ancora un paio di tavoli, chiaramente vuoti; una bottiglia di acqua piena posata per terra, il bancone con la spina della birra impolverato, le marche delle birre – italiane, artigianali, non filtrate: tentavano anche di usare la ‘qualità’ come estrema salvezza, ma senza esserci riusciti a quanto pare – che sono ovali sbiaditi, come fotografie sulle tombe. Il vento della strada accanto fa sbatacchiare i tendaggi a ritmi sonnolenti. Ho gli occhi chiusi, tento di dormire per quei pochi minuti di pausa. Piccoli svenimenti per recuperare ore di sonno perdute a causa del raffreddore. Davanti a me, per tutto il tempo, un furgone porta-valori. Bianco, Fiat, con scritte sulle fiancate (“Spuma antiscasso” o qualcosa del genere, non ho preso appunti, non ho trattenuto la nota di colore che poteva essere decisiva). È stato tutto il tempo fermo di fronte a me, il motore acceso, i due passeggeri dietro i vetri blindati e chiusi, che sonnecchiavano. Un refolo di aria condizionata a congelargli il naso, l’ordine di non aprire per niente al mondo lo sportello o anche soltanto il finestrino. Prigionieri criogenizzati. Ho pensato: fossimo in un libro pulp o in un film poliziesco – l’atmosfera pare essere quella: stasi catatonica che prevede l’esito di un lungo percorso di male e di morte proprio qui, nel redde rationem del Far West urbano; minaccia incombente che spesso alita su ciascun nostro giorno, su ciascun nostro spostamento – se fossimo insomma in una pellicola di exploitation arriverebbero dei rapinatori, ucciderebbero i passeggeri, farebbero esplodere la lamiera blindata del carro e ruberebbero tutto quanto racchiuso nel ventre di piombo del bestione. Corpi crivellati, buchi di fucile enormi, corpi sventrati, lo stupore del sangue carnoso, delle buie budella riversate sui sedili, schizzate sui vetri anch’essi infranti dalle esplosioni e dai proiettili rinforzati o qualcosa del genere. L’oscena crudeltà di una messinscena che di fatto ripete su scenario urbano scene di guerra che abbiamo visto/non visto sui Tg della sera. Di fatto in quei servizi giornalistici non abbiamo visto il sangue, le frattaglie, le trippe umane sversate. Abbiamo annusato la minaccia, la precarietà, la sabbia, il report delle vittime, il conteggio delle risorse umane; eravamo nel pre e nel post, ma non nell’atto: impossibile da svelare per limiti tecnici o forse solo moralistici. Ma un regista pulp ha abbastanza forza e la cattiveria da trasportare effetti-di-guerra in landscape metropolitani. Insomma, alla fine della mattanza i rapinatori se ne sarebbero andati. Naturalmente io sarei figurato fra le vittime collaterali. La mia sola sfortuna sarebbe stata trovarmi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Anch’io sbudellato dai proiettili. Anch’io irriconoscibile come dopo un incidente automobilistico, come dopo un banchetto di zombi.

(#Ufficio, 2019) Ore 17.28. Due minuti non bastano a raccontare la noia, il feroce disprezzo per ogni manufatto dell’umano, la letargica e depressa voglia semplicemente di uscire, il basso voltaggio dell’esistenza, l’incredulità che un’altra giornata sia trascorsa così.

(#In coda, 2019) Sulla E78 appena dopo Siena, verso Grosseto. Ai lati campi di grano, un casolare diroccato con ferraglie e cocci in vendita e un grande cartello appeso alla facciata che dice: “Vendita permanente antichità”. Qui vicino c’è un posto che si chiama Orgia. Scorriamo a passo lento su due file, disposti nelle nostre auto. Nella mia: canzoni di bambini scozzesi, nursery rhimes scaricate da internet con un gruppo che rielabora antichi canti scozzesi. Molto bello, ad A. piace un sacco. Forse è un modo per imparare l’inglese, già adesso balbetta qualche suono a memoria. Impossibile acchiappare la teoria delle auto che mi sfilano accanto e che io sorpasso e poi loro mi sorpassano, il tutto a una velocità follemente ridotta. Ci sono le automobili coi finestrini sigillati per l’aria condizionata; la ragazza che sporge i suoi piedi – unghie smaltate di rosso, sandali marroni legati fino alla caviglia, le gambe lisce di fresco dall’estetista, abbronzatura leggera, cittadina, in direzione mare per perfezionarla; le auto pulite, quelle, come la mia del resto, pigmentate dalla pioggia di sabbia che ormai è l’enzima dell’estate (dimenticarsi le estati degli ultimi miei 36 anni, ormai solo estati post-clima, quelle di cielo avvolto dalla lastra per radiografie, oppure di cielo color polvere di caffè, che poi piove per tre minuti e sulle auto, per strada, sui vestiti, sulle tele degli ombrelli, sui cornicioni, sui fiori, sui ferri delle altalene nei parchi comunali si deposita una macula di sabbia desertica: è il soffio del millennio, la profezia pasoliniana ch’è tanto liberazione quanto incubo e così ogni liberazione dev’essere, distruttiva); un telefonino acchiappato dalla morsetta di gomma a sua volta appesa al bocchettone dell’aria: una mappa GPS disegnata sul display. Il cielo è grigio uniforme, appena ondulato, morbido, è la prima giornata da un mese a questa parte in cui il tempo sembra brutto. Sono dominato da un’angoscia senza nome: è l’angoscia dell’estate, è l’ansia di una stagione sfibrante, di pura sopravvivenza, tanto più difficile per me perché si suppone ci si debba divertire, liberare, vivere esperienze rilassanti e rigeneranti dopo un anno intero di lavoro: invece mi sfianca l’estate. Ora l’estate è per me il piazzale del lavoro, di cemento, battuto dal sole; l’odore di zucchero e petrolio dei tigli nella villa che ci ospita; il ventilatore in ufficio, le finestre sbarrate, chiuse, alle 9.30 del mattino, l’ondata di calore per raggiungere casa. E ancora: gli inciampi, la pelle appiccicata di sudore, l’afa che mi restringe i bronchi e non respiro; ogni impegno è un limite insopportabile, ogni azione è definitiva e devastante.

(#In cucina, 2019) Aspetto che il caffè sia pronto. Per viaggiare per strada, sui viadotti, nelle gallerie, quando si apre la vertigine orizzontale della strada, in discesa magari, quando appare l’inevitabile, l’Incontrollato, il potenzialmente distruttivo, bisogna avere fiducia: fede che il ponte non crollerà, che le tue mani continueranno a tenere stretto il volante, che un colpo di sonno, un malore, un attacco di panico, una respirazione selvaggia, una aritmia burlesca, non ti faranno perdere i sensi e volare, in un bolo di lamiera e controsole, nel vuoto. Per prendere l’aereo devi aver fiducia che il pilota non sarà come quell’Andreas Lubitz che, quietamente, si è blindato nella cabina e ha diretto l’aereo – colmo di gente, ça va sans dire – contro le montagne. Un lavoro svolto pazientemente, lucidamente: una lenta degradazione verso la morte esplosiva. Bisogna avere fiducia nel mondo. A me, invece, viene da pensare d’avere sempre la casa infestata di formiche.

(#Ufficio, 2019). In attesa che G. mi dia relazione per una email. Tutte le nostre piccole morti.

(#Pausa pranzo, 2019) Importanti novità all’ombra dell’ex-bar Luisa. Dentro il bar tutto smembrato: portato via il bancone, la spina, i tavoli, le sedie, abbattuto parte del muro. Calcinacci in giro, cavi scoperti, forassiti. E un cartello affisso: Proprietà privata.

(#Ufficio) I minuti che passano tra l’accensione del computer – la macchina che ansima e ritorna alla vita, si sgela dal suo sonno notturno ibernato – e l’apertura del programma di posta elettronica. L’ansia per quello che arriverà, le richieste da sbrigare, le email con l’etichetta urgente, il carattere urgente del servizio che va esplicato il prima possibile. Per me – e presumo per tutti quelli come me – che non abbiamo una mansione precisa, che viviamo di piccole quantità di tempo che si sommano l’una all’altra, senza particolare valore, dove magari troviamo il tempo per fare piccole cose nostre, bazzicare siti internet che ci piacciono, interessarci alle cose che c’interessano, come se il tempo di lavoro, libero dalle tenaglie dei ritmi serrati, fosse un tempo di semi-libertà vigilata, nel quale troviamo il modo di proseguire i nostri commerci illegali. E allora, per quanto odiamo la nostra giornata di lavoro, ne siamo avvinti: siamo legati alle piccole povere occasioni di clandestinità (l’illusione di portare avanti un discorso-altro, di fare il nostro eroico lavoro sottobanco, di nascosto, al nero, approdare alla mitologia dello scrittore che lavora di giorno ma scrive di notte o scrive nelle pause: è una mitografia). Quando si sta per aprire la posta e l’emergenza – ci chiederanno documenti importanti, servizi di complicata burocrazia, roba da sfasciarsi gli occhi su Excel, sarà tutto dominato dal foglio verde di Excel – è potenza vitale, è viva, è un non-ancora ma tuttavia un è-presente, anche ora, foss’anche solo in forma di angoscia, vorrei fuggire. Smetterla con tutto. È tempo morto nell’angoscia.

(#In ufficio, 2019) Aspetto il temporale. L’hanno dato per certo, ovunque: sul sito dell’Aeronautica militare lo danno al 50%. È poco, mi rendo conto. Spero che arrivi presto, però, che spacchi la calura alogena, che incendi il cielo saturo di polvere esplosiva come una miccia, nella distrazione degli altri, mentre scatena un nubifragio che stronchi i balconi e rovesci le radici. È da questa radice che nasce la Reazione: immobilità, decelerazione emotiva, urla delle carni. Come fare a non vedere che siamo chiamati a diventare Insubordinati di noi stessi? Presto chiederemo un sorso d’acqua ai paesi scandinavi. Sono ossessionato dalla Fine. Sono già nella Fine, mi comporto come se dovessi affrontare – pur sapendo di non farcela – un Post. E così immagino, ma per rassicurarmi, che la Fine del Mondo arriverà per depressione. Una parola per oggi: psicosocialismo. C’è questa specie di pioggia di afidi sulle nostre carni.

(#Ufficio, 2019) Non ti riposi mai, non acceleri mai: è un tempo uniforme, terribilmente uniforme; un tempo glaciale, di premorte, intessuto d’ideologia e superstizione.

poveri curdi

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di Antonio Sparzani

Me lo immagino Erdogan, quando qualche suo manutengolo gli racconterà che ieri a Milano, davanti al consolato turco, c’erano tante persone volonterose che gridavano a favore dei curdi, con tante bandiere, con dozzine di sigle diverse, la maggior parte insignificanti (dei 5 stelle neanche l’ombra), me lo immagino dire al suddetto manutengolo di non seccarlo con queste inezie senza senso, magari ridacchiando un poco e pensando a come meglio far fuori il più Curdi possibile, con tutte le armi e il denaro che l’Europa allegramente gli fornisce. Sono andato, perché comunque mi pareva giusto, ieri nel tardo pomeriggio a questa manifestazione in via Canova,, dove tutti, moderatamente, per carità, esprimevano la loro volontà di pace e di sospendere immediatamente il conflitto al confine siriano. Alcuni cantavano Bella ciao, che va sempre bene e fa bello, altri battevano le mani alle parole dell’altoparlante: così esordiva il sindacato  “esprimiamo la nostra più viva preoccupazione . . .”. Ma per favore!

C’era una bella bandierona del PD che veniva fatta continuamente sventolare. Ah sì? Ma il PD non è forse al governo di questo paese, governo che, a differenza di altri, non ha ancora deciso la sospensione della vendita di armi alla Turchia.

Ma cosa aspetta il su non lodato nostro “giallo rosso” governo a prendere invece quei provvedimenti che soli possono forse avere qualche effetto sulla situazione. Convocare ufficialmente l’ambasciatore turco, richiamare in Italia “per consultazioni” il nostro ambasciatore ad Ankara, consigliare ai cittadini italiani ora in Turchia di tornarsene a casa, bloccare le importazioni commerciali dalla Turchia, chiedere fortemente alla UE di fare altrettanto, eccetera.

Il vero è che quando si toccano i soldi tutto il resto perde importanza, guardate il caso Regeni: bloccare le importazioni dall’Egitto? Manco a parlarne, scherziamo?