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L’umanità non è reato. Considerazioni su Riace e dintorni

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di Sergio Violante

L’arresto di Mimmo Lucano e la probabile fine dell’esperienza di Riace, caduta sotto i colpi ancora una volta coincidenti di Minniti (candidato segretario pd?) e l’attuale Ministro degli Interni Salvini avrà ripercussioni forti su tutto il mondo che si definisce genericamente di “sinistra”, che mette in primo piano i concetti di libertà e uguaglianza in maniera sostanziale, non propagandistica.

E a mio avviso può innescare un dibattito importante che non si limiti alla sola questione di Riace, ma ponga interrogativi e dia già qualche risposta.

Alcune considerazioni mi paiono degne di nota in questa storia, che si incrociano ovviamente con altre e incominciano a formare un quadro abbastanza ben delineato.

Innanzitutto, partirei dal luogo, la Calabria. La regione forse più “arretrata” del Paese, la più periferica sotto tutti i punti di vista. Una regione povera, piena di problemi, con una presenza capillare della principale organizzazione criminale del Paese, la ‘ndrangheta, e con lo Stato come grande assente sul territorio. Una regione che ha visto e sta vedendo, un forte afflusso di migranti, ultimi fra gli ultimi, che vivono come schiavi in baraccopoli improvvisate, che muoiono nei campi esausti dalla fatica o vengono uccisi come cani mentre cercano delle lamiere da utilizzare come riparo.

Una regione però che ha visto nascere l’esperienza libertaria del piccolo centro di Riace, che ha sconvolto tutta la retorica progressista sull’accoglienza, e la ha fatta diventare un modello da studiare in tutto il mondo.

Una regione che ha scoperto un leader come Aboubakar Soumahoro, italoivoriano, che ha contestato la definizione di “migrante” da sostituire invece con quella di “sfruttato”, essere umano fra tutti gli altri. E che ha sostenuto che “la sinistra va ricostruita a partire dai luoghi e dalle contraddizioni sociali. Bisogna partire dalle periferie, dalle aree rurali, da quei luoghi sperduti su cui i riflettori non si accendono, fin quando un lavoratore e sindacalista non viene fucilato”.

Il luogo diventa quindi portatore esso stesso di significato politico. Ovviamente non si tratta delle roccaforti della sinistra neoliberista dei Parioli o della cerchia dei Navigli, così come della tradizionale provincia rossa del centro Italia, che per altro ha aperto la strada allo sviluppo della prima. Ma non ci si trova neanche in una delle metropoli che hanno dato vita alla ribellione e alla lotta negli anni settanta.

Sembra quindi paradossale, ma nel terzo millennio le esperienze sociali e politiche più interessanti avvengono e si sviluppano nei posti maggiormente lontani dai centri cosiddetti sviluppati, come ad esempio nel Rojava siriano o nella piccola comunità di Riace in Calabria. E tutte le esperienze pongono al centro il recupero del rapporto dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura, senza l’apporto di false ideologie, “buoniste” o “ambientaliste” che siano.

L’esperienza di Riace ci dice molte cose e per questo fa paura, a tutti: destra tradizionale, sinistra neoliberista, pentastellati della democrazia tecnologica.

Il modello Riace dimostra che i poveri del mondo non sono una minaccia per i nostri poveri, ma una risorsa per la terra su cui insistono, e immagina un mondo “in cui non ci saranno più persone che viaggiano in business class ed altre ammassate come merci umane provenienti da porti coloniali con le mani aggrappate alle onde dei mari dell’odio”, come ha affermato Mimmo Lucano.

È un modello che si oppone frontalmente, in modo radicale, anche se all’interno della struttura dello Stato, ai meccanismi dominanti del pensiero unico neoliberista. Un modello che viene agito all’interno di un Comune, con tutte le caratteristiche amministrative e burocratiche conseguenti. Dove però si travalica il concetto rigido e autoritario della legalità, cercando di applicare il concetto rivoluzionario della giustizia sociale, del rispetto e dell’armonia tra uomo e natura.

Ecco perché a Riace tutti gli esseri umani sono cittadini accolti, non soltanto quelli che ne hanno i requisiti legali. Ecco perché le case abbandonate sono state affidate in comodato gratuito ai “nuovi arrivati”. Ecco perché lo scuolabus non si paga Ecco perché l’occupazione di suolo pubblico non si paga. Ecco perché la mensa scolastica ha costi bassissimi. Ecco perché il Comune sta scavando in modo autonomo un pozzo, per portare gratuitamente l’acqua in tutte le case e non utilizzare più i servizi della società privata che in Calabria gestisce l’acqua.

Ecco perchè un piccolo paese che contava 900 abitanti nel 1998 ha raggiunto i 2.345 residenti, di cui circa 500 stranieri, nel 2017. Ecco perché all’interno dei confini amministrativi si è introdotto il “bonus sociale”, una sorta di moneta locale che sostituisce il contributo dei 35 euro giornalieri per l’accoglienza, il cui uso perverso è emerso con la vicenda di Mafia Capitale. Ecco perchè i contributi statali sono stati investiti per garantire occupazione e integrazione, per dare dignità alle famiglie e vita al paese, non per arricchire pochi gestori dei soldi pubblici. Ecco perché sono state create le cosiddette “borse lavoro”, un contributo di 600 euro per ogni migrante che inizia un lavoro presso le botteghe artigianali locali. Ciò ha comportato un effetto sia sociale che economico, con la riattivazione di molte attività che altrimenti si sarebbero estinte.

Ecco perché si è bloccato il consumo di suolo che ha reso Riace Marina una distesa di supermarket e di villette semiabusive e si è invece valorizzato il centro storico che andava spopolandosi. Ecco perché si è recuperato un luogo diventato senza anima, pieno di case disabitate, di eternit e di amianto e lo si è riconsegnato alla comunità vivo. Ecco perché Riace è stato uno dei primi comuni del disastrato sud Italia a effettuare la raccolta differenziata dei rifiuti senza alcuna intromissione della malavita locale. Ecco perché la scuola che era stata chiusa nel 2000 è stata riaperta, e ora funziona con laboratori e fattoria didattica.

Riace quindi, con la sua esperienza, va oltre il mero tema dell’immigrazione e dell’accoglienza, ma affronta direttamente il tema dello sfruttamento, dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, e prova a dare delle risposte concrete, in una logica e un quadro complessivo di solidarietà sociale. E questo non perché i riacesi siano più “buoni” dei loro vicini ma, semplicemente, perché il modello funziona per tutti. Le persone sono cresciute culturalmente, hanno toccato la sofferenza altrui, hanno solidarizzato e compreso. Qui l’accoglienza c’è ma non si vede, non ci sono i soliti centri di accoglienza, visibili ovunque in tutto il loro squallore e degrado, qui sono le case stesse del paese ad assolvere questa funzione.

Riace diventa quindi l’esperimento di una società democratica basata sull’uguaglianza, dove la base controlla il vertice, dove la legalità sia intesa come umanità, non come mera burocrazia gerarchica.

Partendo da queste considerazioni si arriva quindi a un altro elemento fondamentale su cui interrogarsi, ovvero l’occasione che possono rappresentare i governi e/o gli autogoverni locali. Cioè che per sviluppare un mondo diverso, in cui agli obiettivi materiali si affianchi una nuova dimensione dell’essere legata all’altruismo, alla partecipazione, alla socialità, al comunitarismo, alla libertà si debba partire proprio dai territori marginali, visti in una sorta di contrapposizione con l’alienazione e l’omologazione delle grandi città.

E ripropone un tema fortissimo: la crisi, o per lo meno la radicale modifica delle funzioni dello Stato nel mondo contemporaneo, e il conseguente ritorno della democrazia come tema centrale.

Con l’avvento del modello neoliberista si avvia infatti una crisi dello Stato irreversibile, che non presuppone alcuna possibilità di un ritorno al passato. Gli Stati infatti si de-nazionalizzano e cedono quote di sovranità proprio per istituire un’infrastruttura globale istituzionalizzata che garantisca l’estensione illimitata dei commerci e della produzione, anche attraverso la costruzione di nuovi enti di governo politico-economico globali. In un mondo globalizzato che compra gli stessi prodotti su Amazon e usa Google e Facebook non ha più senso discutere di politica riferendosi a quello che accade all’interno dei singoli stati sovrani. Tutti i paesi fanno parte dello stesso sistema e sono sottoposti alle stesse pressioni. Ed è probabile che la prossima fase della rivoluzione tecnico-finanziaria sia ancora più disastrosa per l’autorità politica nazionale, basti pensare al solo fantasma dei “mercati”, l’incubo per eccellenza di qualunque governo nazionale.

Lo stato quindi si de-nazionalizza e perde funzioni, ma resta fondamentale nello schema di governo del capitale transnazionale. La falsa ideologia del neoliberismo che proclamava il superamento dello stato, ne ha creato invece uno strumento di regola e controllo della globalizzazione su specifici territori, attraverso l’apparato burocratico e repressivo. Non è un caso che l’esperienza di Riace viene meno a seguito di un’ispezione ministeriale ordinata dall’allora Ministro degli Interni Minniti e portata a termine dal suo successore Salvini, con l’avallo di un giudice pare aderente a Magistratura Democratica. Sarà anche vero, anche se tutto da dimostrare, che il Comune di Riace ”ha accumulato 34 punti di penalità” nella gestione dei migranti, ma qui il punto e la questione sono evidentemente politici.

E allora diventa fondamentale il recupero del concetto e della pratica della democrazia, come nell’esperienza di Riace si è tentato di sviluppare. Non credo infatti che, come dice Saviano, siamo di fronte a una situazione di disobbedienza civile, che ha un carattere sostanzialmente dimostrativo. In questo caso osserviamo un’alternativa concreta, possibile e funzionale, perciò tanto pericolosa e perseguita, del modello dominante.

Il ritiro dello Sato come Welfare State è un processo iniziato negli anni ’80 e non ancora portato a termine, almeno in Italia, ma che ha avuto effetti sostanziali sulla società. Ciò che è accaduto è stato che da un lato lo Stato si è ritirato dai territori non appetibili per i suoi processi di valorizzazione mentre, per altro verso, ha accentuato la sua presenza proprio là dove il ciclo dell’accumulazione trova la sua realizzazione più idonea. In sostanza è sempre più evidente che i subalterni hanno perso qualunque interesse per il potere politico e non hanno più forme di negoziazione istituzionale.

Questa sorta di “libanizzazione sociale”, dove accanto ad aree con un potere chiaramente istituzionalizzato ne possano esistere altre più o meno autonome o autorganizzate comporta la possibilità di “contagio” di queste ultime nei confronti delle prime, di trasmissione e di penetrazione delle forme politiche libertarie verso le parti più omogenee al modello dominante.

L’aspetto interessante di Riace è quindi quello di un’esperienza di governo del territorio sostanzialmente istituzionalizzata, ma partecipativa, diretta e di base, con lo sviluppo di un processo democratico che al di là della cosiddetta libertà negativa (la libertà di un individuo finisce dove inizia quella dell’altro) promuove una libertà positiva e sostanziale (maggiore è il numero delle persone libere, maggiore sarà la libertà individuale) legata all’eguaglianza.

E anche lo slogan che ha accompagnato la manifestazione a sostegno del sindaco privato della libertà e dello smantellamento dell’esperienza, “L’umanità non è reato”, ha un significato importante. Perché è di una nuova umanità che si sta parlando, un’umanità che mette in crisi le leggi e lo Stato stesso che le promulga. Un’umanità che ribalta definitivamente il mantra della sinistra neoliberale dei “diritti civili in cambio dei diritti materiali”. Un’umanità che manda in crisi sia i modelli basati sul pareggio di bilancio (che altro non è che una riduzione dei diritti e dei servizi dei cittadini) sia quelli basati sulla paura e sul rancore, derivanti dal pieno compimento dei primi. Un’umanità che per l’appunto mette al centro l’uomo e la natura, e non l’economia con la supremazia del capitale. Un’umanità che immagina e pratica la Cittadinanza Universale.

Ecco perché Riace ha fatto paura e è stata fatta cadere. Oggi si è persa una battaglia importante, ma la strada è segnata. Soltanto così si mette in crisi un sistema iniquo, ingiusto e autoritario. Oggi è stato possibile distruggere l’esperimento perché era solitario e, isolato. È stata messa in moto la macchina burocratico-repressiva che ha fatto il suo lavoro. Ma se le Riace fossero state 10, 20, 100, cosa sarebbe accaduto? Non è impensabile pensare che la cieca amministrazione sarebbe andata in panne con esiti affatto diversi da quelli che stiamo purtroppo osservando oggi

Oggi non siamo in una situazione come quella del decennio 1968-1977, in cui l’”assalto al cielo” era nell’ordine delle cose. Oggi non si tratta più di prendere il Palazzo d’Inverno, quanto piuttosto di privarlo delle funzioni direttive e di comando.

Ed è in questa logica che una sinistra senza gelosie, primogeniture, settarismi può e deve unirsi, perché le parole chiave sono poche e molto semplici.

Ovvero / Voire

2

di Maël Guesdon

traduzione di Fabiana Bartuccelli

[Questi testi sono estratti da Voire, pubblicato dalla casa editrice “José Corti” nel 2015.
La versione italiana, a cura di Fabiana Bartuccelli, uscirà per Lietocolle.]

 

Cave tutte le cose, irriconoscibili, attraverso cerchi aperti dall’agire del vento.

Diverse tutte – materia pelle animo o favola.

*

Il silenzio è cosa viva

1

di Giorgio Morale

La prosa dei poeti: Il libro Il silenzio è cosa viva di Chandra Livia Candiani (Einaudi 2018, € 12) ha come sottotitolo L’arte della meditazione, con un chiaro riferimento alla pratica del Buddhismo da parte dell’autrice. Esso però si può definire con un’espressione nietzschiana “un libro per tutti e per nessuno”. I libri per tutti e per nessuno sono libri che sfuggono alle etichette e che proprio per questo spingono un po’ più in là la nostra percezione della realtà, e perciò la coscienza individuale e il livello di libertà e di scelta. Per spiegarlo farò due premesse. Per la prima ci soccorrono alcune frasi di Roman Jakobson. “Le suddivisioni operate dai libri scolastici sono di una semplicità rassicurante” scrive Roman Jakobson (Poetica e poesia), “da una parte la prosa, dall’altra la poesia. C’è invece una differenza sorprendente fra la prosa di un poeta e la prosa di un prosatore”. Leggendo la prosa dei poeti, continua Jakobson, “proviamo un senso di involontario stupore per la loro padronanza dei mezzi dell’altro linguaggio, mentre avvertiamo al tempo stesso, inevitabilmente, come un’intonazione straniera nell’accento e nella forma interna della lingua: sono splendide irruzioni dalle vette della poesia alla prosa della pianura”.

La lingua delle schegge e dei frammenti: Il libro di Chandra Candiani è un magnifico esempio della prosa di un poeta. Lo fanno essere tale la cura della parola, la struttura della sintassi, il ritmo del discorso, il ricorso a procedimenti poetici come la similitudine, la ripetizione, gli elenchi, l’aneddoto e la citazione, l’inserimento di testi poetici prodotti dai bambini nei corsi di poesia tenuti da Chandra Candiani nelle scuole. E ancora: il tono entusiasta con cui si realizza la mescolanza di andamento narrativo e immediatezza di intuizione, gli inserti autobiografici – memorie e percezioni, gioie e paure, ferite e mancanze – che sono la materia viva di cui è fatto il discorso e costruiscono lo sguardo sul mondo che abbiamo amato nelle raccolte poetiche La bambina pugile (Einaudi 2015) e Fatti vivo (Einaudi 2017). A compiere un’analisi intertestuale, troveremmo molte ricorrenze tra Il silenzio è cosa viva e i volumi di poesia di Chandra Candiani. Ci sono brani, ne Il silenzio è cosa viva, ad esempio quello intitolato Imparare a tremare, come quello intitolato Frantumi, che per intensità e modalità di scrittura sono vera prosa e vera poesia. Anche per dire la pratica della meditazione viene infatti usata la lingua della poesia, “la lingua delle schegge, dei frammenti”, così come nei volumi di poesia ci sono brani “didattici”: ricordiamo fra tutti la serie delle Mappe ne La bambina pugile.

Buddhismo anonimo: Per quanto riguarda il contenuto, una premessa doverosa parte dal concetto di “cristianesimo anonimo” coniato da Karl Rahner. Con questa espressione il teologo tedesco intende dire che anche gli appartenenti a fedi diverse dalla cristiana – come i non appartenenti a nessuna fede – possono essere portatori di Verità non meno dei cristiani. “Cristianesimo anonimo”, spiega Rahner, significa che “chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini” (La fatica di credere). Negli anni attorno al Concilio Vaticano II questo concetto contribuì a rinnovare la Chiesa e a favorire un dialogo tra Chiesa cattolica e movimenti di liberazione. Ho preso le mosse da Rahner perché leggendo Il silenzio è cosa viva, per associazione, è nata in me la formula “Buddhismo anonimo”. Chandra Livia Candiani, per esperienze e scelta, ha maturato una vera e propria adesione al Buddhismo, ed è di Buddhismo che lei parla in questo libro, ma a me che leggo e non sono buddista il libro comunica una dimensione che fa parte della condizione umana in quanto tale, a prescindere dalla fede.
Quando si comincia a meditare? Contribuisce a ciò una prefazione assolutamente personale, in cui appare la domanda: “Quando si inizia ad avvertire qualcosa di più grande di noi? Quando ho iniziato io a ‘meditare’? Forse intorno ai nove anni, chiusa in bagno in ginocchio, mentre fuori gli adulti si stanno massacrando?”. Anche nell’esperienza di chi scrive, quindi, il Buddhismo viene prima dell’adesione adulta al Buddhismo, la pratica della meditazione prima della consapevolezza della sua pratica, tanto che si perde nei ricordi dell’infanzia. Si riconosce la pratica della meditazione, dice Chandra Candiani, per il suo essere “un movimento di ritorno a un luogo dimenticato” dove si sta bene, “così vuotamente bene”. E tra i guadagni della pratica troviamo scoperte umane che ognuno di noi vorrebbe fare: “a me ha dato il corpo. Ho scoperto di respirare. Mi ha insegnato a sentire. Mi ha fatto percepire il momento e il luogo. Mi ha insegnato ad assaporare qualsiasi cosa stessi vivendo, senza esclusione. Mi ha messo al mondo”. Una nuova nascita, insomma, la nascita consapevole, che prosegue giorno dopo giorno anche quando diventa insegnamento: “L’insegnamento non è una cosa esterna, è il mio stesso vivere”.

Qui e ora: Anche l’incipit del libro, il primo capitolo, non solo ha un carattere personale, ma anzi, come la poesia lirica, parte nel qui e ora e non nell’atemporalità dei trattati. Il tempo è quello della biografia di Chandra Candiani, con le sue occorrenze imprevedibili e inevitabili: “Tre giorni fa è morta mia sorella. L’ultima rimasta. Non ho ancora cancellato il suo numero dal cellulare”. Come nella lirica moderna, il testo sembra farsi in tempo presente, nel mentre chi scrive vive ciò di cui parla, tanto da essere persino in dubbio di riuscire a completare la sua opera: “Forse non scriverò questo libro”. Il luogo è precisato nel primo capitolo del libro, è la stanza della meditazione. Con un andamento leggermente narrativo, Chandra Candiani ci accoglie alla soglia del libro come un’ospite sulla soglia di casa e ci introduce nella stanza della meditazione. Con un’avvertenza: “non si tratta di chiudere fuori il mondo”, ma di “Essere tutti lì dove siamo”. Ci descrive la stanza e dai dettagli concreti ha inizio inavvertitamente quel viaggio che lei compie da trent’anni per “imparare a essere qui”. Soltanto “Ci vuole del tempo e qualche indicazione perché ci si risvegli a dove è il corpo”. E “man mano che ci apriamo a essere dove è il corpo e a sentire come stiamo in quel momento, il qui si dilata, diventa immenso,… fino a farci assaporare la spaziosità fondamentale in cui abitiamo, non solo la spaziosità della coscienza ma quella dell’universo stesso”. Chi scrive svolge davanti a noi questo suo viaggio, ci porta dentro la sua interiorità, e così facendo induce un percorso simile anche in noi.

Tutto è meditazione: “Una stanza vuota insegna a essere contenitore vuoto, ma pronto, capace, accogliente”. È il punto di partenza per un’apertura all’universo che da poeta Chandra Livia Candiani ha cantato ne La bambina pugile e in Fatti vivo. Gesti che ci liberano sono “inchinarsi” e “chiedere rifugio”, accogliere l’irrequietezza, assumere una postura che radichi e apra, partire dal respiro e dal corpo, “senza identificazione e insieme senza scissione”, evitando le narrazioni e le autonarrazioni della mente. Chandra Candiani descrive le sensazioni fisiche, ne narra l’evoluzione, insieme a lei avvertiamo via via l’aderire alla terra e il fluire del respiro, il contatto con il corpo e l’attenzione a ciò che ci circonda, l’ascolto e l’attesa, fino al sorgere del sentimento di essere e di una conoscenza altra rispetto a quella concettuale, che, con un’espressione presa da Emmanuel Levinas, possiamo dire che assomiglia piuttosto a una carezza, “qualcosa che viene afferrato,… che sfiora senza prendere, qualcosa che scorre. La carezza è ‘marcia verso l’invisibile’, perché la carezza ‘non sa cosa cerca’.”. Scopriamo che l’approdo non è una pace priva di scosse ma la consapevolezza che la sofferenza c’è, che la ricerca non è rivolta a uscire dalla vita quotidiana, ma a entrarci consapevolmente, cosicché la meditazione è non un anestetico, ma una Via per entrare più in intimità con quello che ci accade. Da questo punto di vista “tutto è meditazione” e come nell’insegnamento buddista il libro ci chiede “di allargare il nostro orizzonte di pratica, la nostra visuale spirituale a tutta la nostra vita”.

Meditazione e poesia: Il silenzio è cosa viva si può leggere anche come un libro di poetica. Lo fanno essere tale innanzitutto affermazioni esplicite che accomunano meditazione e poesia nella biografia di Chandra Candiani. “Le misteriose vie della vita mi hanno regalato due metodi, due alleati per avvicinare e arrivare ad accogliere la paura: la poesia e la pratica del Buddhismo”. Le due pratiche sono accomunate anche dall’essere un’arte: “Meditare non è nemmeno una tecnica, ma un’arte. Dell’arte quindi ha il rischio, l’improvvisazione, lo studio e la dimenticanza dello studio, la dedizione, la leggera e misurata follia, la precarietà, la vocazione, l’invasione nella vita quotidiana, la spellatura”. Parole che possono riferirsi anche alla poesia. E c’è molto altro disseminato nel libro. La stanza della meditazione ricorda da vicino Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Come quella rivendicava non solo “una stanza tutta per sé per poter scrivere” ma al contempo decostruiva secoli di cultura patriarcale in cui il femminile non trovava posto, così questa stanza della meditazione non solo “è molto simile allo spazio del cuore”, ma si spinge oltre i limiti della cultura occidentale per trovare in altre culture le parole per dire la possibilità di un superamento delle nostre separatezze: “Si tratta di coltivare la mente-cuore. In pali, sono una parola sola: citta. E già questo fa avvertire la portata della differenza tra la nostra cultura occidentale di pensiero dissezionante e separativo e una cultura della non separatezza, del nesso”.

La vita è viva: I lettori di Chandra Livia Candiani potranno trovare in questo libro l’atteggiamento di ascolto e apertura al mondo che abbiamo incontrato ne La bambina pugile, reso possibile da un io leggero che si discosta da quello della cultura occidentale: “Il rischio della solidificazione è ovunque, anche sul sentiero interiore, ed è quello di creare un io ideale, un io meditante, saggio, imperturbabile, che snocciola insegnamenti a piè sospinto”. Vi può trovare, come risultato di questa apertura, l’approdo alla realtà, alla sua bellezza e alla sua terribilità, che costituisce la trama di Fatti vivo: “Sono cosa della realtà. Briciola di misteriosi legami, ogni nodo di realtà rispecchia tutti gli altri e la rete non ha fine”. Come Fatti vivo reclamava che “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”, così Il silenzio è cosa viva insiste che “la vita è viva e… ci si può abbandonare a essa, senza diventare passivi, ma anzi collaborando al suo svolgimento”. La meditazione, come la poesia, è un gesto etico e politico, che sostituisce un’esperienza a una convenzione, che rifiuta una consapevolezza intesa come pacificazione in favore di una piena assunzione di responsabilità che si esplichi in risposte che vadano dalla compassione alla gioia per la gioia dell’altro e all’azione responsabile.

L’abbecedario in gola (2018)

1

di Marina Pizzi

1.
Ingrigisce la rosa purpurea
Prende vigore la paura
L’insania balorda della lurida
Sconfitta d’indirizzo.
A me non resta che il panico gemello
L’ilarità contesa da ladroni
Sirenetti di spiagge senza dune di giglio.
Gerundio epocale perdere gli anni
Le elemosine perpetue dell’attesa
Quando si muore lentamente singoli.
Vetuste entità quest’avvenire
Liso. Panico strenuo nudo attendere
L’arringa della difesa
Ma ormai è tardissimo.
Festività conserte l’esercito in morte.

2.
Ho perso il viaggio strette ore
Tremendi astucci tutte le tane
Crepuscolari. Scolari solari
Le ali degli stinchi quando
Brevettano giochi fasti poveri
Con giocattoli casalinghi la vita
Ai rottami. Avevo gli orizzonti
Sulla nuca alberghiera per l’uso
Della calca di gioia e la bufera nulla.
Al vento ho certo lo pseudonimo
Tanto per il valore cortese
Di sillabare la notte lunga già lunga
Grafico d’inedia sopportare il giorno.
Ho ottenuto un permesso da apolide
Per rinfrescare la luna cadente
E la fantesca credula di dio.

3.
Al termine il giramondo
Si girò sul fianco
E tracannò di rantoli.

4.
Periferia dello sguardo
Terminano gli anni
Il letto la bara di ogni notte
Nel baratro del pendolo che oscilla
Quale dirupo apprendere di assioma.
Compleanno anziano ogni poeta
Zattera il rimedio di andarsene
Curvi viali le rendite di zero.
I tulipani lirici battezzano
Le cornucopie pallide e malate
Letargiche nutrici oasi del nulla.
Gimcane di amanti perdere l’amore
Oasi di sale chiudersi blasfemi
Dentro le rotte frigide del pane
Azzimo.

5.
La noia trilla come un lucchetto
Stringe il collo nel capestro, strozza
Attonita la veglia di deglutire
Sembianze occidue.

6.
Vivo in borgata oasi di zero
Con la grata alla vista, nel sudario
Delle resine bambine i denti guasti
Le cime delle rondini girotondi
Aurorali. Con il picchetto d’onore
Vive la mia morte ripetuta sconosciuta.
Già se volli fu lontanando
Dalla madre abusiva che non volli
Liberare la prigione apolide del fiato.
Meringhe di Giano quando l’infanzia
Giocava canzoni la penna d’oca
Di poeti in tasca. Balbuzie avvennero
Le enfasi di baci fanciulleschi
Le chele di sospiri, le ricette d’estro.

7.
Finita in una cinta di cardi
Dolorosi, fingo la spada che mi
Trattiene, stanza zagara amara.

8.
Storia egemone la nascita,
La scissa scia di prendere
Memoria così d’occaso
Alla morìa. Giochi fasulli
Commozione vera il tic
Di cercarti isola deserta.
Sulla soglia il gemito
Mito di dio non averti.

9.
Silente abaco l’attesa
Della morte. Ricuso il coma
Che mi brama. Siedo in panico
La cosca d’aria che mi dà
Respiro appena. A cascata
L’ansia mi fa prigioniera.
Appena un eremo mi distingue
Preda da prendere. Addio a scapito
Del sangue fonico, urlo del corpo
Che nel sudario ad inciampo corre.

10.
Con le spalle al muro
Un altro giorno nomina
Sull’attenti le elemosine
Votive. Qui inciampo e ciondolo
Il mio canestro chiuso.
So atavica la ronda che mi aspetta
Dentro le viscere di altri perdenti.
Musica di me la pietà
Quando verrò falciata
Sotto l’arco di trionfo sbriciolato.
Morìa di me sia la rotta unica.

11.
Sono morta nel bavero scosceso
Delle serre marcescenti.
Scienza proletaria lutto di restare
Stazza di vento casa d’uragano.
Al timone delle rondinelle
Nascono ancora scuole di scolari.

12.
Unghia di fossa resistere
Tradita. Invece la genia
Egemone infossa le grida
Pasquali degli angeli
Impotenti. Le crescenze neonate
Non possono scegliere.
Rosse al crepuscolo le soglie
Gemmano il sonno dopo la noia
Delinquenziale e sola.
Il patema di questo petto
È starsene nel sesto dito di una mano
E piangere a singulto. La fame
Rintana i randagi le afasie ginniche
Di rantoli millenari.

13.
Il cemento ferente sul prato
Dà ordini nazi al papavero
Solissimo status di senza colonia.
Case silenti ferite dal vento
Hanno il compleanno ennesimo
Sotto il plettro stonato.
È meraviglia comprendere il non
Pianto, l’aureola stinta dal sisma
Al crematorio. Gesù è solo gesso
Dentro la canonica. La gita estiva
Si fa bestemmia straziante le vane
Colonie di busti il Gianicolo.
Il lattosio delle ombre sulle orme
Dà la latente favola del gioco
D’azzardo.

14.
Col ghetto in gola il mio abbecedario
Cede le ceneri vive
L’asinello dato in pasto vivo alla tigre.
Il tunnel della fungaia
Scoppietta di risa infelici.
Le stantucce dei santi dimorano
Nei vetri crepati sigilli.
Io addietro per sempre addietro,
Si scompaginano le rotte dei vincenti,
Sotto l’argine delle stelle vuote.
Pace estiva non è possibile dacché
La polvere titanica scompiglia preghiere
Gli assolati venusti superstiti.
Le pagliuzze del tragico
Serrano le bare e la morgue sillabica
Gli apici pungenti dei raggi giganti.

15.
È nota l’apocalisse dell’insonnia
La nenia inutile di starsene esenti
Presso la rocca che briciola ansante
Le meraviglie acidule del vero.
Patrizia solo per morire
La stoffa di broccato che fa da palla
Ai principini del lugubre cortile.
Avvenga per annegare l’icona gravida
Quando la madre pareva santissima
Valenza di condono. Ora il dono
Frattura le rocce nel grido di dominio
Faccendiere di demonio. Era che spezza
L’illusione cedua di combinarsi sposi.

Gianluca Garrapa intervista Peppe Millanta

1

Vinpeel degli orizzonti, Peppe Millanta,

Neo edizioni, 2017, pagg. 256

 

 

1.

«Ma come farò a sapere se arriverà proprio a te?»

«Se si tratta della mia storia, di certo arriverà a me»

 

 

Gianluca Garrapa.: All’inizio non ero ben sicuro. Più volte ho rivisto la biografia dell’autore per capacitarmi che fosse proprio un mio contemporaneo e connazionale a traghettarmi in questa narrazione, ho provato l’impulso di chiamare l’autore e ascoltare la sua voce:

come si può raccontare quella che, per comodità, si vuol chiamare favola, e in questo modo sbrigarsi a definire quello che non può darsi come categoria?

Perché hai scelto proprio questo modo di raccontare?

 

Peppe Millanta: Perché credo nella potenza della fantasia, come mezzo per spiegare la realtà che abbiamo intorno. Spesso la fantasia viene intesa come un qualcosa di distraente, di ludico, quando invece riesce ad aprirci finestre e prospettive totalmente nuove sul mondo. La fantasia infatti riesce a ridurre ciò che è grande e a ingigantire ciò che è piccolo, donandoci occhi nuovi sulle cose e sulla realtà che ci circonda. Inoltre credo ancora nella potenza delle favole, tra le cui pieghe si possono nascondere messaggi e tematiche anche dense senza però appesantirsi troppo. Il modo di raccontare che ne è venuto fuori è un po’ frutto di queste due considerazioni e di una mia inclinazione a non prendermi mai troppo sul serio.

 

 

2.

 

G.G.: La follia, il mare, Ma quello che ogni sera cercava sulla battigia di fronte casa, era il rumore del mare di una notte che avrebbe voluto rivivere per sempre, la madre e la donna, l’allucinazione, l’oggetto parziale, la gamba di legno. Pare che questa favola nasca da un profondo travaglio esistenziale che l’autore riesce a trasformare in favola e, d’altra parte, una famosa psicanalista consigliava, ai suoi allievi che volevano diventare analisti, di leggere favole, filastrocche, ma anche Shakespeare e la grande poesia, quella, cioè, che parla di quel che non si riesce mai a parlare. Oh! quanta poesia in questo racconto che a volte ricorda, ma sempre per comodità d’intendimento, il Calvino delle storie che si intrecciano, o forse meglio dire entanglement. Millanta ha, e non sarò l’ultimo a confermarlo, il dono raro della fantasia. Il libro deborda. La società dello spettacolo che ha rimosso il desiderio a vantaggio delle immagini false. Il nastro dell’esistenza che si inceppa. «Qui a Dinterbild è dove si finisce quando qualcosa inceppa le nostre vite…»

La struttura stessa della narrazione non è però ordinaria: capitoli brevi, sezioni separati da una sovra-storia che però si aggancia, nel senso, ancora e àncora, quantistico di entanglement, al plot principale e poi il finale-mongolfiera, per chi volesse andare altrove, proseguire altrove, in Internet, e non dimenticare e non vi dico come. L’oblio è un tema caro all’autore. La memoria, la mancanza di memoria.

In questa favola ho scorto un richiamo al nostro non molto favoloso paese che spesso dimentica la storia. È proprio così?

 

P.M.: Sicuramente si tratta di una storia, di una dinamica, di relazioni che portavo con me da parecchio tempo, anche se in maniera sommersa. Diciamo che mi sono accorto di quello di cui volevo parlare soltanto dopo, a libro finito. Era una storia che mi emozionava, e sono partito semplicemente da quello. Non c’è però nel libro alcun riferimento all’attualità. Volevo parlare a e di qualcosa di un po’ più intimo, che riguardasse la sfera personale più che quella collettiva. Questa maledetta incapacità a volte di sfiorarsi, di dirsi parole semplici come “Ti amo”, “ti voglio bene”, “scusa”, di impigliarsi l’anima l’uno in quella dell’altro per starsi e sentirsi più vicini. L’oblio è sicuramente una tematica a me cara. Ho sempre avuto il vizio di recuperare storie, di spolverarle e tirarle a lucido. L’oblio, la perdita di memoria, sono cose che mi terrorizzano, e raccontare storie è un po’ un argine contro ciò, per quanto tenero nella sua insensatezza.

P.S. Grazie per avermi fatto scoprire il significato di “entanglement”!

3.

 

G.G.: Ogni tanto si fermava e ne usava una per rovesciare qualche pezzo di legno nella speranza che fosse la sua gamba: mi vengono in mente le osterie e certi personaggi di Moby Dick e di Melville in generale, il personaggio folle, di cui non voglio dire il nome, ci sarebbe potuto stare benissimo lì dentro, e anche mi torna in mente e al cuore la lettura del giovane Holden, il tono lieve di chi scavalca l’interiore e scivola sulla superficie delle cose.

 

Cosa ci puoi dire dei tuoi riferimenti letterari?

E poi un’altra cosa: riguardo ai nomi dei personaggi e all’odonomastica (i nomi delle strade, della piazze ecc) e dunque all’ambientazione, come mai hai scelto (scelta che io ho apprezzato tantissimo e che mi fa pensare, non so perché, al regista e attore teatrale Eugenio Barba e al suo Odin Teatret) un altrove freddo e lontano dall’Italia?

 

P.M.: Riferimenti letterari tanti, anzi tantissimi. Ho iniziato a scrivere a seguito di un furto in biblioteca (ormai il reato è prescritto e lo posso dire senza patemi). A 14 anni, dopo aver attinto per anni dalla libreria di famiglia, decisi di scegliere un libro da solo. Mi recai nella biblioteca della mia scuola, e fui attratto da un bel tomo verde che racchiudeva tutti i racconti di tal Dino Buzzati. Fui folgorato. Quella spremuta di vita in così poche righe, quelle metafore sul mondo mi lasciarono confuso e stordito. Per la prima volta sentii l’impulso di scrivere, di raccontare. Iniziai a emulare i racconti di Buzzati (anzi no, lo ammetto, tentavo disperatamente di copiarlo). Poi arrivò Calvino, e da lì mi si aprì tutta la letteratura francese: Boris Vian, Queneau, Perec. Gli autori americani, pur essendo lontani dal mio immaginario, sono stati una splendida scoperta. Twain, Dos Passos, la crudezza di Steinbeck e Hemingway, il modo di scrivere assurdo e incantevole di Faulkner. L’incontro però determinante fu con il Sud America. Marquez e Cortázar in particolare. Ma anche Manuel Scorza, Amado, Allende. Una fantastica galleria di storie assurde, esotiche, che mi facevano e mi fanno vibrare qualcosa dentro di piacevole. Fu con loro, e con Marquez in particolare, che capii cosa mi piaceva. C’è da dire però che per me la narrazione è un qualcosa che va al di là della letteratura. Credo sia formativo ascoltare il testo di un “Geni e lo zepelim” di Chico Buarque tanto quanto un “Calapranzi” di Pinter a teatro. Sono storie, tutte, che rimandano a immaginari e mondi da cui attingere e di cui nutrirsi. E quindi di riferimenti ne ho davvero tanti.

4.

 

G.G.: Davanti a lui, sopra i fornelli, la piccola tenda della finestra svolazzava, sollevata dall’aria calda della zuppa che bolliva. Vinpeel aveva visto quella scena almeno mille volte, eppure quel giorno, e in quell’attimo, quella danza assunse per lui un significato diverso: Accade anche a chi legge, per lo meno a me è successo, di arrivare a percepire in modo diverso quel quotidiano fatto di nuvole e timori infantili, e luoghi affatto familiari, il perturbante che si annida nelle pieghe della buona ragione, accade di dire: è vero! non ci avevo mai pensato.

Non ci avevo mai pensato che il nastro della vita si possa inceppare perché smettiamo di ricordare. Rimosso. Difesa. Gabbia tipografica mutevole e imprevedibile. La fantasia della griglia tipografica sulla superficie della pagina dove l’essenza diventa forma, (ahimè, in questo luogo tipografico non è possibile ricollocare la scansione a cascata, quasi poetica del fraseggio, altrimenti avreste l’impressione di uno dei protagonisti, Selmer: Selmer stava leggendo non da uno spartito musicale, ma da uno spartito di luci. Non c’erano note lì ma colori, non strumenti ma forme, non armonie ma cromie, ed era qualcosa che nessuno aveva mai visto.), oppure il tentativo di rappresentare la musica sulla pagina:

 

A partire fu un botto, seguito da un secondo, e poi da un

terzo, a intervalli regolari, come se fosse un metronomo.

BUM BUM BUM BUM

Selmer contò le due battute d’aspetto e diede il via ai musicisti

che iniziarono a suonare a tempo con gli scoppi.

BUM BUM BUM BUM

La musica andava e si mischiava a quei botti come fossero

strumenti dell’orchestra.

BUM BUM BUM BUM

 

E non è sbagliato dire che la scansione musicale è molto presente considerando che il romanzo si apre con un Preludio, dopo che il testo e l’atmosfera sono stati accordati e avviati su quel Devo andare, Devo andare (questo refrain mi ricorda l’inizio dell’Amleto: Vendica tuo padre, Vendica tua padre, e tutta la tragedia vive di quest’impossibilità), sintagma che, lo capirete leggendo, dà il la a tutta la vicenda.

 

Come hanno influenzato la tua scrittura gli interessi musicali e la tua formazione teatrale

 

P.M.: Molto. Soprattutto la musica. Ma più che per la scrittura, per l’approccio alla vita. Per anni ho fatto (e continuo a fare) il musicista, sia di strada che in giro. È una cosa che ti costringe a girare parecchio, e ti mette a contatto con un sacco di persone e storie differenti. Storie lontane, diverse. Sembra un po’ un controsenso, ma fare il musicista insegna ad ascoltare chi hai davanti, a tentare di capirne e carpirne gli umori. È un qualcosa che non ti permette di chiuderti in te stesso, ma di avere sempre la percezione di un qualcuno che ti sta ascoltando a sua volta e da cui non puoi prescindere. Questo credo ti porti a scrivere in maniera più aperta verso un ipotetico lettore, e a non chiuderti e ad avvitarti su te stesso nella tua scrittura. Ti insegna, forse, che un pubblico c’è, e va affrontato sin dal momento della stesura del tuo libro. Anche il teatro ha avuto la sua importanza. Vengo da lì. Ho scritto numerosi spettacoli teatrali, e forse il fatto che la parte dialogica del romanzo sia così preponderante è un po’ una eco di questo pregresso. Il teatro ti costringe ad essere sintetico, a far passare il carattere, il desiderio, le ferite di un personaggio solo attraverso le sue parole. Il teatro non ammette descrizioni. Non ammette intorcinamenti interiori. Costringe all’azione molto più che il cinema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.

 

G.G.: «E perché?»

«Perché non capisco quello che mi accade. E allora mi paralizzo».

«Ma cosa ti accade, di preciso?»

«La Cosa».

«In che senso?»

«Sento le farfalle nella pancia che iniziano a sbattere le ali e che poi svolazzano per tutto il corpo, come impazzite. Io la chiamo così, La Cosa…»: La Cosa. La chiama proprio così! allora voglio informarmi se questa Das Ding, filosofica e psicoanalitica, lui sa cosa è, o se il viaggio interstellare tra gli astri fermi qui sulla terra, lo abbiano condotto rabdomante tra le verità inconsce.

 

Esiste tutta una letteratura psicoanalitica difficilissima che tenta di spiegare La Cosa, e tu sei riuscito a farlo con l’arte: credi che la poesia, il teatro, la musica e la scrittura possano anticipare le scoperte della scienza e della psiche?

 

P.M.: Più che spiegare, credo che compito dell’arte sia quello di trasmettere, di far capire più il “cos’è” che il “come funziona”. Ma si tratta in entrambi i casi di un processo creativo, che procede per vie tortuose. La maggior parte delle scoperte scientifiche avviene, più che grazie ad un metodo scientifico, grazie alla cosiddetta serendipity, cioè al trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. In letteratura e nelle arti in genere è più o meno lo stesso. Si sa a grandi linee dove si arriverà, ma neanche l’autore è certo del risultato finale. Si tratta quindi di due processi creativi molto simili, ma con finalità diverse. Non credo sia un caso se in passato la medicina fosse definita un’arte. Sicuramente alcuni grandi narratori sono stati in grado di anticipare i tempi, di offrire spunti sia alla scienza che alla psicologia (Dostoevskij è solo l’esempio più famoso), ma credo che il bilancio sia perfettamente in pareggio, in quanto non si contano gli scrittori che hanno rubato a loro volta alla scienza e alla psicologia. Si tratta di fenomeni umani creativi, ed è normale e giusto che si influenzino a vicenda.

 

 

 

 

6.

 

G.G.: Ogni cosa lì dentro era la traccia di un desiderio mai realizzato, di una speranza interrotta, di un sogno ad occhi aperti. Poi, tremendamente, appare il desiderio che ha molto a che fare con il vuoto paralizzante della Cosa, con il godimento mortifero della Cosa, che solo l’arte riesce a costeggiare senza farci inghiottire.

 

Cosa è per te il desiderio e come ti aiuta nel tuo lavoro di scrittore e musicista? Ovviamente non ti chiedo come il desiderio ti ha condotto nel mondo del teatro. E dunque mi piacerebbe che tu ce lo dicessi J

 

P.M.: Il desiderio credo sia il motore dell’universo. Il “Volli, sempre volli, fortissimamente volli” dell’Alfieri credo sia alla base di tutto. Desiderare significa immaginare un’alternativa, un Altrove appunto, un qualcosa che ancora non c’è per il resto del mondo ma che c’è già in te. È il primo passo per il cambiamento, vitale, necessario. È uno sforzo innanzitutto di fantasia, il desiderio (per riallacciarci all’importanza detta prima), e non è un caso che siano i bambini quelli maggiormente capaci di desiderare, e quindi di anticipare il cambiamento dentro di loro. È quando si smette di desiderare che si smette di cambiare, anche solo in potenza. E ciò che non cambia, non muta, è non vita. Il desiderio credo sia il motore dell’universo. Non esiste ancora una formula fisica per definirlo, ma credo incida parecchio nelle relazioni tra tutto ciò che popola lo spazio. A me il desiderio ha dato la forza di lottare, di andare anche contro quando è servito, mi ha fatto compiere scelte dolorose, ma mi ha sempre permesso di crescere, di maturare, di fare un passo in avanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7.

 

G.G.: Il mare che toglie e che da, il mare sempre, il mare madre, il materiale fonico delle conchiglie, Uscì di casa mentre suo padre raccoglieva conchiglie e se le portava all’orecchio. Ogni tanto se ne metteva una in tasca, gli oggetti che parlano e che sembrano reclamare una vita di cose, di cause, opposte ai gadget della dissocietà del mediale: gli oggetti dicono ciò che appare di noi, di più inautentico, le conchiglie dicono i nostri desideri, il desiderio dell’altro, lo scambio, il dono: mi vengono in mente le collane di conchiglie, di cui parlava l’antropologo Malinowski, usate dagli abitanti delle isole Trobriand che compivano viaggi lunghissimi in mare tra le isole per scambiarsele come doni. Millanta ci racconta, oltre che la psicoanalisi, anche l’antropologia dei gesti rivolti all’altro, la domanda d’amore cui l’altro può anche non rispondere. Ci racconta il linguaggio che deforma le cose perché le cose hanno una loro vita e il nome deformato diventa una sorta di catacresi, va oltre il proprio significato: la locamba: Dopo una lunga consultazione optarono per l’unica soluzione possibile: Locanba Biton.

 

In questo modo di usare gli oggetti e di renderli cose, cause, ci vedo un aggancio alla società dei consumi che ci ha trasformati in oggetti soggetti di oggetti. È proprio così?

 

P.M.: No, anche qui non c’era alcun intento di denuncia sociale. Può darsi che questo tempo sia maggiormente denso di queste problematiche, ma credo che la storia del libro riguardi tensioni presenti in noi da sempre, al di là del periodo storico. L’utilizzo di oggetti che acquisiscono delle vere e proprie funzioni narrative all’interno della storia è un gioco che permette di amplificare i simboli che da sempre utilizziamo per orientarci nel mondo, e per creare un mondo sospeso, in cui chiunque possa per assurdo identificarsi non appartenendo a nessuno. La storia del libro non è infatti calata in nessuno spazio definito. Non ci sono coordinate spaziali né temporali che possano aiutare a definire il “quando” e il “come”. Credevo fosse utile raccontare in questo modo, per permettere a chiunque di arrivare al nocciolo della questione e di immedesimarsi nell’atmosfera del libro: visto che il mondo descritto non appartiene a nessuno, è abitabile da chiunque

 

 

 

 

8.

 

G.G.: Vinpeel degli orizzonti sa insegnare l’emozione. È un viaggio che potrebbe condurci fuori dall’autismo dei sentimenti che ormai sembra riguardarci un po’ tutti. Le navi. I viaggi e i paradossi. E attraverso opere del genere che si può conoscere il profondo, le opere che hanno come sfondo il mare, come meta il cielo e destino l’Altrove: L’Altrove non era altro che un sogno e, come tale, si dissolveva nel crepitio di un fuoco che andava spegnendosi.

Questo romanzo è un eterno contorno bellissimo e dolce, malinconico e ben congegnato che poi vola nel mare d’Internet… ma non vi svelo il segreto. Non voglio levarvi quella meraviglia che ha colto, credo, chiunque abbia letto, divorato, e amato,Vinpeel degli orizzonti parla della nostra storia. Non c’è dubbio.

 

Ma se ti chiedessi perché è fondamentale scrivere e raccontare le nostre storie, mi risponderesti con le stesse parole di quella ragazza sulla nave, giusto? Che dice:

«È vitale che succeda» fece lei «perché senza qualcuno che ci racconti la nostra storia, restiamo senza sogni, e se non hai sogni puoi impazzire».

 

P.M.: Credo che il diritto – dovere di ognuno di noi sia quello di vivere la propria storia, e cioè seguire le proprie inclinazioni, i propri desideri appunto. A volte abbiamo bisogno che questa storia ci venga raccontata da altri, perché ci sono momenti in cui non sappiamo davvero cos’è che vogliamo, cos’è che desideriamo. O forse abbiamo solo paura di confessarcelo, e per questo ce lo neghiamo. Ed è solo attraverso gli altri che riusciamo a capire pezzi di noi che spesso ci rimangono sconosciuti, e che ci aiutano a raccontarci, ad andare un po’ più avanti nella nostra narrazione interiore. E’ un po’ come quando hai il blocco della pagina bianca. Per andare avanti hai bisogno di un input esterno, di un aiuto. Di un qualcuno in cui specchiarti, per farti raccontare quello che sei.

Cosa ne dirà la gente? Festa di Nazione Indiana 2018

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Vi aspettiamo alla Festa di NazioneIndiana 2018! Quest’anno si terrà a BRESCIA sabato 27 ottobre dalle 16.30 e domenica 28 ottobre dalle 10 alle 12 ed è stata organizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale C.A.R.M.E. 

Alcuni componenti del folto gruppo di redazione di Nazione Indiana saranno presenti per interagire con gli ospiti e con il pubblico secondo quella formula di scambio e circolarità di confronto aperto e curioso che ha caratterizzato tutte le feste di Nazione indiana.

à la carte ! à la carte !

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Appello ai lettori di Nazione Indiana

di

Francesco Forlani

 

 

Istruzioni per l’uso / Mode d’emploi

1) Procuratevi una cartolina particolarmente bella o al limite fabbricàtene una.

– Il suffit de se procurer une belle carte postale ou d’en fabriquer une.

2) Ci scrivete una cosa bella, nella forma che più vi aggrada, destinata a un(a) penultimo(a)

– Vous y écrirez une chose belle – dans la forme souhaitée – destinée à un/une pénultième.

3) Inviatela in una busta con il mio indirizzo. Sulla cartolina metterete invece come destinatario, penultimo, linea 6.

– Ensuite vous l’envoyez dans une enveloppe avec mon adresse. Sur la carte comme destinataire vous indiquerez : Pénultième, Ligne 6.

4) Quando mi saranno recapitate provvedero’ io stesso a lasciarle tra i sedili della prima metro del giorno (ligne 6) .

-Quand je vais les recevoir je ferais en sorte que ces mêmes cartes seront laissées parmi les sièges du premier métro du jour (ligne 6).

5) Questa non è una performance ma un atto d’amore.

– Ceci n’est pas une performance mais un acte d’amour.

ps
i penultimi? sono loro

Remain in Light

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di Gianluca Veltri

“… Seen and not seen degli amatissimi Talking Heads […] racconta di un uomo che si sente brutto (quanto lo capivo!) e allora cerca, magicamente, di riplasmare il suo volto dal di dentro, per semplice forza di volontà, conformandolo a un identikit di bellezza […]. E alla fine comincia a sospettare che il mondo sia pieno di persone come lui, tutte in trasformazione dal loro aspetto originario alla perfezione a cui anelano […], intrappolate come crisalidi a metà della metamorfosi dal reale all’ideale”.

Raul Montanari, “Il regno degli amici”

Nell’ottobre del 1980 una band della new wave newyorkese pubblicò un disco che rappresenta il punto più avanzato mai raggiunto da artisti bianchi (e non solo) nell’ambito dell’afrobeat. Uno di quei momenti in cui il presente è fortissimamente intriso di un passato ancestrale e al contempo è proiettato verso un futuro che i più non riescono neanche lontanamente a immaginare. È vero, i Talking Heads avevano già realizzato l’anno prima un disco rutilante come “Fear Of Music”, che si apriva con un sorprendente pezzo tribale traboccante di Africa. Jonathan Lethem, che al disco “Fear Of Music” ha dedicato un’intera monografia omonima, descrive quel pezzo, Izimbra, come “un’operazione al di fuori dello spazio, del tempo e della mente”. Già questo aveva condotto la band di David Byrne alquanto lontano dai suoi nervosi esordi, da quei suoni acidi e urbani del primo primo disco “77”. I Talking Heads erano in profonda “trasformazione dal loro aspetto originario”. Erano trascorsi solo tre anni e collaboravano da un paio di anni con Brian Eno. Ma, seppure in “Fear Of Music” le avvisaglie non mancassero, una svolta clamorosa come “Remain In Light” era difficile da pronosticare. Quando un artista o una band giungono in pochissimo tempo a risultati così distanti dal proprio punto di partenza, significa che è in atto un processo creativo ribollente in continua progressione geometrica: un laboratorio che fuma e scoppietta nel quale la curiosità inarrestabile, l’inventiva, la sicurezza di sé, il desiderio di mettersi in discussione e di intraprendere percorsi anche sconosciuti non trovano ostacoli. David Byrne era il genio incontrastato di questo laboratorio, e la ditta parallela che aveva messo su con Brian Eno aveva già prodotto un lavoro d’avanguardia come “My Life In The Bush Of Ghosts” (che, sebbene realizzato precedentemente, verrà pubblicato poco dopo “Remain in Light”). In esso – in “Bush” – i due avevano utilizzato, fuori contesto, versi di predicatori e voci di mercanti, ritagli radiofonici, suoni dal deserto e dal Medio Oriente: il risultato finale era un collage di grande suggestione, sebbene per palati piuttosto fini. Una costruzione intellettuale, una gioia per menti parlanti.

https://www.youtube.com/watch?v=GHVBaF0HopQ

Remain In Light”, che pur proviene in buona misura dalla stessa forgia, è invece una frastornante, policroma giostra di melodie e strumenti, una gioiosa macchina di ritmo che rimanda al continente africano. Senza che ciò sminuisca il suo valore – anzi – potremmo definirlo molto più fisico di “My Life In The Bush Of Ghosts”. Registrato in più sessioni, con il contributo attivo di tutti e quattro i Talking Heads – non solo Byrne, ma anche Jerry Harrison, Tina Weymouth e Chris Frantz – il disco suona come la somma ricca e strabordante di idee e contributi; come una turbina multicolore che infine miracolosamente trova l’equilibrio e l’armonia; l’accatastarsi di minimalismi che infine fanno un pienone. Otto tracce: tre su un lato, cinque sull’altro. Se proprio si vuole rintracciare una connotazione distinta tra le due facciate: la prima al fulmicotone, mozzafiato, frenetica come un inseguimento senza mai voltarsi indietro, in forma di scorribanda; una navigazione a vele spiegate; la seconda intimista e oscura, atmosferica, con degli approcci maggiormente “ambientali”. E se diverse tracce risultano come cerchi di funk martellante e frenetico, pervase da un demone ritmico iterativo, altri episodi, specie quelli finali, sembrano evocare delle traversate dentro il deserto o in un cuore di tenebra: Seen And Not Seen è un capolavoro di introspezione tribale, e la conclusiva The Overload è una solenne, tenebrosa, lentissima cavalcata notturna: la voce è ieratica, gli echi dei synth sinistri; tutto sembra provenire da un altro mondo o da un altro tempo.

I pezzi di “Remain In Light” ciascuno di essi un mondo, sono costruiti per giustapposizioni e sovra-incisioni di molteplici figure ritmiche e altrettanti frasi melodiche che si intrecciano, le une e le altre, fino a creare un’unità poliritmica e polimelodica. Non si fa fatica a pensare che Byrne & soci, durante le sessioni di registrazioni, ascoltassero a tavoletta Fela Kuti. La concezione attorno a cui ruota il lavoro dei Talking Heads rimanda pienamente al metodo del maestro nigeriano. Andatevi a riascoltare Zombie o Shuffering and Shmiling o Alu Jon Jonki Jon o Colonial Mentality di Kuti: lì troverete la culla di “Remain In Light” Nel 2014 Brian Eno riuscirà a colmare un antico rimpianto, producendo un lussuoso box set dedicato a Fela Kuti, e come si vede tutto si tiene.

È impressionante l’effetto-groove che viene creato dalla girandola delle cellule ritmiche e strumentali. Ciascun brano insiste per tutta la propria durata su una sola nota. “La maggior parte delle canzoni non aveva un giro armonico” – ebbe a dire Byrne a proposito dei pezzi del disco. “C’era un unico centro tonale che andava avanti per tutto il pezzo e degli accordi che si sviluppavano intorno a quello”. Come una goccia che si riempie sempre più e s’ingrossa fino a diventare un lago.

Il singolo, nonché pezzo di maggiore presa dell’album, con un vero e proprio ritornello cantabile, era la liquida Once In A Lifetime, fortemente giocata sulla formula del call and response tipica delle occasioni devozionali. Che Byrne fosse molto affascinato dai sermoni dei predicatori è cosa nota, del resto. E anche che andasse esplorando gli anfratti del mondo per estrarne il succo – Africa, Asia, Sudamerica. Di strato in strato, alle registrazioni originarie vennero aggiunte parti di chitarra di Adrian Belew (già con Zappa e Bowie e di lì a poco con i King Crimson); assoli del grande trombettista e ricercatore Jon Hassell, che quello stesso anno dava alle stampe proprio in coppia con Brian Eno un altro manifesto sonoro e etno-antropologico come “Fourth World Vol. 1 – Possible Musics”, e che, qualche anno più tardi, avrebbe dato un contributo imprescindibile al formidabile esordio solista di David Sylvian, “Brilliant Trees”. Eno, dal canto suo, sempre in quel 1980, sfornava il suo “Ambient 3” in tandem con Laraaji. Come si vede, succedeva tutto attorno a protagonisti ricorrenti e in un fazzoletto di tempo: siamo all’epicentro spazio-temporale di un coacervo di concezioni, intuizioni, al giro di boa del decennio in un “mondo di mutanti incompiuti”; intrappolati – per riprendere ancora le parole di Raul Montanari – “come crisalidi a metà della metamorfosi”: quella metamorfosi che sta in un cerchio tra post-new wave, ambient, world music, ricerca, elettro-etnica.

La freschezza e la permanenza negli anni di “Remain in Light” è stata confermata trentotto anni dopo dall’operazione compiuta dalla cantante del Benin, Angélique Kidjo, che nel 2018 ha pubblicato “Remain in Light”, un intero cover-album del disco dei Talking Heads, con la stessa scaletta, certificando una volta di più la vocazione ostinatamente afrobeat del lavoro di Byrne e co. Kidjo è riuscita a rendere ancora più smaglianti e preponderanti gli elementi africani del disco, accentuando ad esempio le melodie vocali che Byrne accennava nervosamente, o enfatizzando delle cellule ritmiche. Ma, insomma, era tutto già lì. Pronto per essere magicamente riplasmato.

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Nuove nughette

2

di Leonardo Canella

[Le vie della ricerca poetica sono (quasi) infinite. Una di queste passa per le Nughette di Canella. a. i.]

Da Nuove nughette, Edizioni Prufrock spa, 2017

ti avvicini e mi vuoi far male. Hai i denti grossi. Rotti.
Piccolo, mi vuoi far male e mi racconti la storia di tua
figlia che non la vedi da dodici anni. Penso che hai letto
i Promessi Sposi quando mi mostri il bubbone che hai
sullo stomaco. Fuoriesce di 20 cm. Mi dici che è un’ernia
nonricordocosa e penso però che i Promessi Sposi non li
hai letti bene, che Don Rodrigo ce l’aveva sotto l’ascella,
il bubbone.

Fu vera gloria?

9

di Antonio Sparzani

“Le sue vittorie in battaglia restano nella Storia, incancellabili; ma non si può negare che le petit caporal avesse un carattere incline a risolvere tutti i problemi con la violenza e a raggiungere i suoi scopi con la menzogna.” Così scrive Riccardo Ferrazzi nel capitoletto conclusivo di N.B. Un teppista di successo, romanzo appena pubblicato da Arcadia, collana Eclypse. € 16.
Romanzo? Ma sì, in un certo senso romanzo, perché la vita di Napoleone Bonaparte viene raccontata in modo romanzesco e perché del romanzo ha la vena e il potere avvincente.

Fascismo infinito, antifascismo infinito. Intervista a Stefano Valenti

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di Giacomo Verri

Il 10 settembre scorso ho partecipato assieme a Stefano Valenti e allo storico Bruno Ziglioli – che ci ha coordinati – e a Mauro Magistrati – che ha introdotto le nostre parole – a un intrigante incontro organizzato dall’ANPI provinciale di Bergamo. Il titolo della serata, Scrivere di Resistenza oggi, è stato il goloso stimolo per parlare di un tema, quello della Resistenza – in senso stretto, ma non solo – che nel 2018 ancora suscita fioriti interessi e movimentate discussioni. Ne abbiamo avuto una riprova nell’ariosa Sala del Mutuo Soccorso dominata da una riproduzione – penso 1:1 – del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e gremita da alcune decine di persone lì raccolte per ascoltare, ma soprattutto per cercare risposte a un pugno di domande difficili il cui fulcro – mi è parso di capire – è questo: dove diavolo sta andando l’Italia, coi suoi razzismi e le sue violenze? Che ruolo ha, in questa nazione, la memoria storica?

Ne è nato – credetemi – uno degli incontri più provocatori a cui abbia partecipato negli ultimi anni attorno al tema resistenziale, ma soprattutto attorno alle odiose derive reazionarie e alle recrudescenze del neofascismo. In particolare, Stefano Valenti, autore per Feltrinelli di due romanzi (La fabbrica del panico, 2013, e Rosso nella notte bianca, 2016), ha attizzato le coscienze di molti introducendo nel dibattito alcuni notevoli elementi di discussione, dal fascismo infinito alla mistificazione della violenza, dal ‘buonismo’ di certa sinistra al patologico uso dell’ingiustizia nel sistema-Italia, fino alle derive del rancore diffuso.

Innanzitutto ti chiedo, Stefano, come e perché sei arrivato a parlare di Resistenza, in particolare in Rosso nella notte bianca.

Rosso nella notte bianca nasce da una necessità e da un incontro. La necessità è comprendere la perennità del fascismo. L’incontro è quello con Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976) di Cesare Bermani (2003), libro che narra dell’Italia come uno dei paesi d’Europa dove maggiore e feroce è stata la repressione del conflitto sociale. Bermani ci accompagna dagli anni dal dopoguerra agli anni settanta, raccontando le migliaia di morti di fucili e camionette della polizia italiana. Ben prima del terrorismo, una storia poco nota che, forse, ne racconta la genesi. Lì, dentro a quel libro, ho conosciuto la vicenda dell’ex partigiano Giuseppe Bonfatti, classe 1924, il quale, dopo decenni passati a lavorare in Brasile, torna nel 1990 in Italia e la mattina di giovedì 8 novembre dello stesso anno, a Viadana in provincia di Mantova, uccide a colpi di gravina – strumento che ricorda il piccone che aveva ucciso Trockij – Giuseppe Oppici, ex-fascista locale. Per Bonfatti è un atto dovuto.

La costruzione del nemico pubblico, ben rappresentato dalla figura del Bonfatti, non è un fenomeno recente. Nella storia del Bel Paese lo stigma è stato addossato, di volta in volta, a gruppi sociali, etnici, religiosi o politici, in una percezione diffusa della loro presunta pericolosità. Complicato sarebbe elencarli tutti. Nemiche furono le plebi meridionali all’indomani dell’unità; nemici i ‘disfattisti, pacifisti, austriacanti’ che si opposero alla grande guerra; nemici i partigiani nell’Italia repubblichina; nemici i comunisti; nemici gli anarchici a cui imputare le stragi di Stato; nemici i braccianti e gli operai in sciopero; nemici i ribelli e i rivoluzionari tutti; nemiche, in generale, le ‘classi pericolose’. Uno stigma riservato non solo ai soggetti conflittuali, ma estendibile a piacere anche al capro espiatorio del momento: gli ebrei di ieri, i migranti di oggi, i rom di sempre.

A settant’anni dalla fine della guerra, quali conti sono ancora aperti con la Resistenza? È necessario scriverne, è necessario parlarne?

I conti con la Resistenza l’Italia non li ha mai fatti davvero. L’Italia ha inventato il fascismo, lo ha diffuso nel mondo, lo ha riesumato in anni recenti, unico paese al mondo. Per non parlare del dopoguerra, quando abbiamo assistito a una sorta di amnesia collettiva. Per un lungo periodo si è ignorato il consenso popolare al regime hitleriano e a quello fascista, il diffuso antisemitismo. Una rimozione storica che ha avuto forti conseguenze sulla rieducazione di massa e sulle divisioni interne provocate dal conflitto. Parlare della deriva fascista di questo paese è più che mai necessario, senza fare sconti nemmeno a coloro che dai pulpiti privilegiati di una sinistra di comodo hanno affermato, senza pudore, quella pacificazione mai avvenuta.

Nella serata di discussione a Bergamo, hai parlato di “fascismo infinito”. Di che cosa si tratta? Ha a che fare con quello che Eco ha chiamato “fascismo eterno”?

Il fascismo non è morto nel 1945 e non è nato nel 1919, al contrario, la sua visione del mondo (e la sua psicologia, come riteneva Adorno) precedono la forma storica accettata nel ventennio e sono più durature della dittatura mussoliniana. Umberto Eco parlava di Ur-fascismo e ne incarnava le caratteristiche nei tratti tipici del fenomeno storico. Ma il fascismo travalica il fenomeno storico e diventa fenomeno culturale endemico e obliquo nella società italiana. Già Giolitti nei primissimi anni venti aveva pensato di potere usare il fascismo in funzione anticomunista per poi addomesticarlo e farlo rientrare nell’alveo della democrazia parlamentare, con i risultati che sappiamo.

Non dimentichiamo il fenomeno del governo di Fernando Tambroni, ex Partito Nazionale Fascista passato alla DC sul finire della guerra, e Presidente del Consiglio tra il marzo e il luglio del 1960 con l’appoggio determinante del Movimento Sociale. Fu, il suo, un autentico tentativo di regime autoritario, con censure all’arte e alla cultura, provocazioni fasciste, ferimenti e uccisioni di militanti di sinistra da parte della polizia. Il governo Tambroni, sebbene effimero, può essere considerato la prova che, a meno di quindici anni dalla proclamazione della Repubblica, il fascismo era già in grado di rioccupare il potere.

Non estirpando il fascismo dal suo seno nemmeno dopo la guerra, ma anzi pensando di utilizzarlo contro la protesta antilatifondista e comunista prima, e contro il più ampio movimentismo di sinistra venti anni dopo, la Repubblica s’è infettata di uno dei mali peggiori, quello di un passato tragico che non passa mai.

Un nodo centrale della nostra discussione è stato anche il rapporto tra buona/falsa coscienza e mistificazione della violenza. Una mistificazione che ha una storia, una storia che parte dai mesi di guerriglia partigiana ma poi prosegue, per il nostro Paese, lungo la traiettoria segnata dalle rivoluzioni culturali degli anni Sessanta e Settanta e continua ancora oggi…

Mi piace qui iniziare con le riflessioni sulla violenza di Edouard Louis: “Mai dire che i ceti popolari rifiutano la cultura, ma che la cultura rifiuta i ceti popolari. Mai dire che i ceti popolari sono violenti, ma che i ceti popolari subiscono violenza quotidiana e riproducono quella violenza. Ogni analisi che pretenda di cogliere il mondo senza un pensiero che individui il succedersi degli eventi è destinato a fallire. Contrariamente ai miti che la borghesia cerca di imporci, la cultura non salverà nessuno. Sarà un certo tipo di cultura a farlo. Un tipo di cultura capace di definirsi contro la cultura dominante, un tipo di cultura generata contro la cultura esistente. La violenza è elemento fondativo della lotta di classe. Per i borghesi di tutto il mondo nessuna violenza è ammessa, se non quella legalizzata e costituzionale dello sfruttamento del capitale sul lavoro salariato, e quella dei loro eserciti, sulle masse proletarie e oppresse del mondo. I sostenitori delle guerre preventive che saccheggiano, sfruttano, affamano milioni di uomini, donne e bambini nella spasmodica ricerca del massimo profitto in ogni parte del mondo, producono necessariamente movimenti d’opposizione. Così è stato nei confronti del fascismo. La forma di produzione capitalistica, su cui si fondano i valori dominanti dell’attuale società, dà per scontato uno scorrimento lineare e progressivo del tempo in cui tutti gli avvenimenti e i differenti ambienti sociali sembrano convivere in una sincronia meccanica precisa e incontrovertibile. Al massimo, chi non si adatta, anche quando si tratta di interi gruppi sociali, è considerato fuori tempo, sorpassato, inadeguato, superato, sconfitto oppure residuo di un passato destinato a scomparire”.

C’è quindi un rimedio a questo “fascismo infinito”?

L’unico rimedio efficace è l’antifascismo infinito. Così come un virus è debellato dalla infinita pratica della vaccinazione, così il fascismo può essere debellato dalla infinita pratica dell’antifascismo. Una pratica andata in disuso in Italia fin dal dopoguerra e poi cancellata dalla equiparazione tra fascismo e comunismo, dal revisionismo e dalle funeste politiche liberiste dell’oggi. Dopo la caduta del regime fascista le forze della sinistra furono fautrici della soluzione più drastica e più radicale del problema, sia della distruzione o della rimozione dei residui del fascismo, sia della punizione dei colpevoli del ventennio di dittatura. Ma nulla poterono contro le scaltre resistenze alla severa punizione dei delitti fascisti alle quali si opposero con tenacia le forze politiche moderate, il re, il governo britannico, l’alta burocrazia, gli alti gradi dell’esercito e la magistratura, con il chiaro intento di non recare il minimo pregiudizio alla continuità giuridica e amministrativa dello Stato italiano. Sono questi i principali sconfitti per la mancata defascistizzazione del Paese, sancita in modo clamoroso dall’amnistia Togliatti-De Gasperi del giugno 1946.

Una cauterizzazione del bubbone fascista è forse ancora possibile, ma richiede la premessa di una sanitizzazione culturale e politica profonda e capillare della società e della classe dirigente. Una cosa, questa, che mette l’Italia ogni giorno di più di fronte alla propria disperata inettitudine.

La memoria e soprattutto la discussione intorno alla memoria sono diventate giochi per pochi, questioni cavillose che – a prestare orecchio ai borbottii diffusi – non interessano più a nessuno?

L’antifascismo, e dunque la memoria, sono preponderanti quando diventano pratica del presente, non quando sono celebrazione del passato. Non è dunque concepibile immaginare l’attualità della memoria e della discussione intorno alla memoria in una società nella quale i valori dell’antifascismo sfumano nella violenza del Capitale che riproduce prodromi di fascismo. Perché questi temi ritornino attuali è necessario trovare le ragioni d’attualità dell’antifascismo nell’applicazione di una ragione di classe. Ma al momento non vedo nessuna forza politica organizzata in grado di farlo.

E, infine, che mi dici delle nuove leve, dei giovani?

Fare torto alle nuove generazioni dando loro responsabilità che non hanno non renderebbe un buon servizio alla causa dell’antifascismo. Meglio dire dei padri e arrivare ai figli per palingenesi. Sono infatti i padri in primo luogo, e non i figli, ad avere dimostrato ridotte capacità di resistenza al virus del fascismo.

Radio days: Stefano Guzzetti ed Enrico Coniglio

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In bilico nell’attesa del tuo prossimo respiro

di

Mirco Salvadori

 

Sono giunto fin qui spinto dalla sete che non mi da tregua. Sono assetato di pace, un bisogno irrefrenabile che mi obbliga a fuggire cercando luoghi abitati dai ricordi e dalle anime di chi li ha abbandonati lungo le pareti dimenticate dal tempo. Potrei seguire il volo del vento e salire in alto, sulle cime innevate e lungo i declivi dove il respiro della foresta si fa canto, potrei cavalcare l’ondata possente del calore proveninete da sud che mi trascinerebbe nel cuore del silenzio, nel rosso deserto a dialogare con le stelle e i miraggi lasciati evaporare come segno del loro passaggio. Potrei ma in quei luoghi non riuscirei a trovare le testimonianze di chi, prima di me, ha cercato di placare questa sete chiudendo gli occhi sul finire di un giorno qualunque, immaginando un luogo in festa, nell’attesa della persona perdutamente amata e del suo perduto respiro.

 

Scendo in profondità aggrappato alle vene che trasportano le scorie indurite del tempo, afferro le loro fragili strutture raggiungendo l’origine dell’eco che mi segue nella discesa. Toccato il fondo il passo inizia a procedere incerto e le vibrazionimi giungono chiare, di diversa natura. Seguono percorsi dissimili, schivando le macerie che ingombrano lo sguardo e obbligano al ricordo.

Il vuoto dell’abbandono mi affascina, il vuoto di vita che abita questi luoghi mi terrorizza. Scivolo lungo le pareti intrise di umida sabbiosa sospensione, allungo la mano immergendola in quella materia che, spugnosa, l’accoglie gocciolando intonaco e pietra scaduta, dimenticata, gonfiata dalla solitudine dell’abbandono. Le vibrazioni ora giungono distintamente. E’ musica che cola dagli stipiti di legno marcito, dal cavo delle finestre divelte, si stende come una pellicola collosa sul pavimento e sale lenta, inerpicandosi lungo il muro scrostato, lambendo il mio corpo, penetrando la mia anima fino a raggiungere quella scritta che urla e si dimena immobile nella tempesta di silenzio che la nutre da decenni. Help Me, grida sputando polvere e insetti rattrapiti nella secchezza della morte. Aiutami a raggiungere quell’angolo di sole oltre il lungo corridoio, raccoglimi nella mano e portami con te nel tepore del tuo battito, non credere ai bisbigli, non seguire quella voce che dolce racconta un canto. La gentilezza della melodia mi tiene legata a questo luogo da sempre, é droga che scorre fluida e velenosa unendo mattone con mattone, creando un’apparenza solida nella quale si moltiplicano le immonde creature che albergano la polvere, affollando ciò che resta del bianco vitale nel quale respiro, mia ultima difesa. Avvicinati, annusami, leccami, strofina il tuo viso sul mio umido segno, diventa parte di me e trascinami lontano, al centro di quell’angolo di sole oltre il lungo corridoio.

 

 

L’effluvio musicale mi stordisce e trasporta lontano, nel timbro solitario del pianoforte assaporo il piacere della decadenza diffusa nella gabbia dorata dell’eleganza lunare. Il luogo nel quale ora vago forse un tempo era proprio quel bar dimenticato, quella sala d’incontri satura di fumo e polvere bianca, la stessa che ora segna il mio incerto procedere mentre nel chiaroscuro intravvedo la sagoma di un inginocchiatoio.

 

 

 

 

La vedo appoggiarsi con equilibrio incerto su quel che resta dell’antica preghiera, é una figura esile dalla voce flebile ma profonda e sta cantilenando una frase come stesse nuovamente pregando, inginocchiata sopra un irriconoscibile strumento un tempo sacro: Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. L’Angelus Novus di Klee rivive nel suo lento salmodiare, ripete incessante la frase scritta da Walter Benjamin. Una preghiera, ultima, sussurrata tra le macerie del passato che lento scivola su queste macerie con rinnovata violenza distruttiva, verso un futuro dai contorni instabili, colorati di irrespirabile bianco vitale.

 

La luce mi attrae, fatico a guardarla ma il vento che leggero penetra il cieco sguardo delle finestre divelte mi spinge a seguirla. Mi lascio alle spalle la solenne liturgia di morte scavalcando la linea d’ombra, il confine oltre il quale ciò che si vede é. Il respiro del giorno riempie i miei polmoni intasati dal tepore dell’afflizione, la vita sembra torni a dialogare con la natura e questo sperduto figlio. Sento il suo canto, ascolto la dolcezza della sua pronuncia mentre descrive il padiglione del sogno, lì nella città abbandonata, un luogo sempre illuminato dalla luna e dalla melodia che l’avvolge.

 

 

 

 

L’euforia donatami dal contatto con la vegetazione, il suo intenso odore, il rumore delle foglie che terminano la loro breve corsa nella stagione del silenzio, pian piano scema. Le macerie si nutrono anche di luce e si ergono immobili e maestose davanti ai miei occhi. Nulla può la dolcezza del suono che penetra la ruggine, avvolge i nani e i bruchi dagli occhioni spalancati. Invade questo luna park un tempo abitato dal sorriso di un incontro agognato, dalla stretta di mano che rallentava i battiti del cuore impazzito, dall’abbraccio desiderato e mai ricevuto, dal bacio dato nell’improvviso fermarsi del tempo. Tracce, solo esili tracce sospese nel ricordo di musiche che ripetono all’infinito ciò che é stato e mai più sarà.

 

 

 

 

Solo allora chiudo gli occhi sul finire di un giorno qualunque

immaginando me stesso seduto sul ciglio di questo luogo in festa

in bilico nell’attesa del tuo prossimo respiro.

 

                                                      

 STEFANO GENTILE | MONICA TESTA | ENRICO CONIGLIO | STEFANO GUZZETTI – “NELL’ATTESA DEL TUO PROSSIMO RESPIRO” – 13/Silentes
2 x photo books (40 pages each – cm 25×25) + 2xCD in special package, ltd. 300 copies

 

Poeti e democrazia

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di Daniele Ventre

Polesía, il nuovo numero di Trivio, il quarto dalla nascita della rivista, patrocinata dalla casa editrice Oèdipus di Francesco Forte e curata dal poeta Ferdinando Tricarico, si presenta eccezionalmente come un volume monotematico sulla “democrazia”, volume che coinvolge un ampio numero di poeti. La scelta nasce dalla considerazione del direttore scientifico Antonio Pietropaoli (si veda la sua breve Premessa al volume, a p. 5), secondo cui se una rivista culturale deve “da un lato godere della più ampia libertà di movimento” deve anche, “dall’altro, … lasciarsi incalzare dagli eventi della realtà esterna”: una realtà di profondo degrado politico, nella quale “non solo il sistema democratico mostra evidenti crepe, ma il concetto stesso di democrazia viene revocato in dubbio, è entrato in crisi … ultimo effetto perverso della globalizzazione, che ha inoculato in tanti, in troppi, la convinzione che la democrazia fosse solo quella degli integrati, degli inclusi, degli (ad) agiati, e si fosse dunque trasformata in odiosa oligarchia”.

In relazione oppositiva a questa realtà, “nell’epoca della perdita dell’utopia”, per riprendere le parole di Francesco Muzzioli (nella sua introduzione Per una poesia democratica a p. 9), la paralisi dell’immaginazione politica attua un vero e proprio rovesciamento del principio speranza di blochiana memoria in un fine della disperazione, di contemplazione della catastrofe, il che “chiama in causa proprio quelle facoltà tradizionalmente connesse alla letteratura”, come sede elettiva della contemplazione di futuri possibili, o quanto meno di demistificazione dei fondamenti assurdi, deteriori e deterioranti, dell’impossibile presente. Tale è lo scopo ultimo di questa antologia tematica, con cui, al di là delle differenze di poetica e di orientamento, si cerca di lanciare, come apertis verbis dichiara il curatore Ferdinando Tricarico “il sasso nello stagno della disillusione politica”, attuando, pur fra mille incertezze e ripensamenti, questa crasi fra Polis e Poesia -e si tratta, ovviamente, di una crasi paradossale, visto che al presente si realizza, forse per la prima volta nella storia, il caso di una forma di organizzazione del potere che non ha bisogno di sanzione estetica o culturale.

Le esperienze poetiche raccolte in Polesía, alla quale anche chi scrive è stato chiamato a fornire il suo modesto (e per quanto possibile onesto) contributo, sono assai eterogenee, potendovisi riconoscere un panorama abbastanza ampio e sfaccettato, benché per forza di cose non completo, dei vari linguaggi della poesia italiana attuale. Nella visione di insieme fornita da Francesco Muzzioli, si possono ravvisare qui in vario modo tre elementi tradizionalmente specifici di quei testi che si concepiscono, e si percepiscono, come politicamente orientati, o fortemente impegnati verso la comunità: 1) l’invettiva, come vis polemica d’attacco; 2) la satira, come prassi dissacratoria; 3) l’ironia, come habitus mentale e stilistico di entrambe. Più che di tipologie atte a classificare il materiale antologizzato, questa terna di connotati tipici fornisce un quadro generale della sua ἰαμβικὴ ἰδέα, vale a dire, del suo tono di fondo, che è aggressione linguistica, stilistica, immaginativa, cognitiva ed etica al problema, oltre che agli obbiettivi comuni dei testi raccolti: la globalizzazione selvaggia, il modello di governance tecnocratica senza controllo della finanza, la sindrome cinese dell’ingegneria sociale neo-liberista estrema, che coniuga dittatura militar-burocratica e far west economico, ma anche il contraltare glocalistico, xenofobo, neo-conservatore, populista, francamente neofascista, rappresentato da forze ademocratiche solo in apparenza ribelli al sistema, ma in realtà perfettamente organiche alle sue reti di comando liquide, o spesso semplicemente liquefatte.

Così, in una carrellata cursoria, ma si spera non troppo superficiale, si susseguono in ordine di apparizione: lo stile franto, misto fra allusione storica e intimismo, dei versi liberi di Luca Ariano; la riflessione lucida di Mariano Bàino, articolata in due tempi pentastici, che sembrano riecheggiare una sorta di trompe-l’oreille esametroide e decostruiscono con ironia sottile e corrosiva le parole chiave del gergo dei tecnocrati, e la loro filosofia da platonismo aziendale raffazzonato, fra i week-end plebiscitari dei politicanti della domenica, i fludi talk-show delle narrazione liquide, entrambi indifferenti al black out definitivo della biosfera e dei suoi abitanti; la tecnica versolibera di Domenico Brancale, per cui prende invece vita una sorta di spontaneismo dell’etica del viandante, del diverso, dell’altro; il linguaggio compassato e nitido, da university wit, di Franco Buffoni, che consegna al lettore un finissimo e stringato scavo poetico dell’archaiología della costituzione come base della democrazia in quanto spazio in cui tendere, nelle parole del diritto, all’utopia possibile; il messaggio di Enzo Campi,che si dipana invece in una estrema frammentazione dei nessi tonali elementari dei sintagmi, arrivando all’enjambement in piena elisione, all’episinalefe, e trasformando in balbettio disintegrato la rottamazione dell’umano derivante dalla disgregazione neoliberista dell’istituzione democratica; la lunga catena di lasse atonali tratte dall’inedito di Purgatorius, di Guido Caserza, che è portatore di un forte messaggio di demistificazione dei tic politici comuni al tempo attuale e riesuma in un nuovo contesto elementi e tratti stilistici propri dei novissimi, che a volte sembrano riprendere, ora in oppositione ora in consonanza, i toni di Laborintus, o dei passaggi apertamente politici della produzione di Pagliarani; seguono i lunghissimi stichi di prosa di Nadia Cavalera, che attutiscono il classico impatto che ci si aspetterebbe dall’esercizio della funzione poetica, diluendolo in una catena discorsiva semi-colloquiale; con spazi ritmico visuali più compatti si dipana il discorso poetico, pur esso fondato sul verso atonale, di Domenico Cipriano, nel cui testo si riflette l’implosione dell’individuo a pulsioni sociali e affettive primarie, di fronte al crollo dell’ideologia come progetto e orizzonte condiviso; la parodia della democratura come fiaba dell’orrore, fra parole magiche di tono anglizzante, ambiguità e volgarismo televisivo ironizzato, connotano la monostrofa monologica di Floriana Coppola; il blocco di prosa, degré zéro della forma di fronte alla deformazione e all’informe del mondo pubblico, caratterizzano il testo, anch’esso parodico, di Vera d’Atri, che (de-)costruisce un discorso politico, frantumando il senso delle sillabe nella gragnuola dei tecnicismi politologici affastellati; da prima decisamente virato sul nonsensical, sul gingle, poi sulla Betrachtung prosastica con giochi fonetici immersi in una sintassi frammentata, l’irruzione linguistica di Chiara Daino nel càosmo della democrazia in delirio di impotenza; sempre sul piano del ludus verbale, organizzato però in una sorta di psico-dramma a soggetto (de-soggettivato), il testo di Carmine De Falco, orchestrato sulla mimica del silenzio e del basso profilo in tempi di controlli totalizzanti e onnipervasivi; estremamente concentrata la tempra stilistica di Francesco Filia, il cui dettato, con la sua assoluta immediatezza, richiama l’idea di una dimensione politica in cui l’uomo sia presente nella sua pienezza, al di là di ogni finzionismo e di ogni costruzione artificiale del nemico di turno; altrettanto immediato, ma di tono contestativo, con andamento da filastrocca e da slogan, da corteo, il breve sistema di quattro strofe di Claudio Finelli, il cui tono da marcia traccia il perimetro del diritto ad esercitare il dissenso dalle fila di una minoranza, che si trasforma a questo punto in una sorta di anti-élite; una complessa alternanza fra prosa ritmica e verso atonale nel testo di Giovanna Frene, determina una sorta di dialettica fra discours razionalizzato, storicizzato, e un recit versale dal tono gnomico, universalizzato; una riflessione sul potere politico che si struttura come forma della divisione/distinzione/discriminazione, e di una antropologia dell’opposizione amici-nemici, si definisce nelle quattro strofe versolibere di Vincenzo Frungillo; la parodia e l’altergiunzione dominano la prosa ritmica intervallata di stichi atonali di Francesca Genti, che con il suo poemetto-novella surreale/iperreale in prosa/verso delinea la società attuale, avviata a diventare postdemocratica, come un collage di tribù insulari e isolate più o meno conformiste al loro interno; toni quasi neo-oracolari, al limite del messianico, si rinvengono nelle due brevi lasse versolibere di Federica Giordano; una raffinata ironizzazione dei tradizionali simboli della modernità (uno fra tutti, l’albero della libertà, di giovanil-hegeliana memoria) si legge nel demo di Marco Giovenale, che già nel titolo allude alla forma di una struttura tecnicamente ancora in prova, imperfetta, inconclusa, sub iudice, da esperimento ancora da consegnarsi al pubblico, e che demistifica, con la sua sintassi franta, tramata di omissioni, rimandi intratestuali sbozzati, pseudo-reticenze e pseudo-preterizioni i toni e il linguaggio ordinario, da imbonitore propagandistico, dell’opinionista maggioritario tipo, e della sua orchestrazione di insignificanze condivise e tic sintattici da pubblicità-regresso; un linguaggio molto più tradizionale, tramato dall’evocazione dell’albero d’ulivo come proto-albero della libertà (e di fatto totem della democrazia attica, incunabolo improprio di tutte le democrazie) si rinviene nei versi di Mimmo Grasso; la prosa in prosa di Andrea Inglese fa da integrazione antifonale e risposta a distanza al testo di Giovenale, in una distesa e tecnicizzante ironizzazione della trama comunicativa e mediale delle democrazie, che decostruiscono dall’interno il loro pluralismo attraverso un discorso ridotto a sloganistico “messaggio”, di fatto unilaterale, che genera malinteso più che intesa e non-sensi più che razionali dissensi e consensi argomentati, finendo in sostanza per essere, in modo strisciante, totalitario, e sfuggente rispetto ai suoi stessi destinatari annidati in una post-ideologica massa parcellizzata; diverso ancora il senso allusivo dei versi di Maria Grazia Insigna, connotati, nell’esordio, da una sorta di contemplazione delle macerie, e dell’assenza degli uomini, in uno spazio (tanto esistenziale, quanto politico) nullificato e annebbiato da una chenosi non mistica; tutt’altra forma assume la lassa di prosa ritmica di Costanzo Ioni, che come da sua cifra stilistica inconfondibile, crea uno spazio nuovo, intrecciato di dialetto, latino, anglismi deformi e difformi, facendo aderire al cafarnao sociale generalizzato delle comunità disgregate su un pianeta abbandonato alla deriva economica e climatica, il suo personale cafarnao linguistico, sermo impossibile che si configura come l’unico possibile codice di decifrazione del caos; i versi lunghi, quasi versi neo-narrativi, di Carmine Lubrano tessono il referto autoptico di una non-narrazione, centrata sui giochi allitterativi e paronomasici che fanno della democrazia degratata la figlia impropria della demenza e del demerito; centrati lato sensu sulla forma della Pace, gli endecasillabi sciolti, neo-leopardiani in più di un’accezione, di Eugenio Lucrezi, per converso tramano con il loro andamento discorsivo, quotidiano, una sorta di giambo attutito, in cui i richiami a una certa tradizione lirica si dissimulano e si fondono con la colloquialità spontanea che descrive il business as usual no matter what nel tempo della crisi definitiva; per converso, estremamente concentrati appaiono i versi di Franca Mancinelli, a evocare per speculum et enigmate, in modo decisamente neo-ermetico, una trama della memoria come fondazione (ossimorica) di una ucronia concreta della società civile; il tono sloganistico, quasi da refrain contestativo, da striscione, ritorna a gola spiegata nei versi liberi a cadenza più o meno ternaria, anapestica, tramata di rime facili, di Anna Marchitelli; di altra natura il tono contestativo di Giovanna Marmo, che impronta alla negazione il suo discorso poetico sulla polis degradata a piccola patria particolaristica, dominata dalla massificazione e dalla disintegrazione in automatico, tramite una medialità inquinata e degenere, della parola e della voce ragionante; lucido e feroce, nella sua revulsione dei sintagmi, il messaggio di Renata Morresi, in cui i topoi e i cliché del pensiero progressista-democratico andati a male dopo la fallita fine della storia, franano progessivamente verso la singolarità di una adesione esitante; una nicchia a sé occupa, in questo ambiente variegato, Lamassu, la prosa di Paola Nasti, surreale dialogo lucianeo con un totem mesopotamico, quasi una operetta morale, o un conte philosophique drammatizzato, sull’intraducibilità (e sulla necessità di tradursi) della democrazia nell’umano, essendo questa effettivamente realizzabile, come da rousseauiana citazione, solo in un utopico popolo di dèi; nei versi di Lucio Pacifico si presenta invece all’occhio, in apparente focalizzazione esterna, un paesaggio deragliato di esperienze standardizzate dall’ingranaggio produzione-consumo, in cui di fatto nessuna parola ideologicamente marcabile e nessun concetto specificamente politico trovano più luogo e cittadinanza; la maniera breve, neolirica, di Melania Panico si articola in due momenti ritmici, fra il prima e il dopo l’instaurazione della democrazia, con riduzione degli individui a elementi mansueti di un gregge, come a suggerire per allusione la natura intimamente gregaristica, non partecipativa, delle democrazie industriali; nei suoi versi serpeggianti nel vuoto dello spazio bianco come spago da ricucire cicatrici, Marisa Papa Ruggiero definisce lo stato di nomadismo esistenziale dell’uomo contemporaneo, lanciato verso una quest non eroica, una cerca, senza definizione dell’oggetto; più personale e intimistica la riflessione di Maria Concetta Petrollo, che evoca la dimensione incerta della democrazia come dinamica di organizzazione sociopolitica debole, perché non radicata nella longue durée (nell’urna elettorale,”prima di me/ passò/ solo mia madre”); una struttura narrativa, da virulento e spietato racconto allegorico, ha invece il poemetto di cronaca nera di Antonio Pietropaoli, i cui versi liberi cadenzati, quasi pavesiani, fra l’endecasillabo dattilico e l’esametroide, fanno da colonna sonora in sordina alla brutale dinamica di uno stupro con delitto in due tempi, in un testo che può essere letto a più livelli come immagine del disordine costituito; la forma poematica, stavolta per lasse di endecasillabi e settenari, a volte regolari, a volte segnati da anacrusi che li rendono ipermetri o ipometri, connota con altre dinamiche anche la scelta stilistica ed espressiva di Ugo Piscopo, che riprende, ironizzandola, la forma del contrasto e della cobla di canzone; richiami evidenti, ricontestualizzati e risemantizzati, ai novissimi, in particolare a stilemi sanguinetiani (“…le grandi idee …saranno messe/ in prigione…”), nel trittico di lasse di versi atonali il selfie è uguale per tutti, di Gilda Policastro, che delinea lo scenario disgregato di una medio-crazia dell’autoscatto, dominio del narcisismo mediale dei mediocri nel tempo della banalità del mare; centrato sull’immagine incipitaria del “fiero pasto universale” che costituisce il mutuo sbranamento assicurato della lavorazione della storia è invece il tessuto ritmico implicito delle lasse in cui si articola il discorso poetico di Lidia Riviello, nel cui verso/prosa ritorna, insistito, il tema harrisiano (da cannibali e re) della sicurezza/insicurezza alimentare come trama pulsionale profonda della politica; la forma della democrazia neo-imperiale, in transizione verso forme più o meno ambigue di principatus e dominatio, o democratura, si accampa nei versi di Gianluca Rizzo, il cui trilinguismo (latino, italiano, inglese) è finalizzato a ricreare le tensioni del campo semantico dell’egemonia nei suoi slittamenti epocali; una sorta di teologia negativa della democrazia (“demo… che?”) si ritrova nelle strofe tristiche versolibere di Anna Santoro, il cui tono graffiante si stende sul quadro desolato di un mondo “bastonato da dittature amiche”; decomposizione e ricomposizione del linguaggio politico mediale della dittatura tecnocratica cinese, modello improprio del capitalismo occidentale in cerca di nuovi erramenti ed orrori, nei lunghi stichi atonali di Ivan Schiavone, il cui tema centrale è la possibilità di una guerra commerciale che è per definizione senza vincitori né vinti, così che le parole di XI JinPing, il capo di tale dittatura, finisce per offrire una sorta di lezione storica indiretta al capo della più grande democrazia occidentale, il Trump creatore di barriere doganali e sbarramenti; quasi eracliteo il correlativo oggettivo costituito dall’immagine del cercatore d’oro nei versi di Giulia Scuro, nei cui versi la ricerca dell’Eldorado dell’utopia, nascosta dietro la forma astratta della democrazia, viene adombrata in un tessuto iconico che è al limite dell’orfismo; nei versi a prevalente cadenza anapestico-ternaria (decasillabi, novenari, settenari con battuta di terza, trisillabi, quaternari), l’acquaforte di Ada Sirente procede a tratti con il ductus ritmico di un embaterion, mimando nell’inceppamento del ritmo finale, l’inceppamento dell’ideale; nella poesia di Rossella Tempesta si tratteggia il deragliamento del rapporto fra istituzione e bisogni, nel luogo dove maggiormente esso si avverte, su quella frontiera del palazzo che l’ente locale rappresenta, quella membrana permeabile e invalicabile fuori dalla cui immunitas sono respinte le aspirazioni comuni degli individui comuni; peculiare, e fondata su una riflessione metapoetica che incrocia potere (guerra) e poesia, è invece il breve esquisse di Christian Tito, in cui l’onnipervasività della potestas devota al bellum, trova un muro nel poeta devoto in qualche modo al “bello”, e travestito da dipendente della potestas, in un duello verbale ed esistenziale esplicito in cui è il poeta, in definitiva, a fornire il suggello (“non importa se non leggete le poesie/ sarà la poesia a leggervi tutti”); sul filo della memoria storica e della mancata fine della storia (come la storia è finita, per i personaggi che la subiscono, e non è mai, fukuyamamente parlando, finita), è la qinah in morte e in vita di Falcone e Borsellino, di Anna Toscano; una struttura da monologo tucidideo di Pericle satanicamente rovesciato, l’immaginario discorso di Trump sullo stato dell’Unione, nelle lasse di stichi atonali di Ferdinando Tricarico, che si presenta come ghost writer dipendente ribelle del sistema e destinato al firing (termine che può indicare tanto il licenziamento quanto l’eliminazione fisica a cura di un plotone di esecuzione), e si configura come l’autore di un logos votato a disvelare e demistificare, dall’interno, lo stesso inganno semantico latente nel termine democrazia; per blocchi semantici ripetuti all’interno di nodi paralogici, o paraetimologici, o demistificatori di pseudo-logiche, procede, come suo uso, la lunga sezione/session poematica di Silvia Tripodi, che illustra l’insensatezza di una macchina perfettamente oliata per alimentare in modo automatico la propria autoreferenziale gestione e governance, così che di fatto la dimensione della democrazia in senso moderno viene essenzialmente esclusa, messa in parentesi; struttura poematica ha anche la lassa di versi lunghi (di un endecasillabo e un settenario accostati, à la Bernardino Baldi) che il sottoscritto, Daniele Ventre, penultimo tra cotanto senno (così sono costretto, con riluttanza estrema, ad autonominarmi e autoclassificarmi, come da completo referto), ha incentrato sull’immagine della Statua della Libertà, parodiando in negativo (piaccia o meno) Emma Lazarus e il suo New colossus, con i suoi proclami politici svuotati di credibilità da decenni di occidentale, euro-americana e democratica non accoglienza classista e razzista del viandante; rapido ed essenziale, epigrammatico, il madrigale muto di Lello Voce, il quale, nella sua brevitas, condensa il nodo della crisi della democrazia nell’insensatezza del suo linguaggio quotidiano, balbettio di politici sgrammaticati, di pubblicità e di vuoti d’anima, sprigionati come sminuzzamenti del senso dal tritacarne del pensiero unico, che riversa sul mondo frammenti di suono, voci chiocce, suole usurate, mani vuote, cielo senza stelle, a restituire all’uomo tardo-moderno l’immagine dell’assemblea pluralistica dominata dalle armi e dal mercato alla fine della decadenza.

Un panorama così apparentemente variegato ed eterogeneo permette, di primo acchito, di delineare, sia pur con qualche approssimazione, un quadro generale di questo spaccato, per forza provvisorio, di una nuova poesia politica possibile. Alcune esperienze e dinamiche sembrano, in tale orizzonte, più centrali (nel senso linguistico, chomskyano, del termine), centrate come sono sul nodo della vita associata in una società complessa, vale a dire il linguaggio come nucleo primario della medialità. In tal senso si muovono, a vario titolo e da differenti approcci e poetiche (ma sono indicazioni di massima, ampiamente rivedibili e gravide forse di eccesso di semplificazione), sia forme espressive, tipiche ad esempio di Marco Giovenale, di Andrea Inglese, Renata Morresi o di Silvia Tripodi, in apparenza lontane dalla forma tradizionale del plurilinguismo comico-realistico dissacratorio, sia la lingua artificiale di Costanzo Ioni, che questo plurilinguismo conduce alle estreme conseguenze. Altri esperimenti, altrettanto centrali, conducono verso la destrutturazione delle dinamiche effettive della comunicazione frontale/mediatica del politico (come individuo storico e come categoria) rispetto alla massa interlocutrice passiva: è il caso, ad esempio, del monologo di Pericle rovesciato di Ferdinando Tricarico, e in responsione inversa, del discorso di Xi JinPing reinventato da Ivan Schiavone, o per altri aspetti del Purgatorius di Guido Caserza; un tono peculiare hanno quei poeti che hanno in varia maniera impresso ai loro versi uno stile contestativo, da corteo apparente, da Claudio Finelli, ad Anna Marchitelli, a Giovanna Marmo; uno statuto particolare va riconosciuto a testi, come quelli di Franco Buffoni, Francesco Filia, Antonio Pietropaoli, Lidia Riviello, Rossella Tempesta o Lello Voce, che aggrediscono da vari punti di vista le metacondizioni sociali e le soluzioni al contorno del discorso della democrazia, tematica di fondo a cui si accostano anche le prese di posizione dei due testi espressamente neometrici presenti nella raccolta, quello di Eugenio Lucrezi e il mio modesto contributo. Una linea a parte è rappresentata dai testi di tempra apertamente neo-lirica, come accade in ordine sparso per Melania Panico, Ada Sirente e Giulia Scuro, le quali affrontano il problema con il loro codice espressivo volutamente decentrato, battendo una via che stigmatizza il degrado del linguaggio della comunità annegandolo nel silenzio, nella non nominazione, più che riecheggiandone la vuota stereotipia. Come si può notare, si tratta di classificazioni che prescindono del tutto dalle diverse poetiche e dalle appartenenze dei vari autori, puntando più che altro a mettere in evidenza gli effetti concreti delle diverse soluzioni espressive adottate.

Ne risulta, fra quelli involti nel caos dell’agorà e quelli che si sono consegnati al romitaggio, una sorta di anti-epos collettivo del declino della communitas ad opera degli immunes, in cui le varie forme in campo definiscono non tanto soluzioni -impossibili e incredibili da parte di chi non detiene alcun potere concreto- quanto ipotesi di lotta per un popolo che manca, sia al momento di aggregazione politica e difesa dei propri diritti, sia al momento di costruzione estetica della propria narrazione come identità dialogante.

 

 

 

 

 

 

 

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I poeti appartati: Silvio Talamo

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Silvio Talamo, poeta che ho avuto la fortuna di conoscere una decina di anni fa, ha appena pubblicato un libro, Poesie/Gedichte, in una elegante edizione bilingue curata dalla casa editrice ProMosaik. Milena Rampoldi le ha tradotte in tedesco. Ho chiesto a Silvio di pubblicarne qui su NI una selezione che spero troverà altre letture entusiaste oltre alla mia.

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Prendi la mia immagine

Su, prendi la mia immagine, è un dono;

puoi farne quel che vuoi.

Accettala.

Puoi prenderla per mano,

piazzarla su di un trono,

attaccarla su di un muro, copiarla,

come un poster in cornice

puoi strapparla, picchiarla o sottometterla,

animale ingabbiato o liberato.

 

Puoi farci un buco con la sigaretta,

inciderne con la lametta l’angolo

o farne un idolo

– buon pasto per il pubblico,

lasciarla navigare sulla carne

dei tuoi sogni per farti trasportare

anche quando appare eretica.

 

Poi, sarà un aquilone

che scorrazza per la casa.

Lei crede bene d’essere il mio corpo

e vorrebbe, magari, farsi specchio,

essere vita che palpita, reale

così come certo è.

 

Solo, ti prego, fa attenzione. Quando,

nel trionfo del tuo assolo

ne avrai mangiato il frutto,

il clamore rifluito,

ricorda, per favore,

sta attento che non scappi…

 

Nimm mein Bild

Nimm mein Bild, ich schenke es dir;

Mach daraus, was du willst.

Nimm es.

Reich ihm die Hand

Setz es auf einen Thron

Häng es an die Wand, mach dir eine Kopie

Wie ein umrahmtes Poster

Dann zerreiß es, schlag es oder unterdrück es

Wie ein Tier im Käfig oder in Freiheit.

 

Du kannst es mit einer Zigarette durchlöchern,

Ihm mit der Rasierklinge in den Winkel ritzen

Oder es in ein Idol verwandeln

Und der Öffentlichkeit zum Fraß vorwerfen,

Lass es auf dem Fleisch deiner Träume segeln

Lass dich von ihm führen

So ketzerisch es auch erscheinen mag.

 

Es wird dann zu einem Papierdrachen

Der durch das Haus schwingt.

Das Bild hält sich für meinen Körper

Möchte wahrscheinlich zu seinem Spiegel werden

Ein flatterndes Leben sein

So wahr wie gewiss.

 

Möchte dich um Vorsicht bitten.

Wenn du dann,

Im Triumph deines Alleingangs,

Die Frucht verspeist haben wirst,

Und der Ruhm verebbt,

Achte darauf, dass dir das Bild nicht entflieht…

*

Precedente agli dei

Precedente agli dei, il tuo guardare,

lì dove ora la storia è nuda e scopre,

sulla terra che brucia, ti sei alzato

antico, in un istante aperto come

una porta sul tempo, una chiatta

sul flusso senza vele, a luce tenue,

quando solo il divino, nel silenzio

percepito – al riparo dallo specchio –

esiste e non le chiese, non i libri

e a parlare era il canto, a cantare

il corpo, a cibarsi ogni pianeta

attraverso la bocca tua affamata,

osservasti la forma, comprendendo

il suo mutare in altro, mentre uguale

la casa dove giochi, non svanisce,

si imperla nell’incenso, proteggendo

nel suo profumo i semi, ti nutristi

hai fame, il dono è questo,

un fiume senza foce è sempre mare,

lo sapevi, lo sai perché il tuo sguardo

è un canto, il tuo passo una risposta,

il tuo torace il tempio, uguale al vento

debole, come il chicco piccolo sei

(che dentro ha tutto il resto), mentre l’ombra

ti ascolta e gli elementi, appena complici

suoi, si intrecciano dentro torri, troni

e regge sconosciute all’architetto,

lo vedi e sei futuro, la radice

non vuole alcun martirio, alcuna croce,

muore il despota e tutta la sua corte

cola ora (in quel momento)

oro dal tuo naso,

vino dal costato

e guardi passo passo il tuo destino

che non comanda, esegue la scrittura

del tuo viaggio, che solo andando dice

 

ed ora certo sai,

ormai hai capito

da quale luogo vieni

e che come una radice è la presenza.

 

Vor den Göttern

Vor den Göttern, dein Blick,

An der Stelle der nun entblößten Geschichte und auf Entdeckungsreise,

Auf der glühenden Erde, bist du aufgestanden

In deiner Altertümlichkeit, einem offenen Augenblick

Wie ein Tor auf die Zeit, ein Lastkahn

Auf dem Fluss ohne Schleier, in einem schwachen Licht,

Wenn nur das Göttliche in der Stille

Wahrgenommen wird – geschützt vom Spiegel –

Und es existiert, ganz ohne Kirchen und Bücher

Es sprach der Gesang, er sang

Den Körper, er sollte sich von jedem Planeten ernähren

Durch deinen hungrigen Mund,

Du beobachtetest die Form und erfasstest

Ihre Metamorphose, unverändert

Das Haus, in dem du spielst, es verweilt,

Es benetzt sich mit Weihrauch, schützt

In seinem Duft die Samen, du spendest die Nahrung

Du hast Hunger, das ist das Geschenk

Ein Fluss ohne Mündung ist ein immerwährendes Meer,

Du weißt, warum dein Blick

Gesang ist, dein Schritt eine Antwort,

Dein Brustkorb wie ein Tempel im schwachen Wind,

Du bist wie ein kleiner (allumfassender) Mittelpunkt, während der Schatten

Dich erhört und sich die Elemente als seine Komplizen

in den Türmen, Thronen

Und dem Architekten unbekannten Palästen verflechten

Du siehst es und bist Zukunft, die Wurzel

Will kein Martyrium, kein Kreuz,

Es stirbt der Despot mit seinem Hof

Gold rinnt (in jenem Augenblick)

Aus deiner Nase,

Wein fließt aus dem Gerippe

Und du durchläufst mit deinem Blick die Etappen deines Schicksals

Das nicht befiehlt, sondern nur die Schrift

Deiner Reise ausführt, die während des Verlaufs spricht

 

Und nun hast du die Gewissheit

Nun hast du sie begriffen

Deine Herkunft

Und dein Dasein, das einer Wurzel gleicht.

*

Tra le carcasse non ci sono fiori

Tra le carcasse non ci sono fiori,
quando nel corpo restano solo ossa
immuni alla vita e gli sguardi trovano,
senza presenza, i volti, l’occhio che
guarda, se non altrove,
lungo la solitudine dei giorni.
Le rughe ostentate come armi.
È inutile cercare ancora lì,
dove tu sai che non ne troverai.

Ci hanno lasciato a custodire i ruderi
di un mondo che è caduto
e chi si è accontentato,
riesce a godere del proprio giardino
credendo di ingrassare,
tracotante di paura,
fra gli steccati che sono orizzonti.
C’è chi muore così come ha vissuto …

Accettarne la morte, prima ancora
di nascere, era il rito del cammino.
Non più ora, ed il mio passo resta
avulso dalle regole del clan:
non c’è tribù ma solo appartenenza.

Resto sui bordi al buio e tasto gli sgorbi
che sporgono dal muro,
cercando la fessura.
Arriverà il mattino,
lavorerò su quei fili di luce.

Zwischen den Schlachtkörpern keine Blumen

Zwischen den Schlachtkörpern keine Blumen,
wenn im Körper nur noch die Knochen bleiben
immun gegen das Leben, die Blicke finden
abwesende Gesichter, das Auge sieht
nur noch der Einsamkeit der Tage entlang.
Die Falten vorgezeigt wie Waffen.
Vergebens, dort weiterzusuchen,
wo du weißt, dass du sie nicht finden wirst.

Sie haben uns zurückgelassen, um die Ruinen
einer gefallenen Welt zu hüten
die sich mit sich selbst zufrieden gegeben hat,
sie genießt ihren Garten
und denkt, sie würde zunehmen,
überheblich vor Angst
zwischen den Zäunen, die Horizonte sind.
Es gibt Menschen, die sterben wie sie lebten…

Ihren Tod anzunehmen, bevor sie
geboren wurden, war der Ritus des Weges.
Nun nicht mehr; mein Schritt ist
losgerissen von den Regeln des Stamms:
Es gibt keinen Stamm, sondern nur Zugehörigkeit.

Ich bleibe an den Rändern im Dunkeln und fühle die Schmierereien, die aus der Mauer ragen
auf der Suche nach einem Spalt.
Der Morgen naht und
ich werde an diesen Lichtfäden arbeiten.

 

Il Dioniso Trasparente

La birra è rovesciata sul bancone

un velo appiccicoso

il legno acceso

che beve

esploso in spillatrici – fiotto di schiuma

dischiusa

sotto a volte di fumo

i manici stretti (boccali) spugnati

in leggere trasparenze

di vetro riflesso

è il gioco

risucchiato in bicchieri

gonfi di particelle

e gas abbagliante

in vortici

di dita stringendo

sigarette incoscienti

che le bocche

scia lo smalto viola

da labbra imburrate

in penombre fluorescenti

le luci rosso pallido

nostro intelletto nel rhum               le donne

-fianchi zebrati

investite da lingue blu (metallo) che graffiano sui

[pullover

e boccate di tenue lilla                  la gente raccolta

intorno al bar

in un successo di whisky e dispersione

che si urla lanciando

brevi segnali

strillati nelle orecchie il senso

è solo accennato il suo silenzio

tenera eco assordante

che filtra dal tweeter

fonde

e i ragazzi di luce storditi

per tutta la santa notte

dentro ai vicoli

due milioni di bar

la legge prende il caos

il caos scolora …

 

e torna      che vi faccia o no piacere

dio sconvolto                          prodotto

il carro ebbro di Dioniso                planando

le sue vesti illibate               stracciate dal catrame

sull’immateriale intrico di città

curva  incroci (l’intera specie operata)

che sbafa (rimpinzata)  smascherata

una danza incantata nell’immobile

stagno – il tempo senza memoria o materia

l’intero suo corteggio

di satiri pompati

che si danno

– le unghie sporche

e sudati

sui marciapiedi

e lo sguardo sbranato

lungo golfi di neon

e saliva incrostata all’angolo dei musi

quaranta milioni di segnali

al banchetto serale di noia e corse

in cui tutti immersi

sbattendo i piedi

in un bagno di clacson

cembali piume-vetrina                       colori

lungo mura-cartello (depilazione laser)

su corpi lisci evanescente obliati

 

ma è un Dioniso ferito

le membra trasparenti

ridotto incatenato quasi esangue…

<< Bisogna ciclicamente

dimenticare la propria esistenza>>

Questo era il suo annuncio

forse l’immagine non è così vuota

ma questo non ci è detto…

 

la realtà ha i tacchi alti…   passa per i tavoli

ciglio aguzzo e sfuggente le due mani

sulla gonna e balla in tondo

inebria percepita ammalia

(la panca piena di cappotti e sciarpe)

ma anche uccide

sempre ridendo                  nel nudo si colora

si svela a poco a poco

e torna a mutare

il suo passo confonde

il frammento e la sua festa

e come obbliga al ricordo

ne segui il vero

e la bugia

si fugge il lato       il più silente

della stessa superficie

fedele al suo amarsi     lei

quanto al tradirsi

 

Der durchsichtige Dionysos

Das Bier auf der Theke verschüttet

Ein klebriger Schleier

Das aufnehmende

Trinkende Holz

Geplatzt in Heftmaschinen – offene

Schaumwogen

Unter den Rauchgewölben

Die engen Griffe, die geschäumten (Bierkrüge)

In leichten Transparenzen

Des gespiegelten Glases

Das Spiel

Aufgesaugt in Gläser

Aufgebläht von Partikeln

Und trügerischem Gas

Im Taumeln

Der Finger, die bewusstlos

Ihre Zigaretten festhalten

Die Münder

Im Kielwasser des violetten Lacks

Gebutterter Lippen

Im leuchtenden Zwielicht

Die Lichter rot und schwach

Unser Verstand im Rum                           Frauen

-Mit Zebrahüften

Von blauen (Metall) zungen überfahren, die auf ihren Pullovern kratzen

Und Schlucke in einem hellen Lila                                 Die Menschen

Rund um die Theke

In einem Erfolg aus Whisky und Zerstreuung

Den man schreit, indem man

Kurze Signale sendet

In die Ohren geschrien, der Sinn

Wird nur angedeutet, sein Schweigen

Ein sanfter, ohrenbetäubender Widerhall

Vom Tweeter gefiltert

Schweißt zusammen

Und die Jungs, verwirrt von den Lichtern

Die ganze heilige Nacht

In den Gassen

Zwei Millionen Pubs

Das Gesetz fängt das Chaos ein

Das Chaos entfärbt sich …

 

Und kehrt zurück … Ob es euch passt oder nicht

Ein erschütterter Gott                           ein Produkt

Der trunkene Wagen von Dionysos                geleitet

Seine unbescholtenen Gewänder               zerrissen vom Teer

Auf dem immateriellen Knäuel der Stadt

Kurve, Kreuzungen (die gesamte Spezies operiert)

Sabbert (übersättigt) entpuppt

Ein verzauberter Tanz im unbeweglichen

Teich – die Zeit ohne Gedächtnis und ohne Materie

Mit dem gesamten Gefolge

Der hochgespielten Satyrn

Die sich offenbaren

– mit ihren schmutzigen Nägeln

Und verschwitzt

Auf den Bürgersteigen

Mit einem aufgefressenen Blick

Den neonbeleuchteten Golfen entlang

Ihr Speichel verkrustet an den Winkeln ihrer Mäuler

Vierzig Millionen Signale

Beim abendlichen Festmahl der Langweile und der Rennen

Vollkommen eingetaucht

Die Füße schlagend

In einem Bad von Hupen

Cembali Federn-Schaufenster                       Farben

Den Werbeplakaten an den Mauern entlang (Laserenthaarung)

Auf glatten Körpern, dahinschwindend und in Vergessenheit geraten

 

Aber es ist ein verwundeter Dionysos

Mit durchsichtigen Gliedern

Angekettet und beinahe empfindungslos…

<< Man muss zyklisch

Die eigene Existenz vergessen >>

So lautete seine Ankündigung

Vielleicht ist das Bild gar nicht so leer

Aber das erfahren wir wohl nie …

Die Wirklichkeit trägt hohe Stöckelschuhe … Geht durch die Tische

Eine scharfe Augenwimper, die den beiden Händen

Auf dem Rock entflieht und im Kreis tanzt

Berauscht, wahrgenommen, betört

(Der Bauch voller Mäntel und Schale)

Sie tötet aber auch

Immer lachend, entfärbt sich in der Entblößung

Entschleiert sich Schritt für Schritt

In ihrer Metamorphose

Der Schritt verwirrt

Das Fragment und sein Fest

Es erzwingt die Erinnerung

Du folgst seiner Wahrheit

Und seiner Lüge

 

Man flieht von der stillen Seite

Derselben Fläche

Treu zur Eigenliebe, so steht sie

Zum Betrug

 

 

 

Lettere dall’assenza #01

5

di Mariasole Ariot

Caro F,

ti scrivo dall’angolo nero della stanza, ho un soffitto pieno di crepe, un corpo attorcigliato ricoperto da un unguento verde, l’affaccio alla finestra è sbarrato.

Il tempo è cristallizzato nel suo opposto, mi vedo rispecchiata sul vetro: un volto bruciato dall’interno, le ossa zigomatiche spingono verso l’esterno, l’occhio s’infittisce, la lingua geografica è consumata dalle parole.

Mi chiedo se nella tua terra siete riusciti a sopportare la sepoltura, il lavaggio del corpo: ti ho sentito e avevi la voce rotta. Ho un lago sotto le radici e vorrei poterci innaffiare i fiori del cimitero di S.

A volte mi distendo calma sule cose, addomestico i silenzi e la giostra del vuoto, indosso la pelle che mi hai regalato nella nostra città di montagna, quando le mura erano alte e tu tentavi la fuga – mi chiamavi Holy Mary. Il maniacale ti afferrava alle caviglie, sei entrato nella mia stanza danzando.

Non danzo più da tempo, F. Le mani si muovono sulla cima del crinale per definire il contorno del burrone in cui sono caduta – dicono faglia beante, e non dicono niente : non c’è beatitudine in questa faglia, non c’è faglia, c’è una separazione.

Perché io, F. sono separata.

Ascolto Cissoko, l’Africa entra dalle intercapedini e cerca di sconvolgere gli avvenimenti. A volte guardo le montagne e vedo solo sassi muti dove prima osservavo marmotte distese sul ciglio dei laghi ad alta quota a prendere il sole, a volte osservo una pozzanghera e non vedo che pioggia: come se il mondo si fosse spento, come se io fossi caduta al di fuori, dove tutto l’impossibile continua a divorare ossicini e non smette nemmeno quando sono consumati.

Ecco, F., è il consumato, il continuo consumarsi delle cose. La tua voce era calma anche quando parlavi di lui, il precipitato (ne ho un ricordo vivo, un abbraccio folle nei corridoi dell’ospedale, una disperazione dolce, una risata aperta: lui, il dottore arrivato da Londra. Lui e il secondogenito con il volto angelico. Gli scrissi lunghe lettere parlandogli di Giuliano Mesa e fotografando oggetti muti nello spazio circostante).

La vita è sempre quest’attesa di contingenze, ma noi siamo nell’assoluto, F., siamo caduti dall’alto dei cimiteri per riposare i rami accanto alle bare, ci rialziamo per comporre una notte.

Ricordi quando abbiamo festeggiato nel giardino paterno? Quando con la dolce M. ci siamo viziati di vino e crepe sul viso? Ricordi il ricordo della città innominabile? Tua madre che girava lo specchio per evitare di vedermi, tuo padre con la papalina islamica chiedeva un matrimonio.

Mi sono spostata, resto appesa al traliccio della casa, e la casa è una consolazione per gli interni. Questa casa da cui cadono parole in forma di pietra, persone come parole, parole come cose, come fatti, come oggetti. Ho visto una goccia appesa al soffitto e ho pensato: è una lacrima, devo gettarmi dalla finestra.

Dicono sia un mancato passaggio al simbolico, una presa dura sul reale dell’esistenza, dicono sia la cosa morta che mi ombreggia il capo e mi accompagna nelle passeggiate mattutine che faccio quando il mondo è ancora nascosto come l’astro potente. Dalle strade vedo piano le luci illuminarsi, le finestre trasformarsi in riquadri gialli e arancio, un quadro atmosferico rimaneggiato per consolazione.

Qualcuno, forse, ha i corpi ancora incastrati, nei dentro dei dentro degli interni.

Mi chiedo dove stia il coraggio dell’uscita – lo chiedo a te, sempre così integro nel mondo, mi arrampico con le mie zampe al tuo braccio in miniatura, ascolto Jordi Savall, una danza di corte, mancano i cavalli, mancano le carrozze, non mancano le nostre parole liquide.

Hai detto: hanno lavato il corpo. È una sonata per violino solo. Hai detto è stato straziante, ma ho cercato la tua lingua solo dopo la telefonata. Cercavo solo di consolarti dicendoti: I’m always here, always with you.

È caduto nella bellezza, hai ripetuto tre volte – o forse l’abbiamo detto insieme. Cadere nell’atto più bello, precipitare nella propria passione, come un musicista che muore d’infarto dopo la Nona di Beethoven, nell’apice del desiderio, sulla cima più alta dei mondi. Era Scozia ed era tutto.

Ancora, come sempre, mi chino sulla superficie liscia dell’animale, divento la bestia ammutinata che si alza lenta per raggiungere il piano delle medicine. Le scarto una a una, le ingoio una a una, e vorrei sputare tutto questo veleno, ma se non lo facessi : rischierei la camicia di forza, i camici della forza, e allora mi faccio compromesso in una vita che non è più vita.

Eppure, F. , quando vedo le stelle ho il ricordo delle tende d’agosto, dell’immensa stellata caduta dal cielo sul prato dei colli Berici, ricordo quella notte come una nascita.

Ho partorito piccoli pianeti dalla bocca, ti ho detto I miss you, hai risposto : sono il tuo uomo d’arancio.

 

Tua,
S.

Il misterioso alfabeto della malinconia di Magliani

1

di Giacomo Sartori

In Prima che te lo dicano gli altri di Marino Magliani (uscito da poco per Chiarelettere) un protagonista di un’età non facilmente precisabile, scopriamo poi che ha cinquant’anni, vive in un piccolo paese di una valle della Liguria. Acquista all’asta un rudere, perché lì ha vissuto moltissimi anni prima l’argentino che proprio in quella casa, e per una estate, gli ha dato ripetizioni e si è occupato un po’ di lui, che non aveva un padre. Ora parte alla ricerca di quell’uomo ripartito molti anni prima per l’Argentina, e dato da tutti per morto.
L’uomo, solitario e un po’ spostato, vive principalmente nel passato, all’insegna della malinconia, vale a dire in compagnia della madre e delle altre persone della sua infanzia, che sono in maggioranza morte. Come è morto il carruggio (molti non liguri, come me, lo hanno imparato leggendo Magliani, cos’è un carruggio), nucleo vitale della frazione, sventrato per fare passare le macchine. E vive anche nel presente, ma come aggirandosi sulle macerie lasciate dalla malinconia, in un paesaggio anch’esso disastrato, al meglio riciclato per finalità edonistiche dagli stranieri (“La Liguria invasa dai tedeschi e dai rovi.”). Esegue azioni molto concrete, vivide, quali comprare olive e incontrare un avvocato, ma prive di un senso esplicito e di una necessità, e quindi per certi versi astratte. E poi vive anche nel futuro, nell’aspirazione di incontrare quell’uomo con il quale ha avuto un rapporto effimero ma bello, alla ricerca del quale partirà per l’Argentina. E lo troverà, perché non fa parte dei desaparecidos, come si diceva. Ricevendo conferma che è suo padre.
Quello che non si capisce è cosa lo muova, questo personaggio. E pare intuire che forse nemmeno lui lo sa più di tanto. O meglio, sa quello che vuole fare nelle sue giornate, sono i perché profondi, e le spiegazioni che dà a se stesso, che rimangono misteriosi. Certo per incapacità sua (“I ragionamenti che non riusciva mai a formularsi bene del tutto, per la poca abitudine a lasciare che le idee parlassero, ora popolavano il buio”), ma non solo. Anche il padre ritrovato, che pure è un uomo di studi e di cervello, è così.
Quello che li lega, scopre, è la malinconia (“Pensò che solo in quel momento poteva vedere per la prima volta cosa aveva preso da suo padre. Forse la malinconia”). E’ lì che i due si ritrovano (“Era l’alfabeto della malinconia. Forse l’unica cosa che aveva ereditato in egual misura da un padre e una madre e dall’aria del carruggio.”), non certo nella gioia o nell’emozione. Forse proprio per incapacità di scardinarla, la malinconia, parlano di cose di ordine pratico, di quello che è successo nella valle nei cinquant’anni che sono trascorsi, non di cose intime, di loro stessi. Con il risultato che quello che non è detto risulta essere più importante di quello che è detto (“Come se il buio e il silenzio e gli odori di quella camera contenessero i cinquant’anni trascorsi, ripensava alla quantità di cose che s’erano confessati e a quelle di cui non erano riusciti a parlare. In confronto, le seconde erano molte e molte di più, e allora avrebbe voluto rimediare, invece di star lì, in quel letto, in attesa che fosse mattina e l’uomo che dormiva nella stanza accanto si svegliasse.”)
Magliani evacua anche questa volta la falsa credenza, che regge le nostre vite, che le nostre giornate e i nostri anni abbiano un senso, o almeno una direzione, una logica voluta. O forse il senso c’è, ci suggerisce con questa storia che è legata alla Storia della Liguria e dell’Argentina, ma gli interessati non ne sono consapevoli. Quello a cui sono confrontati sono le azioni quotidiane, e le sensazioni, e i ricordi, soprattutto i ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, perché noi viviamo di ricordi dell’infanzia, che sono per noi più vividi e struggenti del presente (“«Uno è il posto dove si nasce» disse. «Poi ti innestano.»”). E i pensieri elementari che a questi stimoli del passato e del presente sono collegati. Ma anche se questi fossero più elaborati non cambierebbero nulla, non sarebbero un supporto. Forse un tempo il padre li aveva, dei pensieri più ambiziosi (come anche i protagonisti dei due recenti romanzi autobiografici di Magliani ambientati in Olanda, Il canale Bracco e L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi), caratteristici delle persone colte o che fanno dei ragionamenti una professione, ma ora sembra essersi arreso anche lui al mistero.
In questo magma senza direttive e senza spiegazioni convincenti di passato, presente e futuro, tipico di Magliani, e con la sua solita lingua bellissima e imprevedibile, questa volta ha un posto centrale anche la violenza. Che prende la mano del protagonista, che è cacciatore e bracconiere, da un momento all’altro senza essere annunciata e misteriosa per le sue origini e le sue finalità, come qualcosa di inevitabile e non bello, questo lo vede anche lui stesso. Non sappiamo, e non lo sa lui, cosa lo spinge a commettere in Argentina una lenta turpitudine ai limiti del sopportabile, applicando all’uomo i suoi gesti di bracconiere. Potrebbe essere una vendetta, e con una sua solida giustificazione morale, ma risulta che lo non è, perché la vittima, pur sempre macchiata di infami delitti, non si rivela essere colpevole nei confronti dell’uomo che cerca. Ma dove c’è Storia c’è anche violenza, sembra dirci Magliani, in Liguria (la lotta partigiana, e i suoi strascichi, che abita molte sue storie), come altrove. E anche quella è incomprensibile, come tutto il resto.

Carla Lonzi. Scacchi ragionati ma non troppo

2

di Jamila Mascat

***

Compleanno […]

Eppure è duro accettare

che il tempo batta per secondi

che il cammino si faccia

un passo dietro l’altro,

che la gioventù sia solo

il ribollente serbatoio

della maturità ragionevole.

(Roma, 9 marzo 1958)

*****

Scacco ragionato, una raccolta di testi poetici scritti da Carla Lonzi tra il 1958 e il 1963 e pubblicati postumi, prende il titolo dall’omonima serie di poesie, sei in tutto, contenute nel volume in questione e ordinate dall’autrice secondo una progressione numerica. Ermetico, il titolo è perfino controintuitivo, dal momento che lo scacco è « matto » per antonomasia, mentre Lonzi lo vuole insolitamente « ragionato »:  non necessariamente razionale né ragionevole, ma quantomeno meditato e soprattuto veritativo. Scrive Lonzi: « La parte poetica era sì ragionata ma nel senso che voleva la verità della mia identità », identità mancante e strutturata precisamente intorno ad una lacuna, che le appare, per questo carattere irresolubile, il tratto più proprio della sua condizione.

Per Lonzi lo scacco non sta ad indicare l’evento fatale di una disfatta né la mossa vincente che determina la fine della partita. Piuttosto denota un accadimento seriale, individuato e appunto reiterato, o meglio un’andatura, prescelta – « l’andatura / innocente di chi si tiene /equidistante dal nulla » scrive Lonzi in Migrazione – e che culmina in una linea di condotta.

Dalla raccolta di poesie Scacco Ragionato 1958-1963, Rivolta femminile, 1985

 

Scacco ragionato

Così quando in allarme

sempre più in allarme

a un’occhiata scopri

quantità di situazioni

interrogative e non c’è

oggetto o immagine o suono

o niente di niente

che non sembri messo lì

un istante in atteggiamento

ermetico e provocatorio

come chi non lascerà

la posa se non hai sciolto

l’enigma della neutrale

familiarità di sempre

e l’asciugamano l’albero

la ringhiera con fissità

inamovibile sotto sguardi

pazienti e scetticamente

ragionevoli sbarrano

ogni centimetro in cui

distendere l’indiscussa

superiorità, scatta

lo sportello segreto,

l’antica impotenza

di chiocciola germogliante

nel buio, all’aggressione

che pretende spargere

oscuro disfattismo

nel corso dei tuoi pensieri

e anzi a uno a uno

metterli in scacco

con voce di pura cosa

dopo lunga attesa

staccata dal silenzio.

(Roma, 10 luglio 1958)

***

Ascolta: non può essere

perduta questa parola

come non può essere

perduta la mia anima

in un angolo del creato.

… Tu mi dici invece

che tutto può andar

perduto e dimenticato.

(Firenze, ottobre 1953)

***

La tartaruga

Di giornate interminabili ti chiedi

se siano trascorse e se a infiniti

passi nel vuoto siano corrisposti

infiniti secondi nel tempo e inquieta

senza pulsazioni aggiri te stessa

con occhi scorrenti su un mondo

di ostinate sciarade, occhi di tartaruga

bionda allibita senza suono e senza

la posizione verticale; che qualcuno

abbia dolcezza per il tuo esposto mistero

e cautamente lo cerchi accostando un dito

all’ingresso dell’infrangibile guscio.

(Milano, 28 ottobre 1959)

***

Anniversario

Anniversario

di anni versarii

di versamenti dall’inguine multiplo

nell’era consubstanziale

sostanziali benefici del versare

in vasi comunicanti

i liquidi della comunicazione

indotto dallo splendore

dell’atto genitale

genitori sconfitti nell’alveo

dei clan e le mense

del mangiare.

(Milano, dicembre 1963 / gennaio 1964)

*****

Le poesie, scrive Lonzi nel diario « erano la mia immagine » – nonché « l’unico aggancio a cui tener fede ». Aggiunge: « Nella parte poetica riconoscevo me stessa, nella parte concettuale mi affermavo verso l’esterno ». La poesia è quindi l’inizio di una ricerca, il cominciamento di un percorso, ma anche e soprattutto un’anticipazione, che precorre l’itinerario destinato a sbocciare con la scoperta del femminismo. Lonzi esplicita questo pensiero in un’intervista a Michèle Causse del giugno 1976 dove ricorda: « Anch’io ho scritto delle poesie quindici anni fa, che sono il diretto antecedente di quello che poi mi ha orientato nel femminismo, ma non ho mai cercato di pubblicarle, perché non vedevo una, una sola persona che avrebbe potuto ‘leggerle’ ». Alle sue poesie Lonzi riconosce il portato quasi profetico di un presagio d’esperienza: « le ho rivissute nel presente e erano giuste, tutte giuste e autentiche », annota il 23 ottobre 1972. L’autenticità affiora dunque nei versi ben prima che cominci l’avventura di Rivolta femminile e che la pratica dell’autocoscienza diventi un esercizio collettivo. « Il mio bisogno era autentico » – nota Lonzi, sempre nel diario – a proposito di quel suo primo germoglio di scrittura, e altrove confida in una lettera a Gabriella Kristeller: « Mi sono salvata scrivendo poesie, una pratica di autenticità allucinante in cui tentavo di salvare tutti i fallimenti sul piano personale in chiave di autocoscienza ».

 

Da Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Rivolta femminile, 1978

Mi si presenta
la sensazione di qualcosa
irreparabile – la vita stessa.

Mai mi sono sentita
con le spalle al muro
come adesso – mai più calma

Capire – far parte
capire di far parte
non c’è altro
io – la mia porzione di cecità
io – la mia porzione di luce.

Quando ti accorgi
di avere “sbagliato”
pur essendo nel “giusto”
(che era prevedibile
ma proprio quello
ti eri distratta
dall’aver previsto)

capisci tutto – anzi
ricordi che lo capivi
prima – poi l’ipotesi
comune ti aveva tentata.

***

Io correvo
le nuvole correvano
non raggiungevo mai
le nuvole
Adesso cammino
col mio passo
e guardo
le nuvole che corrono

***

La mia vita vacilla
vedo in lui un altro uomo
i suoi occhi sono ottusi
si rifiuta di capire.
Siamo alla fase in cui non si dà
ma si tiene stretto
quello che siamo.
Tutto ciò che era ovvio
ritorna enigmatico sospetto
si ricomincia tutto da principio
lui mostra di non aver capito
né accettato.
Allora cos’era prima?
Perché non ci succede
di scioglierci
come prima?
Perché ci guardiamo
negli occhi per cercare
nell’altro il proprio dubbio?

***

Sto mettendo i cavalli
al mio carro
sto facendo i preparativi
per partire –
no, non è ancora
avvenuto –
il mio carro
la mia strada.
Lascio tutti
ma non sono triste
più strano ancora
non ho paura
non ho altra scelta
e dipende solo da me.
Il cavallo grigio
ha nome Noncuranza
quello rosso Follia.

Cineventura

0

 

 

di Roberto Coaloa

 

In un sondaggio del 1987 fu chiesto ai francesi chi fosse il loro attore preferito. Sorprendentemente, non vinse né Alain Delon né Jean-Paul Belmondo, ma un immigrato italiano: Lino Ventura. È un nome che in Italia si sente poco. Come la sua voce – quella erre un po’ roulé addolcita da un lieve accento parmigiano, alla Bernardo Bertolucci – inspiegabilmente doppiata in quasi tutti i suoi film apparsi in Italia. Eppure, ovunque tranne che in patria, Lino Ventura è l’attore italiano per eccellenza.

Nel 2019 cadrà il centenario della nascita di Lino Ventura, nato a Parma il 14 luglio 1919, morto a Parigi il 22 ottobre 1987. L’attore, in trentaquattro anni di attività, ha girato 74 film. A Parigi, nel nono arrondissement, un decennio dopo la sua morte, è stata dedicata a Lino un’intera piazza. Ventura ha girato film importanti: Touchez pas au grisbi (Grisbì) di Jacques Becker (1953), Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per l’inferno) di Louis Malle (1957), Classe tous risques (Asfalto che scotta) di Claude Sautet (1959), L’armée des ombres (L’armata degli eroi) di Jean-Pierre Melville (1969), Le clan des siciliens (Il clan dei siciliani) di Henri Verneuil, La bonne année (Una donna e una canaglia) di Claude Lelouch (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Garde à vue (Guardato a vista) di Claude Miller (1981), Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara (1984).

La vicenda umana di Lino Ventura è interessante non solo per la carriera d’attore. È esemplare anche della storia dell’emigrazione italiana del Novecento.

Lino, all’anagrafe «Angiolino, Giuseppe, Pasquale», è figlio di Giovanni e di Luisa Borrini. Il 7 giugno 1926, Luisa e il piccolo Lino, abbandonati da Giovanni, arrivano a Parigi. La vita del piccolo migrante è difficile, umiliante, penosa. Il riscatto avviene con lo sport, dopo aver partecipato in Francia alla Resistenza. Nel 1953, «per caso», Ventura è scelto dal regista Jacques Becker (allievo di Renoir) per una parte importante da contrapporre al mitico Jean Gabin. Nasce una nuova stella del cinema: Lino Ventura conquista spettatori e critici al suo primo film, Touchez pas au grisbi (Grisbì). I francesi sono incantati da questo atletico italiano, che ha rischiato di morire fucilato durante la Seconda guerra mondiale, per aver disertato l’esercito di Mussolini e aver fatto parte – con il soprannome di «L’Italien» – alla guerra partigiana sotto l’occupazione tedesca. Benché impegnato gloriosamente nella Resistenza, Ventura non mancò di allacciare una sincera amicizia, difesa sempre a spada tratta, con José Giovanni, accusato viceversa di collaborazionismo, in losche vicende marsigliesi, nei più neri fra tutti i giorni della storia francese. Con Giovanni l’attore farà i film più riusciti: Le rapace (Il rapace) del 1968, Dernier domicile connu (Ultimo domicilio conosciuto) del 1969, Le ruffian (Una cascata tutta d’oro) del 1983.

È strano notare come la figura di Ventura, una star del cinema mondiale, sia stata sinora completamente snobbata in Italia! Proprio lui che ci tenne a conservare la cittadinanza italiana, rifiutando le onorificenze francesi e accettando quelle italiane. Per un’incredibile bizzarria, infatti, solo nel Bel Paese, Ventura è considerato «un attore francese», mentre per il resto del mondo Lino è l’attore italiano per eccellenza. Forse perché i film italiani di Ventura, con registi come Rosi e Ferrara, erano troppo “moderni” o “politici” per la critica cinematografica italiana, attenta in quegli anni più ai registi e alle loro scelte letterarie e stilistiche che agli attori, alle sceneggiature e al cinema tout court.

Lino Ventura, oggi, ci manca tantissimo. Chi scrive vorrebbe poter ammirare lo sguardo penetrante di quegli occhi scuri, la voce calda, i movimenti lenti del corpo… Amo il cinema e Lino ci manca non solo come attore, ma come uomo: perché c’era tanto altro in lui. C’era il fascino naturale della persona intelligente, unica con una vita dura e straordinaria alle spalle.

Di lui ci restano scene memorabili dai suoi film. Da La Bonne Année, le riflessioni con la bellissima Françoise Fabian: «Il matrimonio che cosa è? È un contratto, e i contratti di solito sono fatti per chi ha paura. Per me il matrimonio, è la paura della solitudine, della libertà! Perché la vera libertà porta sempre alla solitudine! È la paura di trovarsi una sera solo con due uova al tegamino, senza la tv, senza la pensione… O se lo preferisce è la paura di trovarsi soli senza un altro che in fondo ha più paura di te, ecco! È la prigione? Oh no, è peggio, in prigione ci sono i compagni!».

Di lui ci restano memorabili interpretazioni. Lino Ventura appare l’attore giusto per interpretare protagonisti letterari come Jean Valjean di Hugo o il commissario Rogas di Sciascia. Il film I miserabili di Robert Hossein è impensabile senza Ventura.

Quando il cinema affronta la letteratura si espone a grossi pericoli, ma se la combinazione è condotta con intelligenza i due “valori” possono sommarsi e favorirsi reciprocamente. Così funziona il film Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi. Charles Vanel che all’inizio del film passeggia tra le mummie di Palermo, e soprattutto il serrato dialogo tra Max von Sydow e Lino Ventura, sono un importante rilancio di suggestione rispetto alla pura parola. In questo caso la connessione funziona, in assenza cioè di introspezione. Infine, la forza comunicativa e il sex appeal del divo Lino Ventura non devono essere considerati valori tolti al romanzo, ma valori aggiunti.

Sposato a Odette, padre di quattro figli, Ventura, a partire dagli anni Sessanta ha aiutato i bambini diversamente abili e le loro famiglie con i suoi soldi, cercando fondi con manifestazioni pubbliche. Ha creato istituti di ricerca medica e l’associazione umanitaria «Perce-Neige», che sopravvive, dopo la sua morte, come Fondazione. L’associazione nacque nel 1966 dopo un appello di Ventura alla televisione francese: «C’è dunque questo problema fondamentale che tormenta le notti insonni di tutti i genitori: quando noi moriremo, che ne sarà di loro?». «Loro» sono i bambini portatori di handicap mentale. Ventura, in Francia, anticipava di cinquant’anni la legge sul dopo di noi, approvata in Italia solo nel 2016.

Augusto Agabiti: un intellettuale del primo novecento

5

di Nicola Fanizza

Non so quanti ricordino Augusto Agabiti, una singolare figura di intellettuale marchigiano; e quanti – meno ancora, immagino – conoscano le sue avventure editoriali. Eppure la rivista «Ultra», di cui fu animatore e poi direttore dal 1907 al 1918, occupa un posto di rilievo nel panorama culturale del primo Novecento.

Agabiti era nato a Pesaro il 7 gennaio 1879, figlio di Francesco (garibaldino che combatté a Bezzecca e Mentana) e Vincenza Barugi. Sua sorella Celestina divenne madre del critico letterario Walter Binni.

Dopo aver frequentato il liceo, si trasferì nel 1897 a Roma, dove frequentò la facoltà di giurisprudenza laureandosi nel 1901. Qui si trovò davanti una città culturalmente più ricca e variegata di quanto probabilmente si aspettasse. Le riviste della capitale avevano dato vasta risonanza alla polemica contro il positivismo, ospitando articoli in cui si dava conto delle diverse declinazioni dell’idealismo (mistico e razionalista). Agabiti si schierò con i mistici – quelli che poi sarebbero stati dimenticati –: ossia con letterati mossi da istanze spiritualistiche (pur con tracce dello scientismo positivistico), e nel 1904 divenne membro attivo della Società Teosofica1 di Annie Besant.

Negli anni successivi sfruttò al meglio le sue competenze storico-giuridiche per promuovere – attraverso deputati e ministri, che frequentava per il suo impiego alla Camera dei Deputati come vice-bibliotecario – diverse leggi di carattere «igienico-sociale», legate allo sviluppo delle sue idee teosofiche e umanitarie: la legge sui limiti della vivisezione degli animali, la legge sull’alcolismo, e altre per lui personalmente importanti e corrispondenti a problemi assai vivi, e spesso assai avanzati, in quegli anni di primo Novecento.

In tutti i suoi saggi, conferenze e articoli, Agabiti si adopera per ricomporre la scissione, prodotta dalla filosofia positivista, fra scienza e religione: la via da seguire era già stata indicata dagli antichi teosofi greci e orientali, i quali avevano sostenuto che la verità risiede soprattutto dentro di noi, nei principi intellettuali e nella vita spirituale dell’anima. Il contenuto di questa verità stava a fondamento di tutte le religioni. Ed era possibile coglierlo attraverso la sapienza profonda, la dottrina segreta, l’azione occulta dei grandi iniziati, profeti, riformatori che quelle stesse religioni avevano creato, sostenuto, diffuso.

Un approccio che troviamo nella sua opera più nota, Ipazia, la prima martire della libertà di pensiero. Qui la tragica vicenda della scienziata e filosofa, uccisa nel 415 ad Alessandria d’Egitto da monaci fanatici istigati dal vescovo Cirillo, diventa l’occasione per denunciare le derive esiziali di tutti i fondamentalismi.

Strettamente connesso al suo spiritualismo teosofico è la sua attività di riformatore umanitario. Anzi si può dire che la cifra della sua opera sta proprio nella battaglia che egli ingaggia per rinnovare lo spazio sociale, per promuovere le relazioni degne.

Così con Il problema della vivisezione del 1911, e ancor di più con L’umanità in solitudine del 1914, l’Agabiti auspicava l’alleanza degli uomini con la natura e con gli altri esseri viventi, soprattutto gli altri animali.

Così in Tortura sepolcrale, il nostro pericolo più spaventoso, del 1913, Agabiti rifletteva sulla morte apparente, ponendo all’attenzione del lettore una questione troppo spesso dimenticata: la tafofobia, ossia la paura di essere sepolti vivi, una paura che in seguito ha angosciato anche lo scrittore Leonardo Sciascia2.

Come evitare la «Tortura sepolcrale»? O spostando nel tempo la tumulazione dell’estinto oppure costruendo uno strumento capace di segnalare il suo risveglio. Tale strumento fu effettivamente costruito e fu messo in commercio col nome di «Karnice»3: si applicava sulla tomba ed era in comunicazione con il defunto per mezzo di un tubo terminante in una palla di vetro sospesa sullo sterno. Verificandosi un movimento all’interno della cassa, una potente suoneria echeggiava nel cimitero mentre aria fresca entrava velocemente dal tubo e gli accorsi, applicando l’orecchio potevano ascoltare le richieste di soccorso. Il Karnice fu in voga nei migliori cimiteri (in Italia costava 300 lire).

Nel 1914 di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, Agabiti assunse l’atteggiamento tipico degli interventisti democratici. Riteneva che la guerra contro l’Austria fosse la prosecuzione del Risorgimento.

Partecipò al conflitto come ufficiale del genio con un iniziale entusiasmo, testimoniato anche dalla larga attività esercitata al fronte come propagandista4.

Ma a un certo punto egli provò di fronte alla guerra una reazione, che revocava in causa anche le sue prospettive politiche.

L’indicibile sofferenza che egli provava di fronte alle vite spezzate e le umiliazioni a cui gli ufficiali sottoponevano i soldati – per lo più contadini o appartenenti alle plebi urbane – lo spinsero a schierarsi dalla parte delle classi subalterne. Si avvicina pertanto ai partiti socialisti e radicali. Ma ciò che è davvero rilevante è il fatto che Agabiti, nella lettera inviata alla sorella Margherita, in data 24 maggio 1917 – in largo anticipo rispetto alla Rivoluzione di Ottobre e della successiva pubblicazione dei Quattordici punti di Wilson –, si schieri contro la diplomazia segreta e auspichi la nascita degli Stati Uniti d’Europa e, insieme, degli Stati Uniti del mondo5.

Evidenti segnali del suo cambiamento sono percepibili anche nella lettera – inedita – che Agabiti invia, in data 1 febbraio 1918, a Piero Delfino Pesce – direttore della casa editrice Humanitas –:

«Finalmente, dopo averle scritto dieci lettere almeno, e venticinque cartoline, oggi ho ricevuto una sua cartolina. Ella mi chiede il mio indirizzo ed io subito glielo comunico. Raccomando la lettera per timore vada smarrita pure essa.

Mai dovetti rivolgere all’amico Cervesato per pregarlo di scriverle a mio nome.

Ora io sono molto cambiato, politicamente parlando.

Da trenta mesi sto in zona delle operazioni ed ho seguito lo svolgersi degli avvenimenti da cima in fondo. Ho un grande desiderio di sapere qualcosa dei miei lavori e specialmente del manoscritto del romanzo.

Attendo suoi scritti. Qui si lotta e spera.

In guerra, usando del pochissimo tempo disponibile, ho scritto un lungo lavoro sulla Società delle Nazioni.

Saluti. Quanto desidero parlarle di politica!»6.

Ma un mese prima della fine del guerra, durante una breve licenza a Roma, Agabiti fu colpito dalla spagnola e morì il 5 ottobre.

Concludendo queste note sulla sua vicenda biografica, mi viene da dire che è vero che la sua vita è stata breve, ma anche intensa e illuminata.

 

 

 

 

NOTE

 

1) Nel 1910 Augusto Agabiti si staccò dalla Società Teosofica. La Besant aveva sostenuto che Jiddu Krishnamurti – un ragazzo indiano di rara bellezza e intelligenza – fosse il nuovo Maestro del Mondo. Agabiti, però – pur credendo nella metempsicosi –, non era disposto a seguirla su questo piano. Aderisce pertanto alla Lega Teosofica Indipendente, e costituisce subito dopo un gruppo a sé con spiccate tendenze per la ricerca mistica.

2) Per scongiurare la possibilità di svegliarsi nella sua bara, Leonardo Sciascia diede precise disposizioni in riferimento al suo funerale: la tumulazione non doveva avvenire il giorno successivo alla sua morte, bensì a tempo debito!

3) Augusto Agabiti affidò la prefazione del suo libro Tortura sepolcrale al conte Michel di Karnice-Karnicky, Ciambellano dell’Imperatore di Russia e ricco filantropo, che dedicò la sua vita alla morte (apparente), fabbricando da sé i modelli del suo apparecchio, che avrebbe consentito di comunicare all’esterno il risveglio del «defunto». Da qui il nome di Karnice che venne dato all’apparecchio costruito nelle officine meccaniche Lindner di Berlino.

4) Le conferenze tenute da Augusto Agabiti a favore della guerra furono raccolte in volume e pubblicate dopo la sua morte, Sulla fronte giulia: note di taccuino 1915-1917, 1919.

5) La lettera inviata da Augusto Agabiti, in data 24 maggio 1917, a sua sorella Margherita, è rinvenibile sul sito Web ttps://www.fondowalterbinni.it/primo_piano/augusto.htm.

6) La lettera inviata da Augusto Agabiti, in data 1 febbraio 1918, a Piero Delfino Pesce è custodita nel Fondo Piero Delfino Pesce, depositato presso la Biblioteca Santa Teresa dei Maschi–De Gemmis, Bari, Corrispondenza, b. 24, f. 4, n. 27. Augusto Agabiti era entrato in contatto con Pesce già nel 1913, grazie alla mediazione del loro comune amico Arnaldo Cervesato. Da questa lettera si evince che Agabiti aveva scritto un romanzo nonché un saggio incentrato sulla Società delle Nazioni. Si tratta di due lavori di cui non conosciamo nemmeno i titoli e che probabilmente sono andati perduti. Da una precedente lettera inedita inviata dall’erudito pescarese in data 21 dicembre 1913 al direttore dell’editrice Humanitas, apprendiamo che Agabiti si sarebbe dedicato nel gennaio successivo alla «sistemazione del Trattato di Teosofia o Filosofia religiosa liberale». (La lettera appartiene alla collezione privata del cultore di storia locale Giovanni Santo). Infine, dalla lista dei libri della casa editrice Humanitas si evince che Pesce si era già impegnato a pubblicare un altro lavoro di Agabiti, intitolato Mistero tomba. Nondimeno di questi ultimi scritti conosciamo solo i titoli e probabilmente sono andati anch’essi perduti.

I tetti e le scale

2

di Monica Pezzella

Due giorni dopo la nascita dei pulcini, la città si riempì di uomini che, con spazzole e secchi di colla, attaccavano i manifesti dei giochi. Tappezzarono il parapetto sul canale e la muratura dei palazzi vecchi. Tagliarono persino l’edera che ricadeva nodosa e fitta dalla cinta dietro la chiesa, per appiccicarli anche lì. Arrivarono nel buio del mattino, incuranti della notte tempestosa e del piovischio che l’acquazzone si era lasciato dietro. Sulla strada si abbassava la nebbia. Al riparo del gocciolatoio, con le unghie serrate su un angolo del cornicione, la Grigia e altri sei sette piccioni allungavano il collo e guardavano l’uomo che immergeva lo spazzolone nel secchio e stendeva sul muro il manifesto umido. Per due settimane, fino all’arrivo dei giochi, gli strati di cartoncino avrebbero continuato ad accumularsi uno sopra l’altro e già l’odore della colla, colata in rivoli sui marciapiedi, si mischiava con il sentore ferroso del temporale.

Allo spuntare del primo chiarore oltre i tetti, la Grigia volò sulle sagome indorate di spioventi e torrette fino al nido nella città vecchia, un buco irregolare sopra il collo ricurvo di una grondaia e, sul fondo, due stalattiti levigate come molari. Tutto ciò che lei e lo Stroppio erano riusciti a procurarsi per l’inverno, in vista della nidiata nuova.

Quando lo Stroppio la vide arrivare, uscì dal nido e saltò sulla grondaia per darle il cambio nella cova e farle posto dentro il buco scalcinato. Per due giorni e due notti, da quando i pulcini erano nati, la Grigia se li era tenuti nascosti sotto il caldo piumino del ventre. Si era alzata solo per sgranchirsi le ali e spingersi a becchettare qualcosa vicino ai bidoni sul retro della palazzina. Da quella mattina erano cominciati i turni di cova con lo Stroppio e adesso, mentre lui arruffava le piume e stendeva la coda in un ventaglio di sfumature nere e verdognole, come quelle che ha il petrolio sull’acqua, la Grigia gli guardò il collo sporco, il gozzo diradato e attaccaticcio, il moncherino della zampa gonfio e ritorto come un tubero. E le palpebre plumbee, pesanti. Lo Stroppio era stanco, ma i pulcini dormivano sazi sul cuscino di piumetta e ramoscelli. I corpi somigliavano a grossi datteri, dalle testoline ricoperte di peluria si allungavano becchi enormi e slabbrati. Il piccino che cresceva male dormiva pure lui. Non era giallo come gli altri. Sulla schiena e sulla testa gli spuntava una peluria grigiastra e la pelle, tutta raggrinzita sullo sterno sporgente, era violacea e secca e lo faceva somigliare a una prugna. Nascondeva la testolina implume sotto le ali dei fratelli, le palpebre traslucide strette nel sonno. Nei primi giorni era più facile nutrire i piccoli. Il gozzo dei genitori produceva una specie di latte caldo e mieloso, il becco dei pulcini era morbido e pulito e il mondo di fuori non aveva né motivi né forme per infilarsi nel nido e contaminarlo.

Quando i pulcini compirono cinque giorni, il latte finì. La Grigia e lo Stroppio tornarono ai luoghi dove il cibo era buono e abbondante. C’erano volte, soprattutto in estate, in cui bisognava mangiare le pietre per darsi l’impressione di avere il gozzo pieno e non soffrire la fame. Allora si beccava la strada vuota, le scagliette d’asfalto, il ghiaietto nei cortili, il terreno umido intorno alle radici. Adesso, con i pulcini, non lo si poteva più fare. Niente asfalto, niente ghiaietto, niente terreno. Il cibo doveva essere buono.

Gli uomini mettevano grano e pane sopra i balconi. Non usavano le trappole perché volevano che i piccioni mangiassero il franto avvelenato e andassero a morire da qualche altra parte. E se non morivano in tempo, i genitori intossicavano anche la nidiata. Non si poteva neppure razzolare sotto i tavolini dei bar all’aperto, perché là, quando nessuno guardava, i camerieri sparavano agli uccelli con le pistole ad aria. Allora, tutto ciò che restava era la strada. La Grigia e lo Stroppio dovevano contendersi i tozzi di pane con gli storni e le cornacchie. Il cibo nutriente però non mancava, soprattutto adesso che per i giochi nel quartiere si erano messi i carretti con i dolci di sesamo e i pentoloni di olio bollente per la friggitoria. Nelle contrade di periferia c’erano i pollai, con le mangiatoie di granturco e i pastoni di crusca e ceci macinati, ma erano lontani dalla città vecchia e bisognava allontanarsi dal nido per raggiungerli. Erano quasi tutti prefabbricati perché dalla pineta arrivavano i corvi e le cornacchie grigie a mangiarsi i pulcini. Nel raggio battuto dalla Grigia, di pollai aperti ce n’erano solo due. Il primo era un pezzo di terra oblungo, poggiato contro un muro e cinto su tre lati da un’alta rete per galline a cielo aperto. I posatoi e le cassette della cova erano ombreggiati da un glicine che ricadeva da una lamiera ondulata. Quando le galline mangiavano, se si faceva in tempo, si poteva recuperare il pastone che cadeva dal retro delle mangiatoie. Il secondo pollaio era un po’ più vicino alla città vecchia, ma c’era un molosso a fargli la guardia. Gli uomini buttavano il pane e il franto direttamente nel terreno e usavano un secchio basso, tagliato in due, per metterci l’acqua. Il molosso era tenuto a una catena corta e dormiva in un bidone rovesciato, inferocito da molti anni di noia. La Grigia ci andava lo stesso perché, quando le galline avevano i pulcini, il pastone era fatto con uova e ricotta.

Con il gozzo pieno di questa minestra sostanziosa, la Grigia tornò al nido nel pomeriggio. I pulcini pigolavano forte. Solo il piccino fuligginoso dormiva e, mentre gli altri già sbattevano le ali per farsi avanti, lui stava in disparte sotto la stalattite di muratura. Aveva il muco al naso e gli occhi non si erano aperti ancora. Nel nido si diffuse l’odore di grano e ricotta, ma il piccino non si mosse. Quando il sole calò tornò il temporale. Tutta la notte la Grigia covò il corpicino freddo, rimase sveglia a guardare le gocce di pioggia scivolare sul moncherino dello Stroppio che riposava fuori sulla grondaia, perché nel nido non c’era posto per tutti e due. E ascoltò il rantolo catarroso tramutarsi ogni tanto in un ronzio stanco. Era il suo pulcino che faticava a respirare.

Al mattino il temporale si allontanò. La Grigia volò sopra i tetti incatramati verso la chiesa e il palazzone spigoloso della banca. Una polvere rossa riempiva il vento. Aveva lasciato allo Stroppio il nido umido e pigolante. Il piccino malato si era svegliato con le caruncole molli e rosse, incrostate di muco e saliva. Una giornata tiepida gli avrebbe dato speranza ma, allo spuntare del sole, il vento cadde e ricominciò a piovere. Durante la notte il gelo aveva ghiacciato le grondaie e ora una lastra spessa e scivolosa ricopriva i vetri delle finestre a tetto e sigillava gli infissi. Schegge di ghiaccio galleggiavano sulle pozzanghere. Nello spettrale silenzio della strada, i piccioni si lavavano tuffando il collo arruffato nelle pozze, l’acqua tanto fredda che sembrava dura. Le luci della piazza erano tutte accese. Lo striscione dei giochi si tendeva da parte a parte all’imbocco della via principale e, al riparo sotto il porticato della chiesa, un venditore sistemava sui ripiani di una vetrina ambulante le ciambelle di mais con semi di sesamo e i bastoncini di pastella.

La Grigia planò su un lampione. La lampada ronzava sotto gli artigli e gettava sul selciato un cerchio di luce che si intersecava con le circonferenze proiettate tutto intorno dagli altri lampioni. Poche figure umane si spostavano veloci nell’ombra aguzza della banca. Da lì sotto, non potevano vedere le simmetrie di luci e i coni di pulviscolo che cadevano come tendoni a tagliare la nebbia. Intorno alla calda testa del lampione aleggiava una nube di vapore e, attraverso l’aria tremula, la Grigia scorse un fagotto scuro sui gradini dell’entrata laterale della chiesa. Guardando meglio distinse il profilo di una cornacchia che, con il capo dritto e le ali cadenti sulla pietra, tendeva e gonfiava il collo come un mantice. Dal gozzo rotto, sporco di polvere e sangue, veniva fuori solo un soffio strozzato. In pochi minuti la piazza si riempì di gente. Nessuno guardava la cornacchia. Arrivarono i bambini a comprare le ciambelle di sesamo. Mentre il venditore era impegnato ad abbassare la tenda sulla vetrina ambulante, la Grigia planò a beccare i semi e le briciole.

Nel nido portò gli odori della festa, zucchero tostato e frittura, e per la prima volta l’arrivo dei giochi in città sembrò una cosa buona per tutti. Solo il piccino malato era lontano dalla felicità, stretto in un sonno che non lo lasciava uscire. A sera la Grigia tornò in piazza, volando nel vento contrario. Il banchetto ambulante non c’era più. L’aria si era irrigidita. Uno strato di ghiaccio copriva il corpo della cornacchia e il collo ferito ricadeva molle da un gradino. Morto, l’uccello non era che un cumulo di neve sporca. L’indomani sarebbero passati gli spazzini a portarlo via. L’acqua piovana aveva ripulito il selciato e la Grigia tornò al nido stanca e con il gozzo vuoto, ma col piumaggio impregnato degli aromi della festa che aleggiavano sopra la città. I pulcini le si accalcarono intorno, spintonando il corpicino malato giù in fondo, impiastricciandogli il becco dischiuso con una colla di escrementi e piume. La Grigia non lo covò. Non gli si avvicinò neppure. Sarebbe morto nella notte, presto, come la cornacchia. Restò ad ascoltare il suo respiro ansante e ininterrotto da lontano, ferma sulla grondaia su di una zampa sola, la testa incassata nel collo gonfio per scaldare le orecchie. Il vento, che per tutto il giorno era andato e venuto, portava fin lassù il fumo delle carbonelle dai balconi più sotto. A ogni minuto, alla Grigia sembrava che il piccino fosse finito, ma poi di nuovo il fischio catarroso si levava stremato nella notte senza rumori. Fuori e dentro al nido, il mondo era proprio ciò che era sempre stato, un insensato guazzabuglio di quiete e fatica.

Al mattino il sole emerse dalla lunga notte e rischiarò il cielo. Anche se non poteva vederlo, la Grigia sapeva che il piccino era vivo. Non si sentiva più lo stridio di vetri rotti che gli aveva scosso il corpo raggrinzo. Un raggio caldo, pieno di polvere vorticante, trafiggeva il nido e scaldava i pulcini. Tutti dormivano, tranne lui che la guardava con occhi neri e immobili, le ali piccole e storte attaccate al corpo come i germogli su un fagiolo. Le narici tumefatte, sotto due grosse rughe che gli pinzavano la fronte in mezzo agli occhi, gli conferivano un’espressione imbronciata e severa. Dal collo storto della grondaia, la Grigia osservava la linea frastagliata dei tetti. Lo Stroppio era uscito presto per beccare il selciato della piazza prima che gli uomini lo ripulissero degli scarti della notte. Ai piedi del palazzo, una figura curva procedeva a piccoli passi sul marciapiede trascinandosi dietro una scopa di ramoscelli e un secchio su due ruote. Ce n’era un’altra sulla parte opposta, vestita con gli stessi colori smorti. A quell’ora del mattino le strade erano attraversate dal sommesso frusciare e trotterellare degli spazzini che ramazzavano i rifiuti delle bancarelle, raccoglievano i manifesti sfaldati e strappati, scrostavano gli escrementi ammonticchiati sotto i palazzi, in corrispondenza dei cornicioni su cui i piccioni riposavano uno accanto all’altro in una fila compatta.

Lo Stroppio planò sull’orlo sbreccato del nido. Il sole gli accendeva sfumature di verde e carminio sul collo nero. Pieno di colori nella luce calda, girò due volte su se stesso, sfregando le ali sul groppone bianco e tubando per svegliare i pulcini. Subito fu attorniato da un frenetico battere d’ali e fu sopraffatto dai becchi spalancati e tesi sulle zampe malferme. La Grigia ascoltò i fischi dei piccoli che si sovrapponevano ai richiami provenienti dagli altri buchi nei muri lungo la strada e seguì con gli occhi i piccioni che volavano da una palazzina all’altra nella luce bassa, trotterellavano di soppiatto sui balconi a rubare l’acqua dai sottovasi e si corteggiavano sulle ringhiere arrugginite. Più in alto, nel cielo profondo, il volo stazionario dei gabbiani. Adesso, nella città che si risvegliava, c’era anche il suo piccino, ignaro della battaglia che aveva combattuto durante la notte. Si trascinava su una zampa sola, l’altra abbandonata sotto la carena sporgente, e concentrava tutte le forze in un grido affamato. La sua volontà disperata e forte si dimenava nel corpo ancora troppo debole per gareggiare con i fratelli. Lo Stroppio nutrì gli altri pulcini che, una volta sazi, crollarono a uno a uno nel sonno. Poi si chinò sul piccino che pareva essersi ormai rassegnato, il grido ridotto a un pigolio sfinito. Con la punta arrotondata del becco, lo Stroppio dischiuse la bocca del piccolo e gli rigurgitò nel gozzo la minestra semidigerita. Il piccino incespicava nelle zampe e stentava a ingoiare, ma lo Stroppio lo seguì nei suoi movimenti affannati piegando il collo e abbassandosi sulle ginocchia, finché anche lui si addormentò, col gozzo pieno e caldo.

Alla bella giornata ne seguirono altre. Il sole stemperava il clima rigido e scioglieva i cristalli di brina che il continuo soffiare dei venti notturni scolpiva sui tronchi degli alberi e sui pali della luce. Nelle prime ore del mattino la città riluceva sotto un sottile strato d’acqua. Sul tetto immerso nella luce bianca e nel silenzio, i pulcini si esercitavano battendo le ali per non scivolare sul catrame sdrucciolevole. Incapaci di volare, si avvicendavano in saltelli goffi e pesanti nel tentativo di raggiungere il cappuccio piatto dei comignoli. Attraverso le canne fumarie si udivano i suoni e i passi nelle case, le voci degli uomini appena svegli. Dal nido non era difficile salire sul terrazzo.

Bastava saltare sulla grondaia e da lì infilarsi tra le bande di una ringhiera cadente e arrugginita. Il piccino malato non era ancora in grado di sollevarsi sulle zampe e spiccare in voli brevissimi. Si doveva accontentare di battere le ali all’interno del nido, che quando i fratelli non c’erano aveva tutto per sé. La voglia di guardare il mondo fuori, di tanto in tanto, lo spingeva ad avvicinarsi al bordo e allungare il collo verso il punto da cui provenivano i pigolii dei fratelli e il loro entusiastico frullare d’ali. La Grigia, dall’alto della balaustra, vedeva spuntare la testolina umida, le piume rade sui nervi tesi tra la nuca e l’attaccatura delle ali. Pian piano, gli occhi arancioni roteavano e la intercettavano, attraversati da un guizzo di impazienza cui seguiva, puntuale, un richiamo disperato. Quando le strade si animavano, i pulcini rientravano nel nido e la Grigia lisciava loro le piume ricoperte di fuliggine. Ben presto i piccoli sarebbero saltati sulla ringhiera rossa e storta e, anziché piombare giù sul tetto incatramato, si sarebbero levati in volo fino alla palazzina di fronte e da quella sui rami più bassi dei pini. Quando al suo piccino fossero cresciute lunghe e forti le remiganti delle ali, anche lui avrebbe spiccato il volo in cerca di un altro buco in un altro muro della città.

La città, dal canto suo, diventò ben presto pulitissima. Un giorno, di primo mattino, la Grigia planò sulla solita lampada e vide che non c’erano più gli escrementi degli uccelli a rigare i marciapiedi e persino i cornicioni sembravano più puliti. I cassonetti dell’immondizia erano vuoti e quelli vecchi o ammaccati erano stati sostituiti. Le finestre che affacciavano sulla piazza esponevano gli stendardi dei giochi che si gonfiavano baldanzosi nel vento. Fuori dai portoni non c’erano i sacchetti dei rifiuti e sulla strada non rotolavano cartocci e buste vuote. I lampioni erano ancora accessi quando si udì il mugugnare di un motore e un camioncino con un corto rimorchio coperto da un telone svoltò l’angolo e si addentrò nei vicoli del centro procedendo a stento. Poi il rombo del motore si allontanò fino a dileguarsi e i piccioni planarono sui tetti in gruppi di tre o quattro, attirati da un forte odore di grano e pane, per poi zampettare circospetti alla vista di un intruso che non si aspettavano di trovare.

La Grigia volò sul parapetto di un ampio terrazzo, già assediato da un nugolo di uccelli accalcati intorno a una breve scia di franto. La traccia conduceva a un’enorme gabbia in filo di ferro di forma ottagonale. Nonostante la porta fosse spalancata, nessuno si azzardava a entrare. Anche sul palazzo di fronte i piccioni affollavano la balaustra con il collo allungato a scrutare il lastrico. La Grigia saltò giù dal parapetto e becchettò il grano sparpagliato per terra. Ma la gabbia faceva paura, con il vento che soffiava tra le maglie e i piccioni che le svolazzavano intorno in un continuo avvicinarsi e ritrarsi, incoraggiati dalla fame e insospettiti dall’imponente rete di ferro. Il grano sparso sul catrame si esaurì in pochi minuti. Il primo a oltrepassare la soglia e addentrarsi sul fondo di alluminio cosparso di chicchi e croste di pane fu un grosso maschio grigio scuro che, girando su se stesso e tubando con fare spavaldo, finì nella gabbia quasi per caso. Subito gli altri vinsero l’esitazione e lo imitarono.

La Grigia aveva il gozzo mezzo pieno e, insieme ai piccioni arrivati per primi e già sazi, fuggì nell’udire il rombo del camioncino che tornava a percorrere su e giù le strade del quartiere. Planò sul cappuccio piatto di una canna fumaria sopra il tetto di un palazzo in ristrutturazione. Sotto, la rete di protezione si tendeva e sbatacchiava tra i tubolari dei ponteggi. Il nido si trovava oltre due file di palazzine più basse. Da lì la Grigia poteva vedere i tozzi comignoli di rame su cui i pulcini si erano esercitati e un angolo della grondaia che girava intorno all’edificio. Il nido era nascosto da un’enorme scala. Alcuni gradini erano rossi di ruggine e in cima c’era una piattaforma circondata da ringhiere. Il vento diffondeva il brontolio del motore accesso e il cigolio degli ingranaggi che si assestavano affinché la piattaforma si posizionasse in corrispondenza del buco sopra la grondaia. La scala, una tetra struttura di segmenti estensibili in acciaio, si alzava dal rimorchio di un camion del tutto simile a quello che poco prima la Grigia e gli altri piccioni avevano intravisto mentre perlustrava, con metodo oscuro, i vicoli della città. Avvicinandosi, la Grigia si accorse che i tronchi degli alberi lungo il marciapiede erano uniti da un nastro a bande rosse e bianche. La scala si arrampicava lungo il muro nel suo grigiore metallico e glaciale, tagliava l’ombra delle chiome ed emergeva dalla foschia bassa. Un uomo in tuta e stivali saliva lentamente reggendo una cassetta di alluminio con il coperchio che si sollevava in due metà separate. Raggiunta la piattaforma, l’uomo avvicinò la scatola al nido, allungò un braccio e si sporse di lato, tenendo il coperchio semiaperto all’altezza del buco. Cercò di infilare dentro una mano inguainata, ma fu subito assalito da un frenetico battere d’ali e da un’esplosione di piume nere. Lo Stroppio svolazzò intorno alle braccia dell’uomo che, piegato in due, si aggrappò alla ringhiera con la mano libera. Quando l’uccello si posò sulla grondaia, tubando minaccioso, alzando e abbassando la testa a fendere l’aria con il becco, l’uomo lo scacciò agitandogli contro la cassetta di alluminio. Un pulcino allungò il collo a guardare fuori. Dall’alto piombò un guanto verde e ruvido che, per quattro volte, si spostò rapidamente dal nido alla scatola. Tre pulcini li prese subito. L’ultimo, invece, si era rifugiato giù in fondo, sotto una protuberanza del muro. Per raggiungerlo l’uomo fu costretto a infilare dentro il braccio fin quasi alla spalla. Con la testa girata di lato e la guancia accostata all’intonaco, rimestò la poltiglia di escrementi e lanugine finché le dita gommate non incontrarono il corpicino schiacciato contro il muro. Quando tirò fuori il braccio, l’uomo si accorse che la camicia gli si era tutta striata di escrementi verdognoli dal polso in su.

«Che porcheria» imprecò, scagliando l’ultimo pulcino nella scatola. «Quanto mi fanno schifo». Si udì un tonfo violento, poi il coperchio si chiuse. L’uomo si allungò sulle punte dei piedi per controllare che dentro non ci fosse più niente, quindi ridiscese, tenendo il contenitore poggiato su un fianco. Arrivato a terra, si rivolse a una seconda figura che sedeva nell’abitacolo del camioncino.

«Questi mettili nell’ultima camera a gas» disse. «In quell’altra non c’è più spazio». Gettò la scatola sul rimorchio e montò a bordo.

La scala si richiuse su se stessa e andò via, rumorosa e indifferente.

Il mattino portò una pioggia affilata e pungente e sembrò quasi che l’inverno dovesse tornare a sigillare la città. Il nido non era che un buco vuoto e freddo in un muro. Il temporale sorprese gli uomini durante la parata di apertura dei giochi. I fagotti e i tamburi avevano appena varcato la soglia coronata dallo striscione ed erano entrati nella strada principale, mentre la folla assisteva schiacciata contro i muri sotto gli stendardi, quando il cielo si era fatto scuro e il vento era cessato. La Grigia, dall’alto di una torretta, vide gli ombrelli aprirsi a uno a uno e la strada che si trasformava in un lungo tetto di campane nere e lucenti. La musica proveniva da là sotto, attutita e interrotta a tratti, come da una sala di pietra coperta da un’immensa cupola. Nel buio del temporale si accesero le luci a illuminare la facciata della banca.

La città era bella, e immobile.

Non si può arrestare l’umanità

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di Michele Monina

Riace è un messaggio pericoloso perché dimostra che l’accoglienza è possibile”. Questo diceva poche settimane fa Domenico Lucano, sindaco della cittadina calabrese, balzato agli onori delle cronache come modello vincente di integrazione.

Da questa mattina Riace non è più pericolosa. Alle prime luci dell’alba, infatti, per Lucano sono scattati gli arresti domiciliari, con una accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Cadono invece le più pesanti accuse di concussione, malversazione e truffa ai danni dello Stato.

La notizia è presto rimbalzata sui social, complice l’ennesimo infelice tweet del Ministro dell’Interno Salvini che nel deridere il sindaco di Riace ha approfittato ancora una volta per attaccare i “buonisti”. L’indagine che ha portato all’arresto è stata coordinata dalla Procura di Locri e ha per oggetto la gestione dei finanziamenti erogati proprio dal ministero dell’interno, oltre che dal Comune di Riace e dalla Prefettura di Reggio Calabria, finanziamenti destinati ai richiedenti asilo e si rifugiati.

Stando all’accusa, Lucano e la moglie Tesfahun Lemlem, cui è stato disposto il divieto di dimora con Lucano, avrebbe messo in piedi un vero e proprio sistema illegale atto a accogliere cittadini clandestini, attraverso espedienti criminosi quali matrimoni di comodo tra cittadini e immigrate.

Negli atti della procura di Locri Lucano viene descritto come “spregiudicato”, anche se lo stesso Gip Luigi D’Alessio sottolinea come la gestione sia stata disordinata, ma in assenza di illeciti e senza che nessuno abbia intascato un euro.

Questi i fatti.

In sostanza il sindaco di Riace e la moglie vengono accusati di aver organizzato uno o più matrimoni di comodo tra cittadini italiani e ragazze straniere al fine di far prendere loro la cittadinanza italiana e di poter quindi rimanere in Italia. L’indagine era partita in tutt’altra maniera, e verteva inizialmente sull’uso non idoneo degli strumenti quali i bonus e le borse lavoro, laddove si ipotizzava che venissero usati per ovviare ai ritardi nell’erogazione dei fondi, ma questa ipotesi è presto caduta, lasciando però in evidenza alcune incongruenze che hanno portato a un’altra accusa, quella attuale.

Ma questo non è un semplice arresto di un amministratore, come ahinoi negli ultimi decenni se ne sono visti tanti.

Lucano ha dato vita, nel corso degli anni, a un modello di integrazione funzionante, una eccellenza si direbbe, che non a caso prende il nome proprio dal comune che per anni ha guidato, il modello Riace. E il suo tempestivo arresto, con annesso giubilo da parte di Salvini, sembra una sorta di matteottizzazione in chiave non violenta (sempre che arrestare qualcuno non sia di per sé atto violento). A Riace, infatti, cittadina che nel corso degli ultimi anni è rinata anche e soprattutto per una integrazione virtuosa tra la cittadinanza autoctona e i migranti, si è instaurata una filiera funzionante, che dimostra come sia possibile una idea di integrazione, idea decisamente lontana da quella espressa da Salvini e dalla Lega. Qui i migranti hanno in comodato d’uso gratuito le case sfitte dei riacesi. I soldi destinati agli affitti vengono girati a cooperative di cui fanno parte sia i locali che i migranti, dove vengono insegnati lavori a questi ultimi, con la possibilità di avere un piccolo stipendio da rimettere in circolo nella comunità.

I Bonus vengono invece utilizzati per gli acquisti di prima necessità e le spese inerenti alla gestione quotidiana, il tutto in un circolo virtuoso che evidentemente è stato visto e indicato a lungo come una crepa nel quadro di guerra tra poveri dipinto da chi ci governa.

Questa cosa dell’azzittire l’opposizione, minacciare Saviano di togliergli la scorta, minacciare i giornalisti di chiudere l’albo, più in generale fare la voce grossa, al limite dell’abuso di potere è una china dalla quale sembra sia difficile uscire. Avere per nemici chi in venti anni ha fatto rifiorire una zona morta, dimostrando come la convivenza e l’integrazione non solo sia possibile, ma porti grandi benefici sia agli italiani che ai migranti, dimostra solo come si stia provando, purtroppo con successo, a dividere per comandare, usando metodi non troppo diversi da quelli che un tempo portavano all’eliminazione fisica dei propri avversari, Giacomo Matteotti evocato poco fa ne è esempio fulgido.

Di fronte a tutto questo, credo, non ci si può limitare a alzare le spalle rassegnati, né a lasciarsi andare a desolanti lamentazioni nei social.

Il modello Riace, studiato e ripreso anche all’estero come nostra eccellenza, non deve essere lasciato naufragare, Domenico Lucano non può essere lasciato solo. L’umanità, intesa come capacità di empatizzare con l’altro, di accoglierlo, di cercare e trovare una soluzione di convivenza possibile non è arrestabile, fisicamente e metaforicamente.


(pubblicato ieri su Notizie.it)