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Più dolore, più violenza in questa città

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di Carola Susani

Non so se ho tenuto bene il conto. Il Baobab ha subito a mia memoria 22 sgomberi. Perché allora esiste ancora? Perché dopo il primo sgombero – quello della struttura di via Cupa – è diventato un’altra cosa, una organizzazione agile e leggera che dà aiuto, l’aiuto base, minimo, una tenda, sacco a pelo, coperte, abiti, cibo, relazione, a chi non ha dove andare, gente che arriva, perché la gente arriva ancora, gente ricacciata indietro dai paesi europei, gente che non ha più la tutela umanitaria e così via. Volontari, sostenuti nel tempo dalla solidarietà diffusa, dalle persone comuni, dalle pizzerie, ai supermercati, sono riusciti in questi anni a dare pasti ogni giorno, a proporre visite guidate, corsi, aiuto a stendere curriculum, ma sono riusciti anche a giocare a calcio, a correre maratone, ad ascoltare musica insieme. Moltissimi passati dal Baobab hanno trovato la loro strada, in Italia o all’estero, è un posto dove si sta per un tempo limitato, un posto di transito. Chi ci passa dirà magari: ma è spaventoso, gente senza un tetto, nelle tende, esposta alle piogge torrenziali, e poi al freddo. È vero, non è un posto dove desidereresti vivere. Ma le istituzioni che dovrebbero trovare posti migliori, tetti e possibilità, non lo fanno, non l’hanno fatto finora e sempre meno vogliono farlo. Il Baobab permette di trovare una socialità, non lascia le persone preda inerme dei pericoli della città, vittima dei delinquenti, senza speranza, con l’unica strada possibile per sfangare la giornata la delinquenza; permette persino di fare piani, visto che almeno non devi pensare ogni giorno a dove andrai a dormire. Avere la possibilità di fare piani, è la condizione per uscire dalla povertà, senza non puoi. Il Baobab è stato sgomberato. Come sempre le tende e gli oggetti del campo sono stati distrutti. Ma allora perché ne parlo al presente? Perché il Baobab è inevitabile, finché ci sarà gente che ha bisogno, ci sarà grazie a Dio gente che aiuta chi ha bisogno. Nessuno riuscirà a farci smettere; ormai abbiamo esperienza. Il Baobab aiuta a contenere il disagio, evita la violenza, rende più sicura la città. Se il Baobab non ci fosse, il dolore e la violenza sarebbero maggiori. Ce n’è già tanto, non si combatte rendendolo più atroce, ma risolvendo i problemi delle persone: il tetto, la socialità, il lavoro, la cultura, la possibilità di fare piani, la speranza. Chi sgombera il Baobab vuole evidentemente più dolore e più violenza in questa città.

Chi sono Danièle Huillet e Jean-Marie Straub?

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di Gianluca Gigliozzi

[Gianluca Gigliozzi è sopratutto conosciuto entro una cerchia forse ristretta, ma esigente, di autori e lettori, a cui ha dato in pasto Neuropa (Pensa editore, 2005, pp. 236) un romanzo per certi versi neorabelesiano, eccessivo, fantasmagorico, dalla cui lettura nessuno può uscire con la stessa idea di cosa sia (e cosa possa fare) la letteratura italiana contemporanea che aveva prima di leggerlo. Ora Gigliozzi torna a noi, imprevedibile come sempre, con un saggio intitolato Straub/Huillet. L’enigma del visibile (Falsopiano edizioni, 2018, pp. 160). Ne pubblichiamo volentierissimo un estratto dall’introduzione. a. i.]

Nell’estate del 1992, al festival cinematografico di Bellaria, fermai, al termine di un dibattito, Paolo Benvenuti, che aveva presentato qualche ora prima uno dei suoi film più belli, Confortorio, e gli domandai quale fosse a parer suo il regista più importante dei nostri tempi. Mi rispose senza esitazioni facendo due nomi per me nuovi: “Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sono il futuro del cinema!”. Rimasi talmente impressionato da questa risposta (oltre che imbarazzato dalla mia ignoranza) che decisi di informarmi al più presto sui due coniugi alsaziani, che peraltro, come seppi in seguito, già dal 1969 vivevano a Roma. Da quel giorno non ho mai smesso di occuparmi di loro. Diversi anni dopo, al termine di un incontro pubblico presso l’Accademia dell’Immagine de L’Aquila, chiesi a Gianni Amelio cosa ne pensasse di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Lui, che non mi aveva mai visto prima, mi abbracciò energicamente e mi disse con gli occhi che gli brillavano di un entusiasmo giovanile che non dimenticherò più: “Ma loro sono la Grammatica!”.

Confessione di un amore ambiguo

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Un estratto da Confessione di un amore ambiguo di Angelo Di Liberto, romanzo edito da Centauria Edizioni, giugno 2018

di Angelo Di Liberto


Elaborazione del lutto. Fase due: rabbia.
Non sono andato al lavoro oggi e manco, ormai, da una settimana. Il mio unico chiodo fisso è tenerti fuori dalla mia testa il più a lungo possibile, Alma. 
Chiuderò ciò che ti appartiene in un magazzino e lo lascerò lì finché vorrò. Se tornerai.
Ci metterò disegni e vestiti. E tutte le scarpe che hai lasciato. E le creme. E i libri della Woolf. E la tazza con Betty Boop che usi da dopo il viaggio a Stoccolma. E le calamite attaccate al frigo: coccinelle di tutte le misure, colori e materiali, rivolte verso l’angolo sinistro in alto, tranne una che va esattamente nel senso opposto. Ti ho chiesto il perché e non me l’hai saputo dire. Un vezzo, ho pensato, un modo per affermare una volontà. Mi sono inchinato ai tuoi desideri, alle tue decisioni. Ero pronto a qualsiasi cosa pur di continuare a restare nel tuo destino. Alla stazione di Barcellona la prima volta che ci siamo stati, mi sono sorpreso nel leggere lo spagnolo destino che sta per “destinazione”. Tutte le direzioni sono un destino. Attraversare un binario sapendo che non è possibile incrociare le nostre sorti, invertirne il senso di marcia. Uscire dalla città senza rallentamenti, fermate, ritardi. Seduto con lo sguardo fuori dal finestrino. In mente la sensazione di trovarti all’altro capo del mondo.

Il Lorazepam fa al caso mio ma non so se ne ho in casa. Devo averlo buttato quando ho scoperto che ne abusavi. Capitava che rimanessi in piedi tutta la notte negli ultimi tempi, così ho nascosto le confezioni di sotto, nel bagno dei miei genitori attiguo alla loro camera da letto che dà sulla strada. Non ci siamo mai risolti a utilizzarla quella stanza. Sopra si stava meglio e si vedeva il mare.
I tuoi disturbi del sonno sono recenti, non giustificano il numero di pillole che ho trovato. Quattro confezioni nel mobile basso, sotto il lavello, alcune stanno per scadere, altre l’anno prossimo. Inghiotto tre compresse bevendo dal rubinetto. Benzodiazepine: sedative, anestetiche, ansiolitiche. Togliere di mezzo l’amore da tutte le cose.
Prendevi sotto gamba la tua insonnia. Simone diceva che a volte dormivi fino a quando rientravo.
Attribuivo la tua stanchezza alle ore forzate davanti alle tele. I tuoi soggetti, prima tradotti sulla carta dalla china, ora dai colori. I rossi avevano preso il sopravvento rimandando a riti simbolici in cui il sangue purificatore esigeva la sua centralità.
Penso a tutte le volte che hai lasciato le bottiglie d’acqua col tappo svitato in bilico sul tavolo troppo vicine ai tuoi lavori; a quando non trovavi il pennino col manico d’osso, salvo poi a recuperarlo nella borsetta dei trucchi in bagno. E poi le tisane lasciate a metà, quando non avevi voglia d’alcol e di spostarti dal divano. Al cuscino che ti mettevo sotto i piedi nudi, che finiva puntualmente sopra l’altro a reggerti la testa. Per non parlare dei tuoi vestiti. Tanto brava a scegliere i colori sulla tela quanto a confonderteli addosso.
Ho improvvisamente bisogno di sedermi per terra, le gambe si piegano e a nulla vale che io faccia resistenza aggrappandomi al lavello.
Sono debole e non riesco a muovermi. Le benzodiazepine hanno fatto effetto. Tra poco sarò libero per un po’ dai pennini d’osso e le tisane, dai cuscini, i vestiti e i colori sulle tele. Alma diamoci appuntamento davanti alle fontane magiche di Barcellona o nel Burren, dov’è tutto calcare e somiglia alla tua pelle, o nel negozietto di ambra bianca a Stoccolma, nel reliquiario dei tuoi denti.

Colpi alla porta. La sensazione è amniotica, arrivano attutiti. Un altro colpo. Il verde del tetto si è schiarito, le pareti si disgregano. Qui avevi sostituito il cielo con un prato. Ancora un po’ e non vedrò più nulla.
Mi sento sollevare. Non può essere! Il Lorazepam gioca brutti scherzi: Roberto non è qui ma a Londra. Cerco di non addormentarmi. Ci sono pure Simone e Marilina. Mi mettono seduto e mi bagnano il viso.

Il sogno di Wapee

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di Antonio Sparzani

I Piedi Neri sono una tribù di nativi abitanti di una regione dell’America del Nord, al confine tra Stati Uniti e Canada. Di quelli, insomma che poi, i “visi pallidi” scelsero di chiamare “pellerossa”. Hanno conservato un grande patrimonio di storie della loro gente e della natura nella quale questa gente è da sempre cresciuta. La vicinanza alla natura, così tipica di queste popolazioni, si fa sentire anche nel modo in cui l’aspetto degli elementi della natura viene spiegato.
Wapee era figlio di un Capo e per entrare nella maturità doveva passare quattro giorni e quattro notti da solo sulla cima di una collina isolata, finché non avesse avuto una visione dell’adulto che sarebbe diventato.

La prima notte non gli apparve alcuna visione, e cominciava a scoraggiarsi; ma all’alba i primi raggi del sole si posarono sui petali bianchissimi di un fiore che sembrava inchinarsi verso Wapee, come per dargli il benvenuto. Wapee si rincuorò.
Nelle notti successive Wapee scelse di disporsi a dormire con il corpo arrotolato attorno al fiore, per proteggerlo dai venti gelidi della notte. Per tre notti fece questo, e molte visioni gli apparvero sulle grandi imprese che avrebbe compiuto da adulto.
Prima di tornare alla sua gente, Wapee chiese al fiore “tu che mi hai così ben consigliato e assistito durante queste tre notti, dimmi dunque tre desideri ch’io possa chiedere al Grande Spirito di esaudire per te.”. Rispose il fiore “Pregalo ch’io possa avere sui miei petali l’azzurro porpora sfumato delle montagne lontane, un piccolo sole d’oro ch’io possa tenere vicino al mio cuore nei giorni tristi e un riparo di pelliccia che mi protegga dai venti freddi della primavera.”
Il Grande Spirito ascoltò la preghiera di Wapee e il fiore bianchissimo diventò il croco.

Berenice e il tabù

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di Dario Voltolini

(Sempre perseguendo l’intento di far conoscere ai nostri lettori qualcosa della storia più significativa di Nazione Indiana, pubblichiamo oggi un articolo dell’aprile 2003 scritto da Dario Voltolini, uno dei fondatori di questo blog)

Io cercherò di puntare l’attenzione su un aspetto che a me pare problematico della figura di Calvino, della sua poetica, della sua autorappresentazione come scrittore. Si tratta di una tensione irrisolta che patisco io nel mio lavoro di scrittore, e forse è per questo che mi pare di registrarla nel lavoro altrui. È un aspetto del problema generale del rapporto fra la letteratura e l’altro da sé. O meglio ancora, più astrattamente, con l’alterità.

Nell’ultima città delle Città invisibili, che è Berenice, ci sono alcuni punti esemplari, alcuni temi toccati in una maniera precisa e veramente “calviniana”, che risuonano ancora oggi come ricchi e fruttuosi, carichi di senso: Berenice è una tematizzazione che ha ancora moltissimo da dire e da dare a tutti noi che ci occupiamo di queste cose (di scrivere). È la questione del rapporto fra la città dei giusti e la città degli ingiusti. Calvino la dipinge così: c’è un annidamento progressivo della città dei giusti in quella degli ingiusti, ma nella città annidata (che è quella dei giusti), si annida a sua volta un germe d’ingiustizia, dentro il quale (la città degli ingiusti) a sua volta si annida un germe di giustizia e così via, in una fuga infinita di specchi. Sembra un’immagine modellata sulla teoria matematica della ricorsione. Leggo solo questo pezzettino da Berenice: “Nel seme della città dei giusti sta nascosta a sua volta una semenza maligna; la certezza e l’orgoglio d’essere nel giusto – e d’esserlo più di tanti altri che si dicono giusti più del giusto – fermentano in rancori rivalità ripicchi, e il naturale desiderio di rivalsa sugli ingiusti si tinge della smania d’essere al loro posto a far lo stesso di loro. Un’altra città ingiusta, pur sempre diversa dalla prima, sta dunque scavando il suo spazio dentro il doppio involucro delle Berenici ingiusta e giusta. Detto questo, se non voglio che il tuo sguardo colga un’immagine deformata devo attrarre la tua attenzione su una qualità intrinseca di questa città ingiusta che germoglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possibile risveglio – come un concitato aprirsi di finestre – d’un latente amore per il giusto non ancora sottoposto a regole, capace di ricomporre una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia. Ma se si scruta ancora nell’interno di questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata come la crescente inclinazione a imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe di un’immensa metropoli”.

Qui, a parte il fascino di questa immagine annidata in se stessa di fasi e di livelli uno l’opposto dell’altro, c’è una cosa che mi colpisce ancora oggi come alla prima lettura delle Città calviniane. Io non sono uno studioso di Calvino. Ma in quanto scrittore io sento che qui c’è una sorta di richiamo che io, nella mia attività di scrittura, ho cercato ripetutamente di non vedere, di evitare, per riuscire a fare il mio lavoro (perché quando si passa vicino a un pianeta di queste dimensioni, come Calvino è, si rischia di deviare dalla propria rotta per la forza di gravità altrui). Ma alla fine immancabilmente succede che i conti si devono fare. Cominciamo quindi a farli.

Arrivo al punto che mi preme, quello della tensione irrisolta, del blocco che persiste in Calvino. Il passo illuminante – che mi colpisce sempre come una sorpresa – è il seguente, dove Calvino fa concludere a Marco Polo il racconto di Berenice: “Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un’altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili”.

Ciò che trovo sorprendente, qui in Berenice, è questa doppia costruzione calviniana: da una parte una stupefacente fuga ricorsiva nel tempo, dall’altra la negazione stessa del tempo, con l’immagine della compresenza delle Berenici future nell’istante presente (in un istante presente indifferenziato e privo di sviluppo temporale). Non è una mera questione di retorica del discorso, qui c’è dell’altro. Qui c’è, secondo me, un tabù di Calvino, il punto cieco del suo occhio così acuto e penetrante. Che senso ha questa collana che si sgrana nel tempo e che viene evocata al fine di negarla, perché Calvino opera questa negazione, quale forma logica di discorso è mai questa? Marco Polo fa bene a sospettare che il Gran Kan abbia “tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse”: glielo ha appena detto lui! Non solo glielo ha detto, ma glielo ha anche suggerito con le proprietà dinamiche delle immagini con cui gliel’ha descritta: ruote che si incepperanno, un nuovo meccanismo che arriva, la cucina che rievoca un’antica età dell’oro, dati da cui dedurre un’immagine della Berenice futura, rancori che fermentano, una città che sta scavando il suo spazio, il risveglio di un amore per il giusto, una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare ingiusta, una macchiolina che si dilata, la crescente inclinazione. E poi, soprattutto, l’esito di queste spinte dinamiche: la visione di una immensa metropoli come esito (anche retorico e narrativo) del “crescendo” delle Berenici. Ora, una prima tensione è già qui: la fuga di specchi di Berenice è infinita, ma ecco che un suo esito nella figura della metropoli immensa la contraddice. Calvino qui sembra ipotizzare una discontinuità qualitativa. Il processo di rispecchiamento/annidamento della Berenice giusta in quella ingiusta non procede come una retta (o una semiretta, a partire dall’età dell’oro), ma mette capo a una discontinuità (la metropoli), a una formazione diversa.

Ma la vera tensione, la tensione grande, è un’altra, di cui questa non è che l’ancella. La tensione grande è quella fra un processo che avviene nel tempo (la fuga delle Berenici) e uno stato stazionario (la città che Marco rivela infine al Gran Kan). La figura della metropoli non è che il ponte gettato fra queste due visioni opposte. La figura della metropoli è un giunto retorico che permette a Marco (a Calvino) di operare questo slittamento vertiginoso dalle premesse a una conclusione che le nega. Questa è una lotta di Calvino contro il suo tabù: il Tempo. Che sia una lotta è segnalato anche dall’andamento non razionale del discorso. Nella lotta, nemmeno Calvino può giocare pulito. La partita è in tre fasi: 1) una città si capovolge nel suo contrario e viceversa, in un film che è sì temporale, ma piatto e infinitamente uguale a se stesso; 2) se anche così non fosse, cioè se questo film non continuasse sempre uguale, ma mettesse capo a una novità qualitativa, come per esempio una immensa (infinita?) metropoli, tutti i processi di capovolgimento nell’opposto sarebbero attivi in essa (contemporaneamente?); 3) infatti Berenice in realtà è un punto senza tempo in cui nulla si può sviluppare e tutto è compresente (inestricabilmente, senza sviluppo alcuno: una fotografia).

È curioso, è sintomatico, che per arrivare a una tale conclusione Calvino abbia inventato questa immagine bellissima del sì e del no annidati uno dentro l’altro. Prima ci propone una fuga infinita di specchi nel tempo, ma poi ci dice che invece le cose sono tutte compresenti. Cosa nega? Questo è il punto che mi fa pensare che c’è una questione aperta, palesemente aperta, di Calvino nei confronti del tempo. E, per un narratore, il tempo non è una cosa qualunque. Per un narratore il tempo è La Cosa.

Ora però vorrei fare un passo laterale, una mossa del cavallo, per così dire. Vorrei andare, cioè, all’inizio della prima delle Lezioni americane che è la croce su cui Calvino stesso si è crocifisso, secondo me: con la notissima questione della leggerezza. Ormai funziona sempre così, che bisogna citare questo punto, per forza, quasi pavlovianamente. Calvino: la leggerezza. All’inizio di quella lezione, Calvino dice – vado a memoria, non ho qui con me il passo – di avvertire una tensione fortissima fra l’opacità, la pesantezza, la brevità, l’inamovibilità, della realtà e del mondo, e invece il linguaggio, la lingua, la letteratura che lui voleva fare, picaresca, agile, versatile, brillante, tagliente, argentata, scattante. Dice che tra quello che avrebbe dovuto essere il materiale per il suo lavoro (il mondo, la realtà) e la sua scrittura lui ormai avverte un divario insanabile. Dice di non voler fissare lo sguardo dentro quella massa greve e inerte che è il mondo reale, perché sarebbe come fissare negli occhi la Medusa, resterebbe pietrificato. E così si è inventato, come del resto anche la mitologia aveva inventato, la possibilità di guardare verso quel mondo tramite riflessi, indirettamente, con degli specchi, con triangolazioni.

Personalmente, non cioè in modo criticamente e scientificamente fondato, ritengo che le Città invisibili siano l’esempio più convincente del gioco di specchi di Calvino. Un gioco attraverso il quale attingere una cosa che direttamente non si può guardare; questa cosa che direttamente non si può guardare, richiamata nell’immagine del peso del mondo, è ciò a cui mi riferivo prima con il nome astratto di alterità. Calvino sa che non può liberarsi dall’impegno di trattare con questa alterità (nessuno scrittore lo può), ma tenta una via obliqua per farlo. Tesse una serie di reti, allestisce una serie di trappole per avere ragione dell’alterità, alla ricerca di risultati anche solo parziali, precari, mutevoli. Si rivolge al discorso letterario già sviluppato, a quello scientifico: a elaborazioni già date dell’alterità. Qui c’è in nuce tutto il Calvino metaletterario (e nel confronto con la temporalità – che dell’alterità è l’aspetto più pietrificante – c’è tutto il Calvino metanarrativo).

La contingenza, la mortalità, la limitatezza, l’unicità, il nulla: questa alterità totale, questa nostra Medusa privata e di specie, viene irretita da Calvino nel gioco delle possibilità infinite. O, meglio, Calvino tenta questa soluzione – e nelle Città invisibili meglio che altrove (di nuovo un giudizio non “da critico”: in Se una notte d’inverno un viaggiatore Calvino rigioca la carta dei possibili, ma siamo già al limite estremo di questo gioco, il punto in cui il gioco mostra il suo limite). Il tentativo di fare questa lista di città così a scacchiera, che lui ha inventato, è il tentativo di dire, di raccontare, di scrivere tutte le città possibili. Per ovvie considerazioni insiemistiche, fra tutte le città possibili ci sono anche tutte le città reali, passate, presenti, e future. Il fatto è che una qualunque città reale è una delle città possibili. Ma il gioco non funziona più se si sostituisce “immaginabile” a “possibile”. Se noi potessimo effettivamente (forse è questa l’intuizione calviniana) tramite la letteratura, tramite il genio inventivo, immaginarci tutte le possibili città, riusciremmo a immaginarci anche tutte le città che ci sono, che ci sono state e che ci saranno. Ma non funziona così, purtroppo. Ci sono città che esistono e che non erano immaginabili prima. L’insieme delle cose immaginabili e l’insieme delle cose reali non si mangiano completamente uno con l’altro, ma anzi si sovrappongono in una maniera che ci lascia sempre sgomenti. Ci sono dei fatti inimmaginabili che accadono. Quindi, per tornare alla questione di prima, se noi effettivamente potessimo avere una visibilità piena e totale sull’estensione del tempo, dello spazio, avanti e indietro, presente, passato e futuro, se noi potessimo descrivere, anche tramite combinazioni di matrici a scacchiera, tutto ciò che c’è, ingabbieremmo davvero tutto ciò che realmente c’è. Avremmo davvero fatto un brutto tiro alla Medusa. Sarebbe lei, a questo punto, quella che non saprebbe più dove guardare. Tutto sarebbe specchio riflettente. L’avremmo messa sotto scacco.

Ma noi, questo, non lo possiamo fare. E il segno di questa impossibilità, secondo me, sta nella questione del tempo, il tempo come luogo dell’alterità, non il tempo come dimensione fisica quantitativa: qui è il tempo che distrugge, il tempo che fa nascere, il tempo che fa morire, il tempo che permette, ed è anzi la causa, dei mutamenti. Il tempo che è il luogo delle discontinuità, delle catastrofi. Del nuovo, dell’imprevisto. Della nostra infinita ignoranza e miopia epistemica.

Un esempio banale. Non possiedo il dato preciso, ma so che oggi, per la prima volta nella storia, il 60% della popolazione mondiale vive in città. Prima era la minoranza delle persone quella abitava nelle città, ora la maggioranza. Questo fatto produrrà o non produrrà un cambiamento qualitativo? Questo noi non possiamo prevederlo neanche in una fuga di possibili Berenici, che infatti sono annidate nel sì e nel no, ma sempre sullo stesso piano. L’immensa metropoli prefigura uno stato stazionario, oppure esattamente l’opposto? Non lo possiamo sapere (lo possiamo però temere). Noi con tutta la nostra combinatoria letteraria inseguiamo i fatti, ma non c’è niente da fare: questo è uno scacco drammaticamente reale, ma anche squisitamente teorico, in cui viene a porsi colui che si illude che sia possibile posare uno schema immobile sul molteplice imbrigliandolo in via definitiva. Ed è sintomatica questa frase che ho letto per la prima volta poco fa in un libro che mi è stato dato stamattina. Qui Calvino dice: “Noi solleviamo i nostri occhi dalla pagina per guardare nel buio”.

Qual è il punto allora? Quali sono i conti da fare con Calvino? Qual è la dinamica vertiginosa con cui si presentano ancora oggi a noi, soprattutto a chi scrive, tutte le sfide che non sono state risolte ma che sono state poste da Calvino? Il punto è che quando si è di fronte all’irriducibilità, all’illeggibilità, all’alterità di un dato, di una realtà, ci sono vari modi di reagire. Il modo di Calvino è quello di volgersi altrove alla ricerca di alterità almeno in parte già elaborate (ridotte a similarità) da giocare come scudo (come arma) nei confronti della Medusa. Il gioco di specchi. Per l’autore delle Città invisibili la città in cui si sta bene è la città leggibile. Ricordo di aver letto da qualche parte che per Calvino era Parigi la campionessa delle città. Parigi era proprio una città leggibile. Lui andava in giro per Parigi e leggeva direttamente dai muri, dalle strade, le cose che gli interessavano. Parigi era per Calvino una città mescolata con la scrittura, una città culturale, cioè un testo. Naturalmente è immediato scorgere fra le ragioni che rendono leggibile Parigi il fatto che è una città già molto letta (e scritta).

Ma il compito di chi scrive, almeno in certe circostanze, o uno dei compiti di chi scrive, è quello di confrontarsi con la totale illeggibilità, con l’alterità, impegnandosi totalmente per renderla (un poco più) leggibile da qualcun altro. Scrivere è rendere qualcosa leggibile. Il punto, la soglia sulla quale si è mosso Calvino (e che resterà per sempre una soglia, visto che la morte lo ha fermato mentre stava per oltrepassarla, indicando a noi tutti in quale direzione avesse deciso di proseguire – perché è evidente che Calvino fosse in procinto di andare in qualche “nuova” direzione) è quella del discrimine fra la riduzione dell’alterità a leggibilità (a prossimità) e la riproposizione del già leggibile in ulteriormente leggibile. Si tratta di un discrimine che Calvino ha spesso tematizzato in piena consapevolezza, problematizzandolo, ragionandoci su. Come questo tema, che già si innesta su una tensione, si ibridi in Calvino con quello della temporalità, che io interpreto come contenente un tabù, apre uno spazio di indagine sulla narrativa di Calvino che è ben lungi dall’essere esaurito. Calvino è un autore percorso da infinite tensioni, da improvvise fessure. Nonostante abbia fatto di tutto per darci, oltre all’opera e alla vita, anche un’interpretazione e una biografia (o forse proprio per questo) è uno degli scrittori italiani più misteriosi del secolo scorso. Sebbene in vari interventi saggistici a più riprese Calvino si sia misurato con oscurità, enigmaticità, opacità e alterità, è soprattutto nei suoi cristalli più puri che si apre l’abisso scuro. Forse perché rimosso, forse perché negato, forse perché lasciato dietro le spalle. E le Città invisibilisono il suo diamante.

Intervento fatto al convegno Altrove, altravolta, altrimenti. Calvino, il non visibile e l’immaginario urbano a 30 anni da le Città invisibili.
Palazzo della Triennale.
Milano, 8-9 novembre 2002

Tracciare l’Aracneo – gli autismi secondo Fernand Deligny

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di Giorgiomaria Cornelio

“L’autismo è la malattia del secolo” dice Grillo, e sarebbe l’ennesima ciancia se non fosse che tutto attorno sono accorse reazioni di protesta che ripropongono la medesima violenza istituzionale paraventata dietro il pretesto riabilitativo, come se il nucleo del discorso fosse sempre quello di garantire ai bambini autistici un’inclusione imposta nella nostra moderna società, una specie di urgente soluzione educativa che ci sollevi dall’obbligo di un confronto che altrimenti indisporrebbe la solida misura degli umani-che-siamo:

Sta di fatto che innovare non ha niente a che vedere con il trovare una soluzione. È forse semplicemente cambiare progetto, lasciar perdere il pedagogico o il terapeutico. Ed è proprio perché si tratta d’altro che l’innovazione può avvenire.” (Les Enfants et le silence)

Queste parole sono di Fernand Deligny (1913-1996), incontenibile compagno dei bambini autistici non-verbali che insieme a loro ha tracciato sino alla fine della sua esistenza il modo d’essere della rete, le lignes d’erre dell’educatore senza metodo o chiusa scienza. Non ci sorprenderà dunque la pressoché totale irreperibilità dei suoi libri nella nostra fiacca editoria, dal momento che accostarsi a Deligny significa quanto meno negarsi la compiutezza di un sistema, scacciare quell’ombra riparativa e teleologica che ha accompagnato la questione dell’autismo sin dalla sua formulazione.
Comunista primordiale e vagabondo efficace (come recita il titolo di una sua opera), Fernand Deligny ha trascorso parte della vita tra i monti della Cévennes, dove su invito di Félix Guattari trasferì -a Monoblet- il suo progetto residenziale, i suoi tentatives di restituire un luogo, un’esternità a quei bambini immobilizzati perché da (per) sempre esclusi dal patto del linguaggio eppure addentro alla società, come irreparabili -ma necessarie- eccezioni, “anatroccoli a cui è stata rubata l’acqua”:

;“[…] E quando lo spazio diventa un campo di concentramento, il formarsi di una rete crea una specie di esternità che permette all’essere umano di sopravvivere.” (L’arachnéen et autres textes).

Già prima del fondamentale incontro con Janmari (dodicenne autistico e muto tracciatore del di fuori), Deligny si era occupato di giovani “irrecuperabili”, sempre cercando di togliersi all’ordine della contenzione e di rifiutare quella norma statistica -riproducibile ad oltranza- che viene camuffata sotto il nome di educazione. Piuttosto che ricorrere al fantasma parentale o alla fissazione biografica (“che cosa è mancato?”), Deligny si chiede attivamente che cosa manchi al momento, quale sia lo spazio da progettare affinché l’essere di questi ragazzi possa tornare ad avere luogo. Occorre, insomma, restituire un lago agli anatroccoli, e se è certo che “nessuno rifarà la mappa del mondo perché un bambino autistico è attratto dall’acqua che danza in un lavabo di pietra che appartiene a qualcun’altro” (Ce voir et se regarder), la verità senza scopi dell’agire di questi bambini diventa -per Deligny- il punto nodale della sua pratica e un disconoscimento della gabbia volitiva in cui l’uomo “integrato” si costringe.

Lontano dunque da qualsivoglia psicologia della comprensione, Deligny incomincia a trascrivere -insieme agli altri operatori della comunità- i tragitti dei bambini non verbali con cui vive a Monoblet, e ne fa un assemblaggio nomade di linee, zuppa di anguille (le affinità con Warburg sono molteplici), erbario palmare e mappatura sempre incostante che lui battezzerà L’Arachnéen (L’Aracneo), inaugurando così il quasi-prototipo dell’era dei nati sotto il segno del ragno (dove il parlare e la volontà non sono più imperativi). Quando Deligny si rivolge al linguaggio lo fa solo per ararne l’orizzonte indicibile, e tutta la sua opera scritta è un aprire fenditure nella continuità del dizionario: ponendosi sul bordo in cui esterno e interno vengono a confondersi, egli srotola il fondamento paradossale dell’agonismo comunicativo, e la sua pretesa totalitaria.

Rispettare i bambini autistici non significa dunque ricondurli nel recinto atrofico degli umani-che-siamo, ma piuttosto concedere alla rete di tessersi da sola in uno spazio adeguato e in cui la definizione di uomo s’incrini a tal punto da dissomigliare a quanto è stato sino ad ora concepito. È qui -nel modo infinitivo del tracciare- che il progetto di Deligny diventa traiettoria sperimentale, edificazione di un altro mondo in terra laddove il materialismo aveva finito “per non sapere più che farsene del corpo” (L’humain et le surnaturel).

In questa costellazione del ragno chiameremo anche Bartlebly, lo scrivano di Melville divenuto tavoletta per scrivere, e a proposito del quale Giorgio Agamben commenta:

[…] non è ormai nient’altro che il suo foglio bianco. Non stupisce, quindi, che egli dimori così ostinatamente nell’abisso delle possibilità. La nostra tradizione etica ha spesso cercato di aggirare il problema della potenza riducendola nei termini della volontà e della necessità: non quello che puoi, ma quelli che vuoi o devi è il suo tema dominante. È quanto l’uomo di legge non cessa di ricordare a Bartlebly. (La formula, o della potenza)

Differendo ugualmente la circoscrizione pedagogica e l’apriorismo astratto dei funzionari della cultura, Fernand Deligny è stato l’instancabile cercatore di un vivere in comune che resista all’intrusione del linguaggio, di un comune cioè che neppure comunichi, di un luogo dove Bartlebly possa finalmente scampare agli uomini di legge (“Ma cosa può essere detto a proposito di una libertà che non dica di sì e non dica di no? Essa perde il suo nome” scrive Deligny in La liberté sans nom).

Torniamo a stamparlo e a leggerlo, allora. Scopriremo così che l’autismo non è “la malattia del secolo “, ma piuttosto il contrattempo, l’orizzonte nomade dal quale far ripartire la nostra moderna interrogazione sull’uomo.

 

Il testone

1

di Daniele Muriano

(Questo lungo racconto fa parte del romanzo di racconti Le avventure di un testone, inedito. L’autore ce lo regala e noi lo ringraziamo. G.B.)

Sono nella casa tutta silenzio e virgole. Dappertutto un’attesa di virgole mi strappa ogni sistematica ordinarietà. Ci vedo, nella sala stranamente così squadrata, tutta spigoli… Ci vedo una pausa del significato moltiplicata per la quantità – all’eccesso calcolando e cioè in questo panico – di angoli, angolini e luridi angolacci non ancora esplorati, o forse sì, soltanto da ragnacci che non vorrei vedere nemmeno con l’immaginazione: ah: ormai è tardi, ecco.

Mi sembra che ci sia un romanzo inciso nelle porosità invisibili dei muri. Ogni casa racconta una storia, è vero, parlo adesso all’interiorità, alla mia interiorità, che è testo. Perché io sono testuale, in ogni momento che mi pare di abitare con dignità o addirittura con la mia felicità. Io sono un testo. E sì. La mia casa è anch’essa testo: racconta la mia improntitudine e l’inadeguatezza a vivere senza definire improntitudine una innata e, sì, sfacciata attitudine al suicidio che, del resto, non sono mica sicuro di poter comprendere senza ridermi addosso. Sono pio. Sono un inetto e non farei male ad una mosca. Figurati al mio testo. Me.

Comunque, dicevo, alla mia interiorità fattasi frase… testo, dicevo che la casa è parlante. E sono soprattutto le virgole incise a dolermi. A immagazzinarmi nell’infaticabile ristagno. Pure sono certo che la donna delle pulizie abbia ripulito ogni dolore. Volevo dire, pardon, ogni DISORDINE.

Ho salutato Mariangela sfiorando la sgarberia. “Grazie del lavoro. Ci vediamo mercoledì”. E chiuso. Quando resto solo nella casa rigovernata e mi guardo tutto estraniato dappertutto – è così. Non sono più davvero lo stesso. Anche il sale reperibile alla distanza di sei-sette centimetri dentro la credenza rispetto al suo posto – vale a dire mio –, mi comunica un senso di vita disadattata, di continua correzione da parte altrui: e di fatto, senza Mariangela, senza la governante o chiamiamola come gli pare, al testo, senza qualcuno che m’accudisce io non posso vivere. Il mio testo, la mia vita e quindi anche la mia casa, non potrebbero essere. Il mio esserci è eterodosso. Perché è esservi lontano dal testo. Lasciato in balia del mio testone, bello e pensante, sarei fritto, cucinato alla bell’e meglio in un pentolone d’un inferno interiorizzato.

Guardo ora l’ombra della testa spinta lungo il muro dalla cattiveria d’una lampadina nuda, là impiccata dal soffitto, un’ombra enorme che purtroppo non è riflesso di un’intelligenza. Il mio testone è scritto nell’ombra e si mangia il divano e parte del muro ripiegandosi contro al soffitto. È lui.

Mi parla.

La tua casa, dice, è un messaggio continuo che rasenta l’indicibile. Ricordi, dice, il primo appartamento in cui andammo ad abitare noi due soli, dice, quanto puzzava. Eravamo così addentro alla scrittura, dice, e intendo dire la testualità addomesticata, cioè domestica, scrivevamo poemi concentrici in un disordine tale da averci nessun conforto. Era il dicembre 2008, ad esempio – dice l’ombra di testone immobilizzata al muro – quando decidemmo che nella tua casa volevamo un biliardo: furono prese le misure al centimetro e, in effetti, nella vecchia mansarda si rivelò uno svuotamento praticabile per 540 x 410, appena necessario per il tavolo, sì: ma non sufficiente a giocarci agilmente in due, con tanto di movimento d’aste e spazio vitale per non soffocare, dato che, spostati l’armadio e l’amena cassapanca belli combaciati contro la parete, inutilizzabilmente, e resi vani le sedie e il tavolino da pranzo a gambe all’aria contro la finestra (da giù molto probabilmente avranno visto in quei mesi uno strano accrocchio d’insenature mobiliari e misterioso sarà parso il contenuto del nostro appartamento) rimaneva appena, ahi, lo spazio per muoversi e mirare e sparare le palle in buca per un unico, ben snodabile dove la testa va abbassata, tiratore di biliardo. Ma questo lo scopristi, eh, soltanto l’insano 22 o 23 dicembre quando completasti il montaggio. Che gioia! Però sì, il nostro loft di periferia in cima alla palazzina era una dolce meraviglia. Per Natale ci eravamo fatti il biliardo e cominciammo così a diventare precisi, a ogni tiro più determinati e precisi senza perdere di vista l’abitabilità del nostro piccolo loft attrezzato (quanto ai pasti apparecchiavamo su tovaglia plastificata occupando la metà sinistra del biliardo), benché certo, come abbiamo detto, l’insieme iniziò a impestarsi e puzzare e puzzare incontrollabilmente per l’impossibilità di tenere scopato, spolverato, pulito il posto. Non ci hai pensato prima, ecco tutto.

Ora questo mio testone mi recrimina, pensa un po’, ma non era presente mentre accumulavamo pattume in sacchi della spesa in giro, specialmente sotto al tavolo da biliardo, e pisciavamo nelle bottiglie dell’acqua Vera per pigrizia, per divertimento e anche un po’ per restare concentratissimi sul biliardo nelle intense speculazioni di geometria applicabili al tiro del momento, magari meditato per lunghi e tossici quarti d’ora, per eternità ancora più vaste e incalcolate finché stoc e dunque l’esistente si riconfigurava: i pianeti si riallineavano, non era presente, qui sulle virgole delle mie stoc, spalle, che avevano attirato tutta la tensione del tiro diventando per l’appunto come delle virgole, insane virgole tese e rattratte, quando un tiro ben fatto era l’azione unica ed essenziale nel pomeriggio di gelo, così unica ed essenziale da divenire il centro assoluto di ogni cosa, compresa la forma d’ordine casalingo, non era presente lui, il testone? Sì.

Capii tutto nel momento in cui, tornato dal capodanno in montagna coi soliti amici e persa ordunque l’abitudine, guardai per la prima volta la casa. Mi sembrò un’inezia la lacuna dello spazio. Anche le bottiglie in terra piene di giallori, alcune chiuse altre chissacome stappate in un tributo all’afrore domestico – erano niente. Tutto il dentellato disordine degli oggetti era messaggio, e non mi ero accorto. Prima. Non avevo capito il testo. Non avevo saputo decifrare la scrittura.

L’appartamento, mio caro testone adombrato da una lampadina, l’appartamento o loft, come l’abbiamo in gran pompa definito, il bugigattolo con al centro il biliardo era il nostro testo, l’abbiamo in quel modo impaginato: cioè abbiamo scelto una forma, difficile sì, ti concedo, con cui operare forti delle nostre ottime capacità di scrittura. Le bottiglie colme di urina, i sacchetti del super con quelle scatole di tonno guaste, la mattanza dei fazzoletti e dei tovaglioli, come delle forchette dimenticate e dei brani di cellophane – e di questi brani sarebbe bello vantare un apparato di note e concordanze per capirli in fondo – con anche le stoviglie disperse, tutto il testo insomma è messaggio che, per quanto disperato e per quanto disperante, ha una coerenza, può essere perciò analizzato proprio come un’opera.

Dirò di più, mio testone, ovvero. Non solo quel che chiamiamo disordine è testo analizzabile coi crismi del testo, ma è anche innegabilmente stato scritto con un’intenzione, artistica o meno, un’intenzione del comunicare. E sono tutte cose che sai, ma devo ricordarle, ora che stai come un’ombra sulle pareti, mentre io mi trovo all’in piedi come un idiota su questa sedia, spalle alla luce, con un cappio testuale in cui infilarci.

Mi sei complice. E se tutto questo è testo, che somigli a una pungente deposizione quanto meno, non a un repertorio di strali da suocere. Il giudice, in un secondo tempo, lo sapremo ingaggiare. Non è un’evidenza che… entrambi… speriamo sarà redatta una corposa sentenza alla fine? No? Altrimenti perché stare in una posizione patibolare fermi non si sa per ancora quanto… E così nella scomodità.

Noi siamo, dice il testone dalle porosità murali, noi testualmente siamo: colpevoli. Il nostro testo miniato laggiù nel mondo in ogni passo, gesto, contrasto, apposizione, marchio, assestamento, intoppo, scarto, sorpasso lo dice, apertamente quasi lo spiega. Abbiamo già deposto un verbale. Prendi il vecchio, dice, quel balordo di anni novanta che, per 320, ci ha affittato la scomoda e inabitabile mansardina. Non aveva no i crismi burocratici dell’abitabilità. Eppure il vecchio bussava in quel gennaio spappato di neve. “Si può entrare, per favore?”. Silenzio. “Dalla finestra si vede tutto un cumulo…” Silenzio noi due. Ma un proprietario ha diritto a entrare nell’immobile quando desidera? Nell’immobile c’è l’inquilino: lui… veramente immobile, schiena incollata a una parete. Inquilino fra i cumuli. E la domenica successiva ancora a esercitare un diritto inventato il vecchio dietro la porta di mansarda diceva: “Per favore, per favore. Non mi distrugga casa”. E quant’era affezionato alla maledetta casa sua! Ma noi sempre reticenti, se non silenziosi. E dopo la domenica di fine gennaio in cui il vecchio proprietario si era dato al pianto vero e proprio dietro il suo legno, abbiamo provveduto: al negozio di Leroy Merlen abbiamo fatto tagliare una lastra nera di un materiale plastico e abbiamo interamente nascosto la cazzo di finestra; così dal basso non si poteva vedere l’accumulo dovuto al biliardo né il nostro addomesticato testo domestico: il “DISORDINE”.

O almeno questa in brutto maiuscolo è l’espressione che avrebbe usato il povero Geremia che possedeva quella mansarda riadattata e voleva pure fosse trattata con i guanti – DISORDINE? Oh no, la disposizione delle cose nel mondo ha l’architettura di un leggibilissimo testo. E il lettore è un Dio supremo, un Dio plurigalattico, un Dio inimmaginabile anche a chi si dichiara religiosissimo e non ha capito quanto siamo espliciti noi altri viventi. Siamo autori ignoranti. Afferrai tutto grazie a Iris. Alle grazie, di Iris.

Non andavamo così forte al biliardo da essere infallibili al Palla 8 del bar sulla parte nuova del corso? Così forte da risultare persino appetibili, caro testone? Il 5 di marzo, sia messo a verbale (questo nostro verbale), fu un giorno di grandi scopate. Indeclinabili i nostri favori per la scultura in minigonna che gradevolmente ambiva a stracciare il liso panno verdognolo di un bombardato biliardo provinciale, ambiva, ah già, al punto da riuscirci in pieno squilibrandosi per un appoggio mal portato, tentativo questo di tiro indiretto su sponda troppo vicina, e noi, seduti al tavolo con una Beck’s, a esprimere i nostri, a-ehm, indeclinabili favori con una, urgh, spiegazione teorica grondante luppolo: così e così, dicevi, e poi là e adesso stoc, caro mio, quella sbandata venne cucinata con poche parole. Il padrone del bar, l’uomo tozzo e cinese ma gentile ci chiese un nonnulla per il panno, pagai comunque io e l’indomani già potrò giocare su un tavolo come nuovo; un nonnulla, be’, nonnulla di duecentocinquanta fave. Servì comunque alla causa, ora: il 5 di marzo che stranamente ho saputo datare, considerato il minus di smemoratezza di questo testone, ma ho ricostruito la data partendo a ritroso di tre giorni dall’8, 8 marzo festa della donna. E la festa fu di entrambi quel pomeriggio. Cavata dagli impicci, la povera Iris – che non si chiamava Iris ma si era cambiata di nome perfezionando insomma il testo suo e nostro – salì le scale gonfie d’un gelo umido guidata dalle nostre amenità: “Vedrai che casa strana che ho”, “E sarà un pomeriggio come non t’immagini”, “Attenta alla testa”, “Ecco: è buio perché ho dovuto coprire questa finestra”. E salito l’ultimo gradino si ritrovò nel morso del testo.

Mentre la spogliavo di camicetta pushup e gonnettina, lei gettava occhiate stralunate all’ambiente, deglutiva forte ma, senza molte rimostranze, si lasciava manipolare. La luce era sordida, dobbiamo ammetterlo, ma una luce più intensa avrebbe rovinato l’atmosfera da sala del biliardo; ed era precisamente l’atmosfera che avevo scelto di scrivere, o non so come dire. C’era qualche bottiglia d’urina che per fortuna si poteva spacciare per del tè nel quasi-buio (e devo ricordare al mio testone che quel bel mattino avevo irritualmente levato di lì tutto il pattume come presentendo…) Ma insomma la mite Iris in groppa a una buca del biliardo divaricata interamente per me orante tutto dentro l’umido viscere, la mite Iris non aveva nessuna voglia di criticarmi l’arredo e forse qualche voglia di farsela leccare.

Più tardi in quel lettino sordido abbracciati come due estranei ci levammo la curiosità.

Io: “Come ti sembra il posto…”

Iris: “Fa schifo, ma sono abituata. Tu vivi qui?”

Io: “È la mia casa”.

Probabilmente pensava, posata testa sul gomito e ascella lungo il letto, a come cacchio avevo potuto permettermi di pagare il conto: 250 fave, io che vivevo in quello schifo. Ma non aveva coraggio sufficiente per dirlo, forse temeva le avrei chiesto dell’altro in cambio, in fondo era molto bella.

La guardavo da una distanza improbabile: avevo sempre saputo in quale pizzeria lei serviva e, vedendola con tipacci sempre diversi al baraccio, anche la vita approssimativa che faceva, il lunedì sera ubriaca e il giorno dopo nelle cucine per poi scattare verosimilmente al motorino negli uffici per l’asporto, sfrecciando di fatto davanti al bar del biliardo con la faccia sfatta dal vento, o così io la vedevo, o addirittura la immaginavo indovinando la sua persona in quel movimento, avevo sempre insomma sognato di penetrarmela, anche con una stecca del biliardo, lì, nel bar mentre… Ma caro testone, non perdiamoci in ciò che già conosci e accontentiamoci di mettere a verbale: ero sorpreso che non le facessi molto schifo.

Sei abituata, così hai detto”.

A farmi degradare dagli altri. Non so perché succede ogni volta. Dev’essere un destino”.

Le tolgo la mano da sopra il mio fianco sinistro.

Te la sei presa. Ma lo sai che è vero?”

E allora ho cominciato a tempestarla di quesiti sfruttando l’ultima, l’unica volta che avevo quella boccuccia a così breve distanza. Cosa provi nel venire scopata in queste condizioni? Cosa immagini mentre stai a occhi chiusi e mugoli e mugoli… o vedi il nero? Cosa ti piace fare a letto? Cosa avresti voglia di sentirti dire nel mentre? Come ti farebbe piacere esser nominata da un amante quando ti degradi? Come ti senti…?

Niente e niente e niente, ancora niente e niente.

Lei sembrava voler essere, per conto suo, niente. Se le chiedevo chi era poco ci mancava rispondesse “chi vuoi”. E sono certo che se le avessi domandato qualcosa di poco più personale mi avrebbe risposto: “decidi tu”.

Era nuda e splendida sulle mie ciabatte in quella luce che col buio serale diventava quasi magica, indescrivibile. Ferma come un’icona dipinta nella cornice tridimensionale della porta. Coi vapori di doccia che l’avvolgevano di schiena voluttuosamente. Mi guardava e io ricambiavo, in una posizione ritorta e fetale, schiacciato nel lettino affiancato a muro, accipicchia, sublime. Ed è stato allora che ho fantasticato.

Hai detto che il degrado è un destino”, ho fantasticato e non ho detto.

Io non scelgo. Perciò alle domande ho risposto: niente. Io sono scelta. Altri mi scelgono. E io sono. O perché credi che sarei venuta a scopare con te in questo tugurio?”

E cosa è il destino?”, ho fantasticato e non ho detto.

È qualcosa che ciascuno scrive”.

Ciascuno?”

Ciascuno, scrive”.

Ma cos’è?”

È un fatto di gesti, posture, azioni piccole e indecifrate, ma soprattutto gesti”.

Una scrittura… di gesti”.

E così riflettevo su come noi viventi scriviamo, scriviamo e scriviamo le nostre vite. Chi come Iris, che ora osservavo con la distrazione dovuta alle allucinazioni, e in generale come la gente che si fa scrivere. La gente ineludibilmente passiva in questo senso. Chi, invece, come la persona che aspiravo da un’eternità, ma solo ora mi riducevo… a diventare e cioè, ci riflettevo nella luce sordida, una persona vera: architettata da se stessa. Stavo annaspando in questi ragionamenti appiccicosi quando la sentii, distintamente, canterellare una preghiera: “Dio li fa e poi li accoppia”. O non era una preghiera, ma un’esclamazione semi-volontaria. In ogni caso sono sicurissimo che non fu niente di immaginario: disse.

In che senso?”

Sguardo franco, ai limiti dell’oscenità: il potere del sopracciglio coordinato con quelle ciglia.

Ripeti, per piacere, mi sovreccitavo interiormente, ripeti.

E lei: “Cosa c’è. Non ho detto a. Come mi guardi uf”.

Hai parlato di Dio”, dico.

Sei pazzo? È così…”

Io ci sento bene”.

Sono sempre stato un tipo fantasioso. A volte persino non so distinguere le due campane. Ma quelle parole appartenevano alla sonorità del mondo reale. Le aveva enunciate realmente lei. Porca miseriaccia.

Si era immersa nel getto informe dell’acqua calda. Senza commentare più. Era un modo probabilmente per lavarsi di dosso me e la mia stranezza. Credo.

Ora da quelle chiacchiere, quali immaginate e quali invece testuali, mi ero fatto suggestionare nel modo meno salutare per uno immaginoso e infelice come il personaggio che scrivo, mi ero fatto condizionare, complice la peccaminosa indecenza di quella doccia spiata (dove il peccato era l’acclarata non riproducibilità in futuro dell’incontro), mi ero fatto condizionare e, dunque, tutta la mia vita conseguente si è in effetti rivelata sotto il segno di quelle cocenti immaginazioni. Io – e questo è ovvio – non avevo avuto mai idee sane sul (e del) mondo. Ma insomma non ne avevo neanche ritrattato la natura noumenica, per così dire, quanto alla sua forma testuale. Quindi ho pensato, osservando minutamente le righe fluide in trasparenza dallo smerigliato, che il mondo non fosse, come pensato fino ad allora, un semplice ambaradan testuale una volta che i suoi narratori avessero semplificato il raccontabile, ma che proprio, noi, io e te, e l’intera umanità inconsapevole non fossimo che elementi testuali in un grande infinito e irrisolvibile libro considerando anche che – chi più chi meno – ci dedichiamo a scriverne delle volte dei cospicui capitoli. Fin dall’inizio del millennio, quando cioè avevo cominciato a considerare le varie pose dei miei compagni d’università (la risatina, il colpo di tosse voluto, il voltafaccia durante una discussione in corridoio, ogni tentativo di ordire una concepibile prossemica) come anche le pose dei docenti e delle altre persone che frequentando in un modo o nell’altro mi sforzavo di comprendere, e ne avevo tratto la conclusione per cui tutto il marasma di quei gesti avrebbero potuto leggerlo dall’alto di una nuvola loro, i nostri lettori, come un testo dotato di struttura, fin dai primi anni di vera solitudine di studentino fuorisede mi ero incrudelito con gli altri per poi arrivare con la maturità, diciamo, a miniaturizzarli umanamente come entità testuali piccolissime. Il colpo di mento all’aria di una ragazza, nella piazza del Duomo, mimato per attribuirsi un’importanza era nientemeno che una virgola. Il punto l’occhio dell’uomo che vendeva i gelati d’estate sul lungomare a Saint Tropez. Il punto in una frase di gesti complicati quali: spingere il carretto refrigerato fino all’imbocco del parcheggio, asciugarsi il sudore da quella fronte larga da etiope, macinare col suo cucchiaio di metallo in uno dei contenitori, il che gli dava un’aria tutta strana, da misterioso personaggio di un romanzo di spionaggio. Solo dopo una lunga preparazione il suo occhio vitreo con minuscola pupilla poteva affermare suggellando il contenuto dell’intera frase. E poi ogni particolare mi diventava il tassello di un grande romanzo, di un grande libro, o che so io d’una bibbia in corso d’opera. Ma ero, laureato in lettere e insegnante precario, poco più d’un eversivo psicotico totalmente invisibile. Adesso, dopo il crollo e un quinquennio di allegro vivacchiare con i soldi di un’eredità salvifica, per una scopata inattesa tutto poteva modificare il proprio andamento. Con lei il mondo avrebbe potuto rifarsi. Ma non con lei, non… con lei. Insomma, non ambivo a diventare qualcuno per Iris. Iris, la più manierosa fra le donne prive di maniere, la più sofisticata tra le fiere del reame, era una madonna. Ma non vorrei, caro testone che mi ascolti (lo spero), oh non vorrei bestemmiare in questo testo. Non la madonna, no, ma: una luce armoniosa di carne e ossa. Un suggerimento venuto dall’alto, o uno svelamento metanarrativo piovuto da chissà quale dio testuale. Lei con quel nome da romanzo scelto con stile, lei ombra in movimento nella cabina della mia doccia, lei accondiscendente, Iris la mite però impeccabile formalmente nella lasciva intimità concessa all’estraneo. Lei si spiegò perfettamente.

E poi. Oh si mise a sculettare per casa biascicando: “I fazzoletti si buttano nel cestino”, “Le briciole si possono raccogliere così e voilà”, “Ecco ecco, non ti pare che il piscio stia meglio qui nel gabinetto piuttosto che imbottigliato, ecco ecco”. Ondeggiava nella sua minigonna ultraterrena e la casa a ogni passaggio ne emergeva corretta e più bella. Era con la stessa determinazione che cinque anni fa, io il Prof Terrificante, mi ero adoperato a dare un’impostazione accettabile ai temi dei miei ragazzi: cambia una virgola qua, segnala a penna rossa una figura retorica sballata e – infine rivisto rapidamente il brutto tema – esprimi un voto caritatevole. Non sempre c’ero riuscito però, poiché la bruttezza del testo qualche volta parlava più chiaramente del disagio sociale del malcapitato. Ma comunque, la mia salvatrice in conclusione mi poteva soltanto giudicare.

La tua vita sembra meno schifosa, adesso”.

Non dovevi, forse sì”.

A me fai pena”.

Dovrei ringraziare”.

Anche no, qui si fa quel che si può”.

Mi hai insegnato una verità talmente grande che non puoi immaginarla, sai.”

Sei mezzo matto, guarda, e poi vuoi dirmi che ci fai in uno stanzino con un biliardo?”

Giocare è rilassante. Da ragazzo il mio fratello maggiore ci faceva dei capolavori con un biliardo identico. Mi ha regalato dei momenti meravigliosi giocando insieme, nel bar dei nostri fratelli adottivi. Ah, i nostri genitori sono morti presto, entrambi della stessa merdosa malattia, che tipo triste che sembro, vero…”

Be’, non sei uno molto allegro, ma si fa quel che si può!”

Comunque il biliardo è un pezzo di storia, mi ricorda quando riuscivo a ricavare un sorso di felicità dalla mia adolescenza e da ciò che restava della famiglia. Ma perché ti dico questi mezzi romanzi?”

Tacemmo un tempo straziante (perciò lunghissimo) in fondo al quale lei mi salutò sulla porta con due bacetti nelle guance. Ed eravamo al di qua. Al suono flebile flebile dei passi all’imo delle scale potei anzichenò socchiudere la portina, per poi in tutto silenzio bloccare il passaggio al maledetto novantenne.

E ora?”

Ora silenzio…”

È un altro dei tuoi momentacci?”

Zitta, porco cane!”

Fammi scendere. Non ne posso più”.

Sta arrivando”.

Chi? Sei matto!”

Devi stare zitta, puttana”.

E subito mi pentii di averla insultata. Tale era il pentimento da mettermi brividi incontrollabilmente lungo la schiena. Ma il vecchio arrivato coi suoi ansimanti passi al bersaglio di sempre, incominciò a dar di nocche.

Iris era terrorizzata e non abbandonava la verticalità della parete laterale. Io stavo, abituato al silenzio come al fingermi inesistente.

Oddio”, bisbigliò Iris.

È in casa? Possiamo parlare? Sento delle voci”.

Un vecchio decrepito non ancora sordo era più di quel che meritavo, arrivò a dare alla luce questo orrore la mia testa cattiva. Ma eri tu, testone incoercibile. Il mio unico vero amico, diciamo; l’interno suggeritore di sempre, il vero autore dei miei terreni e inverecondi testi. Dio giudicherà.

A fine mese scartai la lettera che m’aspettavo: il proprietario, Geremia mi invitava in un italiano zoppicante a lasciare il prima possibile il suo… magazzino (dal momento che, per ovvie ragioni, quel buco non ci aveva i crismi dell’abitabilità e io ero semplicemente il… conduttore – ah i legulei immobiliari – di un contratto di affitto di un immobile in uso magazzino, capirai, ma che razza di magazzino poteva essere il sottotetto con bagno e con letto solo Dio saprà), e io non sapevo davvero se considerato il tipo di contratto aveva piena legittimità di mandarmi a marcire altrove con preavviso così scarso, ma dopo che tutto, ma proprio tutto aveva mostrato la corda, e che corda, per esempio la mia nascente relazione con Iris era morta sul nascere avendola vista l’8 marzo con le amiche lungo il corso vistosamente a disagio per me che tutto mi sbracciavo a una decina di metri da lì, felicissimamente ignorato, e ancora quando la avevo cercata nella pizzeria dove lavorava in schiavitù, ricevendo un epiteto gentile e nuovo: testone, eh testone, ma non la vuoi capire? testone eccetera, dopo tutto insomma, tutto il sopportabile, mi ero deciso ad accettare la risoluzione del contratto.

Era il primo d’aprile. Ma che bello scherzo. Effetto burla o coincidenza da romanzo impubblicabile, mi domandavo. E comunque il primo aprile, con tanto che ero un altro uomo rispetto all’anno prima, quando invece avevo febbrilmente rinnovato il contratto in virtù del “ma dove trovo un affitto così basso?”, mi trovai senza casa e però felice. Ma ero un altro soprattutto grazie a Iris; o alle grazie concesse una tantum o, meglio, alla grazia con la g maiuscola, foss’anche alla grazia espressa nei confronti di un condannato.

Torniamo, caro testone (non, però, nel senso in cui intendeva Iris), all’esecuzione. Un’esecuzione di cui s’ignora forse la sentenza? Oh evidentemente no. Il verbale è scritto.

Con ordine.

Andavo sprecando la mia bruta e romanzesca vita? Certo che no. Ogni cosa era organizzata per essere bella e goduta dall’altissimo. Il nostro grande lettore solo alla fine potrà giudicare. Questo mi ha mostrato la donna che ho chiamato Iris. Mi ha mostrato con l’esempio di bellezza da lei incarnato la necessità estetica di fronte a Dio. Ora so, per dire, che trovandomi dall’inizio del testo sopra alla sedia, in una posa che ricorda quella d’un condannato all’impiccagione, il mio grande lettore mi osserva con interesse. Ho fatto qualche cosa di notevole e di strano, promettendo una ancora incerta bellezza, e mettendomi in ogni modo nel centro della scena. Così che egli mi guardi. Sono sopra una sedia. Il cappio è qui. Lettore altissimo vuoi considerarmi? Vuoi? Questo Iris ha mostrato, ha spiegato, ha incarnato momentaneamente. A Dio non importa un cazzo se noi uomini ci facciamo del bene, se non ci ammazziamo l’un l’altro o se, per dire un caso qualsiasi, ci scopiamo eventualmente la donna d’un altro: a Dio preme solo la bellezza: dei nostri gesti, delle nostre malefatte, dei nostri spasmi, dei nostri avvicendamenti, dei nostri mortal sospiri, è così orribilissimamente ovvio. Io mi trovo in piedi su questa bella sedia. La mia ombra riveste l’intera parete qui frontale, ed è la famosa figura di testone, la casa galleggia sul dubbio più terribile. Al lettore che si trova in alto, sulla mia vita, importerà granché come mi sono condotto con la morale? Importerà quanto male ho fatto io, al di là di quanto interessante sia su uno spettatore quel male? Oh il lettore ha facoltà di scelta: quale vita sceglierà di seguire da vicinissimo… Quale personaggio gli toglierà la noia dell’infinito? Le letture sono molte, pensavo e dicevo al mio testone mentre in bilico tra la vita e la morte mi inchiostravo ombreggiante qui sulla parete. Io – assicuravo fino a pochi attimi fa – produco una qualche bellezza, io. Dio mi sta osservando… Adesso mi viene il gran dubbio, ho il dubbio per cui qualsiasi altro dubbio è proprio un dubbio qualsiasi.

Questo show per cui mi sono mostrato sopra alla sedia, ho parlato come in un monologo all’ombra e come un ventriloquo ho animato la risposta dell’ombra – non sarà uno show noioso e privo di bellezza? Soprattutto ora guardandomi intorno non vedo che una scenografia anonima, a base di pulitissimi e degnissimi pavimenti come anche degni e puliti sono i mobili: persino lo sperma secco sul copridivano zebrato non si vede mica più! Miracoli della Mariangela che tre volte a settimana mi monda lo scenario senza scandalo per il padrone di casa. Persino i malvagi reperti di una sessualità solitaria, ma pornografica finché agita in fronte al Dio che legge, con tutte le oscenità testuali esibite Mariangela, instancabile, è autorizzata a far sparire. Perché sì, bisogna trovare un equilibrio fra il valore artistico della scultura messa in esposizione in questa casa e l’idea di abitabilità dell’uomo medio, privo di sensibilità al valore artistico. Ogni tanto qualcuno viene a trovarmi. Qualcuno che può rivelarsi pure il padrone di casa. E io non… Be’, nessuno veramente mi obbliga. Diciamo che ho scelto. La mia vita non avrà la potenza estetica che mi spetta. La casa apparirà meno disperante e l’effetto sarà certo ridotto. Niente sospiri e niente fitte al fegato per chi dall’alto del testo guarderà dentro casa. (Mentre quando vivacchiavo nella mansarda preparata e allestita per quelle performance, con Iris e col vecchio, la mia scenografia tra schifo e biliardo poteva commuovere il lettore in un modo più semplice e istantaneamente. Venduto però il biliardo per 150 fave a un inesperto ragazzino tutto brufoli e capelli unti, il povero biliardo compagno di giochi, ho deciso di cambiar vita. Non sarò mai un vero artista agli occhi di Dio). E insomma adesso che non son più giocatore di biliardo e ho abbandonato quell’esistenza artistica, sono solo un uomo su una sedia pronto a impiccarsi, un grammo di attenzione me lo si dedica ormai solamente per via del cappio; e sì, risulto avvincente o interessante solo come potenziale suicida, dal momento che ringraziando Mariangela non sono più l’uomo sepolto in casa da un mare di oggetti. Ma perché ci si dovrebbe interessare al mio destino?

Il destino ce lo si scrive, o è necessario arrendersi a che siano degli estranei a scriverlo per noi: il messaggio di Iris è pressapoco questo e, se avesse avuto proprietà di linguaggio, lo avrebbe espresso in questi termini: non avrei dovuto interpretare i suoi poveri gesti, le sue battute striminzite, né cambiarle il nome per suggerire a chi legge un’importanza fuori del comune, visto che non è bello né fruibile che una donna su cui si concentra il moto di conversione a una nuova e testuale religione si chiami, per dire, ma per dire… Genoveffa. Ah, sono stato convertito alla mia nuova religione da una certa Genoveffa…! Non risulterebbe interessante al mio Dio. O mio Dio, esclamerebbe ora. E invece gli tocca guardare me che con un gesto ampio e semicircolare, in piedi su una sedia, così, disegno in quest’aria una virgola, una virgola, e agisco in nome del mio testone. Lui è me. Ma io non sono lui. Lui è quello che scrive, io sono lo strumento, come una penna o una tastiera. O meglio, il mio testone pensa, io agisco.

Da quando ti sei rammollito e hai preso parola qui, in questo nostro testo, dice qui e, inevitabilmente per mia bocca, il testone proiettato su quel muro, da quando hai smesso di fare come dico e giù a pontificare pontificare, hai dato un gran brutto esempio di retorica, hai dato ragione a quello straccio di prete.

E sì. Ricordo bene il monito del prete che in un modo o nell’altro ispirò (quasi: mi dettò) questa parte di testo che scrivo. Questo pezzo di esistenza del personaggio che sono, con tutti i limiti del testo, della vita pratica. Siamo al 9… 10 di aprile 2009, mi trovo finalmente tra quattro mura, di nuovo, dopo il calcio nel culo avuto dal proprietario della triste mansardina, in una casa che non avrei voluto abitare; delle volte è necessario stare dove non si vorrebbe stare neanche morti, neanche morti. Tant’è. La casa è piena di ricordi. Hanno il corpo e la densità di dolorosi fantasmi. Abbiamo abitato tra questi muri nel frattempo muffiti fino a venti, ventun anni fa, io e i miei fratelli. Noi tre sempre uniti e vicini, con accanto i genitori malati di quella innominabile, invincibile malattia. Alla loro morte, annunciata e quasi in contemporanea, era tutto già disposto: io settenne, e mio fratello che aveva da poco iniziato a parlare, e il maggiore che più che parlare pronunciava bestemmie indicibili dall’alto degli undici anni psicofisicamente in grembo alla rabbia, noi tre andammo a stare senza colpo ferire dai vicini di casa: erano più famigliari di altri parenti che, per guai loro di vecchiaia o di vita, non avevano possibilità né spazio per accudirci, e poi, da sempre, li chiamavamo zii anche se, per età e modi, avrebbero potuto essere soltanto i nostri nonni. La casa fu venduta. L’acquirente era un amico dei nostri fratelli adottivi. La comprò per pietà, credo, perché in tutti questi anni non mi risulta che l’abbia abitata né affittata a chicchessia. Ad ogni modo il denaro ricavato andò ad alimentare dei buoni postali, quello che non servì, negli anni, come da programma premorte dei genitori, per noi, per la nostra educazione il che, infatti, è lo scopo di questa fretta di vender tutto alla morte dei miei. Poi cresciamo quindi nella villa con giardino e cagnetti anche meglio della villetta venduta, cresciamo come possiamo, con tutte le giornate vuote trascorse nel bar dei fratelli adottivi, ad aiutare un poco, ciascuno secondo il proprio possibile.

Stavo per scrivere la continuazione di questo ultrasintetico romanzo di formazione quando, come in un romanzo, suonò il prete. Lo guardavo ora dalla finestra della cucina mentre, fermo al cancello come un manichino, guardava evidentemente la villa in cui non avrei dovuto trovarmi. Il suo abito scuro segnato dalle linee della cancellata rimaneva fermo: un papavero nero sulla linea verdastra della campagna per orizzonte. Gli avevano detto che la casa era stata riaperta? O mi aveva incredibilmente adocchiato dalla lunga distanza l’istante in cui m’ero sporto? Sventolava ora un braccio e si rendeva disponibile. A me. Che credevo in un altro Dio. E non mi sentii di rimandarlo da dove era venuto, in più dovendomi abituare alle visite del padrone di casa un prete non avrebbe cambiato la mia solitudine.

Lei non mi conosce. Abitavo in questa casa moltissimi anni fa. Poi è stata venduta”.

Annuì severamente come chi è stato mandato e conosce più dell’interessato i casi. Si guardò intorno; c’era la sedia in mezzo al soggiorno nel buio, gli scuri chiusi sinistramente. Andammo invece per il corridoio e poi in cucina lo invitai a sedere.

È venuto per conto di chi?”

Mi sentivo talmente addentro al testo in lavorazione, che il mio atteggiamento era quello di un pazzo. È venuto per conto di chi… Non avrei potuto calarmi più intimamente nei miei panni – e allora? Il racconto narrava la vicenda di un uomo che si sente come imprigionato dentro un racconto dove ogni cosa è in effetti testo. L’uomo si sente in dovere, come il personaggio di un racconto, o come agirebbe il personaggio di un racconto imprigionato dentro un racconto, in dovere, si sente in dovere sì nei confronti del proprio lettore. Che ovviamente considera una specie di Dio. In quanto da lui dipende la propria vita testuale. Il tutto succede in un quadretto annebbiato dai colori tediosi d’una provincia di mezza campagna. L’uomo che non ha nome si rivolge alla propria ombra millantando di esser disposto a impiccarsi. La sua pazzia è tale da fargli credere nell’intelligenza autonoma e scissa dell’ombra, il testone. Il testone gli parla, caro testone risponde lui eccetera, finché io – lo scrittore di questo testo – non mi sono sentito identicamente nel ciclone impazzito di quel montato. Non ho raccolto altro che il sentimento di prigionia esistenziale. Ho assunto su di me il dolore di chi si sente un personaggio di carta. Ho fatto diventare la mia mente un testo.

Ma come, figliolo, vengo per conto del Signore, di Dio”.

Ho toccato con le quattro dita il testone qui sulla nuca. Poi ho indicato una delle sediole. “Mi scusi, prego, si sieda. E mi dica”.

Sguardo d’una pietà contratta. Vorrebbe irriflessivamente scappare… Sì.

Sono qui per la benedizione della casa”.

Ah… Non l’ho fatta parlare, ma vede: sono molto stressato”.

Abita da solo in questa casa?”

Sono tornato da poco, la casa non appartiene più a noi, il proprietario mi ha dato le chiavi per amicizia, mi segue? Ha l’aria confusa”.

Guarda in un guizzo gli angoli della finestra. S’irradia un velo irregolare di muffa, che cresce d’intensità verso l’altissimo soffitto.

È chiusa da tempo, ogni tanto la domestica viene ad arieggiare e spolverare questa bella casa”, mi giustifico.

Io che colpa ne ho, se la villetta è vuota da secoli? Ci penso e mi avviluppo in una mantella di sensi di colpa.

Guardo il prete e ancora una volta gli propongo la vecchia sedia.

Ho ancora molte case da visitare, abbia pazienza”.

Il viso gentile di una giovinezza mai vissuta mi suggeriva un’età: trentacinque o poco più. Eravamo coetanei. Eppure non guardava bene negli occhi mentre comunicava col destinatario d’una benedizione con il più glaciale Lei. Aveva paura di sporcarsi, mi venne subito in mente.

Le sedie sono pulite. Mariangela la domestica viene almeno una volta alla settimana.”

Lei ha fede, dica”, dice ora con un tono da predica comprensibilmente: ha paura di sporcarsi anche moralmente, quest’uomo.

È venuto da solo?”, devio.

Gian Andrea il chierichetto è malato, purtroppo”.

Ora gli faccio una mascherata a questo coglione, non avrò pietà io, oh non più del suo Dio con gli ingiusti. Lo farò cacare sotto, o anche peggio di così. Vuol essere un martire? Eh vediamo. Questo pensavo nel mio sì… mio testone.

Cominciamo dal salone, venga”, bisbigliai andando dritto per il corridoio e subito dentro.

Pensai che se non fosse passata Mariangela in una settimana avrei ridotto il salone muffito a una vera latrina; non mi sarei contentato di pisciare in bottiglia – come d’abitudine quel mio personaggio – e avrei urinato come un cane lungo i muri, e cacato proprio come i cani a una spanna dal pavimento. Poi accesi la luce, con la luce vennero i ricordi: dal mio ritorno non si erano ripresentati con quella violenza. Canzoni suonate dal giradischi a alto altissimo volume, i giochi da tavolo spianati al pavimento e papà a giocare pazientemente con noi, il vento che entrava direttamente dalla campagna riarsa, l’odore di letame dai campi dei nostri vicini e ancora fotogrammi schegge impazzite e cocci di storia. Tutto ciò s’era interrotto molto presto, eppure aveva lasciato le tracce più sanguinose – e io su tutto avrei cacato spruzzato la mia rabbia fisiologica. Ma mi accontentai di guardare la lampadina nuda, la sedia al centro e i due metri più in alto la corda: guardai al palcoscenico rinunciando ad ogni altro gioco (che avrebbe prima o dopo mostrato la corda). La tonaca la sentivo alle mie spalle, spargeva un piccolo odore di pulito.

Ero un uomo solo nel testo. Non avevo più fratelli: uno viveva in un altro stato e dopotutto l’altro, il maggiore aveva progetti più importanti di me, sull’orlo di un nuovo matrimonio che festeggeranno a fine primavera – mi rimaneva poco altro che non fosse il mio testone.

Mi divertiva l’idea d’essere un personaggio in un testo; ogni gesto avrebbe dovuto essere potente in modo da convincere profondamente il lettore mio Dio, arrecargli sollievo dal grigiore dell’infinito a costo ovviamente di atroci reali sofferenze; e con questo spirito presi posizione. E.

E il prete che aveva la sua fede ma non sapeva – assolutamente – di trovarsi nelle maglie di questo testo; quel giovanotto insicuro e distante cominciò a strillare a vuoto.

Dio misericordioso, cosa sta facendo! Sono venuto a benedire la casa! Per la santa Pasqua!”. Come se volesse chiamare disperatamente aiuto sì, ma rivolgendosi a chi, a chi – pensavo. E stringevo il nodo alla nuca, sguardo fisso su di lui.

Dopo la prima ondata, tentò di forzare a cigolii e clangori la vecchia porta. Poverino. Chi sa cosa provava in quegli sbalzi. Io non ebbi un brivido di pietà.

Se non mi ascolta mi lascio molleggiare all’ingiù. Vede, ho bisogno di parlare”.

Il colletto dell’abito faceva da diga a tutto quel sudare; ma rimase in un modo o nell’altro rivolto verso di me. Gli occhi aperti forse non guardavano.

Stia zitto, bravo. Lei non immagina nemmeno in quale situazione si trova”.

Pallido.

Lei pensa di esser nelle mani di Dio. Vero? Eppure qui decido io ogni virgola”.

Sospiri.

Vede, lei crede in quel Dio ma, in un testo come questo, non c’è nessuna inopinabile misericordia, qui si rende conto solamente al nostro lettore, Dio nient’affatto misericordioso, non riesco a spiegarmi meglio in una congestione simile!”

Cosa dice: Dio ci guarda”.

Non è il Dio in cui lei ha fede. Capisce?”

Lei è matto, deve farsi curare”.

Esistono personaggi che si scrivono il destino, e guardi me per esempio; e personaggi completamente in preda a testi altrui”.

Guardava me invece come il Diavolo. Credeva davvero di essere se stesso, una persona vera.

Io ero entrato perfettamente nel temibile personaggio, mi muovevo sopra una sedia esattamente in quel modo e, guarda caso, proiettavo sul muro e parte del soffitto l’ombra. La lampadina nuda alle mie spalle mi sbalzava nero sulla muraglia. Hai visto, disse, o meglio: l’hai visto… È alla mercé del testo. Hai seguito il consiglio del tuo… geniale testone, hai fatto come t’ho ordinato. Io che scrivo questa virgola, qui nel testo luminoso e bianco, io sono il tuo testone. Sono la parte più intelligente del tuo corpo. Non potrai darmi torto, sicuro, o non mi chiamo Daniele Muriano. Io sono l’enorme testo che ti comprende, l’intelligenza che ti è stata riconosciuta, la memoria e la forma dei tuoi ricordi, la follia.

Senti quel che dice? E riesci a capire in che situazione ci troviamo? Capisci che scherzo?”

Mi rivolgeva una preghiera recondita col tip tap delle gambette. Le travi al soffitto erano sempre più nere. Il puzzo della muffa agli angoli delle pareti era una forma vivente. Gli occhi di tutto il pianeta erano idealmente alle pareti di questa bestemmia dall’aspetto di salone.

Dio ingiusto e lordo, Dio ingiusto e lordo”, disse il prete.

Lo guardai con le convessità degli occhi sprizzate (come palle di biliardo colpite da un punto imprecisato della testa o del testone) fuori di me o di lui, mentre mi lasciavo tirare dalla sempre uguale a se stessa forza di gravità.

Mi considerai, pochi attimi prima della fine del testo, in quel merdoso scenario.

Con le tue parole hai fatto strage della verità”, disse il personaggio del prete. E c’era un vaso vuoto e smerigliato all’angolo a destra dell’ingresso. C’era un fazzoletto per terra, appallottolato e come appena sbocciato su un campo grigio pietra. E c’era in questa trasfigurazione un cane di umidità alla parete opposta, la forma era esatta e dai bordi, fra poco, avrebbe potuto staccarsi un cane d’intonaco e pietrame pronto a saltare nella stanza. C’era l’ombra del testone penzolante e morto. C’era infine il quadernetto in un angolo del salone che oscillava insieme all’ombra della stanza. Come oscillavo io, nelle ultime valutazioni sul misfatto. Avevo, sì, montato bene la scenografia all’alba subito dopo essermi affacciato alla finestra. L’avevo ben chiusa. Giro degli scuri. La sedia. Doveva stare là dov’è stata scalciata or ora. E montato il patibolo: il cappio di là dalla trave. Ma perché. Perché si arriva perfino a mimare nella realtà quel che s’inventa… Perché si deve piegare la propria vita all’esigenza dell’invenzione? Ho voluto stupidamente fare nella mia vita ciò che un personaggio ha vissuto immaginalmente e adesso sono qui a spenzolarmi nel salone. Ero una persona e mi sono immaginato d’essere un personaggio scritto. È la fine che mi merito.

Mi sorprendo a rileggere questo testo, mentre è tutta la mattina che mi muovo per casa in preda all’immaginazione e cerco una fine a questo miserabile personaggio. Si ostina a voler sopravviversi ma della sua fine toccherà sentenziare al giudice ultimo, che è rimasto ad ascoltare fino quest’ultima mia parola.

Liturgia dello sballo

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di Hilary Tiscione

Prende un piatto dalla credenza, lo scalda sul fuoco.
Prende un pacchetto dalla tasca, lo apre sul piatto.
Fa due linee proporzionate.
Prende una banconota da dieci euro e ne fa una cannuccia.
Mauro, porta la cannuccia al naso. Aspira forte e fa un grugnito.
La cocaina la prende lungo una strada vicino ai campi di carciofi.
Nei campi ci sono i marocchini che la notte non si vedono, ma scrutano tutto.
Spegne la Punto blu metallizzata in un varco sterrato, scende dall’auto e fa un fischio, poi un altro ancora. Quel verso scuote i marocchini, li accende. Hanno gli occhi rotondi e lucenti come fanali.
“Dammene due”, dice. “Grandi eh, fai il bravo”. I marocchini gli sembrano tutti uguali. Tranne uno che ha un neo sporgente sulla mascella, sembra il culo di una zecca. Ha la punta del naso piegata all’ingiù e le labbra sottili, atipiche.
Poi gli dà una pacca sulla nuca quando infilano la testa dentro al finestrino per sporgere la roba e prendere i soldi. A volte le banconote sono piegate su sé stesse come fossero origami.
La Punto di Mauro è scassata. Certi peli del suo cane lupo stanno incastrati dentro le fibre scure dei sedili, ci sono un numero imprecisato di mozziconi sbocconcellati e cotti dal sole dentro il posacenere che poi è un portabottiglie, in verità. Involucri di cioccolati fondenti, fazzoletti, depliant, scontrini dimenticati nelle tasche delle portiere. C’è anche un verbale, una matita senza punta e qualche cavo.
La notte, la lascia nel parcheggio del condominio dove vive; a volte la dimentica aperta. Scende nel garage con i pacchetti sistemati nella tasca dei jeans e chiude la saracinesca arrugginita dietro le spalle. Prende da un vecchio baule una bottiglia di plastica da un litro e mezzo con un foro rotondo nella parte più alta, è piena d’acqua per metà. Incomincia così la liturgia dello sballo.
Prende un cucchiaio.
Prende l’ammoniaca.
Prende una penna svuotata dell’anima, la carta stagnola e uno stuzzicadenti.
Appoggia la stagnola sulla bocca della bottiglia, la blocca con l’anello di plastica del tappo.
Accende una sigaretta e la lascia consumarsi sul posacenere. Bucherella la stagnola con lo stuzzicadenti, con il rimasuglio di un pacchetto di sigarette vuoto solleva la cenere della sigaretta e la sistema sopra i fori della stagnola.
Guarda per un momento la bicicletta a righe verdi e rosa della sua bambina. Ha ancora le rotelle. Starà dormendo, pensa. Nel letto grande della mamma – lo chiama così – al posto suo vicino a una donna buttata sul materasso come se ci fosse caduta per sbaglio con la bocca un po’ aperta e gli occhi aggrottati.
In modo meticoloso fa scendere un po’ di cocaina sul cucchiaio.
Dentro il cucchiaio lascia cadere qualche goccia di ammoniaca, poi accende il fuoco con un acciarino. Il dorso concavo del cucchiaio è marchiato dalle fiamme, dove si accavallano gli uni sugli altri dei cerchi fra il bronzo e il caffè.
L’ammoniaca si scalda e la cocaina diventa olio. Forma delle chiazze che Mauro sposta via con lo stuzzicadenti. Lavora l’olio stupefacente, in sostanza.
Lascia asciugare i cristalli di cocaina sulla carta, poi ne prende uno e lo sistema in cima alla bottiglia, sul letto di cenere.
“Eccoci”. Si rivolge alla bottiglia, alla stagnola, all’ammoniaca, alla cenere, alla penna vuota, alla bicicletta di sua figlia.
Fa un bel respiro e sputa fuori l’aria.
Brucia il cristallo sulla cenere, aggrappato con le labbra al fusto della penna, aspira. Si forma una nebbia densa sopra l’acqua della bottiglia che pare piscio.
La inala tutta e tiene il collo su per aria. Conta sette, forse di più. Poi ne butta fuori lo scarto sguarnito del veleno.
Resta per qualche ora in sintonia con tutti i suoi ordigni del crack.
All’alba, Mauro, riparte verso i campi.

 

  • Fotografoa: Smoking Crack by Michael L Kimble

Lo “Shōbōgenzō” di Sergio Oriani disponibile online

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[Il 22 marzo 2004 Dario Voltolini pubblicava su Nazione Indiana un’intervista a Sergio Oriani, monaco zen e traduttore dall’inglese dello Shōbōgenzō [Tesoro dell’occhio della Legge corretta], titolo sotto cui sono comunemente raccolti molti scritti di Dōgen (1200-1253). Su richiesta dell’amico Dario riposto qui quell’intervista, segnalando che da poco quella stessa traduzione è disponibile online a questo link. a.r.]

Intervista a Sergio Oriani di Dario Voltolini

Finalmente abbiamo a disposizione nella nostra lingua questo importantissimo testo, lo Shōbōgenzō. Lo ha tradotto e curato Sergio Oriani, al quale chiedo in primo luogo di illustrare le difficoltà di traduzione del testo e l’impostazione che ha dato al suo lavoro di traduzione.

Fuga da una comunità mennonita (Ovvero le ironie della storia)

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di Roberto Antolini
Gli anabattisti sono stati la parte più radicale della Riforma protestante, la componente che ha subito la persecuzione più feroce, sia da parte cattolica, che protestante (luterana e calvinista). Nella Zurigo cinquecentesca di Zwingli venivano annegati, ricevevano una morte d’acqua, perché d’acqua “peccavano”: la loro caratteristica più riconoscibile era infatti quella di rifiutare il pedobattesimo, il battesimo standard, di default per tutti, fatto in età inconsapevole, e dunque una chiesa “territoriale”, legata al potere politico. Un legame a cui loro si sottraevano appartandosi in congregazioni di comunità “fuori dal mondo”, radicalmente pacifiste (si rifiutavano di partecipare alle guerre del tempo), basate sulla meticolosa applicazione dei precetti evangelici in modo collettivo, identificante, e a volte anche sulla proprietà comune. Le loro comunità sono state cacciate dall’Europa della controriforma e delle guerre di religione, si sono rifugiate prima sempre più ad oriente, per poi finire in America, unico luogo dove hanno potuto sopravvivere e trovare una loro pace operosa. Oggi troviamo comunità rurali di origine anabattista – divise fra le correnti mennonita, hutterita ed amish – soprattutto negli USA ed in Canada, con emanazioni novecentesche in Sud America. Mentre in Europa sono rimasti solo sparuti gruppi mennoniti, urbani e ben inseriti nella società moderna, quasi esclusivamente in Olanda e Germania del nord (Gli Amish hanno avuto qualche anno fa, nel 1985, una loro notorietà mediatica grazie al bel film di successo The Whitnes, Il testimone, con Harrison Ford).
Miriam Toews (Steinbach, 1964) è cresciuta in una comunità mennonita in Canada, per andarsene a 18 anni e diventare scrittrice di successo ed attrice. Nei suoi romanzi viene spesso descritta la società mennonita: famiglie infelici e stritolate da una cultura dagli orizzonti ristretti, da un super-io religiso angosciante e penalizzante, che soffoca la vitalità dell’individuo. E fa un certo effetto incontrare questa erede degli esuli anabattisti fuggiti alle guerre di religione, impegnata secoli dopo in una sua personale rivolta letteraria contro l’oppressione a cui è approdata la ricerca di libertà dei suoi avi: ironie della storia. E occasione per riflettere sui controcircuiti fra trascendenza e routine quotidiana, ideali e realtà, dimensione collettiva comunitaria e soggettività individuale. Francesco Alberoni direbbe: fra “stato nascente” ed “istituzionalizzazione”, e mi sembra la terminologia più corretta.
Donne che parlano (Marcos y Marcos, 2018, € 18,00) si ispira ad un episodio vero, verificatosi in una comunità mennonita della Bolivia, fra il 2005 e il 2009. Le donne della comunità, di notte, venivano narcotizzate e stuprate. Si svegliavano al mattino sanguinanti e doloranti (qualcuna incinta), ma la comunità attribuiva la cosa al demonio, ed a dio che lo permetteva per punirle dei loro peccati. Finché non venne scoperto che la responsabilità era di maschi della comunità. Il romanzo è una «risposta narrativa» (p.9) a questi fatti, e mette in scena i discorsi delle donne riunite due giorni di fila in assemblea per decidere il da farsi, che alla fine decidono di andarsene dalla comunità, con i loro figli piccoli. La forma della scrittura mima i modi di un verbale della riunione: l’affastrellarsi dei discorsi concitati, divaganti, contrastati e intimoriti, perché le donne sono analfabete e prive delle conoscenze  necessarie per una fuga: «siamo donne senza voce – dicono di sé – siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese  in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare» (p.78). Il confronto senza bussola porta a galla una geografia psichica della comunità, le sue modalità di adattamento, e ragiona sulle radici degli attriti. Costruendo – un po’ alla volta – una solidarietà fra le donne, e la faticosa riconquista di un senso per le loro vite, fino alla maturazione della decisione di sottrarsi con una fuga collettiva a quell’inferno in cui erano fino ad allora state immerse, decisione motivata con un ragionamento che non nega le basi della loro cultura, ma ne sviluppa una critica: «migrazione, movimento libertà. Vogliamo proteggere i nostri figli e vogliamo pensare. Vogliamo conservare la nostra fede» (p.245).
La svolta dalla babele iniziale ad un ordine del discorso, verso la decisione finale, prende slancio quando le donne – loro donne analfabete, a cui “la parola di dio” è sempre stata riportata dalle autorità maschili della comunità, fusa all’interpretazione della stessa – arrivano a mettere a punto una propria interpretazione della “parola”, una interpretazione che non le sottomette più ai maschi, ma le libera «Mi balena un pensiero: Forse è la prima volta che le donne di Molotschna [il nome della comunità] hanno interpretato la parola di Dio da sole» (p.190). Significativo come questo passo sembri riproporre, ancora e sempre, la teoria luterana della “libertà del cristiano” (libertà nell’intepretazione della “parola”, da cui nasce tutta la Riforma), come strumento di liberazione, anche dal nuovo contesto di oppressione nato da una vecchia pratica di “libertà del cristiano”, cristallizatasi strada facendo nel suo contrario.
Non sono le donne analfabete – ovviamente – a stendere i verbali delle riunione: all’architettura narrativa serviva un’altra figura. È quella di August, l’unico maschio coinvolto nella rivolta delle donne, colui che scrive, tramanda il senso. Un marginale, cacciato dalla comunità da bambino assieme ai suoi genitori, tornatovi con le pive nel sacco da adulto, a cercare un difficile equilibrio contro la propria tendenza al suicidio, a cercare anche lui un senso della propria vita, che trova in una concreta funzione di supporto (colui che scrive) alla ribellione delle donne. Una specie di allegoria della figura dell’intellettuale déraciné impegnato nei processi di liberazione. Un autoritratto camuffato dell’Autrice, come quelli che certi pittori rinascimentali hanno lasciato in incognito, nascosto nell’anglolo in basso, nei propri quadri.

 

NdR: qui si può leggere la recensione di Gianni Biondillo a un romanzo precedente, “Un tipo a posto”, di Miriam Toews

 

 

 

 

 

(Miriam Toews)

Furland®

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di Edoardo Zambelli

Tullio Avoledo, Furland®, Chiarelettere, 2018, 240 pagine

Chissà quanti milioni di morti si potrebbero evitare, se potessimo sottoporre a editing la Storia. Quanti massacri sono nati da un fraintendimento, quante persecuzioni da una manciata di sillabe. Un tempo, quando c’erano ancora le messe, la gente recitava meccanicamente il Credo, senza sapere quante dispute, spesso sanguinose, ci fossero state e quali e quante ragioni politiche vi fossero perché la chiesa avesse adottato con quella precisa formula quella preghiera, sponsorizzata dall’imperatore Costantino in persona, che trasformava Gesù da profeta mortale in Figlio di Dio.

La Storia è una brutta faccenda, purtroppo impossibile da evitare.

Sta succedendo qualcosa nel Furland: un uomo vestito da Zorro sta sabotando alcuni degli spettacoli che vi si svolgono ogni giorno, e ci scappano anche i morti. Però un attimo, ora che ci penso, bisognerà prima dire cos’è il Furland, altrimenti andare avanti è inutile. Il Furland è il Friuli, non quello di oggi, almeno non ancora. È il Friuli come lo immagina Tullio Avoledo nel suo nuovo libro, Furland appunto, con un salto avanti di non troppi anni rispetto al nostro 2018.

Anzi, a guardar bene, Avoledo chiede al lettore un salto di immaginazione che viene quasi facile. Parla di un futuro che è già, almeno in parte, il nostro presente. E fa paura. Per assurdo fa anche più paura del futuro che sempre Avoledo ha descritto nei libri ambientati nella continuity di Metro 2033, il gigantesco mondo narrativo creato dallo scrittore russo Dmitry Glukhovsky, di cui Avoledo ha curato la parte ambientata in Italia (le parti, anzi, i libri finora usciti sono due: Le radici del cielo e La crociata dei bambini, editi entrambi da Multiplayer edizioni).

Noi non scegliamo.

Nessuno di noi sceglie.

Pensa a tutto l’Amministrazione.

Tu devi solo nascere, e il Furland penserà a te, da quando nasci a quando muori. In cambio devi limitarti a prestare il tuo Servizio, che dura esattamente da quando nasci a quando muori.

Ora, venendo al libro. Di cosa parla? È bene chiarire un poco meglio cosa sia effettivamente questo Furland. Che è il Friuli del futuro l’ho già detto. Quello che non ho detto è che, in seguito a una secessione, in Friuli si è instaurata una dittatura (alla guida c’è il misterioso Vittorio Volpatti, il Leader che in pochi hanno visto e che tutti ricordano), e la regione, adesso stato autonomo, è stata trasformata in un gigantesco parco dei divertimenti. Ogni giorno, infatti, il Furland mette in scena ricostruzioni storiche (si va da fucilazioni di massa naziste a sacrifici druidici) e l’intera regione è organizzata in aree tematiche. Di conseguenza, la vita dei friulani è rigorosamente organizzata secondo i criteri di veridicità che ogni area implica.

Ora, come ho detto in apertura, sta succedendo qualcosa nel Furland: qualcuno – l’uomo con la maschera di Zorro – sta cercando di sabotare dall’interno il sistema su cui si regge l’intero stato.

Francesco Salvador, il protagonista del libro, lavora nell’area AK44, la ricostruzione del Kosakenland del ’44 (l’occupazione della Carnia da parte delle truppe cosacche alleate ai nazisti). Incaricato dal suo diretto superiore, e affiancato da un attore che una plastica ha reso uguale a Ernest Hemingway, tocca a lui cercare di capire chi ci sia dietro gli attentati che iniziano a farsi sempre più frequenti e che minacciano l’immagine del Furland come stato perfetto.

Improvvisatosi detective (in fin dei conti anche lui, nonostante il grado di ufficiale che per ragioni di messa in scena, altro non è che un attore), Francesco inizierà un vagabondaggio attraverso il Furland, passando da un’epoca all’altra nello spazio di pochi chilometri – e rischiando più volte la vita -, via via scoperchiando una cospirazione che pare avere proporzioni decisamente più grandi di quanto immaginato.

«Se questa fosse un’ipotetica partita di scacchi, tu giochi con i neri o con i bianchi?»

«Specifica chi sono i bianchi, secondo te.»

«I bianchi sono l’Amministrazione. I neri sono Zorro e gli altri che sabotano le Attrazioni.»

La Grandi sorrise.

«Nero e bianco non bastano. Aggiungici altri colori. Diciamo che io gioco con i verdi. O gli azzurri. Scegli tu. Comunque gli assassini che vi hanno attaccato, anche se vestiti di nero, erano bianchi.»

«E i turchi uccisi? Erano neri?»

«Bianchi anche loro…»

«Ma allora i neri chi sono?»

«Forse non esistono» sussurrò, strizzando l’occhio.

Furland è un libro che a me viene da definire “urgente”. E non perché sbrigativo nella sua esecuzione (da quel punto di vista è perfetto), ma perché l’impressione è che Avoledo abbia sentito, non solo come scrittore ma anche come cittadino, il bisogno di dire determinate cose e di dirle adesso. Mi tornano in mente le parole del bellissimo discorso di Harold Pinter per l’accettazione del Premio Nobel 2005 (Art, truth and politics, edito in Italia da Einaudi, in appendice alla raccolta di testi Chiaro di luna). Dopo aver discusso il concetto di verità nell’arte – dove in sostanza dice che vero e falso sono intercambiabili ai fini dell’esplorazione della realtà, che addirittura una stessa cosa può essere al contempo vera e falsa -, Pinter passa al concetto di verità in politica. E qui dice: come cittadino, però, non posso (sostenere che vero e falso siano intercambiabili). Come cittadino ho l’obbligo di chiedere: cosa è vero? Cosa è falso?

Questo sembra chiederselo anche Avoledo, cercando in quella che è la nostra realtà una verità, un qualcosa che spieghi ciò che ci sta accadendo. E lo fa raccontando un viaggio, che è quello di Francesco Salvador ma è anche il nostro.

Cosa c’è alla fine del viaggio?

Alla fine del viaggio ci sono i mostri, c’è l’orrore. E la cosa più inquietante di tutte, io credo, è che Avoledo ci fa vedere che i mostri potremmo essere noi. In questo momento storico c’è bisogno di libri così, di scrittori così. Se poi questi scrittori riescono anche a darci tutto questo raccontando una bella storia, scritta bene, e anche divertente – a parer mio, in questo Avoledo è il più bravo di tutti -, allora si può dire solo una cosa: grazie.

Intervista a Laura Martignani

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 di Nicoletta Prestifilippo

Il termine persona ha origini profonde, da condurre alle forme mutevoli della maschera nel teatro, e dunque a un ruolo estraneo al proprio essere, a una tensione che muove il dentro fino al fuori, verso un punto massimo che è di ispirazione e immedesimazione. Vi è un tempo per tutto: per la crescita, il confronto, la prova che segna l’eccezione e affianca la regola; quest’ultima vede nella ripetizione, un meccanismo utile all’apprendimento. Serve molta calma, e la capacità di scegliere ciò che è giusto o sbagliato per il proprio essere, anzitutto: da sempre vi è chi manovra e chi si lascia manovrare. Chi muove i fili, a scapito di tristi burattini che si rivelano depositari del soffio della vita solo in casi fortunati o tenaci, sono le cosiddette personalità forti, illustri; sono i presuntuosi, sono i forti, quelli che si mostrano tutti d’un pezzo e intanto crollano alla prima contraddizione, al primo cenno di ragionamento non del tutto slegato dalle emozioni. Siamo una macchina umana, per alcuni; per altri un groviglio di sensazioni, una massa confusa e trascinata fino ai bordi delle scelte assennate e un po’ più in là, alla deriva. Le mezze misure non attraggono più, chi tentenna è ritenuto un perdente ancora prima di dare forza alle parole: bisognerebbe chiarirsi le idee, ma non c’è tempo, non c’è posto per tutti, ciascuno arraffi ciò che può, e chiuda la faccenda.

Le eccezioni ci salvano sempre. Tra queste fa capolino Laura Martignani, per la bellezza e l’acume dei pensieri confluiti in un piccolo e prezioso saggio pubblicato dalla casa editrice Divergenze, intitolato L’indebolimento dei Legami Umani, ovvero Come la competizione ha progressivamente ridotto la solidarietà.

Leggere non è mai un esercizio sterile, e di domande, quando un testo risulta valido, si fa sempre una buona scorta: la mia, ho potuto dividerla con l’autrice dell’opera citata.

Nell’eccessiva fretta dei tempi odierni, pieni di sviste e di (false) priorità, si può ancora scansare l’approssimazione in favore di un contatto autentico con sé stessi e poi con gli altri? Cosa favorisce questa condizione, secondo te?

Io credo che si possa ancora. Le nostre giornate sono piene di impegni da sbrigare, di persone da contattare, di eventi a cui non possiamo mancare. Eppure io credo che sia sempre necessario trovare un momento per noi stessi, un momento nel quale ci ritroviamo faccia a faccia con il nostro io interiore e nel quale possiamo permetterci di riscoprirci. Le distrazioni sono dietro l’angolo, per cui è difficile mantenere il focus sul nostro obiettivo, che sia la meta della giornata, del viaggio o della vita. Per farlo, è dunque importante prendersi i propri istanti di solitudine. Puoi farlo sfogandoti in cucina, andando a correre di prima mattina quando tutti sono ancora immersi in un sonno profondo, puoi farlo semplicemente con la musica alle orecchie, quella che più ti ispira, oppure, ancora più genuinamente, sedendoti e pensando. Può sembrare stupido per alcuni, banale per atri, ma mi capita spesso di volermi prendere qualche minuto unicamente per pensare. Mi capita più che altro prima di dormire, quando metto la sveglia e appoggio il telefono sul comodino, e allora sono finalmente da sola con me stessa, a pensare alla giornata appena trascorsa, a ciò che mi ha resa soddisfatta e a ciò che, invece, avrei voluto migliorare o cambiare. Penso ai miei progetti, ai miei sogni, immagino dialoghi con le altre persone che vorrei si realizzassero. Insomma, sogno ancor prima di sognare. E questo esercizio mi aiuta a liberare la mente e a conoscermi ogni volta un pizzico di più. Il segreto sta nel trovare il tempo dove sembrerebbe che il tempo non ci sia. E prima lo troviamo per noi stessi, prima riusciremo a capire chi e quali sono le nostre priorità.

Impariamo il senso largo e confortante del plurale, sapendo che il due, nei casi più fortunati, è unione salda che non esclude la particolarità dell’individuo. Il legame madre-figlio è forse il più antico e durevole: nessuna teoria può avvicinarsi a ciò che si avverte in maniera così radicata e istintiva, anche e soprattutto nei gesti. Ma i legami sono persino con la terra: i luoghi d’origine, e quelli sconosciuti e poi esplorati che sono rimasti dentro, per qualche motivo. Quali sono i tuoi punti cardine, la culla, le derive e gli approdi, i confini che vorresti attraversare per la prima volta, magari la seconda, o infinite volte ancora?

Ho il pregio, forse in parte il difetto, di affezionarmi a qualunque luogo abbia significato per me un momento di serenità. Oppure un momento di riflessione, a volte persino di confusione o difficoltà. Perciò sono infiniti i posti che mi hanno lasciato qualcosa, ma ce ne sono alcuni in particolare che, nell’istante in cui io ho lasciato a loro una parte di me, hanno ricambiato arricchendomi di qualcosa di più prezioso. Ma parto dall’origine. Bologna è la città che ho sempre considerato casa, pur avendo vissuto lì solo i primi due anni di vita. Non è solo la mia città natale, ma anche quella dei miei genitori, che si sono conosciuti poco fuori Bologna e che, in quell’ambiente, hanno vissuto tutta la loro infanzia ed adolescenza. Non ho ricordi nitidi della piccola me bolognese, ma tante foto nel vecchio appartamento a due fermate dal centro e qualche flashback sbiadito del cortile di casa. Nulla di più. Eppure, ogni volta che torno nella patria delle lasagne, ogni volta che, guardando fuori dal finestrino, vedo San Luca che spunta dai colli, mi sento a casa. Così, se non lo sapevate, è per tutti i bolognesi. Se vedi il santuario sulla cima di una delle colline, sai che sei al sicuro, che non manca tanto al tuo nido.

A due anni e mezzo, ci siamo trasferiti in un paesino in provincia di Ferrara, Santa Maria Codifiume. Allora di abitanti se ne contavano massimo 2500, ma nel corso degli anni sono almeno raddoppiati, così come l’estensione della zona. E basta attraversare il fiume Reno per essere già in provincia di Bologna. Quindi non abbiamo pienamente tradito la patria, non sia mai. E come se già il posto non fosse già abbastanza sconosciuto ed isolato, i miei genitori hanno scelto una casetta di un Borgo a cinque minuti dal centro, se così si può chiamare, del paesello. Oggi questo è il mio Borgo, e la nostra casa, come dice sempre mio papà, è la base. Io sono una vagabonda, non mi piace stare ferma, ma quando torno, qui mi sento in pace con me stessa e posso prendermi tutti i momenti per pensare di cui ho bisogno. L’amore per il silenzio e la tranquillità l’ho ereditato da entrambi i miei genitori, e, al ritorno da un viaggio o dalla frenesia della città, da una giornata di lavoro o da una serata con amici, questo è il nostro posto felice.

E pensa che, a 16 anni, ho deciso di abbandonare il mio posto felice per 10 mesi. E ho dovuto trasferire la sua localizzazione a circa 8000 chilometri da qui. La Cina è il confine che mai avrei pensato di attraversare. E non parlo del confine fisico, ma di quello mentale. Non pensavo che la mia timidezza e il mio attaccamento alla quotidianità mi avrebbero mai permesso di compiere un tale passo, eppure oggi sono qui a ringraziare per la milionesima volta la me di 4 anni fa. In seconda liceo avevo preso il primo aereo della mia vita per uno scambio a Bordeaux, e ti confido che i primi tre giorni piangevo in camera da sola perché sentivo la mancanza di casa. Ma alla fine di quella settimana avevo legato molto con tutta la famiglia francese e mi ero detta, che dopotutto, quell’esperienza mi era proprio piaciuta. Poi in terza liceo una nuova avventura a Brighton e il mio sogno inglese che si realizzava. E poi tanti piccoli viaggi con i miei. Insomma, avevo capito che mi piaceva andare alla scoperta di ciò che stava fuori dal mio borgo, e, presa da un memento di pura pazzia, il quarto anno l’ho trascorso interamente in terra di ravioli al vapore. Perché la Cina? Studiavo il cinese a scuola e volevo impararlo come si doveva. Solo quando ero là, ho capito che la lingua era l’ultimo dei miei obiettivi (e i volontari di Intercultura, l’associazione che mi ha permesso di partire, me l’avevano sempre detto). Prima volevo capire la mentalità dei cinesi, che cosa amassero e come vivessero la loro routine, volevo trascorrere il mio tempo con le sorelline ospitanti, vederle giocare e fare i compiti, imparare a fare i ravioli con la nonna e andare a fare compere con la mamma. Volevo assistere all’apertura del ristorante di mio papà, viaggiare per la Cina con i miei amici italiani, assaggiare ogni piatto tipico che fosse commestibile, fare tutto quello che mi era concesso fare in 10 mesi di vita e tornare a casa con una vita da raccontare. Alla fine la lingua à venuta da sé. Senza che io me ne preoccupassi troppo. E anche la nuova me è venuta da sé. Al diavolo quella timidezza che mi aveva sempre contraddistinta, al diavolo la paura di sbagliare, al diavolo il piatto pronto. Mese dopo mese si sono fatte spazio la determinazione, la voglia di fare, la necessità di trovare sempre una soluzione o un piano B. Non mi sono mai dovuta adattare, perché ho apprezzato ogni singolo istante di quell’esperienza che mi ha davvero cambiato la vita. Se non fosse stato per quell’atto di coraggio, non mi sarei nemmeno trasferita per l’università. Ora vivo tra il mio borgo e Verona, che è diventata la mia seconda casa, solo in un borgo un po’ più grande e meno silenzioso. Ma è una città che mi trasmette pace ugualmente, e che non cambierei per nessuna al mondo, in questo lasso di vita. I confini che voglio varcare sono tantissimi, impossibile da elencare uno per uno, ma per me il viaggio è arricchimento, condivisione, avventura e cambiamento. Quindi non voglio fermarmi. Al primo posto c’è la Thailandia. Ma per il momento sto bene dove sono, sia che io mi trovi nel borgo, sia che io mi trovi nella città di Romeo e Giulietta. Ora non c’è nulla che vorrei cambiare.

Ne L’indebolimento dei Legami Umani parli della competizione come di una forza che in alcuni casi, sa di buone promesse: solo quando si chiama per nome i propri limiti si può arrivare a superare certe resistenze, e a fare leva su fondamenta solide, sulle quali basare le scelte più importanti. Lasciarsi muovere esclusivamente dall’insicurezza, e dunque permettere agli altri di definirci, non è forse la maniera più rapida di dare a quella stessa competizione, dei connotati negativi?

Come spiego nel mio saggio, la competizione è spesso inevitabile nella maggior parte dei contesti in cui ci troviamo, perché in ognuno di quelli abbiamo il dovere o la possibilità di porci fianco a fianco con altre persone, o faccia a faccia con altre realtà. Se si viene a creare quella competizione sana, il cui unico scopo è quello di spingerci a dare il meglio di noi, allora niente paura, non dobbiamo sconfiggerla. Ma se si tratta di una competizione malsana, mossa dall’invidia, dal desiderio di distruggere il prossimo per apparire migliori o di vincere utilizzando scorciatoie e giochi sporchi, allora è perché siamo noi i primi a farci prevaricare dall’insicurezza. Convinti di non potercela fare con le nostre sole forze e di non poter dare il meglio senza farci sopraffare da una concorrenza sleale vero gli altri, finiamo per sfociare proprio nell’indebolimento dei legami umani, appunto. Tutto sta nel ricercare un equilibrio in cui diciamo sì alla competizione che ti arricchisce e ti spinge a fare di più e no a quella che ci allontana dall’obiettivo personale per lasciare spazio alla distruzione del prossimo. Dopotutto, ognuno di noi sta gareggiando contro se stesso, se è almeno un poco determinato, per raggiungere mete sempre più grandi e soddisfacenti, quindi perché gareggiare anche contro gli altri?

Per associazione mentale, ti viene in mente un libro, un dipinto, uno scatto, dove i concetti di legame umano, di competizione e solidarietà che compaiono già nel titolo della plaquette a cui ti sei dedicata, prendono corpo ed espressione?

Senza pensarci troppo, mi viene in mente L’urlo di Munch. Il protagonista del quadro è angosciato e i due personaggi poco distanti da lui si fingono sordi al suo urlo e sembra quasi vogliano uscire dal dipinto. Racchiude proprio il titolo del mio saggio, perché è il chiaro esempio di legami umani indeboliti, di solidarietà che viene a mancare. Oggi non c’è tempo di stare ad ascoltare gli altri, non c’è tempo di provvedere a bisogni che non siano i nostri. Non c’è tempo per persone angosciose che chiedono aiuto. Viviamo ogni momento all’estrema velocità, e non siamo disposti a fermarci un attimo ad osservare. Vediamo ma non guardiamo. Non ci soffermiamo. Non lo facciamo quando si tratta di noi stessi e delle persone che ci vogliono bene, figurarsi di chi vediamo passando di sfuggita. Proprio come quei due uomini nel quadro di Munch.

Sapresti scegliere una riflessione, tra quelle che hai scritto, che senti tua più di altre?

“Il confine aiuta a proteggersi dalle delusioni, però al tempo stesso frena la continua ricerca di affetto: non lascia più neppure la possibilità di tentare, che vi si ha già rinunciato”. L’ho imparato col tempo, anzi, lo sto imparando tuttora e ho ancora tanto da imparare. Ho abbattuto tanti confini e ne vado fiera, ma ce ne sono altri che mi sembrano ancora invalicabili. Ce sono alcuni che non mi spaventano più, come quello del viaggio e della scoperta di una cultura completamente diversa dalla mia, o come quello del contatto con uno sconosciuto. Fino a pochi anni fa facevo fatica a relazionarmi con persone nuove, a mostrare il lato solare di me. Tendevo a restare troppo sulle mie e a non farmi mai apprezzare a primo impatto. Oggi quel guscio è sparito e nella mia quotidianità mi capita quasi tutti i giorni di trovarmi di fronte ad amici di amici, a persone che incontro per caso o che non vedevo da molto tempo e non avere problemi nell’allacciare o riallacciare quasi immediatamente un dialogo vivace e aperto. Lo stesso guscio, però, non sparisce quando si tratta di mostrarmi ad una persona che mi interessa, che mi piace. Faccio fatica a lasciarmi andare perché so che, quando lo faccio, do tutta me stessa. Le delusioni ti insegnano a non commettere di nuovo gli stessi errori, dunque quando incontro qualcuno che suscita la mia curiosità, rimango sempre fregata da una vocina che mi ripete “Attenta, ci sei già passata, non vorrai mica ripetere lo stesso errore!”. E così puntualmente mi freno, un po’ presa dalla paura, un po’ dall’insicurezza di non essere ricambiata, e questo mi porta ad assumere un modo di fare che io stessa non sopporto. Quindi le cose vanno così: rinuncio senza nemmeno tentare.

E’ una parte del mio carattere su cui sto cercando di lavorare, perché mi rendo conto di rischiare di perdere occasioni irripetibili. Anche se con la scusa del destino, mi dico che se son rose… fioriranno!

Il punto di forza del tuo scritto, è nell’evoluzione: sono molti gli spunti da raccogliere, e i pensieri continuano poi, ramificati e vivaci, anche a libro chiuso. Dove vorresti arrivare, con quelli? Hai stretto più legami con la fantasia, oppure coi piedi ben piantati al suolo, coi passi curiosi ma essenziali e misurati?

Come ti dicevo all’inizio, per me il pensiero è parte integrante della mia quotidianità. Ci sono certe occasioni in cui mi dico che dovrei pensare meno e agire di più, ma posso dirmi abbastanza soddisfatta della quantità di pensiero che metto in ogni azione che faccio. Penso che prima di raggiungere qualsiasi meta con i propri piedi, sia necessario farlo con la propria mente. Se puoi immaginarlo, puoi farlo. Le mie riflessioni mi portano spesso molto lontano, a volte anche fuori dalla realtà, ma al tempo stesso mi tengono con i piedi per terra. Insomma, non è che prendo e vado, ecco. Esamino prima i pro e i contro, ragiono, calcolo, ma poi aggiungo sempre quel pizzico di pazzia ed imprevedibilità che rende tutto più magico. I miei passi, hai detto bene, li definisco curiosi e misurati, perché so dove voglio andare, ma so anche dove posso andare. E non sempre i due verbi coincidono. Poi, come dico spesso, le sorprese arrivano quando meno te lo aspetti. E lì non c’è bisogno di alcuna razionalità, le cogli al balzo e le vivi in tutta la loro novità. Per i legami, invece, non viaggio quasi mai di fantasia. Tendo a tenermi sulla difensiva, a rafforzarli giorno dopo giorno e ad osservare attentamente il comportamento dell’altro.

Chi ha detto che le persone non si finiscono mai di conoscere, ha tutta la mia ragione. Perciò non c’è spazio per la fantasia, ma solo per gesti concreti, pensieri che trasmettono fiducia e legami basati sulla conoscenza profonda l’uno dell’altro. Valgono le esperienze vissute insieme, i momenti di difficoltà che si sono superati insieme, valgono gli interessi e i valori comuni. Bisogna andarci piano prima di parlare di Amicizia, di affetto o di Amore. Che quando inizi a voler bene, poi fai fatica a smettere. Un po’ come le sigarette.

Joan Sales, l’«Incerta gloria» della guerra e della memoria

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Incerta gloria di Joan Sales, un classico della letteratura catalana, esce per la prima volta in Italia per iniziativa dell’editore Nottetempo (608 pagine, 28 euro), nella traduzione di Amaranta Sbardella.

Scrittore, traduttore, editore, Joan Sales (Barcellona, 1912-1983) è una delle figure più importanti del panorama catalano e spagnolo del dopoguerra. Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1936, Sales, militante del Partito comunista, era assessore alla lingua catalana presso il governo della Generalitat. Dopo una breve formazione nella Scuola di Guerra, partì per il fronte di Madrid, poi passò in quello d’Aragona. Nel gennaio del 1939 attraversò la frontiera francese con il grado di comandante dell’Armata repubblicana e fu internato nel campo francese di Prats-de-Molló. Durante il suo esilio, durato nove anni, iniziò a dedicarsi all’attività letteraria. Dopo il suo ritorno in Spagna, nel 1948, lavorò come editore durante la difficilissima rinascita culturale catalana sotto il franchismo. Nel 1955 fondò una collana entrata nella storia della letteratura iberica, Club dels Novelist, all’interno della casa editrice Club Editor, che accolse, tra gli altri, La piazza del diamante di Mercè Rodoreda.

Incerta gloria  – romanzo testimoniale e filosofico sulla Guerra Civile spagnola –  fu pubblicato in una prima versione nel 1956, con numerosi tagli da parte della censura franchista. Di edizione in edizione, ciascuna con nuove aggiunte man mano che la censura cambiava pelle, Incerta gloria arrivò alla pubblicazione definitiva nel 1971. L’opera ha ricevuto numerosi premi ed è stata tradotta, tra le altre lingue, in francese, tedesco e inglese.

Giugno 1937. I ribelli di Franco hanno attaccato la Seconda Repubblica da quasi un anno, e tutta la Spagna è chiamata alle armi in una lotta tra fratelli destinata alla rovina. Nella retroguardia di Castel de Olivo, sul fronte di Aragona, il tenente Lluís de Brocà ritrova un vecchio amico dei tempi universitari, l’eccentrico Juli Soleràs, e s’innamora della Carlana, l’enigmatica vedova del signorotto locale. A Barcellona, però, Lluís ha lasciato una compagna e un figlio piccolo. Non appena questi lo raggiungeranno sul fronte, le tensioni e le passioni tra i tre giovani amici si acuiranno sino a deflagrare.

Per gentile concessione dell’editore, proponiamo a seguire: 1) un’introduzione al romanzo firmata da Maria Bohigas, curatrice dell’edizione francese; 2) la Confessione dell’autore (prefazione all’opera); 3) un estratto dalla prima parte del volume.

***

1) Il romanzo dei vinti che sopravvive alla censura

«Mi vergogno della complicazione di tutte queste note, che si sono sovrapposte alla prima “Confessione dell’autore”. Ma chissà che questa confusione di note successive, scritte tutte velatamente, non possa restituire alle nuove generazioni una vaga idea delle difficoltà che dovevano affrontare molto spesso i libri catalani durante il franchismo, se non parlavano solo di fiori e di violette».

Così si esprime Joan Sales nel 1981, all’inizio dell’ennesima edizione di Incerta gloria, testo travagliato, sottoposto a continua censura negli anni di Franco. Basti pensare che Sales presentò la prima versione del romanzo al premio Joanot Martorell nel 1955 e ne pubblicò l’ultima nel 1971. Un quarto di secolo separa questi due momenti: quattro versioni diverse, dal primo volume di 335 pagine a quello definitivo di 910. E un verso di Michelangelo – “mentre che ’l danno e la vergogna dura” – nel colophon, in una pagina che non si è soliti leggere, per sconfessare un prologo in cui Sales, dietro imposizione del censore, assicurava che il suo romanzo non sarebbe più cambiato.

Oggi abbiamo finalmente la fortuna di leggere Incerta gloria senza imposizioni e note, con un unico testo di apertura, la “Confessione dell’autore”, in seguito al quale Sales tace e lascia la parola ai personaggi sotto forma di epistolario o di confessione. Dal fronte d’Aragona Lluís scrive al fratello; dalla Barcellona assediata dalle bombe Trini, compagna di Lluís, scrive a Soleràs, suo grande amico e compagno d’armi di Lluís; Cruells, soldato seminarista, scrive a se stesso, dal fronte, ma vent’anni dopo. Una donna e i suoi tre uomini – il proprio, in pieno vortice d’amore con un’aragonese; gli altri due, innamorati di lei; i tre vinti nell’amore come nella guerra.

“Esprime idee eretiche
in un linguaggio 
grossolano
e schifoso. 
Trapela una filosofia esistenzialista
da condannare per forma e contenuto.
Anche venissero eliminati interi passaggi,
l’opera rimarrebbe IMPUBBLICABILE.
Va PROIBITA ASSOLUTAMENTE.”
Parere della censura franchista,

scheda del lettore n. 32, 1956.

Hanno tutti vent’anni. Sono tutti partiti volontari per il fronte, mossi da quell’affanno che nulla deve alle ideologie, poco agli ideali e tanto alla “sete di gloria” o d’immortalità che si chiama ancora desiderio. Tutti e tre si ritrovano nella stessa brigata, in un “fronte morto” dove la guerra è per mesi uno scenario di fondo. Lluís fa lunghe passeggiate solitarie, e le sue lettere traboccano di paesaggi desertici e di visioni allucinate dopo il passaggio degli anarchici, come quella delle mummie che, in un monastero abbandonato, mimano la parodia di una scena di nozze. Parlano della vita quotidiana dei soldati e poco di battaglie. O restituiscono i dialoghi con Soleràs, giovane goffo che sogna un bel corpo mentre parla di Kierkegaard, psicoanalisi e cristianesimo, che finge di aver provato cocaina e prostitute ma ha sempre vissuto sotto l’ala di una zia bigotta e zitella. Mitomania o onestà radicale, nessuno lo sa.

Seguono le lettere di Trini, speculari a quelle di Lluís: dalle retrovie dove lotta per la sopravvivenza sua e del figlio di sei anni, riprende gli stessi episodi per piegarli verso la verità, se falsi, verso il falso, se veri. L’imbroglio (di Soleràs) diviene santità; l’eroismo (di Lluís) miseria sessuale. L’oscuro affanno di gloria mostra ora il rovescio della medaglia. In questo epistolario femminile compare pure la rivolta anarchica di Barcellona, implacabilmente demistificata e senza gli orpelli orwelliani, raccontata peraltro da una figlia di anarchici: Trini evoca a lungo la militanza di prima della guerra, l’ateismo in cui è cresciuta e che s’incrina quando scrive: “Il Male esiste”. Il Male che Cruells non vedeva prima della guerra e che riconoscerà solo dopo la guerra, perché per lui la guerra è gioia. Scopre l’amicizia, mai conosciuta, e l’intensità della vita. Del romanzo potrebbe essere stato il copista, giacché le azioni degli altri si imprimono nella sua memoria vergine di esperienze. Cruells è l’unico a prendere la parola vent’anni dopo. Il seminarista di vent’anni è, a quaranta, un prete nevrastenico, un “rosso” durante il franchismo. Vent’anni dopo, Cruells può finalmente parlare di sé. Se la guerra era azione, il dopoguerra diventa riflessione, talmente ossessiva da far assumere a ogni cosa le sembianze di un sogno. In Incerta gloria il tempo ha una profondità particolare. Non corrompe la memoria bensì l’individuo che, incapace di riconoscersi, è perseguitato da quegli “istanti di gloria” orfani di giovinezza e di senso. Sotto l’apparenza di un affresco, Incerta gloria è forse innanzitutto una parabola, del fallimento come destino umano, quando l’istante degenera in durata.

Maria Bohigas
Editrice e traduttrice al francese di Incerta gloria
Madremanya, 18 luglio 2018

 

***

Joan Sales. Foto di Arxiu Sales. Da www.lletres.net/sales/cmt/

2) Confessione dell’autore

The uncertain glory of an April day… Qualsiasi amante di Shakespeare conosce queste parole – e se proprio dovessi riassumere il mio romanzo in una sola riga, non potrei fare altrimenti. Arriva un momento, nella vita, in cui si ha come l’impressione di risvegliarsi da un sogno. Non siamo piú giovani. Ovviamente non avremmo potuto esserlo in eterno. E cosa significava essere giovani? Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage, dice Baudelaire. Forse ogni giovinezza lo è stata, lo è, lo sarà. Una tempesta tenebrosa attraversata da lampi di gloria – di incerta gloria – in un giorno di aprile… Un oscuro affanno ci muove in quegli anni tormentati e difficili. Cerchiamo, piú o meno consapevolmente, una gloria che non sapremmo definire. La cerchiamo in molte cose, ma soprattutto nell’amore – e nella guerra, se la guerra incrocia il nostro cammino. È stato questo il caso della mia generazione. In alcuni momenti della vita, la sete di gloria diventa dolorosamente acuta. Tanto piú acuta è la sete quanto piú incerta è la gloria di cui siamo assetati, ovvero, piú enigmatica. Il mio romanzo prova a cogliere, in certi suoi personaggi, proprio alcuni di questi istanti. Con quale risultato? Non sono io a doverlo dire. Tuttavia, so che molto verrà perdonato a chi molto ha amato. Un tempo c’era una maggiore devozione per san Disma e per santa Maria Maddalena. Non esisteva la pedanteria di oggi e la gente non cercava di dissimulare con tesi, messaggi o teorie astratte quel fondo appassionato che tutti portiamo dentro di noi. Siamo peccatori con una grande sete di gloria. Perché la gloria è il nostro fine.

Barcellona, dicembre 1956

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3) Lettera di Lluís

8 luglio
Continuiamo a starcene con le mani in mano, in attesa che arrivino le reclute. Abbiamo già deciso i quadri delle future compagnie: a me spetta la quarta e come capitano avrò il tenente Gallart, l’ex garzone del caffè.

Il paese non potrebbe essere piú triste; infossato, non lo vedi finché non ci sei finito dentro. Il comune si estende per un’area vasta: si tratta perlopiú di terre incolte e deserte, e dei grandi ulivi ne giustificano il nome. A quanto mi hanno riferito, il monastero è distante, piú in basso lungo il fiume, a valle. Faccio delle lunghe camminate, a volte mi siedo ai piedi di un ulivo e me ne rimango talmente immobile che i corvi scendono a posarsi a terra a pochi passi da me, quasi non ci fossi. Ce ne sono centinaia, e mi fanno compagnia. Sullo sfondo, delle montagne di roccia brulla chiudono l’orizzonte. Capita che una nuvola le sovrasti: la roccia e la nuvola, la permanenza e l’evanescenza. La nube fila via, ma quanto è splendido il suo aspetto cangiante al calar del sole; la roccia è sempre uguale. Cosa è roccia e cosa è nuvola nella nostra vita? Quale vale di piú, tra le due? Qual è la parte di noi che deve rimanere immutabile? E siamo sicuri che valga piú dell’altra, quella che sfugge a ogni istante? O siamo in tutto e per tutto dei fantasmi, delle nuvole senza altra speranza che conoscere un istante di gloria, un solo istante, per poi dissolverci?

Ogni nostro istinto si ribella a una simile idea. “Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni”[1], parole di Spinoza. Conosco questa citazione grazie a Soleràs: chi, altrimenti, sarebbe capace di sorbirsi Spinoza? E l’immensità del nostro desiderio, come spiegare questo mistero? Come spiegare che proviamo questo immenso desiderio se non sappiamo per cosa lo proviamo, cosa desideriamo?

Tutto ha una spiegazione, se riusciamo a trovarla. Per esempio, il gran numero di corvi che tanto mi incuriosiva. Mentre me ne erravo senza meta per la regione, mi sono trovato all’improvviso come in mezzo a un cerchio di montagne della luna. Un posto davvero singolare: una sorta di cratere lunare, ampio, profondo ed enigmatico. Il sole era basso, la sua luce obliqua finiva per conferire all’insieme un’aria extraterrestre. Non un albero, non un cespuglio; nient’altro che il minerale… E un gioco di ombre e luci cosí crude come può esserlo solo il vuoto interplanetario. Era affascinante. Mi sono spinto avanti fino al ciglio del cratere per vederne il fondo, e un mucchio di ossa mi ha svelato il mistero. È il carnaio; la buitrera, come la chiamano loro. In questi paraggi ci sono piú pastori che contadini, pastori di pecore e di capre che gettano qui le bestie morte di malattia. Quando una mula si ammala e il veterinario non dà molte speranze, non aspettano nemmeno che tiri le cuoia, peserebbe troppo. La guidano a nerbate fino al fosso e lí le danno uno spintone. La mula vola di sotto e, se è fortunata, muore nella caduta, talvolta invece muore solo dopo qualche giorno. I corvi e gli avvoltoi sono deputati a mantenere pulita la buitrera, e bisogna ammettere che sono efficienti: niente è piú netto di quelle carcasse spoglie, di un bianco avorio. Ossa arida: non ricordo quale profeta descrive un grande deserto pieno di ossa. Umane, ovviamente, ma che cambia? La buitrera mi ha colpito nell’anima. L’aridità di quelle ossa mi faceva provare una sete indefinita, e mi tornavano in mente certe parole di Soleràs. “Una sete immensa, una goccia d’acqua per placarla, ecco che hai tutto: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Non so se hai mai sentito parlare degli atomi…” “Scusami,” l’avevo interrotto, di malumore, “ora non attaccare con le solite storie. Gli atomi sono una merda”.

L’aridità di quelle ossa mi faceva capire a quale sete immensa si riferisse Soleràs. “Devo vivere,” dicevo a me stesso. “Devo sbrigarmi a vivere prima che le mie ossa vengano gettate nella buitrera senza fondo che ci attende; devo vivere, ma come si fa, a vivere? Vivere! Un anno di guerra, un anno senza sapere cosa è una donna, e ce ne danno cosí pochi, di anni! Avrò consumato già la terza parte della razione che mi spetta…” Un pomeriggio, sul tardi, mi trovavo a un crocicchio, a quell’ora particolarmente deserto. Intendo, acutamente deserto, perché il deserto vi si palesava. C’era una nuvola, e il suo sfavillio era talmente silenzioso da mettere soggezione. La bellezza fa paura; per fortuna, ci si offre solo rare volte. In un crepuscolo come quello – fuori dall’Aragona non ne ho mai visti di cosí impressionanti – ci si sente soli davanti all’universo, come un reo davanti a un tribunale inappellabile. Di cosa ci accusano? Di essere cosí piccoli, cosí meschini, cosí brutti. L’immensità ci giudica e ci schiaccia… Ero assorto a tal punto che non sentii i passi; non mi accorsi della sua presenza finché la voce, grave e distante, mi distrasse dai miei pensieri: “Buonasera”.

Era una donna, con un bambino in braccio e un altro attaccato alla gonna. Una donna vestita a lutto, alta, ben fatta; e mi passò davanti senza nemmeno guardarmi. Una sorta di aura dolorosa l’avvolgeva mentre si allontanava lungo la strada, in controluce, pian piano. Chi era? In paese non l’avevo mai vista. Quando ormai erano già scomparsi dietro una svolta, mi resi conto che mi aveva salutato in catalano. Una catalana in questo paesello? Mistero. Sono stato tentato di crederla un’allucinazione.

(parte I, pp. 37-40)

 


[1]B. Spinoza, Etica, in Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, quinta parte: proposizione 23, scolio, Bompiani, Milano 2010, p. 1583.

Immagine di copertina: Gerda Taro

Breve relazione attorno alla pena capitale e ad altre consuetudini in vigore nella nostra comunità

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di Dario De Marco

Nella nostra terra è ancora in vigore la pena capitale. Siamo coscienti che questo può determinare un pregiudizio negativo nei nostri confronti, né possiamo in tutta sincerità negare la fondatezza di eventuali critiche che partano da questo dato di fatto. Tuttavia invitiamo ad usare tolleranza, e una certa misura di benevola prudenza, verso la nostra comunità: d’altro canto per noi la democrazia e i diritti civili sono conquiste recenti, sia in generale sia rispetto alla millenaria storia della nostra razza. Le libertà personali, l’uguaglianza, lo stato di diritto: sono concetti che abbiamo assunto nel nostro sistema di valori teorici, e che purtuttavia spesso abbiamo difficoltà a tradurre in pratica. Non siamo incivili; o meglio lo siamo, ma non del tutto: sappiamo che possiamo, anzi dobbiamo migliorare, e stiamo compiendo degli sforzi in tal senso, come si potrà desumere dal seguito del presente rapporto.

In verità, la pena capitale non è l’unica particolarità che contraddistingue gli usi vigenti, essendoci relativamente ad essa un’altra antica tradizione: la sentenza non specifica la data dell’esecuzione. Quest’ultima può avere luogo tanto immediatamente, quanto svariati anni dopo la condanna; e in questo lasso di tempo non è affatto scontato che il soggetto sia privato della libertà personale. Si sono dati casi di persone che hanno circolato senza ostacoli per decenni, ma che non sono sfuggite all’Amministrazione quando è arrivato il momento opportuno: la libertà di movimento non è un problema per l’Amministrazione, che ha i suoi mezzi per controllare e raggiungere i condannati ovunque siano.

Infatti, l’esecuzione della pena capitale presso la nostra comunità è legata a un’altra prassi giuridica peculiare: la sentenza non si cura di fissare un luogo preordinato per l’esecuzione. Nella maggior parte dei casi la sanzione è applicata dopo un periodo più o meno lungo di soggiorno in strutture di contenzione, appositamente pensate per i condannati: spesso la sentenza viene eseguita in questi luoghi, ma altrettanto spesso all’ultimo momento l’Amministrazione lascia ai soggetti, o ai loro parenti, la possibilità di scegliere, con umana clemenza spostando l’esecuzione nella privata dimora del condannato; il quale così può dare addio al mondo serenamente, circondato da oggetti noti e confortato dal calore dei suoi cari. Non sempre però un’esecuzione “casalinga” è sinonimo di dipartita quieta: molti qui ricordano la fine di quell’uomo, un padre di famiglia che si trovava solo in casa mentre moglie e figlie erano in vacanza, e che l’Amministrazione fece giustiziare nottetempo e senza preavviso (in quel caso la contestuale distruzione completa dell’immobile a mezzo combustione fu correttamente rubricata sotto la voce di pena pecuniaria accessoria). In altre situazioni, l’esecuzione è in luogo pubblico, anche se ciò non comporta necessariamente la presenza di un numeroso pubblico: ci sono persone giustiziate in piazza in pieno giorno, ma anche casi in cui l’Amministrazione lascia che il condannato si allontani verso un luogo poco frequentato o del tutto deserto, come la cima di una montagna, e lì interviene; sono questi i non rari casi in cui il recupero della salma è difficoltoso quando non impossibile.

Da quanto detto si sarà capito che c’è un’altra curiosa omissione, nelle sentenze che la nostra Amministrazione emette: non vi è specificato neanche il modo in cui esse andranno eseguite. Naturalmente quel che prova un condannato nell’ora del trapasso, nessuno è in grado di saperlo finché non lo sperimenta in prima persona, e in quel caso, non è poi in grado di riferirne; ciononostante, possiamo senza dubbio supporre che alcune modalità siano più cruente – molto utilizzate armi da fuoco, elettricità, gas, iniezione o ingestione di sostanze letali, meno frequente ma pur sempre previsto il ricorso ad acqua, fuoco, armi da taglio, persino animali – e altre prive o quasi di dolore; in certi casi il decesso avviene nel volgere di pochi minuti, in altri dopo mesi se non anni di così acute sofferenze – fisiche per il condannato, psicologiche per i parenti, che sono autorizzati e quasi obbligati ad assistervi – che potrebbero essere chiamate torture da un conoscitore superficiale della nostra realtà, ma che noi ci guardiamo bene dal riprovare, non essendo a conoscenza delle recondite ragioni dell’Amministrazione. Una modalità molto ambita presso i condannati è quella dell’esecuzione durante il sonno; salvo poi che, nelle rare occorrenze in cui la dispone, l’Amministrazione si ritrova sommersa dai reclami, avanzati ovviamente non dal diretto interessato ma dai parenti, che probabilmente si sentono defraudati dalla circostanza di essersi trovati anch’essi in analogo stato di ottundimento sensoriale.

Di fatto le modalità, varie e del tutto prive di orpelli formali, con cui le sentenze vengono eseguite consentono l’applicazione del dispositivo legale in qualsiasi circostanza, anche molto piacevole. Si danno casi, rari quanto eclatanti, in cui il condannato riceve la sua pena mentre è alle battute finali di un incontro amatorio: se da un lato questo può rappresentare una punizione aggiuntiva, c’è anche chi la interpreta come una condizione favorevole, una dolcissima variante, un’apoteosi dei sensi e dell’intera esistenza. Altre volte, la pena capitale arriva in modo oggettivamente misericordioso, come quando a essere giustiziata è una persona anziana che ha appena perso tutti i suoi cari: allora l’esecuzione arriva quasi come una grazia, troncando il seguitare di inutili sofferenze. C’è da dire peraltro che le sopra dette sono eccezioni, essendo la maggior parte delle esecuzioni messe in atto in circostanze che si faticherebbe a definire diversamente che normali: situazioni qualsiasi, non particolarmente gioiose né incredibilmente dolorose, come a voler rimarcare l’indifferenza della pena capitale rispetto all’ora e al luogo – e forse anche alla persona – in cui quanto stabilito si traduce in realtà. Senza peraltro permettersi di avanzare ipotesi sulla natura delle imperscrutabili decisioni per cui è giustamente famosa, bisogna aggiungere che l’Amministrazione sembra a volte espletare le proprie funzioni con un velo di qualcosa lontanamente avvicinabile all’ironia: non si spiegherebbero altrimenti casi come quello del condannato che venne inviato in una regione impervia, un deserto ribollente di caldo e di scorpioni, dove infuriava un conflitto feroce; vedeva attorno a sé compagni di sventura cadere come birilli, giustiziati nei modi più vari, dalla fucilazione al veleno, dalla decapitazione al soffocamento fino al rogo, ma lui restava inspiegabilmente in vita; finché quando ritornò, trionfante e convinto di essere stato graziato, fu giustiziato pochi metri prima di raggiungere la propria casa. O casi come quello di un altro militare condannato, che mentre guidava la sua macchina volante si ritrovò in picchiata verso il suolo senza riuscire a fermare la caduta: credette allora di stare eseguendo la propria sentenza, mentre alla fine restò illeso, perché ad essere in atto era l’esecuzione di due intere classi di scuola materna.

Già, ci rendiamo conto che questa è la parte che risulta più ostica per chi si avvicina alla nostra civiltà, ma non si può spiegare con altre parole quello che già i lettori di questo rapporto avranno dedotto: non sono solo il modo, il giorno e il luogo che la sentenza tiene segreti; ad essere interdetta al pubblico è la sentenza in sé, nonché lo svolgimento del processo, e lo stesso capo d’accusa. Vedete, la vostra difficoltà a comprendere queste notizie e a mettervi nei nostri panni non è superiore a quella che prova l’estensore della presente relazione nel dover esplicare ciò che per noi è vita quotidiana, come l’azoto che respiriamo. Sapete, non si sa neanche quandoè stata emessa la sentenza. Naturalmente su questi aspetti delle nostre normative sono sorte le più varie teorie politiche e interpretazioni giuridiche. La più seguita corrente di conservatori asserisce che la sentenza viene emessa al momento stesso della nascita (secondo una minoranza di giuristi, anzi, in quello del concepimento) e tutto quanto accade dopo è già preordinato benché ignoto al condannato e a chi gli è vicino. Dall’altro canto i progressisti respingono sdegnati la tesi, sostenendo che una corretta condotta di vita è quanto si raccomanda a tutti, e che in ogni caso le motivazioni della condanna vadano sempre ricercate in un comportamento non conforme alle leggi, in un atteggiamento che arreca danno od offesa nei confronti degli altri membri della comunità, o di se stessi. Ancora, rappresentanti di una fetta minoritaria dell’estrema sinistra non si pongono la domanda, anzi argomentano che sia privo di senso porsela; in questo le loro posizioni paradossalmente coincidono con quelle della più antica, e oggi declinante, tra le formazioni conservatrici. Infine, non mancano i sovversivi, le formazioni clandestine che dal buio dei loro rifugi avanzano addirittura dubbi sul sevenga emessa la sentenza. E in passato ci sono stati anche insigni studiosi che in seguito a traversie personali hanno smarrito il raziocinio, e hanno iniziato a sostenere la più anarchica delle tesi: non è solo la sentenza, è la stessa amministrazione che non esiste; ma di costoro per fortuna si è persa ogni traccia.

Neanche a dirlo, l’Amministrazione non ha confortato, né d’altro canto sconfessato, nessuna di queste ipotesi; limitandosi a lasciare qua e là i segni della propria presenza, dei propri interventi (eccettuati ovviamente quelli quotidiani in occasione delle esecuzioni): segni che ogni partito politico ha avuto gioco nel leggere a proprio vantaggio.

Ma quello che accomuna tutte le posizioni, dall’estrema destra all’estrema sinistra, è l’ammissione che la condanna sia in sospeso per tutti, che ciascuno di noi è nel braccio della morte. Questa sicurezza, benché possa sembrare indecifrabile ai vostri occhi, ci dà la tranquillità che deriva dal conoscere il destino che ci attende.

E poi, nonostante la condanna che pende, il fatto che tutto continui a funzionare come se niente fosse, e ogni essere umano gioisca e lotti e soffra, e mostri un attaccamento alla vita non meno commovente che ingiustificato – come se non fosse un moribondo: non è meraviglioso?

Critica dell’ultracontemporaneo: Sonia Caporossi, Da che verso stai? e La Parola Informe

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Intervista di Gianluca Garrapa

Il lavoro critico e antologico di Sonia Caporossi si è esplicato negli ultimi due anni attraverso i seguenti volumi, Da che verso stai?, il cui sottotitolo è, evocativamente, Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi (Marco Saya Edizioni 2017), e l’antologia La Parola Informe, esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità (Marco Saya Edizioni 2018). Ho cercato in questa intervista di far emergere le intenzioni della curatrice dalle stesse parole dei suoi libri.

GG: In Da che verso stai? scrivi: “eppure, sono proprio i poeti, ormai, a durare poco”.: ci spieghi questa affermazione e ci dici se, per te, si scrive ancora per ‘passione’ o per qualcos’altro? mi spiego: un autore giovanissimo, un enfant prodige, che smette di scrivere perché non ha più nulla da dire, ha iniziato a scrivere per il desiderio di farlo o per quello di ‘primeggiare’, per dimostrare solo, insomma, di essere il migliore? ci può stare un po’ di narcisismo in questo modo di operare?

SC: L’affermazione in base alla quale i poeti oggigiorno “durano poco” è fondata sulla constatazione del fatto che sono molti i giovani poeti che si fermano all’opera prima, come se si esaurisse la vena scrittoria in una dissipazione autofagocitante. Scrivo nel primo saggio del libro che si tratta di “un fatto ciclicamente verificabile. Altro che dissipatio humani generis alla Morselli, questa è una vera e propria dissipatio Auctoris: poeti promettenti, novità praticamente assolute si esauriscono presto, in una sorta di assorbimento e autocannibalismo del poeticum in se stesso. Questo fenomeno è una manifestazione del tempo breve, situazione a cui oggi è sottoposta proprio la Storia nel senso macrocosmico del termine”. È un po’ la sindrome di Rimbaud, ma la verità è che questi giovani autori non se ne vanno sul serio: alcuni rimangono sullo sfondo, a lavorare “nel ramo”: diventano giornalisti, curatori di antologie e collane, redattori di riviste letterarie, critici letterari. Il problema reale è, secondo me, quella che chiamo da anni “la malattia dell’epigonismo, in base alla quale, come scrivo più avanti nello stesso saggio, “la capacità di ricognizione del valore letterario di un fatto d’arte sta sparendo, o forse sta solo rimanendo nella nicchia o nell’ombra anche ciò che valore lo ha da vendere, contemporaneamente concedendo la magra consolazione dello sfogo, magari, a qualche sporadica e sparuta emersione dal sommerso di un’anomalia, immediatamente rificcata a forza sotto la superficie”.

GG: Matte Blanco era uno psicoanalista che paragonava l’inconscio a un insieme infinito, tu invece in Da Che Verso Stai? parli del gruppo di Cantor: “L’insieme di Cantor (vogliate per un istante seguirmi nel difficile parallelismo) è l’insieme che rimane dopo aver iterato il procedimento dell’individuazione di x intervalli fra 0 e 1 infinite volte; questo vuol dire che, applicando il concetto per analogia alla fondazione reiterata di x gruppi poetici, ciò crea una polvere, un’indistinzione, fino al punto che ci si domanda se all’interno dell’insieme sia presente davvero qualcosa”: mi piace questa commistione che fai, per tutto il saggio tra l’altro, tra filosofia, poesia e matematica: ci spieghi meglio l’insieme di Cantor e perché hai sposato una scelta ‘massimalista’ per comporre il tuo saggio?

SC: Io ho una formazione logico-estetica, mi occupo di filosofia del linguaggio da circa vent’anni; forse non si tratta nemmeno di massimalismo (quello lo riservo più volentieri alle mie opere letterarie), bensì di impostazione metodologica, di forma mentis. Non c’era esempio migliore di Cantor per indicare simbolicamente l’indeterminatezza poetica di cui la dimensione ultracontemporanea è permeata. Alla luce di un principio fondante come quello della centralità del testo, l’indistinzione generata dal fare gruppo a tutti i costi produce un mancato riconoscimento delle poetiche differenziali dei vari autori. Detto in termini molto semplici, si conoscono i nomi ma molto meno cosa scrivono e soprattutto cosa vogliano dire con la loro scrittura. Questo problema è collegato alla diffusione indiscriminata di versi e versicoli nell’era della confusione meta-mediatica e, di conseguenza, all’epigonismo disturbante della “poesia ai tempi di facebook”, non-luogo virtuale in cui, se pubblico la lista della spesa, postveritativamente divengo poeta autotelico e autoriferito, e se lo dico io lo sono e basta, non vale il giudizio obiettivo, estetico o critico, che possa affermare in qualsiasi maniera il contrario.

GG: A questo riguardo, scrivi che “Fra di noi, così come fra i cosiddetti “intellettuali della piazza di facebook”, ci si conosce più o meno tutti, eppure non sta scritto da nessuna parte che, qualora capiti di scrivere del libro di un amico, per un malinteso senso della conventicola la recensione debba essere per forza positiva, e soprattutto che l’amico, in caso di stroncatura (neanche troppo improbabile, a rigor di sincerità), se la debba prendere a male.”: come è andata mutando la scrittura poetica con l’avvento dei social network e, di conseguenza, la critica letteraria?

SC: Come dicevo poc’anzi, l’epigonismo è trasceso a livelli siderali proprio a causa della falsa democraticità del mezzo internettiano, che produce di fronte all’occhio dimesso e annoiato del lettore atto allo scrolling quotidiano una sequela indifferenziata di versificazioni anonime e coatte. Per questo è necessario il ritorno urgente alla centralità del testo di cui parlavo prima, all’analisi testuale che sappia discernere, in base a principi estetico-critici esplicitati e condivisi, il verso brutto da quello anche solo passabile. Scrivo infatti in un altro brano del libro: “accade sempre più spesso che la centralità del testo, per il critico letterario ultracontemporaneo, non sia più, purtroppo, il concetto più importante. Non sembra più esserci, oggi, una consapevolezza ermeneutica fondante e fondata, tale che possa consentire al critico di mettere in secondo piano tutto ciò che risulta periferico al libro in quanto oggetto d’arte; nella nostra edulcorata ed edulcorante ultracontemporaneità internettiana, invece, ciò che è semplicemente marginale e accessorio al testo letterario sembra quasi determinarne l’entità”. È una questione eminentemente sociologica, di prevalenza dannosa dell’immagine sui meri fatti d’arte.

GG: “La principale conseguenza è che insomma risulta sempre più difficile distinguere fra arte brutta perché monstrum dei tempi e bruttezza mostruosa tout court.”: Perniola, nel suo ‘L’arte e la sua ombra’, parlava di ‘realismo piscotico’ dell’arte contemporanea, riferendosi in particolare alla body art, per cui l’arte arriva al pubblico senza la mediazione del simbolico: il sangue viene presentato per quello che è. Credi che la bruttezza stia anche in questa mancata mediazione simbolica pure nel caso della poesia? La violenza truculenta in esametri di certi passi antichi greci è ormai sostituita dalla violenza tutta e subito subìta dei films che credo mandino in TV (credo, non ho il TV)?

SC: l’arte ultracontemporanea non è altro che un’enorme atrocity exhibition, laddove l’arte bella in senso proprio, ovvero l’arte classica, non rimane che luogo idilliaco fruito da pochi (e per certi versi, meno male, dato che costoro il 99 percento delle volte vivono con la testa su un altro pianeta). Questa modificazione della percezione del senso estetico delle cose si è originata alla fine del Settecento con l’avanzare del Romanticismo, come aveva già intuito Hegel il quale parlava non tanto, a rigore filologico, di “morte dell’arte”, bensì di suo “superamento” nel passaggio dall’arte bella a quella romantica, comprendente in sé anche l’elemento della notte, della malattia, del sogno, dell’irrazionale e quindi, inevitabilmente anche il brutto inteso in senso classico, che però diviene l’interessante, il fascinante nella nuova ottica dell’attenzione alla dimensione straniante dell’arte. Dal Decadentismo in poi e per tutto il Novecento, dalle Avanguardie storiche in particolare fino ad arrivare ai giorni nostri, l’arte si è trasformata da espressione appagante della bellezza senz’ulteriore determinazione a manifestazione simbolica, ricondotta quasi freudianamente a condensazione e spostamento analogici, della realtà in cui viviamo: e la realtà del Novecento, nel tormento e nella devastazione di ben due guerre mondiali, non poteva che esprimere un elemento irriducibile di atrocità; non parliamo dei tempi attuali nella postverità che permea il Duemila. Pertanto, non parlerei di realismo psicotico come Perniola, bensì di analogismo simbolico della realtà così-com’è, ovvero: orrenda.

GG: In un altro passo scrivi: “il lettore non “chiede” poesia e se la chiede, esige che sia “facile””: questo mi ha fatto pensare che l’opera d’arte è facile se soddisfa la domanda d’amore dello spettatore, se la soddisfa subito, immediatamente, compulsivamente. sei d’accordo?

SC: penso che un esempio massimo sia da identificare in certe espressioni di street poetry, laddove la semplice scritta aforistica sul muro viene scambiata per afflato poetico anche se spesso manca completamente non dico l’intenzione originaria del graffitista di turno, ma proprio l’elaborazione tecnico-formale di fondo atta a rendere la poesia tale. La gente ha bisogno di riconoscere immediatamente ciò con cui ha a che fare, non foss’altro che i sentimenti, soprattutto in tempi come questi, condannati alla banalità e alla piattezza dal fenomeno massivo e dannatamente pericoloso dell’analfabetismo emozionale di cui parla Galimberti. E questo mi porta a pensare che chi chiede poesia “facile” non sappia proprio cosa sia l’amore tout court. Per il nesso fra amore e funzione sociale della poesia rimando ad un mio articolo su Midnight. https://midnightmagazine.org/la-funzione-sociale-ultracontemporanea-della-poesia-io-tu-nesso/

GG: sono d’accordo con te quando dici: “La poesia, insomma, così come non devia dalla propria condizione di testimonianza dell’umanità, che la rende forma di qualsiasi contenuto eventuale, allo stesso modo, e per lo stesso motivo di fondo, non si traduce, si traghetta piuttosto dall’informe alla forma”: immagino come sarebbe possibile tradurre la lingua del finnegan’s wake, di Joyce. dunque? non c’è soluzione? o leggiamo poesia in lingua originale oppure la sua parafrasi in italiano?

SC: Esatto. Come ho cercato di esemplificare attraverso il lavoro degli autori racconti nell’antologia La Parola Informe, il fondamento estetico della poesia non è altro che la forma nell’atto stesso del suo farsi (nella sua fase di in-formità, insomma), giacché il contenuto può essere davvero qualsiasi cosa. Questo comporta tra l’altro l’impossibilità di escludere dal novero del poetico singole parole, espressioni, sintagmi ritenuti dai più accalorati avanguardisti come superati o disusati. Ma comporta soprattutto l’impossibilità della traduzione, a meno di non essere perfettamente consapevoli del fatto che ogni traduzione poetica non è altro che una nuova poesia, completamente diversa e indipendente dalla prima, che con la prima mantiene solamente un rapporto di contiguità testuale nel contenuto, mai e poi mai nella forma. Ma questo vedi, non lo dico mica io, lo diceva già Croce nel 1902 (“cosa?? Stai riprendendo un assunto di quel veteromammuth di Croce in tempi di critica postmoderna??”). Ho cercato di buttare giù un sunto della mia poetica qui
https://midnightmagazine.org/poetica-more-geometrico-demonstrata/

GG: d’accordo anche quando scrivi. “I Canoni Letterari, così, scritti in maiuscolo, sono sempre assiomaticamente sistemi chiusi; e io parteggio per il sistema aperto, via via perfettibile proprio perché includente. Come del resto è la natura del linguaggio.” sei d’accordo sul fatto che l’unico ‘canone’ sta nel desiderio, di cui parlavo sopra? cioè che la poesia sia tale quando il soggetto parlante ha la necessità di mettere in forma la propria ‘souffrance’ di essere mancante, per citare Lacan… (ovviamente questa è una domanda dettata dalla mia deformazione professionale)?

SC: Per parafrasare Pizzuto, “la poesia è poesia, se la poesia è poesia, finché la poesia è poesia”. Scrivo in un passaggio del capitolo intitolato Miseria della critica al tempo della rete che “La risposta è che troppo spesso i canoni sono concetti costruttivistici a priori. Persino le letterature di rottura, a un certo punto, sono state canonizzate a loro volta: sempre meno tempo è necessario a far sì che, da innovazione e movimento di rottura, un’avanguardia diventi canone, norma, elencatio normotetica, generando così in breve tempo, per spirito d’emulazione e volontà di cavalcare l’onda, nient’altro che epigoni degli epigoni degli epigoni”. Ma poi il concetto di canone non ha proprio ragione di esistere, perché per risultare rappresentativo dovrebbe logicamente essere perennemente onnicomprensivo, sed sic, via paradoxi, non est…per me personalmente il canone è sempre lacanianamente il desiderio: sono un essere desiderante, una specie di scorpione che si getta volontariamente nel fuoco e si lascia bruciare sempre e comunque, nel bene e nel male.

GG: “Siamo nell’era del digito, ergo poeta sum, e con questa indeterminatezza di fondo dovremo prima o poi fare i conti definitivi.”: credi che però il social network possa generare nuove forme di poesia? penso anche all’esperimento di poesia troll, o al fatto di far diventare la poesia uno scritto davvero rivolto all’altro, presente ma non visibile, come direbbe Eugenio Barba, e anche l’utilizzo di twitter, di t9, insomma: certamente il madrigale, a esempio, è nato per altri motivi: e per altri motivi potrebbe nascere una vera e proprio neoforma di versificazione?

SC: la poesia può uscir fuori pure scrivendo con un bastoncino sulla nuda terra della savana in mezzo ai rinoceronti o nella troposfera coi raggi laser, che c’entra, non è il luogo di espressione il punto, bensì, com’è ormai chiaro da quanto abbiamo detto finora, l’uso che se ne fa. Enough said.

GG:
uno dei passi che preferisco è questo: “Meglio affermare con forza e decisione che la letteratura di genere non esiste. Così come non esistono, del resto, i categoremi morali: c’è infatti in letteratura qualcosa che possa essere considerato osceno? Solo la bruttezza del testo medesimo.”: ce ne parli?

SC:
Concepire i generi letterari è un atteggiamento limitante che appartiene a quell’istanza definitoria assiomatica e stringente in base alla quale vengono ad esistere inevitabilmente, nell’immaginario collettivo dei lettori e dei critici, generi letterari di serie A e di serie B, e ciò è inammissibile: Edgar Allan Poe, geniale creatore dell’horror e del poliziesco, ha scritto forse cose di serie B? Allo stesso modo, non esistono categorie nemmeno in senso esteso, per quanto riguarda la dimensione libera e aperta del letterario: non esiste in natura, per parlare con Lotman, nulla che possa essere considerato estraneo ad essa, e siccome la letteratura è la messa in arte e in cultura della natura stessa, ovverossia della realtà (ma non vorrei sembrare lukacsiana!), di conseguenza niente in letteratura può essere espunto, rigettato o considerato impubblicabile su basi di mero giudizio morale. L’osceno, quindi, andrà riconsiderato non su basi etiche, bensì esclusivamente estetiche: è la bruttezza del testo in senso formale ciò che è da rifuggire, non il brutto che esso esprime nel suo contenuto, il quale si dà inevitabilmente in quanto reale, come in natura così in cultura.

GG: “Per tutte queste ragioni, riflettere sulle intime correlazioni fra poesia e musica, a mio parere, potrebbe di nuovo aprire un varco ai poeti verso nuove forme di poesia, ma soprattutto alla critica in direzione di nuove impostazioni di ricerca.”: mi piace dire che quando smisi di suonare il pianoforte, passai dalla tastiera del piano a quella del pc: credo che la musica sia fondamentale e il ritmo necessario. la tua esperienza di musicista come ha influenzato la tua scrittura poetica?

SC: suono art rock con venature space e psichedeliche da vent’anni, la sperimentazione sonora fondata su solide basi tradizionali pregresse (nel caso dei Void Generator, i Seventies e il rock classico, oltre al krautrock, al prog e alla kosmische musik) ha sicuramente influito sul mio immaginario artistico, sia in prosa che in poesia. Erotomaculae ad esempio è un libro composito, che cerca di fondere le istanze di un lirismo tradizionale (la poesia omoerotica di ascendenza saffica) con una forma storico-avanguardistica (con aspetti grafici neofuturisti). La poesia è essenzialmente ritmo così come la pittura, a mio parere, è essenzialmente colore. Ciò che la differenzia dalla prosa, la natura formale della chose poetica, è l’analogia permeata di techne in senso musicale. Se vuoi possiamo “ballare di architettura” parlando di musica un’altra volta e approfondendo il discorso specifico, per dirla con Zappa…

Fare comunità con le arti e raccontarla: l’impegno come forma della gioia nelle periferie

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di Francesca Matteoni

 

per Gianluca di Lupicciano 

La comunità che viene: le ragioni fondanti

Si è concluso da poco il festival La comunità che viene, nome ispirato all’omonimo libro di Giorgio Agamben che si riferisce a una comunità libera, aperta. Una comunità in attesa di essere, eppure già viva e presente, dove l’individuo fondante è “qualunque”, con il suo sogno, la sua esperienza e il suo mistero. Ho deciso, come raramente faccio per questioni di pigrizia, ma soprattutto di tempo, di raccontare cosa è accaduto e soprattutto le ragioni personali, profonde e pregresse di quest’iniziativa, promossa dall’Associazione Palomar con un contributo importante di Unicoop Firenze, e realizzata principalmente nelle periferie collinari della città di Pistoia, qui nella Valle delle Buri, dove sono tornata a vivere cinque anni fa.

Le condizioni che hanno portato all’ideazione del festival sono riassumibili in questi punti: la presenza di patti di territorio o di collaborazione; un impegno sociale e artistico assiduo, rivolto agli abitanti dei borghi, più che agli addetti ai lavori; la ricerca costante di cooperazione con le realtà socio-culturali dei paesi; la scioccante svolta politica a destra nel governo cittadino; la lotta per la nostra piccola scuola, condotta e vinta tutti insieme.

Circa quattro anni fa è iniziato il mio lavoro volontario nel Centro Sociale di Santomoro, di cui sono attualmente la presidente, luogo che beneficia di un patto per la cultura con l’amministrazione comunale, esistente da quasi trent’anni, ma ufficializzato solo in tempi recenti, grazie al regolamento scritto dai precedenti sindaco e vicesindaco, Samuele Bertinelli e Daniela Belliti, insieme a Gregorio Arena, presidente di Labsus – Laboratorio per la sussidiarietà, che si occupa di patti di collaborazione per i beni comuni su tutto il territorio italiano. Mi soffermo su queste informazioni perché ritengo che stringere un patto per i beni comuni sia qualcosa che dovrebbe interessare tutti coloro che nutrono una qualche visione culturale dei luoghi e un po’ d’amore per i loro vicini.

I patti di collaborazione riguardano la manutenzione di strade, la pulizia di cippi e cimiteri, la riqualificazione di aree verdi, campi sportivi, locali dismessi, l’investimento e la progettazione culturale; molto spesso accade che a stringere questi patti siano persone dei quartieri ricche di volontà, ma magari con pochi strumenti culturali per essere davvero efficaci. Succede quindi che, una volta venute meno queste persone, tutto arranchi e si perda. Sono convinta che se artisti, scrittori, intellettuali si impegnassero nel particolare, accanto agli altri, mettendo da parte la ricerca di gloria mediatica per un po’ di invisibilità collettiva, ma fattiva, quel futuro migliore che ci sembra tanto lontano in quest’Italia allo sbando, diventerebbe un approdo chiaro e tangibile. Questo riguarda anche i politici animati da autentico spirito di servizio e non quella folla di politicanti da social network sempre pronti a esprimersi su immigrazione, diritti, scandali del lavoro, ma quasi del tutto incapaci di entrare nelle vite o nella geografia di un qualsiasi quartiere periferico delle città che magari si trovano ad amministrare – quello stesso quartiere in cui si fa esperienza diretta dell’integrazione e dell’esclusione, del disagio, dei sogni repressi, della cultura negletta, della condivisione. Della politica, in una parola sola, che nei patti di collaborazione unisce civismo attivo e progetto amministrativo democratico sul lungo termine.

Il lavoro culturale a Santomoro si sviluppa in laboratori artistici per bambini e adulti, feste, servizio di biblioteca legato soprattutto alla presenza dei bambini della nostra scuola primaria dell’infanzia Lo Scoiattolo, sperimentazione coi ragazzi nel doposcuola e nelle attività estive. Promuove una lenta tessitura collettiva, che ha come primo compito la valorizzazione degli abitanti e dei più piccoli, perché crescano coltivando speranze e fiducia al posto di ansie e frustrazioni. Dal paese ci siamo spostati alle altre frazioni delle nostre due valli, in nome di rapporti di amicizia e vicinanza, muovendosi lungo le due linee dei circoli Arci e dei patti di collaborazione.

Per qualche anno mi è parso di stare in un sogno, il cui risveglio sarebbe stato strepitoso. Un sogno, lo sottolineo, col cuore a sinistra, in quei valori di giustizia sociale e fratellanza, sostegno agli ultimi (che non sempre sono i più facilmente riconoscibili e talvolta vanno oltre l’umano, nel vivente) e lotta a tutte le povertà – economiche, culturali, spirituali, che condizionano l’essere umano fino a renderlo estraneo a se stesso e al godere del mondo. Poi nel giugno 2017 la destra ha vinto le elezioni comunali. Dopo lo shock ho iniziato a capire che più di prima c’era da proteggere ciò per cui stavamo lavorando e avevo ragione: nell’autunno è arrivata la notizia del progetto di statalizzazione della scuola comunale per l’infanzia, fino ad allora messa al sicuro dall’amministrazione insieme alle altre due piccole scuole dell’area montana. Una brutta notizia per chiunque sappia l’importanza di una scuola comunale in territori fragili, come la collina e la montagna – il passaggio allo stato ne avrebbe determinato la rapida chiusura, perché lo stato non può verosimilmente intervenire nel locale, come fa un comune, che ha il dovere di tutelare le sue aree marginali, affinché non diventino semplici dormitori. Per fortuna dove vivo la scuola è davvero di tutti – il paese e la valle hanno lottato, altri pistoiesi ci hanno sostenuto e la lotta, quando è vera e determinata, indipendentemente dallo snobismo di quotidiani e giornali impegnati, paga. La scuola è ancora comunale.  Di più: la lotta unisce. I rapporti con gli altri paesi si sono rafforzati, e con loro la necessità di alimentare una visione e un impegno comune.

Coltivavo da un po’ l’idea di una manifestazione sul senso della comunità e del lavoro artistico al suo interno, che radunasse alcune delle esperienze significative nel locale e nel panorama nazionale, ne avevo parlato brevemente con il nostro ex-sindaco, Samuele. A Pistoia sotto la sua amministrazione si stava già portando avanti da tre anni un festival ambizioso e tematico, Leggere la città, che aveva il compito di promuovere il dibattito sulle questioni urbanistiche e culturali del comune –  festival prontamente venuto meno con il cambio della guardia. Ciò di cui abbiamo bisogno ora tuttavia è un lavoro capillare dal basso, che rifondi una comunità plurale, radicata nei quartieri, ma con le porte aperte, capace di accogliere le intelligenze visionarie e la costruzione di progetti per il benessere di tutti, a partire da coloro che sono piccoli o addirittura non ci sono ancora. Così per la mia valle e per l’associazione Palomar mi sono presa la responsabilità di coordinare l’esperienza de La comunità che viene, dedicando questa prima edizione al Racconto di esperienze artistiche, educative e culturali in loci e altrove.

Il festival

La manifestazione si è svolta in più giornate, fra la fine di settembre e la metà di ottobre, alternando a eventi con vari ospiti, le “comunità transitorie”, ovvero laboratori ed esperienze rivolti a bambini e adulti, ispirati al lavoro già in corso nella Valle.

Il Racconto ha così, fra momenti di narrazione e altri di sperimentazione e gioia condivisa, portato alla luce la possibilità di trasformare territori per lo più caratterizzati dai concetti un po’ triti di periferia, marginalità, oblio, in centri di vitalità immaginativa, perché a volte dai margini, dalle soglie il mondo si vede meglio, perché, aggiungo, sono questi luoghi dove si possono ancora trovare, seppure residuali e nascosti, quei vincoli affettivi, fra abitanti e famiglie, comunitari.

L’anticipazione di sabato 22 settembre si è svolta nella periferia urbana delle Fornaci, quartiere nord di Pistoia, noto per le sue molte anime, non sempre in accordo. Villette, residenti storici e antichi, case popolari nella sua area più controversa, che è anche la più viva, e dove per anni sono stati portati avanti progetti di integrazione, rivolti primariamente agli adolescenti e in dialogo aperto con l’attivismo socio-culturale in tutta Italia.

Nei locali dell’ente Camposampiero abbiamo ospitato nel primo pomeriggio un laboratorio artistico dedicato ai bambini e condotto da Serena Zampini, la cui ricerca da anni va verso la commistione di performance, danza e pittura. L’idea dell’accoglienza e della condivisione è venuta qui naturalmente, mettendo insieme ragazzi con caratteri diversi e facendoli interagire nei gesti, fantasticando di provenire da paesi lontani di cui andavano ricreati i movimenti base di una danza rituale, imbrattandosi le dita nel colore a occhi bendati e chiedendo aiuto alla mano dell’altro per essere guidati sul foglio, perché lo scopo non era certo produrre opere d’arte, ma tirare fuori senza inibizioni l’entusiasmo, la piccola follia, la voglia di esprimersi ed essere ascoltato che tutti abbiamo dentro.

È seguito l’incontro con il professor Enzo Scandurra, docente di urbanistica presso l’Università La Sapienza di Roma, e Marina Dammacco, una delle anime della compagnia teatrale Punta Corsara di Napoli, di cui segue la parte organizzativa e laboratoriale. Entrambi i relatori, moderati da Antonio Sofia per l’Associazione, sono stati invitati per mettere in contatto mondi che talvolta si guardano appena – quello della riflessione intellettuale di lungo corso sulle questioni e l’intervento artistico, diretto, a contatto con coloro che abitano i luoghi. Enzo Scandurra ha parlato di un passato non lontano (si pensi alla produzione cinematografica degli anni Cinquanta e Sessanta) in cui le diseguaglianze sociali e l’assetto urbanistico dei quartieri era interesse vivo degli intellettuali, del fallimento di progetti amministrativi sulle periferie, nello specifico il caso esemplare del villaggio della Martella, a Matera, pure molto belli sulla carta, perché non si possono “deportare le persone” per un’idea astratta, sebbene nobile, di comunità. Occorre appunto un lavoro fianco a fianco con gli abitanti, che li liberi dalla lente del sociologo, ne faccia materia viva e partecipata e non di studio. E qui si è inserita Marina Dammacco mettendo in atto una vera e propria performance per noi del pubblico per raccontare l’azione teatrale sul tema delle periferie Il Convegno, immaginario quanto verosimile convegno a cui tutti, dai sociologi di cui sopra, agli assessori, sono invitati a esprimersi sul tema, mentre il corpo di un’adolescente che nella periferie risiede, attende pazientemente sdraiata, quasi un cadavere, davanti a loro, muta e non vista fino alla fine.

Le due narrazioni possono sembrare addirittura in contrasto, come superficialmente si considerano troppo spesso arte e accademia, eppure quello stridore è la frizione, la scintilla per la collaborazione efficace fra un’azione dal basso, che coinvolga e chiami pazientemente le persone una ad una, e una visione architettonica e progettuale delle città.

Ilde

Il festival è proseguito poi con l’incontro di venerdì 5 ottobre, presso il Centro Sociale di Santomoro, un evento a cui tenevo particolarmente, essendo stato il primo ideato e voluto da tempo. Siamo infatti entrati nel vivo del tema, ospitando tre esempi di interazione fra arti e territori marginali, difficili, comunque non esattamente sotto i riflettori.

La poetessa Azzurra D’Agostino e la preziosissima Daria Balducelli hanno illustrato l’attività appenninica dell’associazione SassiScritti di Porretta Terme, una geografia montana prossima a noi del versante pistoiese e a noi sorella. Con il festival L’importanza di essere piccoli, giunto all’ottava edizione, sono la poesia e la canzone d’autore, a essere portate nei borghi della montagna, mettendo poeti e pubblico in un rapporto diretto, frontale. Il successo di questo festival, che ogni agosto riunisce una comunità eterogenea, creando legami affettivi che durano nel tempo, si deve in buona parte proprio alla scelta dell’ambientazione, al coraggio di salire le strade dei paesi di montagna, di stare fra la pieve e il bosco, o, come fu per la prima edizione, nel giardino di una casa privata. Chi partecipa diviene parte in causa e questo fa la differenza. Tra le altre attività promosse dall’associazione – InRitiro, calendario di laboratori residenziali, artistici e formativi, e una costante interazione col territorio, fra cui vale la pena ricordare il laboratorio teatrale con e per donne migranti, sull’Antigone, e la mobilitazione a sostegno degli operai della Philips Saeco, impegnati in un presidio durato 71 giorni, iniziato a fine novembre del 2015 dopo l’annuncio dell’imminente licenziamento di 243 persone. Un sostegno avvenuto con la vicinanza della parola, della musica, delle conoscenze condivise, che non avrà cambiato le sorti degli operai, ma ha restituito almeno la dignità dell’essere insieme nello smarrimento, operai, artisti, musicisti, umani solidali.

Mario Cubeddu  per l’associazione Perda Sonadora, è venuto a narrarci la storia del Cabudanne de sos Poetas, festival di poesia che si svolge a inizio di settembre dal 2004 nel paese di Seneghe, nell’entroterra della provincia d’Oristano, un festival felice e longevo, nato grazie alla presenza di una consistente tradizione poetica in lingua sarda e in seguito diventato momento di incontro per la poesia a livello nazionale. Mario e l’amica Mattea Usai, sono stati fra i primi promotori del festival, grazie a una serie di eventi realizzati nel ristorante gestito nei primi anni duemila da Mattea, vera e propria semina per la manifestazione. Perché spesso succede così: si sperimenta in piccolo e poi si prende forza, si vede che ci sono altri pronti a seguire, si tenta, si salta e se la semina è buona si spicca il volo. A Seneghe in quei giorni la poesia è dappertutto. Dal cuore della Piazza dei Balli, alle viuzze, ai ragazzi che presto ricominceranno la scuola, alla piccola biblioteca, un paese apre le porte, accoglie, e a chi partecipa sembra di essere tornato fra antichi amici. È stato Mario a ricordarci nel suo intervento la centralità dell’agire politico, riprendendone la dimensione esistenziale, ben prima che partitica,  che Hannah Arendt, nel suo Vita activa, gli conferiva. Eccole le parole famose della grande filosofa: “L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo.”

Il progetto di Via Roma a Reggio Emilia ci è stato raccontato da due dei suoi promotori: Pierluigi Sgarbi e Irene Russo. Via Roma è una strada popolare del centro storico della città, ma la sua “cattiva fama” la pone di diritto fra i luoghi fragili e periferici scelti per la nostra rassegna. È in realtà una via multietnica, osservatorio d’elezione su molte comunità che qui si incrociano: chi ci vive da sempre, chi ci si è insediato, chi la visita durante gli eventi, chi vorrebbe poter restare e naturalmente quelli che stanno crescendo. Può la creatività incentivare la coesione sociale? La risposta è ovviamente sì, ma a noi interessano le modalità e la reazione degli abitanti coinvolti.  L’azione creativa di Via Roma si sviluppa fra il  monumento simbolo di Porta Santa Croce, un orto urbano, alcune osterie, fra cui la biosteria Ghirba, nel festival sulla fotografia e naturalmente fra le persone – Irene e Pierluigi insistono sui momenti preparatori alle attività, come l’occasione per la conoscenza reciproca e quindi l’unione. Gli eventi non piovono dal cielo, ci sono persone che sistemano i locali, prendono contatti, distribuiscono materiali, cucinano, e questo è, per chi lo fa, la fatica, ma anche il sabato del villaggio. Ciò che resta oltre la soglia del visibile e a cui molti pronti a scendere in piazza con qualche vessillo, a speculare e spaccare in quindici un capello moribondo, non sono abituati. Eppure  quel qualcuno che rende possibili gli eventi è l’anima e la persona più importante, è l’accoglienza. L’uso concreto dell’immaginazione, hanno proseguito i nostri ospiti, crea memoria collettiva, contatto fra gli artisti e gli abitanti, che aprono case, negozi, spazi di quartiere come accade durante il festival di Fotografia Europea,  intitolato per l’ultima edizione: Via Roma non esiste. Come un’utopia, in nessun luogo e ovunque – ovunque si lavori perché utopia diventi eutopia: il buon luogo.  La serata è terminata con un rinfresco offerto dal Centro Sociale e appunto cucinato dalle persone che ne fanno parte, che sono anche coloro a cui di cuore dedico questo evento specifico, perché senza di loro non potrei fare nulla.

Siamo così arrivati ai quattro giorni intensi  e finali compresi fra giovedì 11 e domenica 14 ottobre.

Giovedì siamo scesi in città, ospiti del Circolo Arci Bugiani, dove Palomar ha la sede. È un circolo inusualmente ricco di proposte, il cui calendario è sempre fitto di riunioni ed eventi, dove i valori della sinistra non sono soltanto parole, dove trovano posto i ragazzi delle vicine scuole elementari e medie e varie associazioni. Insieme all’ideatrice, l’artista Emanuela Baldi abbiamo presentato e raccontato il progetto artistico-formativo IO SONO QUI, promosso dall’Associazione Zappa! di Prato cui io stessa ho preso parte insieme a un gruppo di responsabili formato da Emanuela, la performer Francesca Campigli e la psicoterapeuta Paola Papi. Con un team vario (due videomaker umbri, Lorenzo Bernardini e Michele Manuali; un grafico emiliano, Marino Neri, e un fotografo come noi toscano, Guido Mencari). IO SONO QUI rispondeva a un bando del MIUR indirizzato a progetti volti alla promozione di attività volte al recupero delle regolari attività scolastiche ed extrascolastiche nelle zone colpite dal terremoto, di cui ho ampiamente scritto, e si è svolto nella città di Camerino nell’estate 2017.  Al festival ci hanno raggiunto tre dei bambini coinvolti, insieme alle loro mamme: oltre la gioia e la commozione di rivedersi dopo un lavoro intenso e provante, abbiamo così avuto la conferma che certi semi danno frutto e ricordo, che è poi quanto sempre si persegue. Ma abbiamo anche avuto la conferma che queste azioni, dove partecipanti e ideatori si mettono profondamente in gioco, dovrebbero essere quelle a cui dare rilievo se vogliamo un presente diverso, di reciproco sostegno e immaginazione, che parta dai ragazzi. Questo significa che i media per primi potrebbero ogni tanto decidere di raccontare queste storie minime, di rispondere ai molti appelli, telefonate, email – di diffondere speranza oltre che sgomento o sdegno. Cosa fa o non fa notizia, infatti, dovrebbe deciderlo il coraggio non l’opportunità. E cosa è davvero opportuno nei tempi bui che stiamo vivendo?

Abbiamo concluso con un’apericena al circolo e il concerto di un gruppo di giovanissimi, gli Sgurz, formatosi proprio per questo festival, che hanno unito i loro strumenti, dalla batteria al sax, agli archi, per riproporci canzoni di resistenza, gioia e lotta dal nostro cantautorato storico e da altre culture.

Venerdì 12 ottobre abbiamo ripetuto il racconto di IO SONO QUI al Circolo Arci di Santomoro, dove abbiamo anche concluso con un’apericena e un dj set con Santo Jimmy, un amico di lunga data, mentre nel primo pomeriggio, al Centro Sociale di Santomoro, ho voluto inserito nel programma il primo incontro per Il Viaggio dell’Eroe, un laboratorio di scrittura poetica gratuito che conduco dal febbraio 2017 nella Valle delle Buri, girando fra i paesi e con qualche puntata in città, che è giunto ora alla terza e finale avventura, L’Isola Chenoncè. Il laboratorio è nato primariamente grazie alla collaborazione con il Centro Diurno Desii3 come progetto di  integrazione fra diverse marginalità: psichica, sociale, geografica. Una volta al mese, con una pausa estiva, ci ritroviamo in un Circolo Arci, una proloco, un centro di quartiere, una casa o un prato, a leggere e scrivere poesie su temi scelti dal mondo archetipico della fiaba. Al tavolo si stabilisce una nuova forma di uguaglianza: che si provenga da una situazione di disagio psichico, che si sia bambini o anziani, che si viva su per le colline  o nel centro urbano, qui tutti abbiamo qualcosa da riscoprire ed è sorprendente la capacità di ascolto che ne deriva, fra persone che forse, per le vie più comuni, non si troverebbero mai. Perché la verità basilare è che siamo tutti fragili. Abitiamo tutti una qualche periferia, geografica, della società, dello spirito. Saperlo ci rende prossimi e ci mette in pace. Questo io l’ho capito camminando con gli altri sul sentiero della poesia, tirando fuori la parte di noi da proteggere, ma anche la forza eversiva e gli strumenti per dirsi. Per questo appuntamento siamo “volati via”, proprio come i fratelli Darling dietro Peter Pan, riprendendo il discorso con l’infanzia e magari trovando che non è così dorata come ce la vogliono illustrare. In questo laboratorio siamo temporaneamente un popolo consapevole, dentro uno più grande e spesso inconsapevole, che ci accomuna per lingua, tradizione o destino.

Andrea e Rosalba, la polenta stesa

Siamo così arrivati a sabato 13 ottobre, nella “valle di là”, a Iano, con cui da più di un anno Santomoro tiene un rapporto di amicizia e sfida, grazie al duello poetico fra due paesani, Chiara Vitali e Michele Berti, nato su internet, sviluppatosi poi in due sfide epocali nei rispettivi circoli, fomentato da Antonella, la maestra della nostra scuola dell’infanzia, di origine ianese, e confluito in un piccolo libro che ripercorre anche la tradizione del cantar di poesia, dell’ottava rima da queste parti, stampato col contributo del Centro Sociale di Santomoro e del Comitato paesano di Iano. Ci tengo a dire tutto questo per far comprendere che il festival non è piovuto dall’alto, come alcune grandi e ben finanziate manifestazioni-astronave in cui artisti, scrittori, intellettuali letteralmente invadono i luoghi senza nessun tipo di sensibilizzazione precedente. Per noi è una tappa di un percorso comune, faticoso ed entusiasmante.

Ci hanno ospitato la Biblioteca di Iano, sita nell’ex scuola elementare del paese e gestita, grazie a un altro patto di collaborazione, dal Comitato paesano, e la stupenda Casa del Popolo, unica già nella sua struttura circolare.

Nella biblioteca per le comunità transitorie Ginevra Ballati ha condotto il laboratorio Storie di animali, rivolto ai bambini, che hanno realizzato i loro libri sotto la guida dell’artista. I bambini, mi preme dirlo, erano quasi tutti di Iano, grazie al lavoro fatto dai volontari per il coinvolgimento. In questo caso la corsia preferenziale è d’obbligo – non si importa la partecipazione, la si crea lentamente dove si sta.

È seguito presso la Casa del Popolo un incontro a cui tenevamo moltissimo sulla scuola della Barbiana, con la storica e scrittrice Vanessa Roghi e Ezio Palombo, uomo che ha avuto una lunga e singolare esperienza di sacerdote e che è stato amico sincero di Don Lorenzo Milani. A moderare per Palomar i nostri Laura Bonanno e Marco Leporatti.  Mentre i nostri ospiti raccontavano a me sembrava che l’esperienza di Don Milani si riflettesse sui volti dei miei compagni in questa Valle, Valentina, Luciana, Lido, Laura, Daniela, Isa, Mirna, Enrico, per dirne solo alcuni, e  nel patto che ci tiene.  Ezio Palombo ricordava il valore del voler bene alla gente, che non è e non può essere tutta l’umanità – come in quel verso della Szymborska, “preferisco me che vuol bene alla gente a me che ama l’umanità”.  Che significa scegliere a chi dedicarsi, se ne abbiamo gli strumenti, e da quel momento non retrocedere di un passo. Vanessa ha raccontato le ragioni personali dietro al suo libro La lettera sovversiva. Da Don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Laterza, 2017), e ha insistito sull’impegno per la scuola, una scuola che non può e non deve essere solo il perseguimento di un voto su una tabella. Si dovrebbe imparare a scuola la via dell’emancipazione, perfino dell’obiezione di coscienza, quel radicale “se pur tutti, io no”.  Ricorda Ezio Palombo nelle prime pagine del libro della Roghi, a proposito della scuola popolare di San Donato: “Vedevo per la prima volta seduti, intorno ai tavoli della scuola, ragazzi cattolici e ragazzi comunisti, perché la verità, diceva Don Lorenzo, non era di destra e non era di sinistra, ed era compito della scuola insegnare a cercarla”.  Ezio ha quasi novant’anni, è lucido e tagliente, testimonia una lezione dei più vecchi, male assorbita dalle generazioni seguenti, ma che è attuale e opportuno riprendere, non tanto per rispolverare la nostalgia, quanto per agire. Così il lavoro di intellettuali come Vanessa Roghi è quanto mai utile ora,  perché aiuta a districare le trame in cui il paese sembra essersi attorcigliato e intorpidito e lo fa, in questo caso, partendo dal tema dei temi: l’educazione, che precede tutto e non è riducibile a un bagaglio di nozioni. Ecco perché l’abbiamo voluta quassù. Perché i paesi della Valle, sono luoghi piccoli, sostenuti dalla possibilità di incidere davvero non su X vite pescate affidandosi alla fortuna, ma sulla vita di ragazzi che conosciamo nel volto e nel carattere.  In questi luoghi tutti siamo responsabili dei processi educativi, tutti siamo chiamati per nome. Qualcuno più forte, forse, perché chi più sa, più deve sentirsi responsabile verso gli altri.

Abbiamo concluso in bellezza, cenando tutti insieme e ascoltando musica e alcuni di noi tirando tardi, bambine comprese, prima di salutarci.

La mattina seguente siamo saliti all’ultimo e più alto dei paesi, Baggio, dove si trova la proloco e il Museo del Carbonaio, ultimo dei tre patti di collaborazione. Ci aspettavano i volontari e Cecilia Lattari e Lucia Mazzoncini, custodi dell’ultima avventura nelle comunità transitorie, Camminare il silenzio.  Siamo entrati nel bosco. In un cerchio silenzioso Cecilia e Lucia ci hanno simbolicamente unito con un filo che è stato poi reciso, a sancire il passaggio dalla dimensione quotidiana a una immersiva nella natura che pure qui è compagna riconoscibile. Qui certe volte scendono i lupi. Qui, nei nostri borghi, i cervi vengono nelle piazze alla fine dell’estate, quando comincia il periodo dell’amore. Qui cominciano quelle castagnete che hanno sfamato tanta gente durante le guerre. Qui la memoria ha un altro passo rispetto alla parola. Cercando di mantenere il silenzio una settantina di persone fra adulti e bambini hanno camminato per il sentiero di un’antica processione paesana, raccogliendo sassolini, rami, fiori, gusci da donare poi alla Bure, il nostro torrente. Un cammino breve, rituale, verso l’acqua, come verso la verità ultima del nostro essere temporaneo e costante insieme, del nostro renderci infine al mondo che è ben più vasto dell’umano e lo si avverte quando si entra in un luogo noto mettendo da parte le nostre abitudini e acuendo i sensi alla sua presenza, alla voce dell’acqua e del vento. Al ritorno siamo risaliti dall’acqua al bosco agli olivi già carichi e pronti per la raccolta, alla strada. Alla proloco intanto si stava preparando un pranzo toscano e antico, con la polenta stesa e tagliata col filo, la pappa al pomodoro, il fungagnino appena trovato, i necci di farina di castagne con la ricotta e i canti dell’Italia popolare sul giradischi. Abbiamo pranzato tutti insieme sotto un bel sole sulla grande terrazza che si affaccia sulle due valli. Ecco, in questi momenti qui, io non credo ma so, che è possibile lavorare per una felicità diversa, io non credo ma so che questo serve, un lavoro incessante, un affetto capace di crescere, una o più persone che spendono tanto del loro tempo per la comunità e hanno il diritto di non sentirsi abbandonate. A un certo punto Michele di Iano si è alzato ed è andato ad abbracciare Rosalba Bucci, la presidente della proloco di Baggio e questa è fra le pagine di letteratura non scritta che serberò con cura.

Provengo per una parte della mia famiglia, quella paterna, dall’Appennino montano, dalla Sambuca Pistoiese. Ne ho scritto, ne parlo, scappo come posso al mio bosco del Prataccio per ritrovare quel mio antico amico. Ma Santomoro e la Valle delle Buri, che in qualche modo dipendono  dal ramo materno della mia storia, grazie alla mia bisnonna che era nata qui, mi hanno insegnato ad apprezzare la gente, il popolo di questa microscopica geografia. Non tutta la città, non tutta la nazione, non tutto il mondo: una Valle appenninica, una sola – per una vita è sufficiente.

Concludo questo mio lungo scritto rivolgendo un pensiero a chi a quella tavola a Baggio mancava. Se tutto questo è stato possibile è perché nel 2016 con un’altra persona, l’allora presidente del circolo Arci di Lupicciano, Gianluca Menichini, dal cui spirito spero di aver imparato qualcosa, immaginammo per primi di camminare fra i nostri paesi, con le storie e la poesia. Immaginammo un lavoro coeso per tutta la Valle, sperimentammo nell’estate il percorso io lui e Valentino di Santomoro e il 2 ottobre 2016 camminammo davvero, con tanti altri, fra Santomoro e Lupicciano, leggendo e ascoltando poesie, parlando delle erbe e delle piante, rievocando le infanzie degli abitanti, fino a un altro sole, al Portico di Goro, un altro luogo affacciato sulla vallata, dove pranzare tutti insieme.  Gianluca per questioni sue più che legittime e dopo molti anni al servizio del suo paese,  ora ha lasciato ad altri ed è da una telefonata di diversi mesi fa che non ci parliamo.  Ma io non dimentico. Gianluca, grazie. Questo è per te.

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La locandina è stata realizzata da Benedetta Matteoni a partire da una foto di Chiara Vitali di un gruppo di bambini della scuola Lo Scoiattolo in visita alla Bure. Questa è la foto che ha accompagnato tutta la nostra lotta per la “scuolina”.

Le fotografie scelte per l’articolo sono state scattate da Eleonora Chiti nella giornata conclusiva a Baggio. Altre giornate del festival sono state documentate da Giovanni Fedi per il quotidiano online Reportcult e si trovano ai link seguenti.

22 settembre

5 ottobre

11 ottobre

13 ottobre

Il gioco

1

di Mirfet Piccolo

L’asciugamani elettrico era così rumoroso da risucchiare ogni suono vivente oltre la porta del bagno. A Corrado piaceva resistere alla pressione del getto d’aria calda, comporre movimenti rotanti come di astronave, quasi fosse anche quello un gioco con possibili bug da cacciare. Era, quello, un anfratto di tempo durante il quale poteva allentare il controllo che esercitava su se stesso quando era in compagnia di persone nuove, o quasi; lavorava alla TheGameZ solo da qualche mese e lui ancora non si era esposto più di tanto, non più di quanto fosse strettamente necessario per una serena convivenza.

Alzò lo sguardo allo specchio: quel taglio di capelli sbagliato lo avrebbe fatto sistemare presto, magari sabato; la cicatrice che dall’occhio sinistro si distendeva lungo tutta la guancia, invece, era sempre lì ed era inutile pensare potesse essere altrimenti. Corrado, in fondo, aveva imparato a conviverci. Il getto d’aria calda si interruppe bruscamente, la sessione era finita e lui guardò il palmo delle sue mani tiepide: forse è vero che ci si abitua a tutto, pensò, e tornò dai colleghi impegnati a risolvere l’enigma.

Prima di sedersi alla sua postazione, Corrado lanciò una rapida occhiata fuori dalla finestra, come era diventato solito fare. L’ufficio era in cima a una strada alberata, e da lì era possibile vedere la curva discendente e poi, dall’altra parte, eccola risalire verso i negozi e locali del centro. Ai piedi della discesa, su di una panchina, sostava una donna dall’età indefinibile: indossava un numero imprecisato di abiti logori, e in testa portava un buffo cappello viola a bombetta con un fiore che un tempo doveva essere stato di un colore giallo limone; il suo corpo era cinto da un alto numero di sacchetti stracolmi di stracci ma non solo, e da un piccolo carrello; dal carrello, spuntava una grossa papera azzurra di plastica che era stata forse un gioco e che adesso chissà, si chiedeva Corrado ogni volta che la guardava, che funzione aveva per quella donna. Poi successe ancora quello strano aggancio di coincidenze: Corrado guardò la donna e lei alzò la testa e lo fissò dritto negli occhi.

Lasciò la finestra e la donna, e tornò a testare il gioco; quello di oggi, e che teneva impegnato lui e suoi colleghi ormai da qualche giorno, aveva, in teoria, come obiettivo la costruzione e il mantenimento di una serie di astronavi all’interno di una nuova galassia. Era un nuovo mondo, ma a quanto pare non funzionava: era impossibile trovare pezzi di ricambio e i rifornimenti energetici si esaurivano in fretta al primo combattimento contro forze opposte; mancavano personaggi essenziali, come il medico, quindi i nuovi umani, privi dell’immortalità, perivano. Corrado e i suoi colleghi avevano provato ogni mossa ed esplorato ogni angolo di quel nuovo mondo, avanti e indietro e in largo, ma sembrava non ci fosse soluzione. Chi lo aveva ideato forse si era divertito al pensiero di dare ad altri un rompicapo dimenticandosi che un gioco non è un gioco se non dà un qualche tipo di gratifica a ciascuno dei partecipanti. Prima di pranzo, arrivarono alla conclusione che avrebbero scritto una relazione negativa agli sviluppatori; spensero i pc, indossarono le giacche e uscirono.

A Corrado piacevano i suoi colleghi, e Sandro, il responsabile era anche lui sempre di buono spirito. Nessuno si era mai permesso di porre a Corrado domande troppo personali e a lui questo, per certi aspetti, faceva piacere: ci teneva a lavorare bene, a non lasciarsi distrarre da discorsi del tutto personali e fuori contesto; allo stesso tempo, avrebbe voluto sentirsi meno osservatore in disparte, meno frenato, ma lui ormai era così, con il suo carattere e bagaglio personale, pensò, e non avrebbe davvero saputo come diventare altro, come migliorarsi. Seguì i colleghi in direzione del solito bar-ristorante, e quando passarono davanti alla panchina con la donna con il cappello viola, Corrado evitò di guardarla, ma non poté evitare di essere investito dall’odore acre della miseria tipica dei caduti, così vicino a lui.

Il pranzo fu leggero e piacevole, e Corrado parlò poco e sorrise molto; al termine, Sandro lo invitò ad andare a bere il caffè da un’altra parte mentre gli altri tornavano in ufficio. In quei mesi, Sandro si era dimostrato serio ma non autoritario, comprensivo rispetto alle difficoltà quotidiana del suo staff e, poi, era pur sempre il suo capo. Il bar era nuovo; il profumo del legno fresco era piacevole e accogliente, le luci non troppo forti e, soprattutto, era privo di musica obbligata. Era un ottimo posto per parlare.

Sandro chiese a Corrado come si trovasse a lavorare con loro e di eventuali altri progetti lavorativi, e gli chiese anche quale visione avesse per la società in termini di futuri sviluppi. Corrado sì sentì lusingato, e con grande meraviglia espose la sua opinione su possibili nuove strade di successo per l’azienda.

Al termine del caffè, con un gesto quasi distratto, Sandro si lasciò sfuggire di mano lo scontrino e nel raccoglierlo chiese a Corrado la causa di quella cicatrice. Ma non voglio essere indiscreto, precisò. Corrado sentì di potersi fidare, e nel tornare indietro, quindi, glielo raccontò non senza una punta di turbamento. Quando furono di nuovo nei pressi dell’ufficio, la donna era distesa sulla panchina con una mano sulla papera; il cappello viola le nascondeva il viso e pareva stesse dormendo.

Di nuovo tutti in postazione, testarono il gioco rompicapo ancora per qualche ora e poi ne decretarono l’insuccesso e non la vendibilità, a meno che non venissero apportate importanti modifiche. L’indomani sarebbero passati ad un altro gioco, perché il mercato era esigente e mutevole sia in termini di tipologia di prodotto sia di quantità.

A casa, la gatta Polly accolse Corrado con le consuete fusa attorno alle gambe e si lasciò accarezzare il pelo morbido e rossiccio, per poi correre alla ciotola vuota a reclamare il suo pasto. A Corrado piaceva accontentarla subito, prima ancora di togliersi la giacca, e così fece. Poi, si spogliò della giacca e del maglione e tornò in cucina a preparare la sua cena: prese un piatto piano e lo riempì di fette di prosciutto crudo in vaschetta e patate lessate il giorno prima, e pensò che la giornata era andata davvero bene e poteva considerarsi soddisfatto. Si sentiva anche alleggerito da un peso che fino a quella mattina lo aveva tenuto in disparte. Quella sera, provò un insolito senso benessere e soddisfazione per il suo lavoro e per l’uomo che era diventato. Non tutto il male viene per nuocere, pensò.

Sul divano, con il piatto colmo e la gatta Polly al suo fianco, tornò a guardare quella serie televisiva che finalmente era riuscito a recuperare per intero. In questa puntata, era stato trovato un nuovo cadavere e l’ispettrice sapeva già cosa andare a cercare: le lettere lasciate dall’assassino sulla schiena delle sue vittime dopo l’avvelenamento: erano sempre sette, seppur diverse da vittima a vittima, ed erano scritte con un pennarello dal tratto cosiddetto indelebile. C’erano alcune piste aperte e molte abbandonate, e il clima della cittadina non era uno dei più favorevoli alle indagini, sebbene tutti mostrassero il timore di essere tra le prossime vittime. Su questo corpo, l’enigma era così composto: A G N T N W P. Apparentemente solo una cosa sembrava accumunare le vittime prima che divenissero tali: erano tutte persone adulte.

Corrado era molto stanco, perciò quando terminò la cena spense anche la tv e si staccò da Polly che emise un miagolio di lamento. Prima di spegnere le luci della camera da letto, Corrado inviò un messaggio a Sandro per ringraziarlo della chiacchierata al caffè, e Sandro rispose prontamente: ci vediamo domani.

Il giorno dopo in ufficio ci fu un gran da fare. La relazione sul gioco fallimentare chiedeva di essere ultimata, un nuovo gioco era pronto e tutti non vedevano l’ora di testarlo. Il bello dei giochi sparatutto era banale e assai richiesto: giocare alla morte e alla vita, non ferire né ferirsi mai per davvero. E infatti fu così travolgente che i ragazzi non uscirono neppure per pranzare, andarono avanti fino a sera e con grande divertimento. A fine giornata, erano tutti certi che quel gioco sarebbe stato un successo; tra una risata e l’altra di sollievo, tra una pacca e l’altra, Sergio disse che il giorno dopo sarebbero potuti andare a pranzo in un posto nuovo, molto carino, solo un po’ più distante dal solito locale. Uscirono contenti: quello era il lavoro più bello del mondo.

Corrado varcò la porta di casa ed ecco la sua gatta tra le gambe. Hai fame, vero? Vieni Polly, brava Polly, brava la mia principessa. Dal freezer prese una porzione di pasta al forno e la mise nel microonde: osservò la vaschetta girare, le luci illuminare un piatto di dubbia qualità ma facile e lui, soprattutto questa sera, dopo una giornata di duro lavoro era sempre molto stanco. Aveva smesso da tempo di chiedersi come sarebbero state le sue cene se avesse avuto la compagnia di un altro essere umano.

Polly lo aspettava sul divano, e persino il telecomando era pronto per ricominciare a svolgere la sua funzione. In questa puntata, il corpo riverso di una giovane donna portava sulla schiena le lettere C P M R F C J. Un assassino di buona cultura, anzi, eccellente. Anche questa puntata si stava dimostrando tanto avvincente quanto inquietante, ma la stanchezza ebbe la meglio su Corrado che lasciò il piatto sul tavolino di fronte a lui e si distese sul divano. Sì, lui faceva il lavoro più bello del mondo e con persone uniche nel loro genere. E così, con questo pensiero, si addormentò senza difficoltà e con Polly attaccata alle sue gambe.

La mattina dopo si svegliò di soprassalto e in ritardo; non fece colazione, non si cambiò, afferrò lo zaino e uscì di corsa. Arrivato in ufficio, i suoi colleghi erano silenziosi e concentrati a sbrigare noiose e lunghe pratiche, e non fecero particolare attenzione a Corrado il quale, quindi, grazie al cielo non si sentì particolarmente osservato. Appese il giubbotto e gettò uno sguardo fuori dalla finestra: la donna non c’era, sebbene di solito a quell’ora aveva già occupato il suo posto sulla panchina. Non avrebbe saputo dire esattamente il perché, ma Corrado provò un senso di sollievo nel constatare quell’assenza. Si sedette e iniziò a lavorare.

L’orologio a monitor segnava le ore dodici e cinquanta, ed ecco scoppiare il solito trambusto di chi non vede l’ora di andare a pranzare. Corrado spense anche lui il pc, si alzò e andò in bagno. Quando fece per tirare su la cerniera dei pantaloni, questa s’inceppò e lo costrinse a compiere il movimento inverso e poi di nuovo a riprovarci. Notò del pelo rossiccio di Polly sul pantalone, e provò un leggero imbarazzo; con la mano cercò di pulirsi ma senza successo; pazienza, si disse, non è niente di grave, può succedere a tutti. Finalmente con le mani sotto il getto d’aria calda, Corrado sentì la gran fame imputabile alla colazione saltata per la preoccupazione di aggiungere al ritardo ulteriore ritardo. Sarebbero andati in un posto nuovo e poi, magari, un altro caffè con il capo perché Corrado aveva altre idee che avrebbe potuto illustrargli: progetti di espansione, nuovi contatti; gli affari andavano bene, giusto? Farli andare meglio.

L’asciugamani elettrico terminò il suo lavoro e Corrado uscì dal bagno: non c’era più nessuno, nessun suono e nessuna voce; l’ufficio era uno spazio immobile e spento. Andò alla finestra: dall’altra parte del vetro vide i colleghi affrettarsi giù dalla strada; vide la donna logora alzare lo sguardo verso di lui, levarsi il cappello con il fiore non più giallo e portarselo al petto.

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Overbooking: Sandro Abruzzese

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da CasaperCasa

di

Sandro Abruzzese

 

 

 

 

 

 

Un fallimento annunciato

 

Sulle mura cittadine ci sono viali alberati e ombreggiati. Gli alberi hanno foglie a forma di cuore, dovrebbero essere tigli. Ne strappo una, misuro il lembo, osservo la nervatura, il margine quasi liscio. Somiglia al palmo della mano. Le nervature si irradiano, conducono la linfa proprio come piccole vene nel corpo. Resto un po’ col palmo della destra schiuso in parallelo alla foglia a forma di cuore, retta dalla mano sinistra. Dopodiché la ripongo con cura nella tasca dei pantaloni, in seguito la mostrerò a Giorgio.

Oggi la luce si fa spazio tra i rami, finisce nel selciato di terra battuta e pietrisco. La gente corre, si riappropria della fatica smarrita pestando il viale adornato da riflessi simili ad arabeschi. Quasi tutte le persone corrono con determinazione, secondo tracciati rigidamente prestabiliti, indossando tute speciali, scarpe apposite, occhiali da sole ergonomici, fasce elastiche, cronometri e contachilometri. Molti all’avambraccio portano il telefono e gli auricolari per ascoltare la musica.

Noi, intendo io e Filippo, partendo dalla Porta degli Angeli ci produciamo in una camminata veloce che lui sostiene non vada interrotta per nessun motivo, a qualsiasi costo, gliel’ha detto il cardiologo, è un luminare, sostiene. Il tutto, intendo la camminata continua, secondo questo medico specialista, gioverebbe a una serie di fattori cardio-circolatori e via dicendo.

La cosa è andata più o meno in questi termini: Filippo è dentro una tuta anni ’80 della Wampum, una tuta nera, lisa, dalla vita alta, dal cavallo dei pantaloni infinitamente lungo; la giacca è scolorita, stropicciata e sformata. Ebbene, mentre cammina veloce, esordisce col fatto che la vita, nelle sue modalità, a suo modo di vedere, mostra in sé tutte le caratteristiche di un fallimento annunciato. Già, lo so, è insopportabile, tuttavia è così che esordisce. Anzi, sempre camminando velocemente prende a inanellare domande retoriche senza aspettarsi obiezioni né tanto meno risposta: «Vista dai troiani… », argomenta, e intanto agita la mano sinistra ruotandola con un movimento antiorario, «l’Iliade, cos’altro ritieni sia se non un fallimento annunciato? E gli eroi achei?… », presumo di non dover intervenire e infatti: «non è ingrata la loro sorte? Diamine: pensa alla fine di Achille o Agamennone… », sostiene diligente, senza rallentare la falcata. Gli sto dietro senza problemi, intendiamoci. Il fatto è che ha le gambe lunghe ed è allenato, per stargli dietro non devo parlare, altrimenti mi semina.

«Pensa solo se Enea avesse avuto la premonizione di Mafia Capitale, della P2, dello Ior, della P3, della Banda della Magliana. Mi segui? Trovi futile e peraltro buffonesco se ritengo che Roma oggi sia un fallimento annunciato? Be’, non credo. Ed è inutile che tu assuma quell’espressione incerta, giacché, sebbene appaia una riflessione azzardata, parimenti non si tratta di nichilismo spiccio. Un fallimento annunciato è avere a mente il principio e la fine. È vivere rammentando l’epilogo e la sua immane soverchieria, diamine. Per cui sospendi quell’espressione polemica e pensa un attimo ad Antigone quando seppellisce suo fratello: ti viene in mente un esempio migliore di lotta contro una legge ingiusta? O parimenti Amleto, Otello, Don Chisciotte, Achab: tutto ampiamente annunciato, lo comprendi?».

Quest’ultimo lo trovo un colpo basso, Moby dick no, ci ho fatto la tesi di laurea su Melville, stavo per chiamare Ismaele uno dei miei figli, lo sa benissimo. Quindi dissento con una frase breve che non comprometta il ritmo della camminata: «Ma perché devi… perché… devi… devi confondere cose che… ».

Se l’aspettava. Era lì ad attendere la mia reazione scontata. Prende a rigirare la mano sinistra in senso antiorario e accelera, con una variazione impercettibile alza la voce di un semitono:

«E allora Lorenzo Milani? La sua scuola? Il suo Stato? Non sono rimasti nei nostri desideri e nelle sue parole? E il folle volo di Ulisse? Violare le leggi divine per amor di miglioramento e conoscenza. E come si conclude? Qual è l’epilogo?».

Taccio disorientato, per cui riprende: «vogliamo discutere di Tom Joad? No dimmi: peraltro se fosse per me argomenterei volentieri e per tutto il tempo di Cesare Pavese quando scrive “vorrei sognare i vostri stessi sogni”, diamine, oppure “non fate troppi pettegolezzi”, benché mi chieda: il discorso cambierebbe? Quante volte Pavese ha annunciato il suo fallimento?».

«Lascia stare, almeno Pavese, lascialo in pace… Pavese no…, non merita illazioni… », irrompo piantando entrambi i piedi sul selciato, come pietrificato.

Non si scompone. Anzi, non si ferma neppure, per cui sono costretto a rincorrerlo goffamente. Stavolta sussurra con una sorta di delicatezza inedita, come per non destare qualcuno che dorma nei paraggi. Mi guardo intorno senza capire a chi è rivolto tanto riguardo. Lui prosegue: «e stai calmo…, sst…, non te lo usurpo Pavese, stai tranquillo. Ma allora discutiamo di Gesù?», sibila a labbra strette, «estendere la dignità…, a tutta l’umanità…, sst…, e alla fine… ? Chi ha vinto… alla fine? Guardati intorno…, insomma, era chiaro che avrebbe prevalso il Grande Inquisitore, allora… come ora… », sibila alzando gli occhi al cielo, irritato dalla mia espressione scettica e sconsolata, a cui aggiungo lo scuotimento del capo in segno di totale disaccordo, «fa’ pure come credi… i tuoi dinieghi non cambiano la sostanza delle argomentazioni, è proprio così… », chiosa con disappunto, «peraltro ciò che sostengo è applicabile a Marx contro il capitalismo, o ai Malavoglia… quando si imbarcano nella storia del commercio dei lupini. Vale per Zeno Cosini… e per Mattia Pascal… e… ».

«Finito? No, dico: hai finito grande guru?! Perché sei pesante e deprimente», mi ribello finendo per attirare gli sguardi dei podisti specialisti, sempre più irritato da quello che è divenuto un continuo e gratuito sibilo oracolare.

«Suvvia, sst.., sst…, non adirarti tanto e consentimi di ribadire che la vita da qualunque punto la si osservi, diamine, non è altro che la metafora di un naufragio, ovverosia non è altro che un fallimento annunciato… », sibila, «nient’altro che una direzione obbligata per cui, be’, occorre fare presto e essere in grado di donarsi le parole migliori, ne sono persuaso, giacché uno degli ultimi miracoli a cui aggrapparsi rimane questo del linguaggio, occorre usarlo solo per donarsi a vicenda le parole migliori, capito?».

 

 

Il presente di Gramsci

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di Giorgio Mascitelli

AA.VV. Il presente di Gramsci. Letteratura e ideologia oggi a c. di Paolo Desogus, Mimmo Cangiano, Marco Gatto e Lorenzo Mari, Galaad Edizioni, 2018, euro 18

La riflessione su Gramsci negli ultimi decenni in Italia è stata alquanto carente, proprio nel momento in cui nel mondo anglofono e iberoamericano la sua figura  conosce una ricezione rinnovata e diffusa. Viene a colmare almeno parzialmente questa lacuna il volume collettivo Il presente di Gramsci, che, pur partendo dallo specifico dell’eredità della riflessione letteraria gramsciana, finisce con il fornire una mappa di snodi e punti critici che tocca la storia italiana degli ultimi decenni.

Non a caso uno dei curatori, Marco Gatto, nel suo intervento all’apertura del volume sul significato dell’essere gramsciani oggi si trova a sviluppare una serrata critica alla tradizione operaista mettendo in luce come le insistenze su un soggetto nomade e antagonista ‘nella sua indomabile repulsione per la stabilità’ rientrino ampiamente in una dinamica culturale postmoderna assolutamente rispondente alla soggettività neoliberale. Analogamente Paolo Desogus, che si concentra sul rappresentante nella critica letteraria di questa tradizione, ossia l’Asor Rosa di Scrittori e popolo, sottolinea come l’attuale disastro culturale italiano, nel quale l’industria culturale determina permanentemente senso e gusto comuni,  sia anche legato ‘al venir meno di quella funzione costruttiva e costituente della cultura’ elaborata da Gramsci. Non deve stupire un simile approccio perché nel già citato saggio Marco Gatto ricorda come ‘ essere gramsciani significhi legare la propria specifica conoscenza di un campo della cultura alle esigenze politiche che la costruzione di un’alternativa impone’. In questa prospettiva è ovvio che la riflessione su cultura e masse popolari  ponga almeno idealmente in essere una nuova questione dell’egemonia o quanto meno dell’uscita dalla subalternità dei ceti bassi di questo paese.

Non è possibile in queste poche righe rendere giustizia agli undici densi interventi di altrettanti studiosi su vari temi della riflessione gramsciana sulla letteratura e soprattutto sulla sua eredità in vari autori dell’Italia repubblicana, ma non è un caso che il nome di Pasolini ritorni con frequenza in molti dei contributi presenti nel volume. Da un lato infatti tra tutti gli scrittori italiani l’autore de Le ceneri di Gramsci è quello che si pone come erede perlomeno di un certo tipo di analisi gramsciana sul mondo popolare e sulle sue potenzialità rivoluzionarie;  dall’altro è quello che scopre l’impossibilità dell’intellettuale di essere organico a una dimensione nazionalpopolare ormai soppiantata dallo sviluppo di una piccola borghesia universalizzata in una situazione storica nella quale la sua unica verità consiste nella duplice consapevolezza, come la chiama giustamente Antonio Tricomi, di non appartenere per nascita agli ultimi e per scelta alla borghesia. Se naturalmente è più semplice e immediato trovare elementi gramsciani nel Pasolini degli anni cinquanta, per esempio quello dei romanzi,  non manca una volontà di ‘connessione sentimentale’ con il mondo degli ultimi anche nella fase delle più disperate e apocalittiche diagnosi sulla società consumistica e sulla morte delle culture alternative di fronte a quella piccolo borghese. Del resto, come ricorda Gabriele Fichera, lo stesso Pasolini  afferma che il concetto di genocidio culturale è di derivazione gramsciana.  E certamente un problema di storiografia letteraria assolutamente propedeutico alla riproposizione di una prospettiva gramsciana nella cultura italiana attuale è quello di un’analisi approfondita di come le principali categorie gramsciane attraversino la riflessione dell’ultimo Pasolini, proprio in ragione della lucidità dell’autore bolognese nel cogliere tendenze di lungo periodo della società ancora attive oggi.

In questa prospettiva risulta di grande interesse il saggio di Lorenzo Mari dedicato a una rilettura dell’Asia Maggiore di Fortini, nel quale viene affrontato la questione della Cina rivoluzionaria a partire da un viaggio effettuato dallo stesso Fortini con altri intellettuali italiani nel 1955. Nello sguardo  non eurocentrico, senza per questo essere apologetico, di Fortini sulla rivoluzione cinese Mari scorge un esempio dell’eredità gramsciana, al di fuori della sintesi classica togliattiana, dell’intellettuale organico come di colui che ‘ non si deve limitare a definire la subalternità come oggetto di studio, ma imparare da essa, attraverso l’imprescindibilità della propria funzione di mediazione’ e infatti non a caso Mari dedica spazio nel suo saggio alla ricezione di Gramsci negli odierni studi postcoloniali.

Sarà permesso al lettore non specialistico indicare a fronte di un volume così ricco di stimoli, analisi inedite e informazioni una  questione urgente nella prospettiva dichiarata dai curatori di riproporre la riflessione gramsciana su letteratura e ideologia in chiave odierna. Essa è di carattere storico letterario, ma si tratta di un passo necessario  per l’adeguata collocazione del pensiero gramsciano nel paesaggio attuale:  è la disamina dei limiti di quella che è stata la tradizione/ traduzione gramsciana  italiana del dopoguerra e in particolare la ricezione che tramite il PCI ha sviluppato l’equivoco di un’egemonia culturale intesa essenzialmente come  assoggettamento dell’autonomia dell’attività letteraria a istanze di partito; a questo proposito basterà ricordare la figura controversa di un dirigente come Mario Alicata negli anni cinquanta, senza scomodare la polemica Vittorini/Togliatti. Questa disamina è tanto più necessaria se si pensa alla contemporanea riflessione dellavolpiana sulla critica del gusto che coniugava un approccio di classe alle questioni estetiche con una visione più complessa e rispettosa dell’autonomia del movimento dell’arte e della letteratura novecentesche.  Resta comunque il fatto che con molte delle questioni poste dal libro dovrà fare i conti chiunque sia interessato a una prospettiva di superamento del senso comune attuale in nome di una coscienza collettiva, per parafrasare le parole della postfazione di Mauro Pala.

Il dodici nel sessantotto

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di Kika Bohr

(prima che finisca il cinquantenario del mitico sessantotto, pubblico un altro ricordo, a.s.)

Un cambiamento di mentalità e una presa di coscienza politica

Durante il sessantotto frequentavo la scuola media inferiore, avevo dodici anni. Un tetrissimo tristissimo edificio milanese ospitava la Melzi d’Eril una scuola media femminile e il Marignoni, una scuola professionale per segretarie d’azienda.
Sia le ragazze della media che le signorine della scuola adiacente portavano grembiuli neri.
(E questo obbligo dei grembiuli neri con la funzione quasi esplicita di nascondere il nostro corpo in trasformazione, è rimasto fino circa al ‘71 quando noi studentesse al liceo scientifico abbiamo deciso tutte insieme di contravvenire alla regola e ci siamo presentate a scuola tutte quante – con grande meraviglia dei compagni maschi e dei professori – in blue jeans).
Sotto i grembiuli le alunne della media portavano in genere calze fino al ginocchio, bianche. Due sole compagne ostentavano in classe calze a rete e minigonne, che grande scandalo! Non erano brave a scuola, ma erano molto coraggiose e sono state le uniche a difendermi quando la professoressa di lettere mi aveva preso in giro perché in inverno portavo un cappellino in lana norvegese rosso e bianco e con ponpon che mio padre mi aveva comprato in Germania.
Le due ragazze considerate perdute dalle insegnanti, la Ronzulli e la Berton, una di origini venete e l’altra meridionale mi avevano anche invitato a “ballare” e i balli secondo loro si imparavano così, bastava un po’ muovere il corpo al ritmo del rock. Non eravamo andate in una discoteca o una sala da ballo ma in un bar dove si poteva sentire la musica col jukebox, ognuna metteva una monetina e sceglieva una canzone, ma io non conoscevo nessuno di quei cantanti (a casa mia non si ascoltava la musica leggera, anzi era praticamente vietata) ora ricordo che il loro preferito era Little Tony e altri nomi dal suono inglese. Sono andata solo una volta con loro in quel bar perché mi annoiava un po’ star lì, ma ora lo ricordo con piacere.
Che sollievo negli anni successivi per quanto riguardava l’abbigliamento! Noi ragazzi e ragazze di sinistra ci si vestiva con i jeans e le magliette, in inverno con l’eskimo comprato alla fiera di Senigallia, scarponi militari che chiamavamo “katanghesi” ma che si potevano trovare, identici, anche alla Standa. Ragazzi di periferia e figli di papà, maschi e femmine confusi. (Solo più tardi noi donne abbiamo adottato la divisa femminista delle gonne lunghe a fiori e degli zoccoli, circa a metà degli anni settanta, quando il privato è diventato politico e la politica aveva già perso un po’ della sua carica di illusione rivoluzionaria.)

In terza media (era il sessantanove) avevo preso all’uscita di scuola dei volantini, destinati alle studentesse, alle signorine del Marignoni, che invitavano ad una manifestazione in centro. Ci sono andata pur non conoscendo nessuno, per curiosità ma anche perché come molti adolescenti covavo in me una certa rabbia che pensavo di condividere con quei movimenti politici di cui leggevo nei giornali. I giornali li leggevamo a scuola e a casa, a casa spesso giornali francesi che parlavano dei “casseur” e quel termine mi piaceva molto “tout casser”, rompere tutto, le barricate a Parigi, e mio zio diceva “sì ma questi studenti sono tutti figli di papà”. Allora ribattevo che avevano ragione, che tutto andava cambiato (ma cosa? Lì ero più incerta, non sapevo rispondere, sapevo solo che c’era bisogno di cambiamento, di aria nuova). Ricordo di questa prima manifestazione che un giovane gridava nel megafono gracchiante “cordoni compagni” e allora mi sono infilata in quello che mi pareva un cordone. Due robusti giovani muniti di caschi mi hanno preso a braccetto. Poco dopo è arrivato il ragazzo del megafono e mi ha detto “guarda che tu non sei del servizio d’ordine, qui non puoi stare, vai più in là“ allora sono andata in un altro gruppetto e ascoltavo e ogni tanto ripetevo i loro slogan quando li capivo ma soprattutto raccoglievo e collezionavo i volantini, che sono sempre stati la mia passione. Ne ho ancora una decina di scatoloni in studio, erano stati conservati da mia madre, che me li ha restituiti qualche anno fa.
A proposito di volantini, la prof di lettere che ci leggeva entusiasta i poemi omerici (sempre alla scuola media), un giorno entra in classe sventolandone uno e ci mette in guardia da quegli ignorantoni del liceo scientifico vicino, l’Ottavo Liceo, sconsigliandoci di iscriverci a una scuola in cui “si fa politica e non si sa nemmeno scrivere in italiano”. Si fa politica? Ma io ci volevo andare subito! Non scrivono bene in italiano? Beh, avranno avuto fretta, non avranno riletto bene, ma il contenuto era sicuramente più importante, e le nuove idee più urgenti da divulgare. Nelle scuole dei grandi, nelle fabbriche e nelle università si svolgeva una nuova Iliade, secondo il mio modo di vedere di allora. Infatti poi mi sono iscritta in quel liceo. E ho fatto molta politica, negli anni ‘70. E politica e cultura ci sembravano la stessa cosa. E avevamo messo uno striscione in palestra, durante un’occupazione della scuola, su cui c’era scritto “Cultura = interpretazione e trasformazione della realtà” E i nostri professori discutevano ore con noi, e li amavamo molto, altri li odiavamo ma con un certo rispetto, quasi cavalleresco.

Ricordo che nei primi anni ‘70 davanti all’Ottavo Liceo c’era sempre la polizia politica. Quando distribuivamo dei volantini loro erano i primi a volerne uno e dovevamo stare attenti a non dimenticare di scrivere in calce la formula di rito: cicl. in propr. (ciclostilato in proprio). Ma la polizia ci conosceva anche per nome e un giorno del ’72, dopo l’omicidio del commissario Calabresi, hanno convocato mio padre e, non avendo la cittadinanza italiana, siamo dovuti uscire dall’Italia fino all’ottenimento di un nuovo permesso di soggiorno. Per fortuna era già quasi il periodo delle vacanze e siamo andati per tre mesi da mio nonno a Ginevra. Lo stesso nonno che, come lo zio, qualche anno prima aveva detto di fronte alle foto delle barricate parigine del ’68 stampate sui giornali che tanto mi entusiasmavano (mi ricordavano la barricata di Victor Hugo nei Miserabili) “guarda quelli, sono tutti figli di papà, dovrebbero studiare e stare zitti!” Come stare zitti? Ma se era possibile cambiare tutto! La prima cosa che ho fatto là, a Ginevra nel ’72, è stata naturalmente di prendere contatto con studenti “rivoluzionari” del liceo “Collège Calvin”.

Già alla scuola media avevo letto un libro consigliato da un amico dei miei che parlava della rivolta di Kronstadt del 1921. Il libro doveva essere di Ida Mett. Lo stesso amico, Giorgio T. che era anarchico, mi aveva anche consigliato L’uomo a una dimensione di Marcuse, e lo avevo preso in prestito alla Biblioteca del Parco. Naturalmente era troppo difficile e non riuscivo a seguirne i discorsi, ricordo la delusione quando ho dovuto restituirlo senza averlo letto fino in fondo. Ma gli anarchici mi erano molto simpatici. In prima liceo quindi avevo subito tentato di frequentarli, ma la loro disorganizzazione mi scoraggiava, così pure quella molto basata sul carisma dei simpatici compagni di Lotta Continua. Pensavo che una rivoluzione non potesse funzionare così, nel frattempo avevo letto Stato e rivoluzione, il Manifesto del partito comunista, L’estremismo malattia infantile del comunismo ma anche Miseria della filosofia. L’estrema organizzazione del Movimento Studentesco della Statale e il suo richiamo esplicito allo stalinismo mi spaventavano almeno altrettanto, e così diventai una simpatizzante di Avanguardia Operaia. Vendevo il settimanale Avanguardia Operaia davanti alla stazione della Bullona, alle manifestazioni, e naturalmente a scuola. Per un po’ avevo frequentato con due compagni di classe l’ ”Associazione Italia Cina” a Porta Venezia e avevo anche sognato di trasferirmi in Albania, paese amico della Cina di Mao. Ma non si poteva andarci col cane e così decisi di restare in Italia. Scrivevo un giorno sì un giorno no un tadze-bao, scrivevo e ciclostilavo volantini in via Vetere con M. e con V. uno studente più grande che ci faceva da fratello maggiore e aveva vissuto il “vero 68”; leggevo altri classici del marxismo e l’ABC del comunismo di N. I. Bucharin e E. A. Preobraženskij… con l’Unione Inquilini (1974), ma già il sogno si stava affievolendo, e mentre alcuni compagni che conoscevo pensarono che bisognava forzare la situazione e passare alla lotta armata, io diventavo sempre più femminista e con il mio ragazzo di allora pensammo di cambiare parzialmente la società facendo una piccola rivoluzione nostra, sperimentando un nuovo modo di vivere più giusto e più bello negli interstizi che la società capitalistica ci lasciava e abbiamo deciso di fare un bambino. Ed è nata a gennaio nel ’76 la nostra prima figlia, durante il primo anno di università.

Distonia

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Daniele Barbieri

 

 

ora, nell’ora dell’ora, di colpo guardarsi attorno,
che non c’è nessuno, nella folla, che mi sia qualcuno,

eppure sono qualcuno tutti, sono io nessuno,

nell’adesso dell’adesso nessuno e qualcuno scorrono,
nessuno vede qualcuno