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I poeti appartati: Alida Airaghi

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da Consacrazione dell’istante

di

Alida Airaghi

 

For most of us, there is only the unattended

Moment, the moment in and out of time

Eliot, The Dry Salvages V, 206-207

 

 

 

 

È qui, presente; o forse sta per nascere.

Segreta ancora, ancora immaginata

solamente. Non certa, non decisa;

potrebbe ripensarci, fuggire,

rinunciare, preferire l’assenza.

O non esistenza, scegli – ti prego –

di esserci. Appari come sei:

chiara, evidente.

 

*

 

Prova a pesare un pugno di sabbia,

e poi mezzo pugno, così leggero.

Tieni tra le dita solo qualche granello,

e il resto lascialo scorrere, mia mano clessidra.

Non lo fermi, il tempo, e quello che è successo

non puoi fare che non sia accaduto;

ma misura l’istante, la sua sfida

all’eterno. Il solo granello rimasto

fermo tra pelle e unghia:

l’adesso che dura e non si è perduto.

 

*

 

Impaziente di essere, diventa vero

e arde e si consuma; improvviso

bagliore, inaspettato pensiero

folgorante (o voce, o battito

di ciglia, o corpo esploso;

corpo in frantumi, incendio).

Abisso dell’ignoto, stella cometa,

lancinante traccia nel buio, nome

appena suggerito:

rivelazione, ascesa, intuito.

Baratro e infinito.

 

*

 

L’occupazione dei santi: tendere

(attendere) al punto in cui il tempo

incontra il non tempo, e si perde,

si annulla, conduce all’istante

bloccato nel nero del nulla.
L’aspirazione dei santi: scoprire

nel buio feroce, crudele, severo,

la sua negazione. La luce.

 

 

*

 

Ma quando tutto è immobile,

e non succede niente: l’aria è ferma,

il caldo sopportabile, e un tale silenzio

mi impressiona come fossi morta

senza essermene accorta. Quando nemmeno

il moscerino sull’orlo del piatto si muove,

né l’albero in giardino scuote

le sue foglie. E il cielo è azzurro tutto,

sgombro, terso; il lago liscio,

non c’è bava di vento che lo sfiori.

Allora penso, come una tentazione,

di essere un incidente nel creato,

inessenziale e assurdo; e supplico

un evento qualsiasi, una dimostrazione

della mia esistenza reale.

Ed ecco, accade. Qualcosa accade,

fuori di me e dentro. Un urlo,

un tremito, il merlo che gracchia

tra i rami, e vola via.

 

*

 

Affronta l’eterno, vi affonda,

scompare: così inessenziale

e minuto, così puntiforme

e casuale.

Ma in lui, nell’istante,

c’è uno spazio

concreto.

Pensiero, sospiro, offesa, carezza.

Più vero, vivo e reale

di ogni assoluto.

 

*

 

Improvviso, l’istante di pace.

Di ordine e tranquillità,

nel sole che scompare al di là

di un muro indefinito di nebbia,

e sospesa la luce non ci offende.

Allora dico no alle parole,

e ripeto no all’istinto

rapace che vorrebbe assorbire

ogni fuori esistente.

Sta buono, mio udito. Mia vista,

abbassati. Lasciate che sia

solo suo, ciò che appare

e attende una resa clemente.

 

*

 

Il momento prevale. L’evento.

L’adesso, il qui.

Presente-riassunto del prima, del poi

(degli altri, di noi).

E non te ne andare,

minuto-secondo-istante

del tutto: sii punto.

 

*

 

I miliardi di persone che non siamo

– il vecchio cinese curvo sulla ciotola

di riso, la ragazza brasiliana

che cammina sulla spiaggia.

Un bambino londinese, la donnina

messicana al mercato.

Non ci siamo riusciti, a essere

altro, o altri: ma solo la piccola

cosa che viviamo. Qui, e qui;

magari altrove, a volte. Sempre

con le nostre mani, il nostro fiato;

i minimi trionfi del passato,

e un domani previsto e prevedibile.

Gonfi di abitudine,

delusi da tante viltà

che non perdoneremo.

Forse un istante,

uno solo, verrà – in ritardo,

a salvarci.

“Esisto”, diremo,

tagliando un traguardo insperato,

da non condividere.

 

*

 

Dall’assenza, da ciò che prima non c’era:

semplicemente, il niente.

Da lì veniamo,

dalla non esistenza. E in essa torniamo,

incoscienti, nemmeno spaventati.

Muti, stupiti del silenzio che ci aspetta,

del moto che rallenta e poi si ferma.

Noi che eravamo presenti

– ad occhi spalancati, a mani tese.

In un istante, assenti.

 

*

 

Avvicinarsi,

stringere il cerchio.

Puntare dritto al bersaglio,

sforzando la vista.

In prossimità della meta,

del dichiarato impenetrabile:

sia buio respingente

o intollerabile luce.

Verità intravista appena,

il niente che acquieta.

 

 

*

 

Ci apparirà, come dicono,

tutta la vita che abbiamo

vissuto, e sprecato,

nell’istante finale, oscuro;

nel necessario momento

dell’unico giudizio,

del solo tribunale.

Perché

da soli ci condanneremo

o ci perdoneremo,

quando il futuro intero

svanirà nel passato.

 

*

 

Furtivamente arriva,

quasi ladro,

approfittando di un’assenza,

di difese esitanti.

Gli basta una fessura, e penetra

nel tempo, nel silenzio; tacito irrompe

luminoso, violento. Schiarisce

l’angolo più buio della stanza,

della mente: impone la sua folle

danza in un istante.

Imploso

dentro un colpo di vento,

poi sparisce.

 

*

 

Intercettare dio,

il dio della pazienza e del conforto,

il dio che aspetta, e sa, e non ha fretta;

fermo nella potenza,

a sé risorto; visibile

in una chiara, arresa

trasparenza. Così arpionarlo,

con dita scorticate

tremanti, innamorate:

pretesa indifferibile

dopo una vita avara.

 

*

 

Qualsiasi momento si ribella;

anche il più insignificante è sovversivo,

dichiara guerra al nulla

e al sempre, è vivo,

arrogante e fiero

della sua unicità:

pronto a sparire,

ma attento a sé,

presente.

L’istante, il vero.

 

Quel diablo di Baldrati

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di Mauro Baldrati

L’inglese camminava veloce, col suo passo regolare.
Marcia sostenuta, livello 3, uno-due, uno-due, braccia sincronizzate con gambe e respiro. Mani semichiuse. Zaino bilanciato.
Percorreva il vialetto che costeggia il canale tagliando un parco lungo e stretto, immerso nel bosco delimitato da case e da una strada molto trafficata. Quell’itinerario, che partiva dal campo abusivo nella periferia nord di Bologna e arrivava fino alla cittadina di Casalecchio di Reno, era lungo una dozzina di chilometri. L’inglese col suo allenamento lo percorreva in circa 90 minuti. Aveva alle spalle migliaia di chilometri di marcia, su strade di città, lungo fiumi fangosi, su terreni incolti, sulle sabbie roventi di deserti sferzati da venti crudeli.

Succede a Macao

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di Giorgio Mascitelli

Macao è un centro milanese indipendente per le arti, la cultura e la ricerca che da cinque anni in qua ha dato luogo a una delle più interessanti esperienze culturali del nostro paese; Macao ha infatti organizzato  e ospitato in questi anni sia iniziative di base ( corsi, concerti, proiezioni, spettacoli, rassegne, riunioni di comitati cittadini) sia seminari ed eventi dove si elaborano riflessioni e ricerche sul senso della condizione culturale contemporanea. Appartiene dunque al novero di quelli che potremmo chiamare i laboratori della contemporaneità.  Del resto basta entrare anche solo per poco tempo a Macao per rendersi conto che ci si trova in un luogo diverso rispetto a tempi, logiche e dinamiche degli stili di vita dominanti, nel quale la cultura segue vie diverse dalle forme istituzionali o industriali solite.

Oggi Macao è in pericolo: infatti la sua sede, che si trova in una tanto elegante quanto abbandonata e fatiscente prima dell’autogestione palazzina in stile liberty nella semiperiferia milanese, è stata messa in vendita dal comune di Milano, che la possiede tramite una sua società. Insomma Macao sta per essere cacciato da Macao e invece sarebbe meglio per tutti, giunta comunale di Milano compresa, che Macao restasse a Macao.

In questi anni il sindaco di Milano e la sua giunta hanno lodevolmente cercato di promuovere un’idea di città accogliente, internazionale, aperta, colta e creativa, un luogo dove si elaborano esperienze sociali e culturali inedite. Il rischio è quello che si tratti solo di una bella cartolina che serve a coprire una politica piuttosto tradizionale, funzionale alle logiche del mercato immobiliare e all’immagine turistica della città. Difendere Macao dalle bieche logiche del mercato immobiliare significherebbe invece realizzare concretamente quest’idea di città. Luoghi come Macao sono infatti fondamentali per sviluppare una pratica collettiva e diffusa di ricerca e creatività e rendono Milano effettivamente vicina a quelle città europee considerate a parole idealmente prossime.

Se Macao restasse a Macao, il tessuto culturale e sociale di Milano si arricchirebbe : oggi lo sviluppo di una città non dipende  soltanto da quanti quattrini rende ogni singolo metro cubo costruito ma dalla circolazione delle idee. I quattrini oggi si spostano secondo logiche che non sono governabili ( o forse che non si vuole governare), le idee che si traducono in nuove forme di vita e in nuovi linguaggi sociali sono un patrimonio immateriale che resta nella disponibilità degli abitanti. Il mondo attuale, in cui la vera iperconnessione è quella dei soldi, ha reso problematico un uso pertinente della parola ‘lungimiranza’, eppure, se ha un senso usarla, è a proposito di quelle iniziative e di quelle politiche che favoriscono la circolazione delle idee, come fa Macao. I tempi sono bui e c’è bisogno di lungimiranza.

Se Macao non resterà a Macao, saremo tutti un po’ più poveri e sarà più facile, per rubare le parole al poeta, che l’azzurro s’incancrenisca. .

 

 

Sistema #2

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di Antonio Sparzani

Dunque la nozione di sistema rigorosamente isolato è del tutto inutile per qualsiasi ragionamento fisico, dato che l’unico tale sistema è l’intero universo. E questo accade, in fisica, beninteso, pressoché tutte le volte che si introduce quell’avverbio “rigorosamente”: mentre nella matematica la nozione di rigore è ovunque necessaria e fondamentale, in fisica non è così: mai nulla soddisfa a questa esigenza che probabilmente ci proviene dalla matematica. Pensate anche soltanto ad una misura di lunghezza, la distanza tra due oggetti. Voi fate una misura e la esprimete così: 2,46 m ; vogliamo dire che è una misura esatta? Ma se io uso uno strumento più raffinato, trovo 2,461 m, un millimetro in più, e poi? Oggi si fanno misure di lunghezza col laser che arrivano a una precisione molto al di sotto del millimetro, si arriva al milionesimo di millimetro (nm, nanometro), sì, ma poi? Ci sono numeri che differiscono solo per la centesima cifra decimale, o per la millesima – differenza che ovviamente sfugge a qualsiasi tecnica di misura – e dunque la conclusione è che se per rigore si intende la precisione fino a trovare “il” numero, quell’unico che esprime la distanza (così come qualsiasi altra grandezza esprimibile con un numero), non si arriva da nessuna parte. In altre parole: l’insieme dei numeri, detti – ironia della terminologia – reali, è eccessivo, ridondante per gli scopi della fisica, sono troppi; ne basterebbero molto meno, anche se su questo discorso ci sarebbe molto da specificare e non ci voglio neppure entrare.
Allora la parola sistema, lasciando perdere quel rigore dell’isolamento, può essere usata più allegramente? Certamente sì, non perdendo però il buon senso. E allora vediamo qualche altro contesto che può servire da esempio.
Non c’è che l’imbarazzo della scelta: c’è il sistema di pensiero del filosofo X, c’è il sistema del giocatore d’azzardo che appunto ha un suo speciale sistema per vincere, e c’è il sistema di licitazione nel bridge, che varia a seconda degli accordi tra giocatori: sistema naturale piuttosto che quinta nobile e parecchi altri. Ma c’è anche il sistema periodico degli elementi, quella tabella che porta il nome di Mendeleev e Moseley nella quale sono organizzati con certe regole tutti gli elementi studiati dalla chimica. Bene, se ci pensate un attimo, vedete che in ognuna di queste possibili accezioni della parola non vi è quella esigenza estrema di rigore di cui dicevamo. Perfino il sistema periodico degli elementi viene continuamente aggiornato e i sistemi dei giocatori sono sempre soggetti a piccole variazioni dettate dal buon senso.
Per non parlare poi di una delle accezioni più terribili della parola, quella che designa, come spiegò in Gomorra Roberto Saviano nel 2006, la camorra nel suo complesso, il Sistema, la sua rete di relazioni pericolose, il funzionamento di un insieme di persone e associazioni, anche qui dai contorni sfumati, che inquinano la vita civile di vaste zone del nostro paese, e non solo del nostro.
Ma c’è un verbo, nella nostra lingua, che è abbastanza rivelatore di che cosa racchiude, nella nostra testa, la parola sistema, ed è il verbo sistemare. Verbo che sta a significare tipicamente aggiustare, rendere razionale e utile qualcosa che sembrava possedere qualche difetto di funzionamento. Ed è questo che allora ci mostra che dietro tanti usi di questa parola c’è un senso preciso: vari elementi che stanno insieme non in modo casuale, cioè non semplicemente giustapposti, ma in modo da avere un ruolo ciascuno in un funzionamento complessivo.

chi ne parla ai bambini

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di Giacomo Sartori

Duemila e cinquecento anni fa i nostri eminenti filosofi hanno deciso che gli animali non hanno cervello, o insomma non lo sanno usare, e noi ce ne siamo subito convinti, mettendo a tacere i pochi, per esempio Plutarco e più tardi

I poeti appartati: Biagio Marin

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Nota

di

Alida Airaghi

a Biagio Marin, Poesie.

 

 

Il volume che Garzanti ha dedicato a Biagio Marin raccoglie un’ampia scelta delle sue poesie, e una serie di contributi critici dei maggiori letterati italiani del ’900: Carlo Bo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Pier Vincenzo Mengaldo, Massimo Cacciari, e dei curatori Edda Serra e Claudio Magris. Secondo quest’ultimo “Il canzoniere di Marin ha la continuità del diario e il respiro dell’eternità: pervaso da un umanissimo senso del sacro e da un’illuminante percezione del cosmo, tocca con limpida e serena naturalezza apici di profondità metafisica”.

Biagio Marin (Grado 1891-1985), figlio di un oste, presto orfano di madre, fu allevato dalla nonna paterna. Studiò a Gorizia nel ginnasio di lingua tedesca, quindi alle Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria), allora sotto l’Impero Asburgico. Ventenne si trasferì a Firenze, frequentando l’ambiente letterario della “Voce” di Prezzolini, tra scrittori giuliani come lui (Slataper, Stuparich, Saba, Giotti), e altri importanti intellettuali dell’epoca. Approfondì gli studi filosofici e artistici a Vienna, quindi rientrato a Firenze si sposò con Pina Marini, da cui ebbe quattro figli. Al termine della guerra, che lo aveva visto arruolarsi nonostante fosse malato di tubercolosi, si laureò a Roma in filosofia, e in seguito ottenne vari incarichi scolastici e amministrativi in tutto il Friuli Venezia Giulia. Nel 1968 si stabilì nuovamente a Grado, dove rimase fino alla morte. Dal 1912 pubblicò diverse raccolte di versi, quasi tutte in dialetto gradese: i suoi libri più noti furono Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), I canti de l’isola (1970), La vita xe fiama (1972), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980), La vose de la sera (1985).

Della poesia di Marin tutti i commentatori hanno sottolineato come prima dote la purezza, una sorta di illuminazione disincarnata, che la rende semplice, umanissima e naturale, costantemente uguale a sé stessa dagli anni giovanili alla vecchiaia. Pasolini scrisse che “le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia più o meno vicina alla fonte luminosa (accecante) in cui si forma”.

L’accusa di monotonia che alcuni hanno rivolto ai suoi versi dipende forse dal fatto che in essi non esistono narrazioni vivaci di eventi, e non c’è traccia di dramma: i personaggi descritti sono poco più che comparse sullo sfondo di una modalità poetica che si nutre esclusivamente di una pulitissima e inalterabile musicalità (“solo musica fasso: in ela vivo”). Eppure l’uomo aveva conosciuto tribolazioni, miseria e tragedie, come la morte dell’unico figlio maschio in guerra, e il suicidio di un nipote molto amato: ma era nella dedizione quotidiana alla scrittura, nel “diario sterminato” (C. Bo) in cui ogni giorno appuntava i suoi versi che aveva saputo trovare un’ancora di salvezza: “Màseno versi in ogni ora / comò che fa ’l mulin co’l gran”. Non era, la sua, una produzione a-storica, indifferente al rumore del mondo e alle sue sofferenze e ingiustizie, e non era nemmeno un ricorso consolatorio all’idillio: se fedi e ideologie gli rimanevano sostanzialmente estranee, l’unica voce che riteneva doveroso ascoltare era proprio quella, empatica e meravigliata, dell’ispirazione poetica.

“Quanto più moro / presenza / al mondo intermitente / e luse che se spenze, de ponente / tanto più de la vita m’inamoro. / E del sol rîe che fa fiurî l’avril / e del miel che l’ha in boca, / la prima neve che za fioca / sia pur lenta e zentil”.

Priva di varianti e novità, iterativa in una sua finitezza innocente, anteriore addirittura alla creazione del mondo, la poesia di Marin tende a un continuo slancio verso un altrove, verso un infinito che può essere sia la distesa equorea sia il cielo: tutto azzurro o bianco, tutto limpido, silenziosa e rasserenante promessa di felicità. Utilizzando in maniera reiterata un lessico limitato, sfruttando ossessivamente le rime, fa del microcosmo gradese un universo privo di confini spazio-temporali. E la sua Grado si identifica completamente con il mare, prima fonte di ispirazione e di nutrimento, quasi metafora di madre accogliente e protettiva. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, affermava: “Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. È come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di “soio” e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo… Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio”.

“Mar queto mar calmo / no’ vogie no’ brame / respiro de salmo / tra dossi e tra lame”; “La breve riva / spalanca el mar grando: / de quando in quando / ariva un’ola più viva, co’ ‘nbriva”; “E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia”; “El vento za se placa / e la risaca / ariva in saca / ma lenta e straca. // El can del cuor nol bagia / e la passion la tase / el mar stesso nol ragia: / dal siel cala la pase. // Pase me vogio granda / via dei travagi de la tera, / lontan da la bufera / che a pico el bastimento manda”.

L’ingenuità espressiva di Marin, lontana da ogni sperimentalismo e intellettualismo, non è affettata; deriva da una “adesione dal basso all’ambiente” (A. Zanzotto): “No son sapiente / e sé poche parole: / le sole / che adopera la zente”; “Trasparensa e durata: / questa la gno ilusion, / questa l’aspirassion / che nel cuor se dilata”.

Così aveva tentato di spiegare la propria vocazione letteraria: “Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche… La poesia non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perché mi secca svegliarmi, ma altre volte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me“.

Poesia sorgiva, quindi, mai adulterata da intenzioni o tentazioni extra-testuali, e via via nel tempo sempre depurata da ogni materialità, tesa a un’astrazione capace di far coincidere “trasparenza assoluta e brama di vivere” (C. Magris), come esemplificano questi versi:Me son contento d’êsse nato / de longo tenpo d’êsse su la tera, / dopo tanto dolor e tanta guera / son incora beato. // Tanto hè godúo la luse, el sol; / le musiche dei vinti in duti i sieli, / el cantusâ su l’alba dei noveli / e perfin el tramonto che me duol”.

Tale ribadita estraneità a mode e corruttivi attualismi viene attribuita dai due curatori del volume, Edda Serra e Claudio Magris, all’uso particolarissimo che Marin fa del dialetto: lingua di una tradizione reinventata, che non dà voce a un localismo pittoresco, ma dilata e fluidifica il vocabolario italiano in una musicalità morbida e armoniosa, appoggiata al prevalere delle vocali e alla facilità delle rime, in un ritmo cadenzato che volutamente sembra riecheggiare il moto ondoso del mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’appartamento

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«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando ho lasciato l’appartamento? È vero, se non avessi deciso di andarmene non sarei qui. Sembrava così semplice, cambiare casa, cambiare vita, semplice, vendere l’appartamento e via, d’un colpo tutto dietro le spalle. Ho deciso quest’inverno, un mattino, su due piedi. Faceva molto freddo, me lo ricordo perché avevo tirato fuori dalla canfora il pellicciotto, l’odore mi aveva dato nausea e ho pensato che mi sarei dovuta comprare un cappotto nuovo. Era un lunedì. Sono sicura. Perché era il giorno dopo, cioè il giorno prima era successa la cosa di Mathias. La data esatta? Non la sa? Una domenica d’inverno. Io, il lunedì mattina, quando mi sono guardata attorno, sono tornata indietro negli anni, quando siamo arrivate, la mamma e io, avevamo improvvisato una festicciola, sul terrazzo, noi due, in mezzo agli scatoloni, c’era un bel sole, le bibite si scaldavano e la crema delle pastine si scioglieva, ma le ho mangiate tutte, e ho bevuto l’aranciata, avevo sette anni e la mamma sembrava allegra. I gerani c’erano già, rosa e rossi, piantati in vasi di terracotta a bassorilievi, lungo due lati; le aiuole le ho fatte molti anni dopo, quando ne ho avuto bisogno. Glielo racconto poi, mi ascolti ora, è importante, quel lunedì mattina, quando ho deciso che non potevo più restare. Non pensavo al pericolo, non pensavo a niente, non volevo né nascondere né svelare, volevo solo andare via, per sempre. Facevo colazione in veranda e guardavo Mimì, dietro la vetrata, giocare con i gerani, grattare la terra. Frugava con le zampe e con il muso nelle ultime piantine, un ossicino è spuntato e un rigurgito di caffelatte mi ha dato un gusto acido in bocca: era ora di andarmene. Trentacinque anni in quell’appartamento, trentacinque anni in quel terrazzo, quindici anni da sola. Ho messo il pellicciotto che sapeva di canfora e sono scesa a comprare il giornale, però il giornalaio sotto casa era ancora chiuso per lutto, il figlio era morto la settimana prima, no, io non c’entro, un incidente stradale. Sono andata in piazza e non avevo i guanti né il cappello. Un dettaglio insignificante? No. Tutto quello che racconto ha un senso, almeno per me. Camminavo con le guance sferzate dal vento glaciale, con le mani livide sprofondate nelle tasche e sorridevo, sì, mi rallegravo del fatto che con quelle temperature avrei potuto rimandare il lavoro di giardinaggio. D’estate invece bisogna sbrigarsi, quando fa troppo caldo è dura. Estate come inverno comunque è un’operazione lunga che richiede applicazione. E una grande calma. La prima volta sporcai dappertutto, non pensavo che un corpo potesse contenere tanto sangue. E tanta carne, e viscere, budella, ossa, muscoli. Ci misi due giorni per tagliare, spezzare, triturare, bollire, gettare, sotterrare. La testa, la volli lasciare intera, tutta intera sotto un albero. Il terzo pino sulla destra, prima del ponte. Non c’è più? È passato tanto tempo! Forse era il quarto pino, forse dopo il ponte. Quella prima volta, fu una fatica, zoppa come sono, si immagini trascinare un bauletto. Il peggio è stato scavare. Dopo un’ora la cavità era ancora piccola e già avevo le mani coperte di piaghe e di vesciche, non ce la facevo più a tenere la pala, allora ficcai dentro le mani nude. Il buco a poco a poco si fece più profondo, abbastanza profondo. All’ospedale mi fecero tante domande. Piangevo, ma non per il dolore alle mani. Mio padre, mio amore, mio adorato, mio tutto, mio troppo, troppo amore, il primo uomo che ho amato, pazzamente, e non era bello, era vecchio ed era stanco. Appoggiavo la faccia sulla sua pancia rotonda, accarezzavo il pelo grigio del petto, e il mondo si esauriva in un’estasi infinita. Aveva la forza e l’ingegno di un animale selvatico, un odore aspro inebriante, le labbra tumide, le mani calde. Mi prendeva senza una parola, senza un bacio, il desiderio era il suo modo di amarmi. Forse. Avrei voluto essere piccola piccola e vivere dentro di lui. Mi mancava, sempre, crudelmente, anche quando c’era. Troppo amore, e lui aveva una moglie e due figli già grandi, e un lavoro importante, e sessant’anni, e io avevo lui, il gatto, i gerani e non ancora trent’anni. Quel lunedì mattina, mentre andavo in piazza a cercare il giornale, ho ripensato a Giovanni e ho pianto. Dovevo ucciderlo per non soffrire. Lei è una donna, mi capisce, vero? Ho pianto, ripensando al cuscino che lo soffocava nella letargia del sonnifero, poi mi sono calmata e mi è venuto in mente che dopo, quando sono riuscita a sistemare tutto, un po’ nei vasi un po’ altrove, a ripulire, a far tornare le cose e la casa nell’ordine che avevano avuto nei vent’anni passati con mamma, dopo, con le mani fasciate e la morte nel cuore, sono andata in un negozio specializzato e mi sono fatta spiegare come piantare le grandi aiuole lungo i bordi del terrazzo… »

«… In piazza ho comprato due riviste di annunci immobiliari, poi sono andata in un bar. Cambiare vita: seduta al tavolino, davanti a un tè gelsomino, me lo ripetevo e il progetto mi sembrava realizzabile, malgrado la brutta faccenda della domenica. Mathias era stato un errore, un’emozione incontrollata, ma l’avrei sistemato in ventiquattro ore e nessuno l’avrebbe cercato, nessuno si sarebbe accorto, era un giovane sbandato, senza patria e senza famiglia. L’avevo ospitato per carità, cominciavo a volergli bene, ma lui chissà cosa si era immaginato. Bevevo il tè al gelsomino, il mio preferito, e mi dicevo che non potevo continuare così, un uomo dopo l’altro. Potevo ancora cambiare vita, non ero vecchia né malata né brutta. Mi sono guardata allo specchio e un ragazzetto con il ciuffo alla moda si è messo a ridere; se voglio, ti ammazzo, ho sussurrato, poi ho ripreso a sorseggiare il tè e a seguire il corso dei miei pensieri. Facevo i conti con la realtà: vendendo il bell’appartamento con terrazza, avrei potuto comprarne uno più modesto in un’altra città e investire il resto. Più la pensione di invalidità, avrei vissuto senza preoccupazioni finanziarie. Ho scelto un’agenzia con uffici nelle due città dove andava eseguita la compravendita. Sono venuti a stimare l’appartamento, mi hanno fatto firmare una serie di carte. L’indomani sono andata nella provincia limitrofa a visitare alcune case. La prima aveva due stanzette più servizi, un balconcino minuscolo, e una cantina. La cantina mi ha fatto esitare. Siamo andati a visitare la seconda, ma c’era una portinaia invadente. Una terza era troppo fuori mano e una quarta era troppo cara. Era ora di pranzo e sono andata in una trattoria, minestra di farro, scaloppina al limone e torta di mele, mi piace mangiare al ristorante, sola, come una donna emancipata. Qualche giorno dopo, il settimo o l’ottavo appartamento, non so più, poteva andare. Due mesi dopo avevo le chiavi. La settimana scorsa. Non ha visto le foto? Ma sì, le foto del soggiorno, con l’impiegato dell’agenzia immobiliare, il corpo… Lo so, non avrei dovuto, ma aveva le mani sudaticce, il collo della camicia unto, lo sguardo bovino e le gambe tozze; mi ha fatto ribrezzo fin dal primo momento, eppure quando mi ha baciato l’ho lasciato fare, e anche quando mi ha toccato, schifoso com’era. Mi sono sottratta all’abbraccio e l’ho invitato a inaugurare l’appartamento. È arrivato in ghingheri, era ancora più ributtante, un sorriso da porco, ho faticato a convincerlo che era meglio mangiare, prima, per avere più forza, poi; ci sono voluti due bicchieri per farlo stramazzare, si è contorto, ha sbavato, non volevo lordare la casa nuova, non volevo ricominciare, era un incidente, un caso da archiviare in fretta, non doveva rovinare la vita nuova. Ma ero troppo sconvolta per procedere con metodo, per la prima volta un corpo esanime mi faceva vacillare. È perché mai avevo agito per odio, e l’amore dà coraggio e pazienza, mentre quel corpo repellente, quegli abiti intrisi di escrementi, il fetore che immediatamente si era propagato nel soggiorno, mi incutevano un tale disgusto dell’umanità in generale e del sesso maschile in particolare che non potevo avvicinarlo. Come procedere? Il lavoro sui corpi è minuzioso, ci vuole dedizione per scuoiare, tagliare, segare, macinare e soprattutto seppellire. Non potevo. L’ho lasciato lì, dove è stato trovato. Sono tornata all’appartamento e mi sono seduta in terrazza… »

«… mio marito è stato il secondo. Il terzo? Vuole includere Marco? Io Marco non lo conto, perché se ne è andato da sé, non l’ho nemmeno toccato, infatti riposa in pace nel cimitero comunale. Sono andata a trovarlo, i primi tempi, gli portavo qualche fiore, gli parlavo, come qualsiasi fidanzata addolorata. Eravamo molto uniti, di un attaccamento forse malsano, Marco mi angosciava, mi stava sempre addosso, però lo amavo, davvero, e mi esaltavo a vederlo eseguire tutte le mie volontà. Tutte, fino all’ultima. Ho smesso di andare al camposanto quando ho conosciuto mio marito. Che uomo! Pieno di qualità: affascinante, intelligente, determinato, brillante. Mi sono chiesta perché mi avesse scelta tra tante donne che gli stavano dietro. Quando è venuto ad abitare da me, ha voluto fare qualche cambiamento, anche se l’appartamento gli piaceva, soprattutto la terrazza, nei mesi caldi era diventata il suo quartier generale. Durante l’inverno aveva sistemato il suo studio in veranda e io avevo trasferito le mie cose giù nello stanzino, e avevo il mio angolino in soggiorno. Salivo a curare i gerani quando Paolo usciva. Dovevo fare attenzione a non toccare niente, se spostavo una penna si infuriava. Abbiamo passato tre anni stupendi: le rare sere che restava a casa, guardavamo insieme la televisione e si addormentava sulla mia spalla. Lo mettevo a letto e lo accarezzavo a lungo, dormiva come un bambino e potevo baciarlo quanto volevo. A proposito, i bambini lo irritavano, infatti quando sono rimasta incinta mi ha detto che non se la sentiva, troppe responsabilità, la carriera eccetera, le solite cose. In fondo lo capivo. L’aborto è stata un’esperienza molto triste; non gliela racconto, non c’entra con questa storia; se vuole, può consultare le cartelle cliniche dell’ospedale, marzo 1983, sì, deve essere stato fine marzo, troverà. Lo sa che non è venuto a trovarmi in ospedale? Anche questo lo capivo. Però non ha dato da mangiare al gatto e nel fondo del mio cuore non gliel’ho perdonato. Perciò un anno dopo l’ho accoltellato nel sonno. Non è corretto, sono d’accordo, ma non ci sarei mai riuscita guardandolo negli occhi, lo amavo troppo. Ho saputo poi, quando c’è stata l’inchiesta per la scomparsa, che aveva diverse amanti, sparse per il mondo, così hanno pensato tutti che fosse scappato con una thailandese, o con una birmana, aveva un debole per le orientali. Qualche anno dopo è arrivato il decreto di morte presunta e sono tornata libera… »

«… le ho detto che non sono stata io, perché insiste? Non avevo nessuna ragione, volevo bene a mio fratello, anche se lo conoscevo poco, aveva quindici anni più di me, e dopo la morte del babbo era andato a vivere in America. Ci siamo incontrati poche volte, funerali, battesimi, feste comandate. Da quando era tornato, ci sentivamo ogni tanto per telefono. Luca era un depresso, ha passato metà della vita tra psicoanalisi, terapie, dottori, veri e ciarlatani, erboristerie e farmacie e ospedali, chieda a sua moglie, no, le assicuro, è stato un suicidio, nessuno l’ha messo in dubbio, aveva già fatto due tentativi. Perché sia venuto a suicidarsi a casa mia non glielo so dire, forse per via della terrazza, avrà pensato che così non avrebbe sporcato i bei tappeti di casa sua, avrebbe evitato di traumatizzare i bambini. Io quella sera non c’ero, ero uscita, la polizia l’ha confermato, quando si è sparato ero al cinema, gli avevo dato le chiavi perché me le aveva chieste, sì, mi aveva stupito, ma era mio fratello e non ho fatto domande, immaginavo un’avventura. L’ho trovato il mattino seguente perché la sera non sono salita in terrazza. C’era materia cerebrale schizzata fin sul muretto del parapetto. Quando hanno portato via il corpo mi ci sono volute ore per pulire, c’erano goccioline di sangue anche sulle foglie dei gerani, le ho lavate e asciugate una a una, ho versato secchi d’acqua per terra, ho strofinato il muretto con una spugna. Il barattolo in cucina? Quale? Non so cosa dirle. Forse qualche residuo, raccolto per la scientifica e poi dimenticato. No, le ripeto, non sono stata io. Per quale motivo dovrei mentire? Mio marito, il mio amante, l’agente immobiliare, Mathias, è tutto. Chi! Giuseppe Lomonaco? Ah, Gigi, l’architetto… »

«… no, oggi non ho voglia di raccontare. Ho già fatto una confessione. Ho fornito prove materiali. Come? No, non è possibile trovare tutto! Ho già spiegato il mio modo di procedere. Per eliminare elementi solidi e ingombranti, facevo bollire la carne, soprattutto le interiora, per l’odore e la consistenza, sa, i curiosi, c’è sempre qualcuno che fruga nelle pattumiere, allora meglio cuocere con un po’ di cavolo, il cavolo è perfetto per confondere i fetori. La carne più tenera era per Mimì, e le ossa andavano come concime per la terra, frantumate o spaccate a pezzetti. Il problema sono le teste, perché dispiace fendere la bocca baciata di un uomo amato. Ho spiegato dove sono sotterrate. Non sono state trovate? Sono state cercate bene? Allora vuol dire che non mi crede! In questo caso, non racconto più niente. Le dico che Gigi l’ho interamente triturato, ci ho messo una settimana ma ne valeva la pena, è stato un lavoro perfetto. Cosa c’entra? Io quel signore africano non l’ho mai conosciuto. L’hanno accoltellato sotto casa mia, e allora? Pensa davvero che potrei sezionare con tanta precisione? Non sono stata io, non è nel mio stile. Io ho eliminato dalla mia vita uomini che amavo perché mi facevano male. Nell’ordine: il mio amante Giovanni, mio marito Paolo, Giuseppe l’architetto, Mathias. Marco e Luca non si contano, e neppure l’agente immobiliare, che è stato un incidente. Non avete trovato le teste? Cercate ancora, cercate meglio, no, io non vi accompagno, non voglio rivedere il bosco, né il giardino, né la terrazza. L’agente immobiliare è vivo? Cosa dice? È impossibile, gli ho versato due dosi di diserbante, l’ho visto rantolare. È una provocazione, lei mi vuole confondere, prima mi accusa di colpe che non ho commesso, ora mi dice che quel porco è vivo. Se lui è vivo, e se l’africano è morto, chi lo ha ucciso? Me lo dica lei, a questo punto per me è lo stesso, l’uno o l’altro, anche nessuno; meglio, nessuno. Mio marito, lo giuro, l’ho ucciso mille volte, con mille pugnalate, e anche a Giovanni ho tolto il respiro, con baci d’amore soffocanti. Guardi le mie mani, le guardi bene, hanno tanto scavato che sono screpolate, grinzose, indurite dai calli, coperte di cicatrici… »

«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando mi hanno costretta a lasciare l’appartamento? Io stavo in veranda, guardavo Mimì appisolata sul radiatore e sorseggiavo una tazza di tè. Quando tutto ha preso a bruciare, e le fiamme avvolgevano le piante di gerani, ho capito che non potevo restare. Ho preso in braccio Mimì e sono corsa giù per le scale, ho urlato, è venuta gente, mi hanno avvolta in una coperta e messa in un lettino. Volevo solo incenerire le piante; le aiuole erano rigonfie di membra, la terra era putrida di sangue e piena di vermi, i gerani morivano tutti, marci. Mimì non mangiava da una settimana. Faceva molto freddo e mi sono messa il pellicciotto. Era vecchio e sapeva di canfora. Volevo cambiare casa, cambiare vita, vendere, comprare, d’un colpo, tutto dietro le spalle, e via. Sono andata a visitare una casa in affitto, era squallida e buia, l’agente mi indisponeva, parlava e parlava, agitava le braccia, gli puzzava il fiato, la fronte era grassa e imperlata di sudore. Ho vomitato nel corridoio, mi ha fatto una scenata, l’ho ucciso subito e sono tornata nell’appartamento. I muri grondavano sangue, uno strato di polvere d’ossa copriva i mobili, le piante come scheletri impietriti dal gelo scricchiolavano sinistre dietro la porta a vetri della veranda. Mimì miagolava e mi graffiava le gambe. Cosa potevo fare? Cercare i cadaveri, dissotterrare resti di corpi, rendermi alla giustizia degli uomini, smettere di amare oscenamente. Sono uscita, senza guanti e senza cappello, il vento gelido mi sferzava le guance, ridevo, felice come una bambina che fa una marachella, mentre avanzavo zoppicando in mezzo al bosco, il terzo pino era quello di Giovanni, il quarto quello di Paolo, il quinto Mathias, poi gli altri, mi sarebbe bastato ritrovare una testa, disseppellire labbra tumide e poterle baciare, un’ultima volta, farmi perdonare da uno per essere perdonata da tutti, farmi amare da uno per farmi amare da tutti. È scesa la notte e scavavo ancora, la terra era umida e soffice, affondavo le mani tra grovigli di radici, strappavo, estirpavo. Nel giardino di casa, nel silenzio della notte, udivo solo il mio respiro affannoso. Piano piano sono affiorati i capelli, la fronte, gli occhi, sono affiorati i ricordi di un amore disperato. Adesso mi crede. Mi crede perché qualcosa è stato trovato. Voleva una prova tangibile. Ce l’ha. È vero: ho ucciso un uomo, molto tempo fa, e l’ho seppellito sotto un albero di mele…»

 

Prima pubblicazione su Tuttestorie, 6, 2000, pp. 41-46.

Libretto di transito

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di Franca Mancinelli

 

Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.

*

Le cose che hai scordato di portare con te. Lasciate negli scompartimenti dei treni, scivolate dai sedili degli autobus. A un tratto ti raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza, come attraversando una zona più limpida dello sguardo.

*

Indosso e calzo ogni mattina forzando, come avessi sempre un altro numero, un’altra taglia. Cresco ancora nel buio, come una pianta che beve dal nero della terra. Per vestirsi bisogna perdere i rami allungati nel sonno, le foglie più tenere aperte. Puoi sentirle cadere a un tratto come per un inverno improvviso. Nello stesso istante perdi anche la coda e le ali che avevi. Da qualche parte del corpo lo senti. Non sanguini, è una privazione a cui ti hanno abituato. Non resta che cercare il tuo abito. Scivolare come un raggio, fino al calare della luce.

*

Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. Sai il dolore di ogni tegola, di ogni mattone.Un tonfo sordo nella radura del petto. Ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, un lavorare quieto che risuona nelle profondità del bosco. Tu che disfi la valigia, ti scordi di partire.

*

Con il tuo bene continui a tessere questo spazio, a portare dettagli e densità. Il tuo bene è un filo che si rigenera di continuo formando una ragnatela. Io sono avvolta lì, un po’ viva e un po’ morta. Ma se svolgessi il filo e tornassi a vedere, troveresti una croce sormontata da un cerchio. Così sottile e lieve, tracciata sulla polvere. Basterebbe un tuo soffio per liberarmi.

*

Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. Le montagne vicine con i loro torrenti gelati. Da quando l’ho sentito non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche quando, uno dopo l’altro, nella tua voce passano uccelli d’alta quota, segnando una rotta nel cielo limpido.La faglia è in te, si allarga. Un soffio di freddo ti attraversa le costole e ti sta scomponendo. Non hai più un orecchio. Il tuo collo è svanito. Tra una spalla e l’altra si apre un buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo, su un pendio scosceso a dirotto, non attraversato da passi umani.

*

Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme. Le scorze si frangono, non resistono più. Con gli occhi chiusi continui a lottare. La terra è una roccia, si sbriciola in ghiaia sottile. È una parete e una porta. Continua a dormire. Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te.

 

Franca Mancinelli, Libretto di transito, Amos Edizioni, 2018, pp. 55.

Peccato mortale

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di Edoardo Zambelli

Carlo Lucarelli, Peccato mortale, Einaudi, 2018, 247 pagine

Ad solo un anno di distanza dal malinconico e bellissimo Intrigo italiano, Carlo Lucarelli riporta in libreria il commissario De Luca, e con Peccato mortale scrive il quinto capitolo della serie. Mi preme sottolineare il breve intervallo di tempo tra gli ultimi due, perché invece tra il terzo e il quarto era passato più di un decennio. Nel frattempo Lucarelli ha scritto altro (parlo solo della sua attività di romanziere, lasciando da parte tutto il resto): ha pubblicato un romanzo a sé stante, L’isola dell’angelo caduto; ha portato avanti la serie con protagonista Grazia Negro (Un giorno dopo l’altro, 2000; Il sogno di volare, 2013); e ne ha avviata un’altra, quella del capitano Colaprico (Albergo Italia, 2014; Il tempo delle iene, 2015), che in qualche modo riprende le atmosfere di quello che è, ad oggi, il suo libro più ambizioso, L’ottava vibrazione, uscito nel 2008.

Che volete, non basta cambiare il direttore del “Resto del Carlino” e liberare due antifascisti, la gente fa la coda per il pane, ha paura delle bombe e non vuole più la guerra. Mussolini non c’è più, dice, e allora perché stiamo ancora così, con le zucchine a tre lire al chilo e i mariti e i figli al fronte. E poi ci sono i comunisti con le bandiere rosse, che alzano la testa, non è che per loro finisce tutto con gli spazzini del Comune che ramazzano le cimici e i vetri dei ritratti del duce buttati giù dalle finestre. Badate che questi non sono pensieri miei, riferisco quello che abbiamo raccolto, ma questo paese, De Luca, questa città sono una polveriera pronta ad esplodere.

Ora, tornando a Peccato mortale.

Lucarelli non riprende da dove aveva lasciato nel romanzo precedente (la Bologna degli anni ’50, con un commissario De Luca sfatto, sempre inseguito dalla vergogna di aver servito durante il regime fascista, dalla paura di essere riconosciuto), ma fa un passo indietro. Il romanzo è infatti ambientato nel 1943, in un delicato momento di passaggio della storia italiana, tra la caduta del fascismo e l’arrivo dei tedeschi.

Ad avviare la narrazione è il ritrovamento di un cadavere senza testa, in un casolare di campagna. Un cadavere cui stranamente sembrano subito interessarsi alcuni personaggi in alto, probabilmente perché dietro quell’uccisione (e quel tentativo di rendere irriconoscibile il morto) c’è un segreto sconveniente, qualcosa da nascondere a tutti i costi. E infatti, alcuni testimoni spariscono, ne compaiono altri che rilasciano dichiarazioni che sembrano più sviare che indirizzare, e spunta fuori una testa mozzata, in un canale, che però non corrisponde a quella del cadavere ritrovato.

Nel frattempo, con la caduta improvvisa del fascismo, le strade di Bologna – già incendiate dal caldo e provate dai bombardamenti – sono in tumulto, si respira una rivoluzione imminente, e per De Luca – che alla politica è sempre stato estraneo, interessato solo e unicamente a fare il suo lavoro, e a farlo bene – questo è un ulteriore confondere le acque, oltre che, a ben guardare, un pericolo (è pur sempre un commissario che ha servito il fascismo).

Questa è, a grandi linee, la trama nel suo avvio. Il resto è giusto che lo scopra il lettore.

Lucarelli non ha mai un andamento particolarmente veloce (se non, forse, nei romanzi dedicati all’ispettore Coliandro, e in quel piccolo gioiello che è Guernica), la sua è una narrazione piuttosto lenta, procede per un graduale accumulo di dettagli – la scansione scenica si dilata in dialoghi e momenti di introspezione, la terza persona in indiretto libero spesso entra, per così dire, nella testa di De Luca (in questo caso) e rende conto di dubbi, deduzioni, riflessioni, ma sempre in modo pacato, obliquo, facendo sì che il lettore non perda mai la tensione del racconto.

Tutto questo è fatto con una prosa semplice e allo stesso tempo elegante, ricca, in cui il dettaglio diventa spesso centrale (grande cura Lucarelli la pone nel ritrarre i gesti dei personaggi, tanto da far pensare a primi piani ravvicinatissimi; e altrettanta cura è data alle inflessioni regionali delle varie parlate).

In definitiva, con Peccato mortale, Lucarelli aggiunge un tassello a quella che, vista nel suo complesso, è una delle opere più riuscite e belle nel panorama della scrittura di genere in Italia. Credo, anzi, che sia molto riduttivo parlare di semplici romanzi noir quando ci si riferisce alle sue opere (così come lo è quando si parla di Massimo Cassani, Eraldo Baldini o Antonio Pagliaro, solo per citarne alcuni). Certo, la gabbia della trama è quella – un fatto criminoso, il detective che indaga, gli indizi e poi la risoluzione -, ma la qualità della scrittura, la raffinatezza del raccontare e la profondità di riflessione storica (in Lucarelli come negli altri che ho citato) trascendono il genere per restituire alla fine, molto semplicemente, bella letteratura.

La linguamare. Divagazioni intorno a un libro di Nancy Huston

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Louise Bourgeois - Untitled, 2002
Louise Bourgeois – Untitled, 2002

 

di Ornella Tajani

Prologo

Una sera in albergo ho conosciuto due sorelle sulla sessantina; le ho sentite parlare tra loro in francese, inglese e portoghese. Incuriosita, quando è capitata l’occasione ho chiesto da dove venissero: la risposta si è diluita in due biografie parallele e intercontinentali che mi hanno confuso le idee piuttosto che chiarirmele. Ci ho riprovato il giorno seguente, chiedendo specificamente dove fossero nate: una in Austria, l’altra in Brasile. Al che ho finalmente posto la domanda che mi interessava: “Qual è la vostra lingua madre?”. La prima mi ha risposto immediatamente: “Non ho nessuna lingua madre”; la seconda si è persa nei suoi pensieri. Ho insistito ancora una volta, ormai con un tono simile a quello di Nanni Moretti nella famosa scena delle sigarette in Ecce bombo: “Ma qual è la lingua che parlate senza accento?”. Risposta – prevedibile, a questo punto: “Ho un accento in tutte le lingue”.

Nord perdu 

La questione dell’accento, del carattere d’estraneità che riveste le lingue parlate è affrontata da Nancy Huston in un piccolo libro autobiografico intitolato Nord perdu (Actes Sud, 1999; inedito in italiano). Huston, canadese anglofona trapiantata a Parigi, si interroga sulla sua conduzione di esule; il titolo rinvia esplicitamente all’espressione perdre le nord, cioè essere turbato, disorientato. In un testo strutturato in capitoli brevi, dall’andamento frammentario, l’autrice esplora il sentimento identitario, concentrandosi in modo particolare sul proprio rapporto con le sue due lingue, l’inglese e il francese, e mettendo a fuoco alcune delle insofferenze tanto familiari agli expats (pur seguendo un’altra traiettoria, non sono pochi i punti di contatto con il più recente Buongiorno, mezzanotte. Torno a casa di Lisa Ginzburg, già recensito qui).
A proposito dell’accento e dei suoi ritorni in Canada, Huston scrive:

Torni lì e la gente non crede alle proprie orecchie. Sarebbe questa la tua lingua materna? Ti rendi conto in che condizioni è? Cioè, non è possibile! Hai un accento! Non fai altro che infilare parole francesi in inglese. È ridicolo! […] Parla normalmente! [trad. mie per le sue citaz.]

Ma cosa vuol dire «parlare normalmente», si chiede l’autrice, quale sarebbe il suo inglese? Quello di Calgary, la città dove è cresciuta, quello del Bronx o di New Orleans, dove ha abitato? O magari quello semplificato che ha a lungo insegnato? Constatando l’accento britannico che, quasi senza volerlo, adotta durante le letture pubbliche dei suoi testi, Huston si sente disonesta. «Ma forse riesco a sopportarmi soltanto nelle vesti di “straniera”», conclude, prima di passare dall’analisi dell’inglese parlato a quella del francese in cui scrive.
Dicevo che in questo testo Huston sceglie una prosa composta di frammenti; non stupisce poi tanto, dunque, scoprire che ha studiato e si è laureata con Roland Barthes. L’incipit di Nord perdu ricorda molto da vicino la prosa barthesiana, tanto da rassomigliare a quegli esempi raccolti in Le Roland-Barthes sans peine, il manuale di Burnier e Rambaud (di cui ho già parlato qui) che costituisce di fatto una brillante e spietata collezione di pastiche dell’autore dei Fragments. Ecco le prime righe di Huston, che stavolta lascio in francese per meglio sentirne le sonorità barthesiane:

Se désorienter, c’est perdre l’est.
Perdre le nord, c’est oublier ce que l’on avait l’intention de dire. Ne plus savoir où l’on est. Perdre la tête. Une chose qui ne se fait pas. Une chose qui ne s’évoque qu’au négatif, pour la nier, pour dire qu’on ne l’a pas faite. On dit : «Il ne perd pas le nord, celui-là».
Jamais : «Ça y est. Il l’a perdu, le nord».
Perdre le nord. To be all abroad, propose comme traduction mon excellent dictionnaire français-anglais. […]

L’amore per le etimologie, l’impiego frequente di virgolette e corsivi, il ricorso alle traduzioni di un’espressione in altre lingue: stilemi tipici della prosa barthesiana. Huston lo ammette chiaramente, mentre per inciso lo ringrazia e al contempo lo maledice: in questo suo stile ricco di parentesi, due punti, punti e virgola e frasi un po’ troppo lunghe, «Barthes y est pour beaucoup» (ma lo stesso Barthes è affettuosamente descritto altrove come l’uomo «fin et désabusé» che le ha insegnato a leggere i testi, e a leggere il mondo come testo: «Barthes aveva una grazia e una generosità di pensiero che appartenevano soltanto a lui. Se mai ho avuto un maestro, questi è senz’altro lui, che pure aveva rinunciato a qualsiasi titolo». Si veda Douze France, nello stesso volume).
Di frammento in frammento si arriva alla riflessione sul falso bilinguismo, che l’autrice distingue dal vero in quanto il primo non prevede l’acquisizione contemporanea delle due lingue sin da bambini: il falso bilingue, in cui Huston si identifica, ha un’unica lingua dell’infanzia. Così a lei, trapiantata in terra straniera, capita di ricordare alcune parole solo in una delle due lingue; ha un cassetto speciale nella mente che contiene tutti i numerosi termini francesi che finiscono in «-eau», dunque talvolta tira fuori a caso tableau (quadro) al posto di rideau o di plateau (tenda/sipario – vassoio). Le succede di non trovare alcune parole nel momento del bisogno (come indigent, o empirique), di avere un vuoto davanti a un termine francese pronunciato dai propri figli – loro, sì, realmente bilingui. Cosa vorrà dire perron (scalinata)? Ecco che, in una sfilza interlinguistica di associazioni foniche, le saltano in testa la congiunzione italiana però, il perro spagnolo, Evita Péron.

Con il passare degli anni le cose non migliorano, anzi. E, dal momento che vivo con un transfuga da una lingua che non è l’inglese, ci capita di contemplare terrorizzati la prospettiva di una vecchiaia comune quasi autistica. In un primo momento la lingua francese ci abbandonerà poco a poco e le nostre frasi saranno costellate da buchi di memoria: «Mi prendi un attimo il…? Massì, il coso che sta appeso al… nel…».

Scenetta divertente, soprattutto se si pensa che il marito transfuga in questione era Tzvetan Todorov, con il quale Huston è stata sposata fino al 2014.

(Ci colpisce lo spazio specifico che la nostra memoria riserva ai sostantivi, la prima cosa che perdiamo nella lingua straniera – così come, nella lingua materna, chiunque si accorge che con l’età sfuggono i nomi propri. Il fatto è che la designazione e la predicazione sono due attività distinte, mi spiega giustamente mio marito, che qualche nozione di linguistica ce l’ha. I sostantivi somigliano ad ancore che ci tengono legati al suolo del reale; senza di loro andiamo alla deriva sulla superficie dell’acqua, sballottati dalle onde dei verbi e degli aggettivi). Alla fine del cammino, quando la nostra comune lingua adottiva sarà scomparsa, ce ne staremo seduti fianco a fianco su delle sedie a dondolo, a cianciare da mattina a sera, ognuno nella rispettiva lingua materna.

L’immagine di queste incomprensibili chiacchiere fra anziani richiama alla mente il balbettio neonatale, quella fase del processo di acquisizione del linguaggio che termina con l’imporsi della lingua madre, come ricorda Adrian Bravi, via Daniel Heller-Roazen, nel suo bel libro La gelosia delle lingue (si veda qui). Con questa ironica fantasia Huston sembra disegnare un cerchio: l’avanzare dell’età ricondurrebbe il falso bilingue alla lingua madre, poi al suo progressivo sgretolarsi, per far ritorno infine a una fase pre- (o post) linguistica.

Epilogo

Nel mio lessico familiare c’è una parola dialettale, “’nfrancesiare”, che finora non ho mai trovato altrove: si riferisce al parlare senza farsi capire, bofonchiando. Probabilmente è un uso ironico del termine “infrancesare”, cioè adottare termini o modi francesi. È una parola cui sono molto affezionata, forse perché è proprio dal francese, studiato, vissuto e insegnato come seconda lingua, che spesso muovono le mie riflessioni sulla lingua madre: il francese diventa lo strumento, l’alterità necessaria all’esplorazione dell’identità linguistica.
Nel libro di cui ho parlato la lingua materna è vista dall’autrice come qualcosa di avvolgente, che cattura, che ha del maestoso. Lingua materna, langue maternelle: in francese i termini madre (mère) e mare (mer) sono omofoni; del resto, l’associazione del mare e della maternità attraversa i secoli, dalla mitologia greca fino a Jung. Così mi è venuto in mente: la linguamare. Per chi apprezza i calembours, dentro ce ne sono almeno altri due.

Come pedinare uno sconosciuto

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di Antonio Merola

Questa è una storia senza parole: voglio dire che le parole ci sono, ma non quelle che chiunque tra noi avrebbe sperato di sentire uscire prima o poi dalla bocca di una persona come Agostino Brestolani. Credo che avesse almeno trentacinque anni quando decise di tentare la prima vera rivoluzione in senso stretto della sua vita: seguire una famiglia in un bar e ordinare un caffè, benché fuori il cielo rosa gli ricordasse che tra non molto sarebbe dovuto andare a letto – succedeva tutte le sere alle ventitré in punto. La bambina che affiancava i genitori in una giacca troppo grande per lei e con il cappellino di lana, la sciarpa avvolta velocemente intorno al collo e le guance rosse c’entrava poco: è vero che lungo la strada gli aveva sorriso, ma Agostino Brestolani non era quel tipo di persona. Era stata la famiglia intera che lo aveva portato là dentro, l’uomo e la donna, la tradizione e forse, l’apparenza di una relazione forte.

«Una cioccolata calda, una camomilla e un caffè».

«Voglio anche la panna» aggiunse la bambina al padre, ignorando il vecchio barista che doveva ricordargli in qualche modo l’orrore o la fine della vita. Sono sicuro cioè che si chiedesse silenziosamente come mai gli tremassero le mani e che allo stesso tempo ritenesse ingiusto che potessero davvero tremare le mani a qualcuno.

«Una cioccolata calda con la panna, allora».

«E per lei invece?»

«Un caffè anche per me, grazie» rispose Agostino, ma per non ridicolizzarsi fino a quel punto decise subito di correggere l’ordinazione: «Me lo potrebbe anche macchiare?». Imitare la bambina infatti gli sembrava più saggio che imitare apertamente il padre: si trattava di una forma di imitazione più raffinata, perché riguardava non tanto l’oggetto dell’ordine, quanto una comune volontà di variare le cose, abbellirle, renderle migliori. La bambina allora sospese per un attimo le proprie divagazioni intorno a quella ingiustizia dell’esistenza e si mise a guardare Agostino Brestolani come si guardano le persone buffe o i pazzi – poi si nascose dietro la madre. La coppia sembrava discutere di qualche cosa che doveva avere agitato la donna, perché lei continuava a ripetere al marito che con quelle persone non sarebbe uscita mai più e soltanto quando il vecchio barista porse a tutti la propria tazzina calda, Agostino si accorse di avere parlato precedentemente alle spalle dell’uomo: nel caffè non c’era nemmeno una macchia di latte. Ecco una seconda ingiustizia: l’ingiustizia che ripete sé stessa in una forma nuova, per punire l’ingiustizia precedente.

Tuttavia il motivo per cui Agostino Brestolani aveva seguito proprio quella famiglia nel bar, gli impediva adesso di turbare la stessa scena a cui assisteva volontariamente: un po’ di panna era finita sotto il naso della bambina, accanto la mamma beveva la camomilla in silenzio e pareva essersi calmata, mentre l’uomo giocava con lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina; era dopotutto un momento di pace, come pochi se ne trovano in giro – o almeno, di una tale semplicità. Così anche Agostino bevve il suo caffè senza latte, dimenticandosi brevemente di esistere.

Questa pausa ci permette di descrivere meglio il locale: non era grande, appariva anzi come uno stretto corridoio diviso a metà dal bancone, così che i clienti dovevano consumare l’uno accanto all’altro e in piedi. Chiunque entrasse era quindi costretto a unirsi alla fila e sperare di essere raggiunto dal barista che si muoveva sempre di più avanti e indietro, avanti e indietro, finché quando capitava che la sala fosse piena, lo si poteva scambiare facilmente per uno di quegli animali dello zoo o per quei carcerati che si allungano da un estremo all’altro della loro gabbia nella  certezza quotidiana che è impossibile attraversare le sbarre – e che nonostante questo, continuano a muoversi. Era stata la dimensione del luogo che aveva portato quindi Agostino Brestolani e il padre di famiglia faccia a faccia: il secondo aveva già pagato alla cassa in fondo al bancone, quando la mente di Brestolani riprese il proprio possesso sull’uomo e lo spinse strategicamente nella stessa direzione con il portafoglio in mano, mentre si faceva spazio attraverso la minuscola folla composta dalla bambina e da sua madre, che ormai si sarebbero detti un unico corpo o meglio che la piccola, così stretta alla donna, se avesse potuto sarebbe ritornata fin dentro l’utero e avrebbe chiuso la porta agli estranei – ora era sicura: quel tizio doveva essere malato o pazzo. Il padre di famiglia si trovava perciò bloccato contro il muro, perché la postazione della cassa riduceva ulteriormente l’ampiezza permessa alla normale circolazione dei clienti a uno spazietto esiguo, che ora Brestolani occupava per intero. Certo, sarebbe bastato chiedere permesso: ma l’uomo non sembrava interessato a guadagnare tempo e aspettava con una pazienza silenziosa e disinteressata. Agostino Brestolani si accorse solo ora che aveva gli occhi verdi.

«Quant’è?»
«Novanta centesimi».

Tin. Spostiamoci verso l’uscita: ecco la bambina, seguita da sua madre, da Agostino e alla fine dal padre. Ringraziano in coro il vecchio barista. Brestolani si chiede adesso dove mai vada a finire la gente; ma la vera domanda che lo preme è se qualcuno tra quella gente si chieda mai dove vada invece a finire lui. Decide allora di improvvisare questo ultimo gesto patetico: dopo essere uscito dal bar, mantiene aperta la porta di vetro per aiutare l’uomo a tornare dalla sua famiglia.

«Grazie».

Avrei lasciato anche io Agostino Brestolani fuori quel bar, se non fosse successo ancora qualcosa. Se guardate bene tra i posti a sedere sull’ultima fila della linea 23, ci troverete un uomo semplice semplice preso a studiare l’effetto che l’inquinamento luminoso della città ha sul tramonto e quello strano gioco di colore sugli edifici, le strade, gli alberi tra i marciapiedi che scorrono attraverso il grande finestrino sporco. Ma dovete starci davvero molto attenti, altrimenti nessuno di voi si accorgerebbe del completo di seconda mano che porta dentro il corpo di una persona così uguale alle altre – ecco perché non voglio descrivervela nella sua fisicità.

Tuttavia, mentre noi non saremmo potuti intervenire perché siamo qui come dei fantasmi o delle ombre, Agostino avrebbe potuto fare certamente qualcosa quando sentì gridare quella grave minaccia più avanti nella vettura: «Stai zitto o ti tiro uno schiaffo, chiaro?»

Tutti avevano alzato gli occhi verso il vecchietto che era stato preso di mira – alcuni a dire il vero lo avevano già notato con una certa antipatia mentre cercava di farsi spazio tra di loro e a voce alta malediva chiunque si frapponesse tra lui e il proprio posto a sedere -, ma nessuno osava rimproverare anche solo con una occhiata l’altro, il gradasso, la voce prepotente di quel microcosmo a quattro ruote che si muoveva incontro alla notte profonda poco lontana.

Agostino come gli altri si era rivolto dapprima a quella vecchia e incerta figura, poi aveva calcolato minuziosamente le fermate che mancavano a casa sua: una mano si era mossa senza farsi notare e teneva ora chiuse tre dita. C’era abbastanza tempo per fare finta di niente. Bisognava solo agire in modo personale, cercare cioè di rendere quella finzione qualcosa di normale: sarebbe stato impossibile non sentire niente mentre si guardava fuori dal finestrino, a meno che non si fosse immersi in un pensiero così simile alla nebbia da isolare completamente il pensatore o addirittura da pervaderlo, come se arrivasse da chissà dove a cercare proprio lui, lasciandolo con gli occhi confusi e immobili. Quasi tutti i passeggeri dell’autobus però sembravano avere avuto la stessa idea: quattro teste su cinque erano adesso girate a giudicare il traffico che li bloccava in quella posizione. Si riusciva a vedere perfino il collo di una donna rimasta in piedi che si tendeva oltre tutti gli altri colli nella sua stessa condizione per guardare ancora più lontano. C’era poco da fare, doveva trovare subito un’altra soluzione altrimenti il vecchio avrebbe capito – voglio dire che Agostino sentiva che avrebbe capito tutto, perché adesso credeva che il mondo fosse nudo davanti a lui e che ogni cosa gli fosse evidente, ma che insieme quel vecchio fosse anche incapace di perdonare davvero gli uomini. Ma prendere il cellulare gli sembrava stupido: sarebbe stata una finzione troppo assurda per una persona con una rubrica vuota capace di simulare soltanto ciò che conosceva bene. E a dire il vero qualsiasi altro gesto adesso si mostrava del tutto comune, troppo simile all’ordinario e quindi falso, quasi innaturale, come qualsiasi uomo o donna che cercavano di imitare una azione che in una condizione diversa avrebbero compiuto ugualmente con maggiore piattume e sicurezza.

Agostino Brestolani concluse allora che quella doveva essere una punizione per la mancanza di rapidità a cui continuava a piegare sé stesso ogni giorno: chiunque là dentro infatti si era affidato alla propria vigliaccheria chiudendo semplicemente gli occhi così da sospendere qualunque senso di giudizio proprio come ci viene insegnato nelle favole che ci ostiniamo ad ascoltare da bambini, mentre Agostino aveva sentito il dovere morale di domandarle come mai avesse deciso di presenziare al ritorno a casa di tutta quella gente, e aveva preso a girarla e rigirarla senza trovare una risposta precisa se non che adesso (o forse era accaduto già da molto tempo) il vecchio taceva e si lasciava guardare senza battere ciglio. E così Agostino si accorse della precisione con cui la pelle gli scendeva flaccida lungo le braccia, fino a gonfiare in modo innaturale le maniche di una larga giacca a rombi per poi esplodere fuori come una cascata lungo i polsi magri e deboli, e che attraverso il volto rugoso, la mascella giocava a smuovere da una parte all’altra la dentiera; davanti a lui invece delle gambe robuste dentro pantaloni stretti, poco più su una cintura che si chiudeva al quinto o al sesto buco e poi nient’altro, perché era qui che lo sguardo gli si fermava: l’altro uomo rimaneva ancora senza volto.

Agostino Brestolani arrivò così a una seconda conclusione, cioè che il vecchietto dopotutto si era meritato quel rimprovero: era chiaro infatti che nessuno avrebbe mai occupato quel posto per fargli un dispetto o anche solo per sbadataggine. Certo l’autobus era pieno e si faceva senza dubbio fatica a muoversi, ma tutti avevano sentito da subito le imprecazioni del nuovo arrivato e dopo avere giudicato rapidamente la sua età con una occhiata storpia, avevano deciso di rimanere in silenzio e chi si trovava vicino alla seduta libera era rimasto fermo. Perché allora continuare a bestemmiare una volta che era riuscito a sedersi? Erano tutti quanti stanchi, specie (credeva Agostino) l’uomo seduto davanti al vecchio che doveva avere lavorato tutto il giorno. Ecco, non c’era altro da aggiungere: bisognava scendere alla fermata sbagliata, per lasciare che di quella oppressione se ne occupassero gli altri.

Ora Agostino è già in strada da dieci minuti e cammina verso casa, anche se mi sembra che abbia allungato il percorso girando a destra nella traversa sbagliata. La verità è che ha preso a seguire un uomo che aveva ricambiato il suo sguardo – anche se adesso non riesce a ricordare il colore dei suoi occhi. Deve mancargli molto il calore di un corpo maschile, se è disposto a pedinare uno sconosciuto. Ma perché diamine non si volta? Eccoli che girano di nuovo. È importante, mentre continuiamo a seguirli anche noi, che non consideriate la possibilità che quell’uomo abbia paura di Agostino Brestolani: dopotutto, le apparenze contano. E nessuno potrebbe avere davvero paura di lui. La strada è deserta, ci sono i lampioni con le luci basse e qualche stella nel cielo, ma non voglio che vi lasciate ingannare da una atmosfera stereotipata: questa non è una storia degli orrori. Siamo dietro a un uomo semplice semplice che segue un altro uomo perché estremamente attratto da lui, ecco tutto. Peraltro (bisogna dirlo) davvero affascinante.

A questo punto però devo ammettere che mi dispiace: vi avevo promesso una rivoluzione, ma è chiaro che non succederà niente. Agostino si è voltato all’improvviso e sta tornando a casa. Non ha il coraggio di parlare con quell’uomo, nonostante lui abbia ricambiato il suo sguardo. È troppo poco, non basta: gli manca la certezza della riuscita. Eppure non me la sento di giudicare Agostino; adesso è nel bagno a lavarsi i denti, ha già indossato il pigiama. Tiene persino i calzini. Voglio dire che cosa vi aspettavate da una persona del genere? Tra meno di sessanta secondi saranno le ventitré in punto e come ogni sera andrà a dormire.  Ecco perché oggi Agostino chiude gli occhi alle ventitré e zero uno.

 

LO SGOMBRO E’ IL PESCE DEL FUTURO Cronache da altrove

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"Lo sgombro è il pesce del futuro"
Comunisti di Russia

09.09.2018
“Lo sgombro è il pesce del futuro!”
Comunisti di Russia

 

di ⇨ Anna Tellini

 

Ti risvegli e ancora dinanzi a te si stendono i campi e la steppa:
non c’è nulla in alcun luogo, solo una vasta, desolata solitudine.

Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Anime morte

 

In viaggio tutto può venir utile. […] Tutto può venir buono.
Cosa c’è là? Della corda? Dammi anche la corda;
anche la corda può servire in viaggio.

Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Il revisore

 
Non ci potrei giurare, ma l’ho capito quel giorno, direi, di essere davvero tornata a casa. Che poi sarebbe il giorno di due soste a modo loro memorabili, in due località che per l’occasione ho diligentemente annotato, intanto perchè non capita sempre – di tornare a casa, intendo; e poi perchè a nessuno, scommetto, verrebbe in mente altro che scordarle al più presto.
 

Stazione di servizio, attraversando la steppa

 
Invece io con precisione chirurgica sono in grado ora di testimoniare che a Perevoloki, villaggio dell’oblast’ di Samara, come dai più paventato una gomma del nostro autobus ha infine ceduto proiettando noi, turisti di belle speranze, sull’asfalto inospite e polveroso di un’autofficina da cui salvarci affollando la contigua tavola calda, dove festanti infrangemmo l’austera disciplina alimentare che da giorni ci sosteneva, ma non la quotidiana conferenza dell’accompagnatore culturale di cui molto e legittimamente menavamo vanto e che, indifferente alle avverse circostanze, in quella location fuori dalla norma una volta dispostici noi in cerchio ha continuato a illuminarci sulla ricchezza storica e umana, per non dire sulla imprevedibilità, di quell’angolo di Russia che da Kazan’ a Rostov stavamo attraversando e che nella mia mente vivevo come la sua parte androgina in cui l’Asia ha fatto irruzione nell’Europa con i relativi rovelli sulla reale appartenenza all’uno o all’altro universo e col corollario di eurasisti e compagni e con l’immagine ejzenštejniana – per me decisiva – di Ivan il Terribile che stringe d’assedio le bianche mura della capitale dei tatari…
 
  
  
 
da Ivan il Terribile di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn [1944]
 

Per prendere la quale lo zar volle nei pressi una città fortezza che fosse d’appoggio per l’esercito, e la volle nella vicina isola di Svjažsk, e dopo un anno Kazan’ fu presa, e l’isola si fece luogo ideale di vita monastica, poi travolta dal Gulag col suo corollario di monasteri distrutti e poi in parte ricostruiti, che però la guida locale, Aleksandr per la cronaca, fu riottosa a mostrarci, attenta piuttosto a convogliarci alle bancarelle di souvenir…
 
Isola di Svjazsk

 
Ma della nostra lotta di turisti acculturati in difesa delle nostre legittime aspettative, e anche un po’ stravolti dalle troppe case-vacanza dei nuovi ricchi post-sovietici che assediano quest’area così ricca di storia, un’altra volta casomai, perchè presto fummo presi dallo spettacolo di due altre mirabilia dei dintorni, entrambe incompatibili se vogliamo tra di loro, e anche con l’ambiente, ossia il  “tempio di tutte le religioni” e ⇨ Innopolis, di cui ero, confesso, completamente all’oscuro. E se il primo, incompiuto, mi rende ancora insofferente con quell’aria new age un po’ così, sulla seconda – non c’è altra città nella storia moderna russa ad essere stata costruita completamente da zero – mi consento parallelismi arditi: Innopolis come Sankt Piter Bourkh! Create entrambe con un atto di imperio su uno spazio incredibilmente piatto, orizzontale, entrambe denominate con suoni stranieri e pensate come il centro della ragione, delle scienze, della cultura, sotto il segno di una modernizzazione concepita e imposta rigidamente dall’alto …
 
Kazan’, tempio di tutte le religioni

 
Ma tornando coi piedi per terra, e per la precisione alle due soste a modo loro memorabili, è stato nella seconda che qualche ora dopo, in località Oktjabr’sk, sulla strada che da Syzran’ conduce a Balakovo, quella sensazione antica e familiare di un incongruo pronto a farsi metafisico mi ha definitivamente inondata al cospetto di un “Audaces Fortuna Juvat” in primo piano sul basamento di un leone di gesso (cemento bianco?) con la zampa sulla canonica sfera e, sullo sfondo, l’indicazione “toilette”, che poi è quella che cercavamo, ignari ancora di quell’iperbolico cortocircuito di senso e anche dell’orgoglio patrio che quella citazione latina ci avrebbe comunque indotto, a dispetto della sua evidente sconnessione da tutto e da ogni cosa.
 
Stazione di servizio chissà dove, in primo piano iscrizione latina, in secondo piano, sulla destra, toilette.

 
Alla luce di tutto questo, e considerata la mia non disprezzabile sintonia con l’assurdo quotidiano di lì, ora, ripensandoci, non mi capacito di come la mia coda dell’occhio abbia potuto trasmettermi una sorta di trasalimento nel veder asserito – per l’esattezza sulla rotabile per Mosca, accanto alla fermata “Avtovokzal”, lasciando Ul’janovsk per Samara – su un cartellone, a firma dei Comunisti di Russia, un apodittico “Lo sgombro è il pesce del futuro”.
 
Scomber Scombrus (скумбрия)

 
Florilegio sommario della mia istantanea e trafelata ricerca internettiana:
 
Perchè proprio lo sgombro, e non il tonno o il delfino, su questo attualmente si stanno spaccando la testa i russi
(24tv.ua)
 
Lo sgombro dei miei sogni. Come lo sgombro di Ul’janovsk si è “candidato” alle elezioni
(360tv.ru)
 
Dove sta andando lo sgombro dei comunisti russi?
(ulpravda.ru)
 
L’ingrandimento del pene, lo sgombro e la sexy-candidata. Come a un mese dalle elezioni a Ul’janovsk la campagna si è trasformata in un calembour
(dailystorm.ru)

 
e via elencando, e variamente argomentando. Ricordati alcuni legittimi interrogativi
 
Perchè proprio lo sgombro? Non la trota, non lo storione attualmente raro, non la popolare aringa?,
 
seguiti da considerazioni assennate:
 
oggi con convinzione si può dichiarare che “il soffione è la pianta del futuro”, “il criceto siberiano è la bestia del futuro”, “l’albanella delle paludi è l’uccello del futuro”
(ulpravda.ru)

 
io però mi voglio concentrare su un’intervista del 13 agosto scorso ad Il’ja Michajlovič Ul’janov, uno dei leader dei “Comunisti di Russia”:
 

“Il’ja Michajlovič, perchè lo sgombro è il pesce del futuro?” / “Lo sgombro è un pesce antico. Lo sgombro c’era prima di noi, lo sgombro ci sarà anche dopo di noi. L’umanità è destinata a perire, ma lo sgombro ci sarà. E’ il pesce del futuro”

 
col che in questa fantasmagorica creatura il passato si sporge in un presente corroso dal dubbio, ed è Gogol’ che dilaga, è la sua iperbole che l’ha vinta – lo sgombro come il chlestakoviano cocomero da settecento rubli -, in un vortice di sbandamenti nervosi in cui il grottesco distrugge la norma e le proporzioni, e si riaffaccia puntuale il tema puškiniano della tristezza sulla Russia, in un va e vieni di riso e di amarezza:
 

“vogliamo che lo slogan diventi una sciarada intellettuale: dove siamo, dove andiamo e cosa vedremo nel futuro?”

 

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E infine, e per tirare un po’ il fiato:
 
INTIMITA’
 
Lasciato il gruppo a Širjaevoselo, sto scivolando sulla Volga verso Samara, e sento che la mia fusione col mondo si fa così totale che ho paura che gli altri, sul battello, mi accusino di oscenità
 
In battello sulla Volga.

 
GRATITUDINE
 
Stalingrado, il Memoriale
 
Palazzo distrutto durante la battaglia di Stalingrado.

 
ESOTISMO 1
 
Chissà quanti anni ho mentre, ipnotizzata, fotografo – così vicina da poterlo toccare – un sontuoso fior di loto del delta della Volga
 
Fiori di loto nel delta della Volga.

 
ESOTISMO 2
 
A Elista, la gentilissima commessa calmucca di un negozio che vende abiti italiani stenta a credere che noi, davvero, siam voluti andare fin là
 
Elista

 
ESOTISMO 3
 
A Ul’janovsk, il direttore dell’agenzia turistica locale insiste che dobbiamo per forza essere tutti comunisti, visto che vogliamo visitare il museo Lenin, e per giunta nel giorno di chiusura
 
Il letto dove è nato Lenin.

 
ESOTISMO 4
 
Nel rettilineo senza sbavature che da Astrachan’ ci sta portando ad Elista, a risvegliarci dal torpore è la crosta di sale a perdita d’occhio lasciata da un lago evaporato
 
Distesa di sale (lago evaporato. Attraversando la steppa)
e ombra di Anna.

 
GROTTESCO
 
Al mio occhio addestrato in epoca sovietica provoca una stupefatta esultanza, all’interno dell’antico mercato coperto di Saratov, quell’inarrestabile profluvio di carni pesci scatolame e frutta e alimentari di ogni tipo che dice che sì, è vero, certe memorie forse andrebbero accantonate
 
Saratov, mercato coperto (1914 e 1915 sulla facciata)

 
L’INESPRIMIBILE
 
All’uscita da una chiesa di Vecchi Credenti, a Rostov, una custode vestita come ai tempi che furono ci invita a tornare, l’indomani, “così, per stare un po’ insieme”:
 
Venite, mi raccomando, ci sarà anche da mangiare…!

 

Oksana Shachko, morte di una femminista.

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di Nadia Agustoni

Alla fine quel “siete tutti finti”, sulla sua pagina Instagram, è il suo testamento. A 31 anni ci ha lasciato, lo scorso 23 luglio,  Oksana Shachko, co-fondatrice del movimento Femen, suicida a Parigi in un appartamento piccolo e spoglio dove viveva e dipingeva. La politica l’aveva delusa e l’arte non l’ha salvata. Nella sua rivolta e nella sua sofferenza è evidente la sproporzione di forze tra la ragazza che affrontava la polizia a seno nudo e dipingeva arcangeli femmina e altre figure, ispirandosi alla tradizione delle icone, e un patriarcato tornato, negli ultimi decenni, offensivo e soverchiante coi fondamentalismi e le destre, ma non da meno nelle varie anime della sinistra.

Le Femen le aveva lasciate nel 2013 e con l’attuale leader Inna Shevchenko sembra non ci fossero più contatti, ma era rimasta vigile e combattiva. Nel film documentario di Alain Margot del 2014 “Je suis Femen” Oksana racconta della prima loro campagna: “L’Ucraina non è un bordello” e di come volessero difendere l’immagine delle giovani connazionali spesso costrette ad emigrare e quindi preda della tratta della prostituzione o di rapporti di potere fortemente diseguali con uomini a cui faceva fin troppo comodo avere a disposizione ragazze povere e ignoranti. La caduta dell’Unione Sovietica tra le molte macerie si è lasciata dietro una scia di umanità profanata e schernita, a cui le Femen hanno restituito la voce.

Dal 2008 le loro azioni hanno conquistato i media di tutto il mondo, facendo discutere e dividendo gli animi, anche perché l’idea di creare il gruppo era di un uomo, tale Viktor Sviatski che cercava facile pubblicità scegliendo le militanti più carine e giovani. Per questo e altri motivi non a tutte/i sono piaciute, troppa aura teatrale, anche secondo la sottoscritta, anche se non sfuggiva quel senso dimostrativo appartenuto al primo femminismo. Anna Hutsol, un’altra delle co-fondatrici del gruppo, parlando di Oksana Shachko, all’annuncio della morte l’ha definita “La più coraggiosa e la più vulnerabile”.

Le leader riconosciute erano, inizialmente, Oksana Shachko, Anna Hutsol e Sasha Shevchenko e volevano semplicemente giustizia per le donne e la fine delle discriminazioni. In ogni gruppo politicizzato gli abbandoni, il cambiamento personale e idee discordanti portano poi su altre strade. Una vignetta di Charlie Hebdo che saluta Oksana con un arrivederci, mentre sullo sfondo una gruppo di nuove Femen mette in fuga l’ordine costituito fa quasi il punto sulla situazione attuale.

Il suicidio è un’affermazione forte, ma insieme evidenzia che molti fattori vi concorrono. Per Oksana Shachko oltre alle probabili delusioni esistenziali potrebbero avere influito la povertà estrema (nel suo appartamento c’era solo l’armadio a cui si è impiccata) e quella sofferenza che viene dalla solitudine unita a un impulso spirituale non chiaro. Da giovanissima voleva farsi suora, i suoi la fecero desistere e la vita e l’abitudine alla riflessione la portarono altrove. I suoi dipinti sono un segno della sua indipendenza, ma anche del suo isolamento. Quale tormento, tra realtà e arte, l’abbia infine convinta di non farcela più non lo sapremo mai.

Si è lanciata contro il patriarcato con l’orgoglio di una giovinezza bellissima e con parole di una semplicità folgorante. Difficile immaginare, solo pochi anni prima apparissero le Femen, quanto la visione di un seno nudo potesse assumere un significato non ludico in un mondo occidentale che vive semi-svestito.

Il video in cui si vedono dei poliziotti rincorrere un’attivista con una grande mantella nera per nasconderla agli occhi di tutti, mi ha fatto pensare a quanto sia vecchio e nuovo l’apparato censorio. Una censura è sempre una sconfitta, è lì a dire che una crepa è stata scoperta.

In un sistema che si mostra come onnipotente sono, guarda caso, i corpi delle donne a indicare cosa c’è dopo l’irrealtà dei primi piani di chi ci governa. Siano il Vaticano, il politico di turno o gli ayatollah di ogni sorta, è la loro ossessione verso un corpo che sentono anarchico e desiderabile a mostrarli per ciò che sono: esseri violenti che solo esercitando la violenza, la sottomissione e il controllo possono stare in piedi.

Il desiderio di controllare qualcuno mostra che si vuole usarlo. È la stessa sorte riservata agli animali e agli oggetti. Nel desiderio maschile pornografico le donne sono un miscuglio di animale e oggetto e insieme qualcosa che sconfina nella servitù della gleba o nello schiavismo. Del resto i lavori di cura sono un pre-inferno per molte ed è emblematico che chi vuole cambiare il mondo non pensi mai di cominciare da qui.

Il riscatto per la morte di Oksana sono le vite di tante donne a cui abbiamo dovuto guardare e a cui qualcosa è stato restituito, ma è ancora troppo poco. Troppe vite infrante chiedono una giustizia senza se e senza ma. Troppe vite ridotte al puro lavoro di servizio, sfruttato e sospinto nell’oblio, sono uno schiaffo a queste democrazie in cui si cambia nome all’oppressione per un ulteriore feroce inganno, mentre la sostanza resta immutata e la presa in giro è certa.

Cereali al Neon

1

di Gabriele Merlini

«Il futuro che ci aspetta è diventare bidimensionali?»

Ci penso un po’. La speranza, naturalmente, sarebbe evitare una simile opzione: rimango affezionato alle mie curve e questa blanda idea di tridimensionalità che abbiamo. Tuttavia qualche dubbio è lecito tenerselo, così proseguo nella lettura.

Contrarsi. Vibrare. Espandersi: ecco le tre sezioni cui è organizzato Cereali al neon, secondo romanzo di Sergio Oricci (Effequ 2018) che ha per sottotitolo «cronaca di una mutazione». Poiché di trasfigurazioni, metamorfosi e cambiamenti tratta, anche se da un’ottica decisamente particolare.

Le forme di vita giovani evolvono costantemente per sopravvivere e nel protagonista – che avverte una qualche urgenza di transitare attraverso molteplici stadi di consapevolezza – inciampiamo mentre galleggia dentro una teca di plexiglas con il peso sugli zigomi di un visore. Sassolini di musica elettronica lanciati in un oceano di linee rosse e piramidi traslucide attorno al corpo. Il gioco ultra-tecnologico è fino dall’incipit un ping-pong di aperture e chiusure con l’esterno, la materialità di un corpo che diventa qualcosa di nuovo, oppure è la realtà circostante che si plasma in altro. «L’immagine residua di me» a farsi «ricordo sciolto in un’acqua di cui non ricordo la consistenza. Sono una perla elettrica, nera» scrive Oricci, «con attorno una membrana impazzita. Più simile a una cellula, a un uovo, che a quel sottoprodotto della specie a cui, da qualche parte, ancora appartengo».

Come uno strano videogioco, Cereali al neon è dunque la cronaca di passaggi per livelli crescenti, l’interazione tra uomo e macchina – settore nelle arti bazzicato da diverso tempo ma che evidentemente presta il fianco a rinnovabili declinazioni – virata alle più attuali tecnologie (social compresi) e suggestioni. Spunti prossimi, la quotidianità più intima fatta di paure e relazioni ingarbugliate, assieme ad argomenti astratti, in apparenza lontani. Chiuso nella bara trasparente cui ogni tanto si ficca, il protagonista Silvano Rei cerca infatti comprensione, amore – «non sesso» sottolinea con specchiata onestà – e contatto con gli altri al fine di riscoprire sé stesso («quando ho perso la capacità di provare tenerezza?» è una tra le domande che si pone nelle fasi di emersione e sulla quale servirebbe riflettere, specie in tempi brutali tipo i nostri.)

Materiale scivoloso affrontato però con dimestichezza, un’apprezzabile propensione per i dialoghi (alcuni lunghissimi ma raramente faticosi) e capacità descrittiva: dall’arte classica al pop di più ampio consumo, i riferimenti e i parallelismi tra le pagine finiscono non per essere zavorra quanto utili momenti chiarificatori.

Cereali al neon è il flusso di coscienza di un tizio che decide di reinventarsi in profondità e con ciò creare nuove percezioni di quanto lo circonda, il rapporto con una donna che sembra conoscerlo al meglio e provare un piacere particolare a sistemarlo con cura sopra la graticola («è davvero questo, l’amore? Ne avevamo sentite tante, ma mai nessuno ce l’aveva descritto così. Due corpi in fusione, in viaggio verso un rapidissimo e doloroso decadimento. Ci destrutturiamo a velocità supersonica», noi.)

Da persona vergognosamente ignorante al riguardo, solo di recente ho scoperto un paio di cose: specifici punti fermi del cyberpunk – estetica decadente, linguaggio contaminato, innesti tecnologici artificiali nell’organico – e l’esistenza di una filosofia chiamata transumanesimo, abbreviata talvolta con la buffa formula farmaceutica >H o H+ o H-plus.

Com’è ovvio che sia, non saprei quanta consuetudine Oricci abbia con simili generi, né se pensi o meno di afferirci in qualche misura (a occhio: no) però Cereali al neon si direbbe allo stesso momento opera ben radicata in una tradizione e testo indipendente, ibrido e coraggioso specie in tempi di strazianti discorsi sulla massificazione del prodotto editoriale. Sotto alcuni aspetti distinguibile e attuale, quindi da accogliere (persino per i neofiti di trattazioni similari) come un segnale sul serio positivo.

Vincenzo Frungillo: lo spazio della poesia nel tempo della dispersione.

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di Vincenzo Frungillo

Nonostante la sua natura antologica Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione segue un filone preciso della produzione poetica del nostro paese, qui infatti si  prova a ragionare sulla poesia successiva agli anni zero con una precisa vocazione poematica. Questa tensione massimalista, troppo frettolosamente considerata minoritaria, è portatrice di un’esigenza specifica: lo spazio poetico non è più la sola espressione dell’io o la messa su carta di un’elaborata operazione linguistica, è anche il tentativo di dare forma alla prismatica esperienza del mondo. La sfida quindi non è assecondare la proliferazione dei segni, atteggiamento tipico della sensibilità postmoderna, ma tracciare una propria cosmogonia. Tale tendenza, detta genericamente neo-epica, non è un recupero inattuale della tradizione, pur mantenendo vivo il dialogo con gli archetipi della tradizione letterarie, essa invece prova in modo programmatico e consapevole a rimettere in gioco il senso del testo. Se la memorabilità dell’epica antica nasce all’interno dello spazio comunitario per scongiurare l’oblio causata da una forza estranea, oggi la dispersione è  rappresentata dalla proliferazione indistinta e indifferenziata dei segni, ci interroghiamo sulla fine della poesia e in genere sulla fine della comunità letteraria, proprio perché ci sentiamo sopraffatti dal compiersi del destino occidentale tecnologico e ideologicamente nichilista. Il rischio riguarda la fine dello spazio della parola come depositaria di una memoria di specie, affrontarlo significa costruire opere complesse, ma rigorosamente strutturate, proprio come farebbe un architetto o un artista che lavora in relazione con l’ambiente che lo circonda. La forma testo diventa un elemento fondamentale da opporre alla disseminazione. A questo punto dovrebbe essere chiaro che se diamo per valida la definizione di neo-epica, non parliamo di poesia che evochi fatti  storici trascorsi e appartenenti al passato, ma di poesia programmatica, volta al futuro, che ha però memoria della possibilità della dispersione. Ciò che dobbiamo recuperare nella parola è il rischio della perdita e quindi il problema del senso. Negli ultimi anni molti autori si sono cimentati con la composizione poematica, hanno abdicato alla scelta del frammento lirico o raccolta di versi, questa esigenza comune non può essere una mera coincidenza, di certo ci sono ragioni extraletterarie che hanno motivato questa scelta.

 

Il modo biologico dell’epos

In un breve scritto autobiografico Pagliarani ci ricorda che i modelli per la scrittura poematica in Italia, a partire dagli anni quaranta, sono per lo più stranieri, The Age of Anxiety di W. Auden, The Waste Land di T. Eliot e i Cantos di E. Pound; sulla base di queste nuove spinte, a riparo da equivoci formali nati durante il ventennio fascista, torna così anche nel nostro Paese la necessità di scrivere poemi. In Italia vengono pubblicati i poemetti di Pagliarani, di Giancarlo Majorino, La capitale del nord, decenni dopo, negli anni sessanta, Roberto Roversi, scrive Dopo Campoformio e Descrizioni in atto, Roberto Sanesi scrive L’improvviso di Milano, Giorgio Cesarano dà voce ai suoi paesaggi disperati e raggelati di Il sicario e l’entomologo, Ghigo vuole fare un film e i Romanzi naturali, Andrea Zanzotto realizza quello che forse è il suo libro più complesso, Il galateo in bosco, più di recente Antonio Porta pubblica Il giardiniere contro il becchino, Giuliano Mesa scrive Poesie per un romanzo d’avventura e Tiresia. La rinascita dell’esperienza poematica cerca una relazione possibile tra io e mondo, il testo diventa un raccoglitore nel quale definire i segni rilevanti di un’esperienza personale e collettiva. Il punto teorico da affrontare è la modalità di relazione con il mondo. Torna l’interrogativo sullo spazio ossia sulla abitabilità della parola. Abbiamo visto come la memorabilità, il corpo e lo spazio fossero tre pilastri dell’esperienza poematica antica, come in Elio Pagliarani fossero evocati per essere messi in crisi alla luce di nuove realtà teoriche e storiche, fino ad essere ridotti a flebile traccia; ora è possibile restare su questo passaggio seguendo le parole di Gianfranco Contini che aggiunge una significativa indicazione sulla commistione dei tre capisaldi antichi e sulla loro permanenza nell’esperienza poematica di oggi quando parla di “modo biologico”:

«Il segreto, di questo modo biologico di Dante consiste nella sua ugualmente intensa partecipazione, e addirittura nell’identificazione successiva con gli oggetti, perfettamente chiari alla coscienza.»[i]

La capacità percettiva del poeta è il mezzo che permette una poesia “locale”, ossia poesia degli spazi e delle concrezioni di realtà. Alla base di questa facoltà narrativa c’è l’equilibrio tra “lo stadio liquido e lo stadio solido della materia”[ii],  non un’assoluta liquidità, cosa che porterebbe ad una spirale barocca dell’io che collassa su se stesso, né un’assoluta solidità, fonte di indistinzione dalla realtà, il rischio cronachistico del racconto. L’autore deve farsi carico, e risolvere formalmente, il contrasto tra il fluire degli eventi biologici, cognitivi, percettivi, e lo spazio condiviso, lo spazio simbolico o culturale in cui è calato. Si potrebbe aggiungere che le due deviazioni possibili si scontano nella poesia contemporanea con il biologismo, e di conseguenza con la retorica del corpo e della carne che sostituisce quella dell’io e dell’anima, o nella depressione della parola a favore del reale, il feticcio dell’oggettività o della realtà. L’equilibrio sta proprio nella relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e storia. L’intento critico di Contini è di riabilitare il poema dantesco, messo in discussione negli anni addietro dalla critica crociana. Croce aveva interpretato l’elemento descrittivo della Divina Commedia come una cornice, la struttura, o addirittura un limite della capacità lirica dell’autore fiorentino. Le descrizioni del “poeta divino” erano per Croce un momento di “pausa” dal suo magistero lirico[iii]. La grandezza di Dante sta invece, a parere di Contini, proprio nel saper unire la temporalità esistenziale, quindi l’intuizione, con lo spazio storico. I personaggi e i luoghi danteschi sono il frutto di questo equilibrio, sono il nodo in cui si innesca, si incardina il rapporto tra vita e mondo, tra vita e storia:

«La realtà su cui la versatilità e la disponibilità di Dante si precipita è storicamente sentita anche quando è eterna e ripetibile, tanto più manifesta allorché si scende verso le entità individualmente determinate.»[iv]

Stando alle indicazioni di Contini, Dante è riuscito a riscattare il singolo dalla caducità della Storia, allo stesso tempo però ha sottratto la Storia al pericolo della monumentalità. La temporalità del bios e della storia si attivano l’un l’altro nella relazione. In questo passaggio del testo di Contini si intuiscono ragioni politiche oltre che formali. Furio Jesi ci ricorda che funzione avesse durante il ventennio fascista la retorica del milite ignoto. Tra le due guerre il soldato senza nome diventa l’eroe della nuova collettività, la ricaduta politica di questo processo è evidente: le politiche totalitarie eludono il bios, la temporalità del singolo, per accomunare la collettività nella figura di un corpo anonimo, lontano nello spazio, privo di tempo, intangibile e per questo idealizzabile. Solo così la politica può essere trasformata in retorica, la tradizione in kitsch sublimato. Per questo motivo, ma non solo, tra le due guerra, i poeti italiani hanno guardato con sospetto alla grande tradizione poematica, hanno adottato misure poetiche volte all’ermetismo e, per così dire, all’economicità dei mezzi; si sentiva nei poemi della tradizione, nella narrazione in versi, l’eco della retorica mortifera dell’unità nazionale. Dopo la seconda guerra, i poemi della tradizione sono stati letti tutt’al più sotto la luce della nuova èra dei senza patria (Giorgio Caproni, Il passaggio di Enea). Scrive Jesi:

«Per la stessa ragione il cuore, il nucleo pesante, della Mostra della Rivoluzione fascista (1932-’35) era il Sacrario dei Martiri che recuperava al regime l’aura sepolcrale della retorica del Milite Ignoto, ma che nello stesso tempo per una carenza di stile e, se così si può dire, di temperatura mitologica risultava molto più un baraccone allestito con destrezza di coreografi, che il santuario o la cripta di una religione di morte». [v]

Del resto, già negli anni venti, il poeta russo Osip Mandelstam, nella sua stimolante produzione critica, sottolineava un aspetto del poema simile a quello messo in evidenza da Contini. Mandelstam parla della “chimica organica” di cui è fatto il verso di Dante, definisce Dante un “direttore chimico”. Nella Divina Commedia non esistono metafore ma condensazioni chimiche, tutto il poema è un organismo vivente che si fa narrazione, le terzine dantesche sono il camminare stesso del poeta:

«Perfino una sosta è una concentrazione di moto accumulato: la piattaforma d’una conversazione viene creata con sforzi da alpinista. Il passo –espirazione e inspirazione- è il piede del verso. Una falcata che deduce, vigila, sillogizza.»[vi]

Per Mandelstam il verso, la forma del poema deve misurare la materia e deve condensarla: il metro, la scelta formale, deve essere rigoroso perché la posta in gioco è la stessa relazione tra bios e Storia, è la forma che mantiene in potenza il rapporto tra temporalità e mondo:

«Dante non entra mai in singolar tenzone con la materia senz’aver predisposto un organo per agguantarla, senz’essersi armato di uno strumento per misurare il tempo che è trascorso goccia a goccia o si è liquefatto. In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono portatori di una speciale funzione attiva.»[vii]

L’Ulisse omerico è interpretato come il tentativo dell’uomo di afferrare il tempo in quanto storia, mentre la parte animale, il nostro limite naturale contrasta la sfera simbolica con una forza che possiamo chiamare filosoficamente alterità. La radice che richiama l’uomo al suo limite, non è più quindi divina o religiosa, non si sublima più nelle Idee, ma è naturale. Il rimando e l’equilibrio tra le due parti permette la scrittura e le dà potenza. In questo modo di può pensare di scongiurare le retoriche totalitarie del corpo idealizzato, di qualsiasi segno esse siano, anche la retorica a noi più familiare della virtualità assoluta dei soggetti sociali. È chiaro quindi che l’aspetto biologico, compresa la deteriorabilità dell’organismo vivente, è elemento consustanziale al mistero della parola. Il poetico è ricordo dell’incrocio di simbolico e naturale. Per questo motivo le pagine di Mandelstam e Contini valgono anche per lo scenario attuale:

«Nel canto di Ulisse la terra è già rotonda. È un’esaltazione del sangue umano, nel quale è contenuto il sale dell’oceano. L’inizio del viaggio è iscritto nel sistema cardiovascolare. Il sangue è planetario, polare, salino. Con ogni circonvoluzione del proprio cervello Dante disprezza la sclerosi, come Farinata disprezza l’Inferno.» [viii]

Nei personaggi del poema la storia torna ad essere con-divisa esperienza del tempo, la storia viene messa, per così dire, “sotto giudizio”. Leggiamo ancora nelle pagine di Mandelstam:

«Lo stesso metabolismo terrestre si compie nel sangue […] Il tempo per Dante è il contenuto della storia, intesa come un atto unitario e sincronico; viceversa il contenuto della storia è un con-tenere il tempo, un sostenerlo in comune da parte di compagni, co-cercatori, co-scopritori del tempo stesso.»[ix]

Dal punto di vista formale, la tendenza poematica degli anni del nuovo millennio non stabilisce un vero e proprio canone, perché la stessa forma-testo, il metro, la strofa e il ritmo, costituisce un mondo a sé stante, un mondo possibile. Anche se si parla molto di neoepica, di romanzo in versi, si cerca una definizione adatta alla tendenza, non direi antilirica (l’anelito lirico è presente anche in queste opere), ma anticonfessionale della poesia italiana più recente, sembra che la differenza la faccia il rigore con il quale l’operazione in versi riesce a creare un meccanismo complesso, chiuso in sé, ma al contempo allegorico. Qui, tutt’al più, si può solo attestare una esigenza comune che ha dato vita nell’arco di pochi anni ad una produzione diffusa di opere poematiche, di opere mondo. Si torna quindi a narrare con strutture forti e organiche, torna la necessità d’indagare la Storia, il tempo comune. Gli esempi da fare sono molteplici e ci si limita a segnalare alcuni dei più significativi della recente produzione italiana.

Ivan Schiavone, con Cassandra. Un paesaggio, ripropone il personaggio mitico-letterario, sventurata figlia di Priamo, sorella veggente di Paride ed Ettore, con una della opere più complesse e ricca di richiami del panorama poetico a noi più prossimo. Il testo, diviso in quattro parti descrive la visione della sacerdotessa destinata a profetizzare catastrofi, e a non essere creduta. Così il viaggio d’inverno (il Winterreise) della prima sezione, richiamo esplicito al libretto di Müller scritto per l’omonima opera di Schubert, è privo di una vera meta. Procediamo tra i versi a gradoni della composizione come se avanzassimo su lastre di ghiaccio franti o sul punto di spezzarsi del tutto. Basta leggere l’inizio di questa sezione per capire:

dopo che (dopo che

neanche una parola fu

se non rotta

dopo di che neanche una parola fu retta

serrata la porta che alle tue spalle

richiuso, imboccata la via

in indistinto sfuma il contorno preciso del tuo corpo e affonda

in un paesaggio d’ombre

dal mondo giunge un’eco labile

solo a tratti percepibile

come un brusio che piange

un rumore bianco[x]

La rinuncia al significante si traduce in un percorso di avvicinamento graduale ad un oikos irraggiungibile. Cassandra è la donna privata degli affetti familiari, privata della casa, costretta a girare il mediterraneo avendo visioni di catastrofi, il suo cammino non fa altro che rinnovare la misura della lontananza; questo movimento ad elastico circoscrive uno spazio in cui il topos epico e il tragico si uniscono ad una sensibilità del tutto contemporanea. Ciò che è in gioco nella composizione, più che uno sfoggio delle possibilità tecniche della poesia, tanto caro ai postmoderni, è la necessità di  un disegno riconoscibile del mondo, diremmo un ethos, solo a patto però che questo termine venga colto nella pienezza del suo significato e si ricordi l’allusione del suo etimo al luogo in cui vivere. Schiavone reitera per l’intero libro le spezzature del verso tradizionale (esempio su tutti l’endecasillabo con l’accentuazione di quinta) per creare un paesaggio desolato, un paesaggio geografico, ma anche psichico, biologico e storico su cui noi tutti ci incamminiamo:

cos’è che in noi             che fa noi                    s’è rotto?

che cos’è (le parole

che cos’è che rompe le parole?

si arrestano sulla soglia

e non entrano

perché sulla soglia?

perché non entrate e state

seduti sullo scalino?

quando passò lo sciancato

ma anche prima che lo sciancato passasse

le parole erano (anche prima che lo sciancato passasse

le parole erano rotte?

sì, le parole erano

anche prima

anche ora

e in mezzo

la soror mystica venuta con calzari fenici e con voce

(tu che ascolti sai dire se fu vera agnizione?

Viola Amarelli, in Notizie dalla Pizia, compie un’operazione poetica accostabile nel tema a quella di Schiavone, così come possiamo leggere dalla prefazione di Gianmario Lucini: “Il vero protagonista del testo poetico si rivela un ambiente sociale e umano senza tempo, quello di una civiltà che si muove molto più adagio di quanto rappresentino le scansioni storiche contraddistinte da date, avvenimenti cruciali e grandi eventi che in qualche modo formano e fermano il corso della storia per tappe e coordinate spesso arbitrarie. Questa narrazione in versi si svolge in monologhi: le indovine si presentano, raccontando il loro tempo ed esponendo il pensiero magico che attribuisce loro un ruolo, una funzione sociale, a prescindere dalle coordinate temporali e persino dalle loro stesse intenzioni. È, insomma, il mondo mitico-magico che crea le profetesse per una sua esigenza di stabilità volta a evitare la propria dissoluzione”[xi]. Scrive in uno dei prosimetri Viola Amarelli:

E anche dopo, quando tutto storicamente è finito, decaduto in siccità, niente è perso: benché nell’evidenza foucaultiana che di metamorfico e a tenuta perenne c’è solo il potere.

XXII – Finale di partita

Muta la fonte, desolato il tempio,

secco l’alloro

il dio, deo gratias, non abita più qui

chiusa la faglia rimane cicatrice

lembo d’orgoglio, demone nutrice.

Curiamo olivi, tenere le foglie

spremiamo i frutti per addolcire i gironi

alla brace rovente sotterranea

liberamente scaldiamo figli e cuori.

Più non sappiamo,

ci dicono i ricordi che nulla è perso

come mai nulla si perde, solo il potere

è trasmutato altrove dove ugualmente

nasce e, nel vivere, muore[xii].

I termini “faglia”, “cicatrice” rendono bene il confinare di mondi differenti, le stesse espressioni tornano significativamente nell’opera d’ispirazione eliotiana di Roberta Bertozzi, Gli enervati di Jumièges. Quest’ultimo è un testo esemplare per la capacità di porre domande al contemporaneo tramite una vicenda risalente all’alto medioevo. La storia è quella dei figli di Clodoveo II, colpevoli di aver cospirato contro il padre e per questo condannati ad andare alla deriva su una zattera con i tendini delle gambe bruciati. La simbologia del poema è già indicativa: il padre, il Re, che condanna i figli all’ignavia. La tradizione schiaccia, annichilisce[xiii]. Bertozzi scrive un’epica del rivolgimento[xiv], il suo dramma in versi suggerisce un ulteriore passaggio rispetto alla scomparsa dei padri e del corpo esemplare; qui i padri stabiliscono una tanatologica, vampiresca, relazione con i continuatori della specie.  La forza cantata dall’epica degli anni sessanta e settanta ora ha una natura distruttiva:

Intorno non è la decadenza

fino a quando la faglia non prende a puzzare

e ci si chiede quale motivo, dove fa – tarlo.

Dietro il perimetro del labirinto,

dietro le figure-contorno stanno altri muri, altri nomi,

spesso altro e ancora

limo.

Difficile dire

quale carosello ci si pari davanti.

[…]

Heimat! Quanti ne mancano all’appello – quanti

nel repertorio dell’Istituto Luce ingialliscono trinciati

a tocchetti, a puntate, per le lame della moviola?[xv]

La decadenza non è tale fino a quando la “faglia non riprende a puzzare”. La faglia è la matrice temporale che il nostro organismo porta nella narrazione collettiva dei fatti. In questo incipit c’è un vero e proprio monito: “Quanti ne mancano all’appello?” Quanti vanno salvati dall’ingiallirsi della pellicola dell’Istituto Luce? Ci si perde gradualmente per “tocchetti”, “a puntate”: l’anestesia è l’indolore. L’interrogativo resta centrale.

Federico Italiano con I mirmidoni, poemetto d’ispirazione audiana, ambientato nella pinacoteca di Monaco di Baviera, appronta la messa in scena di una nuova arca russa (il riferimento è al film di Sokurov) in cui custodi del museo, giovani visitatori delle sale, e i guerrieri di Achille intrecciano le loro vicende.

Altrove infuriava la battaglia.

Rosenstoltz, il custode dalle cravatte cobalto,

tornò nelle sue stanze

e Maerten ordinò la pils pomeridiana.

«Hai letto l’articolo dello SPIEGEL sull’ambra?

Che roba! Due paleontologi tedeschi

Hanno beccato un geco,

tutta una testa ben conservata. Un buon pezzo,

più grande di un pugno.  Resina pietrificata,

un indurimento di milioni di anni.»

«E qui torna il Baltico. Non ti dicevo che lì girano

forze strane, un magnetismo raro?»[xvi]

I calchi linguistici sono qui palesati come stratificazioni geologiche da cui emerge la voce del poeta e la scrittura è cesellamento di una realtà calcaria. Si fa ancora più chiara la poetica di Italiano nella raccolta L’impronta, titolo di per sé emblematico, che si apre con un traduzione dal Richard II di William Shakespeare:

E non possiamo dire nulla nostro

se non la morte e questo

calco d’infeconda terra che serve

 

da collante e da guaina alle nostre ossa.[xvii]

I codici e i miti del passato sono il calco che bisogna tradurre per sostanziare la nostra forma. Il dialogo con la lingua e la tradizione è qui presa d’atto della funzione originaria della parola, ma anche in questo libro c’è una doppia lettura, l’impronta è quella del padre, il testimone che abbandona il proprio transito terrestre per farsi voce in lontananza. Italiano ritorna sul lascito della tradizione antica e ritrae Aiace, l’eroe più solitario e severo della guerra di Troia, colui che rimane fedele ai riti d’onore, e lo raffigura sulle rive dello Scamandro mentre cerca la porta del tempo che trasbordi il passato nel futuro.

 

In verità, sono solo un po’ stanco,

respiro dal naso, seguendo l’onere

dei bronchi con riguardo quasi clinico.

 

Siedo su una panca di legno, alla destra

del fiume, dove biciclette e corpi

eliotropici striano la quiete,

 

mentre i volani perlustrano il verde

-topografia pensile

di una placida domenica e fragile.

 

Aiace è morto. Sono cinque estati

ormai che sono morto.

Come fuggono i vuoti

 

di bottiglia nelle mani degl’uomini

raccoglitori …

I sassi mi mancheranno – l’ottusa

 

resistenza della selce sul letto

dello Scamandro – e gli arrosti frugali

che precedono vittorie o disfatte.

 

Ma non c’è più spazio per chi arrossisce

a punture d’orgoglio: questo è il tempo

delle giustificazioni, degli alibi.

 

In verità, sono calmo e respiro

dal naso. Odore d’erba e di crema

solare: Aiace è morto.[xviii]

 

La poesia per dirla con le parola di Benjamin assume “il compito di intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia della storia”. Così fa Alessandro Rivali, che con La riviera del sangue, titolo dantesco, e La caduta di Bisanzio cerca una soluzione messianica agli orrori della Storia, partendo dalle catastrofi antiche per arrivare a quelle a noi più vicine e per il poeta personali. In La caduta di Bisanzio fanno da soggetto poetico le città distrutte da catastrofi, Pompei, Bisanzio, Persepoli, Atlantide. Rivali attraversa queste vicende e con tono poundiano e  traccia una linea verticale del tempo:

Raccontami ancora di Plinio,

l’ostinazione della scrittura,

la prua verso la scogliera.

 

Come avrebbe fissato i segni,

impressioni, fatti notevoli

e la fine giunta inattesa.

 

Ricordami la seduzione del fuoco,

il vortice dei vapori, il veleno

che serpeggiò tra le caviglie,

l’aria tramutata in siero.

 

Padre, adesso che non puoi,

riprendi il filo del sangue versato,

la danza macabra di Barcellona,

le lingue di fiamme dei rosoni

e la fuga dei Rivali nel ’36.[xix]

 

Verso Itaca[xx] di Daniele Ventre (pubblicato nel 2015), opera ambiziosa e mirabile per perizia metrico stilistica, racconta la storia di Telègono, figlio di Circe, alla ricerca del padre. La tematica del rapporto filiale è qui restituita con una prosodia che “tende a restituirci le sonorità dell’esametro “eroico” dell’epica greco-romana”, per dirla con le parole di Viola Amarelli.[xxi]Anche in questo caso l’ucronia mette insieme ambientazioni e tematiche classiche con scenari postmoderni, i videogiochi o le saghe fantasy.

Il poema per recitativi Cefalonia di Luigi Ballerini narra l’eccidio dei soldati italiani sull’isola greca successivo all’armistizio dell’8 settembre del 1943. Se si evita la monumentalità del ricordo, cosa resta? Ballerini mette in scena una commedia, nulla di quell’eccidio ha il tono alto della narrazione epica, assume piuttosto la modalità di una cronaca calcistica, come se la conta dei morti fosse il risultato di una partita tra Italia e Germania. Qui la storia, la violenza, la forza, il sangue, chiede di essere osservata, ma non si traduce mai in tragedia. Così recita una delle due voci del poemetto, l’italiano Ettore B. :

“l’acquisto del senso tragico da parte

di genti meccaniche, confinate per secoli al romanzo,

è l’opposto dell’insabbiare, azione creata per ribadire

che non è accaduto quello che non sarebbe mai dovuto

accadere”. Oggi specialmente, che l’uomo si evolve da

burocrate a faccendiere. Per la resa dei conti non resta

che aspettare la volta buona, leggere, senza battere ciglio

il bollettino di guerra  dettato da un dio che si estingue,

vulgato dai più ricamati tra i capitali di una fedelissima

(inceppatissima) legione.[xxii]

Luigi Nacci, con il suo Poema disumano, compie un’operazione di metricizzazione della storia più recente, calando eventi tragici in un’atmosfera non dissimile da quella delle lasse di Ballerini. Anche qui c’è una percezione fonico sillabica degli eventi condivisi, una metabolizzazione della storia. Ciò che qui manca rispetto ad altre esperienze è l’organizzazione strutturale del poema. La cornice è la stessa cantabilità, fruibilità pubblica del testo. Diverso invece il discorso per il suo lavoro più recente in cui la fabula è il ritrovamento di un manoscritto in Sud America passato per le mani di ex-nazisti sfuggiti dall’Europa (Mengele, Priebke, Eichmann). In questo testo troviamo inni, canti e madrigali dei criminali di guerra. Autore della scoperta, della cura e della traduzione del testo è lo stesso poeta che qui compare sotto la firma Dott. Luigi Nacci. Anche questo espediente è il modo di affrontare un’interpretazione diretta con il male[xxiii]. Si potrebbero fare tanti altri esempi, come il Canto di una ragazza fascista dei miei tempi[xxiv] di Anna Lamberti Bocconi,  un lungo poema confessione che dà voce ad una donna caduta nell’eversione di destra durante gli anni settanta; o La stazione di Bologna[xxv] di Matteo Fantuzzi testo che dà voce alle vittime della strage del 2 agosto del 1980 quando una bomba messa dall’eversione di destra in accordo con i servizi segreti fece saltare in area parte della stazione ferroviaria del capoluogo emiliano causando 85 morti e duecento feriti. Francesco Filia con il suo poema in frammenti La zona rossa[xxvi] racconta invece per lasse e frammenti poetici gli scontri tra manifestati e polizia per il G8 di Napoli del maggio del 2001, fatti che avrebbe anticipato quelli più clamorosi di Genova e che sarebbero poi quasi del tutto dimenticati dopo l’evento epocale dell’11 settembre. Proprio alla data simbolo della generazione a cavallo tra i due millenni è dedicato il lavoro di Federico Scaramuccia Come una lacrima[xxvii], che con grande perizia metrica ripercorre gli eventi dell’attentato di New York restituendo l’ambigua sensazione dello spettacolo della morte tanto caro a Baudrillard. La lacrima del titolo è sia la dolorosa compassione verso le vittime della tragedia che l’obiettivo della macchina da presa, così come viene chiamato nel gergo televisivo. Il metricismo ha la capacità di restituire l’ambiguità dei media, il sentimento tragico e luttuoso è restituito con l’alta precisione tecnica, è un dolore filtrato di secondo o terzo livello. In questa corrente di rilettura di fatti storici più recenti rientra il bel poema di Marilena Renda Ruggine[xxviii], un racconto a più voci sul terremoto che distrusse Gibellina nel 1968. Le voci dei testimoni, con accenti e complessità linguistica differente, formano le lasse del testo, il poemetto è una Spoon River meridionale con i toni mitici del Vittorini di Conversazione in Sicilia. Anche Novembre di Domenico Cipriano è un poema per frammenti incentrato sul terremoto che distrusse l’Irpinia nell’ottanta. Il testo ha una struttura interna meditata che asseconda una numerologia carica di senso, è lo stesso autore che ci dà i parametri per decifrarla: «ventitre poesie come la data del sisma, tutte composte da “stanze” di sette versi (poesie eptastiche) e un prologo di trentaquattro: l’ora serale che spaccò l’Italia: 7,34. Ciò accadde un novembre lontano ma sempre presente, da cui il titolo e l’introduzione di due versi (il numero corrispondente al mese di novembre)». Sullo stessa tema è lo scritto di Fabio Orecchini Per os[xxix], dedicato al terremoto dell’Aquila del 2009. Orecchini è più attento alla trama metrica e all’oralità dell’esecuzione della sua scrittura, la pagina diventa una partitura spaziale, una registrazione delle voci nascoste, che riemergono da una nuova faglia delle terra. Ma, aldilà dei più smaccati richiami alla storia, esistono altri esempi di scrittura in cui la questione centrale resta la presenza nel tempo condiviso, la presenza nello spazio. Così accade in quello che all’apparenza sembra essere un canzoniere d’amore, La divisione della gioia di Italo Testa. Il titolo del libro, oltre a citare il famoso complesso della scena new wave inglese degli anni ’80, allude al padiglione riservato allo “svago” per i soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale all’interno dei campi di concentramento, occupato per lo più da ragazze ebree. I due amanti protagonisti del libro vivono le scene del poema come se risorgesse da un perimetro di morte; tutta la narrazione, la messa in scena, è fondata sulla luce aurorale. Più che l’amore, il protagonista di questo testo è proprio la gioia, ossia il modo di guardare le cose, sapendo della loro fine. L’esperienza storica del campo di concentramento impone il modo dello sguardo sul presente.

o sulle poltrone in prima fila,

davanti a un sipario grigio

segui in allerta la scena vuota,

come una macchina nera in quadro

lo spazio deserto lo incornicia

In questo scenario la parola è mossa dalla vicinanza fisica all’altro e diventa un arto prensile appena utile a segnare i limiti del proprio ecosistema:

l’indifferenza naturale

appena ti ho lasciato torna,

emerge nel gelo animale

come una pelle mi contorna:

 

immune al mondo, freddo e ostile

striscio nel buio senza meta

con l’avambraccio irto di squame

uncino il fianco di una preda.

Lo stesso panorama disumanizzato tornerà nella raccolta i camminatori, una vera partitura modulare che riprende scenari urbani. Siamo ora all’esterno, lontani dalla camera che ha visto protagonisti i due amanti de La divisione della gioia:

camminano

rasenti ai muri

sugli autobus

si siedono tra i primi

non parlano

tenendosi le mani

si voltano

di scatto a un tratto

ti guardano

gli occhi grigi

campeggiano

poi scartano di lato

si alzano

serrando i pugni

e scendono[xxx]

Le brevi composizioni presentano soggetti denudati da qualsiasi connotazione identitaria che si muovono all’interno di un’ideale megalopoli. Il progetto poetico di Testa si chiarisce definitivamente come descrizione iperealistica del circostante, lo sguardo, la vista, è l’organo principale:

NULLA SUCCEDE PRIMA O DOPO

le sillabe sulle labbra

lambiscono le immagini

i segni nella mente

intersiano i muri

 

NULLA SUCCEDE PRIMA O DOPO

vuoto i vasi

e i pensieri maturano

lucido le foglie

e le foglie si staccano[xxxi]

Esiste una vera linea di scritti poematici che affrontano il problematico rapporto tra scienza e natura. Questi lavori allegorizzano la problematica relazione dell’uomo con l’ambiente. Nel poema Le api migratori Andrea Raos, attraverso la vicenda dello sciame di api assassine, parla dell’eccedenza della scienza ibridando i modelli classici sull’apicultura con un immaginario pop. Scrive Raos: «Nel 1956 alcuni membri della comunità scientifica brasiliana importarono in Amazzonia dall’Africa api di quel continente, più robuste, e le incrociarono ad api produttrici di miele, inoffensive, meno aggressive. L’obiettivo era rendere queste ultime più produttive dal punto di vista economico e industriale. Una terribile serie di mutazioni non volute produsse le cosiddette api assassine”».[xxxii] Il corpo debordante del testo è lo sguardo postremo che fatica a ritrovare un suo centro.

Non sarà certo questo disquilibrio

A trattenermi in vita-

Annuncia al contrario la mia fine

Puramente pura ed individuale:

in distinzione verso in distinzione.

 

Non così lo sciame.

 

Che pure muore, e finirà, dopo di me –

Soltanto un po’ più piano

I testi che sondano il limite del linguaggio in quanto limite della specie antropica sono soggetti di un nuovo florilegio a partire da Darwin[xxxiii] di Luigi Trucillo. L’eccezione alla catena evoluzionistica è una chiara riproposizione del senso profondo della poesia in quanto presa d’atto della legge naturale e sua simbolizzazione. Di certo la diffusa sostituzione della parola uomo con specie asseconda la sensazione di trovarsi in una fase epocale di crisi delle categorie umanistiche, in un grado zero fin troppo evocato in cui gli esseri forniti di parola si contendono lo spazio con le altre creature.

Accanto all’oceano

le specie

dimenticano in fretta

i propri ricordi.

La salsedine

stacca chele e membrane

come se fossero sogni,

unghie agitate

dal fantasma di un sauro.

Il sole batte,

ma l’onda è un mattino

o una notte allungata

da un ritmo

che mugghia i suoi inganni?

Il mio sguardo è spaccato

da strane libellule

come fossero nomi,

suoni sciamanti dall’acqua

che mi fermano il sangue:

può la scienza

essere aperta

fin dove la mente finisce

e poi aprirsi ancora

nel lampo, nella ventosa purpurea

in cui la visione si accelera

pulsando

in una scia di vapore?

Di nuovo

accade tutto così all’improvviso

da essere lento.

La sabbia spazzata dal vento

mi acceca,

mi penetra.

Stanotte ero estraneo

e oggi non potrò più diventare

un uomo

irrimediabilmente lontano.

Questo eccezionale libro di Luigi Trucillo ripercorre una sorta di biografia spirituale del famoso scienziato riuscendo a restituirci la complessità di una storia umana che cerca di darsi nella parola e con la parola una proprio ecosfera. Darwin viene pubblicato in Italia poco dopo Vom Schnee oder Descartes in Deutschland del tedesco Durs Grünbein che a sua volta scrive un poema epico sul filosofo Cartesio bloccato dalla neve nella città di Ulm. Anche qui come in Trucillo la biografia intellettuale di un filosofo serve per ragionare sugli strumenti umani e sulla possibilità dell’uomo di afferrare il mondo. Da prospettive diverse, si mette al centro di un poema la complessa relazione tra individuo e ambiente. Dopo l’importante opera di Trucillo arriva quindi il poemetto di Bernardo Pacini La drammatica evoluzione[xxxiv], che fa dei Pokemon, creazione fantastica e mitopoietica di origine giapponese, allegoria della rottura della linea consequenziale dello sviluppo creaturale. In questo stesso topos andrebbe forse letto il testo di Lorenza Mari L’ornitorinco[xxxv] che, con una chiara ispirazione filosofica tra Eco e Kant, pone la poesia sul piano delicato, ma decisivo, del linguaggio in quanto finzione. Questi esempi, anche se non hanno sempre una cornice unitaria che gli dia statuto di poema, sono di certo opere a tema, portatrici di una visione del mondo.

NOTE

[i]Contini Gianfranco, Un’interpretazione di Dante, pubblicato per la prima volta nella rivista Paragone nel 1965, ora in Un’idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976, p. 98.

[ii]Ivi, p. 72.

[iii]Ivi, pp. 73-75.

[iv]Ivi, p. 99.

[v]Jesi Furio, Cultura di destra, 2011, Nottetempo, Roma, p. 55. Le conseguenze di questo processo Jesi le indica nel saggio Il linguaggio delle idee senza parole, in Cultura di destra, op. cit. , pp. 158-159, dove tra l’altro dice a proposito delle celebrazioni massoniche della poesia di Carducci: «Così si estenderà il più possibile il numero degli italiani che avranno come cultura  il rapporto con un mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore, che è il passato della patria. Essi stessi diverranno sempre più culturalmente indifferenziati, massa, e un sacramento tipico di questa comunione con il valore indifferenziato sarà poi tutto il rituale culto del Milite Ignoto, significativo anche per il fatto preciso di porre implicitamente la coincidenza tra quell’anonimato e la morte.»

[vi]Mandelstam Osip, Discorso su Dante, in La quarta prosa, Editori riuniti, 1982, Roma, p. 124.

[vii]Ivi p. 126.

[viii]Ivi, pp. 139-140.

[ix]Ibid.

[x] Schiavone Ivan, Cassandra, un paesaggio, Oédipus, Salerno, 2014.

[xi]Lucini Gianmario, Prefazione a Notizie dalla Pizia, di Viola Amarelli, LietoColle libri, Milano, 2009.

[xii]Amarelli Viola, Notizie dalla Pizia, LietoColle libri, Milano, 2009. Accostabile per ispirazione all’opera dell’Amarelli è anche il poemetto di Luigia Sorrentino, Olimpia, Interlinea, 2013.

[xiii]Bertozzi Roberta, nel risvolto di copertina del suo libro, Gli enervati di Jumièges, PeQuod, Ancona, 2007, scrive: «Nel suo significato originario il termine “snervato” indicava qualcuno a cui erano stati tolti o tagliati i nervi, così da renderlo apatico, incapace di reazione. Nella disciplina della macellazione l’enervazione consiste nella recisione del midollo spinale, prassi idonea a provocare più velocemente la morte dell’animale.»

[xiv]Devo questo termine al libro di Federico Scaramuccia, Canto del rivolgimento, Oèdipus, Salerno, 2016.

[xv]Ivi, p. 33.

[xvi] Italiano Federico, I Mirmidoni, il Faggio editore, Milano, 2006, p. 13.

[xvii] Italiano Federico, L’impronta, Aragno, Milano, 2014, p. 9.

[xviii]Ivi, pp. 10-11.

[xix] Rivali Alessandro, La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano, 2010, p. 19.

[xx]Ventre Daniele, Verso Itaca, d’If, Napoli, 2015.

[xxi]Amarelli Viola, http://www.carteggiletterari.it/2016/01/22/verso-itaca-daniele-ventre-2/

[xxii] Ballerini Luigi, Cefalonia, Mondadori, Milano, 2005, pp. 47-48.

[xxiii]Nacci Luigi, OdeSS, pp. 117- 166, in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2010

[xxiv]Lamberti Bocconi Anna, Canto di una ragazza fascista dei miei tempi, Transeuropa, Roma, 2010. Una sorta di diario racconto al femminile è anche il poema di Florinda Fusco, Thérèse, Edizioni Polìmata, Roma, 2011. Qui la voce è quella di un personaggio degli anni zero e la composizione segue una scansione per cori e recitativi, vicina alla prosodia di Giuliano Mesa.

[xxv] Fantuzzi Matteo, La stazione di Bologna, Milano, Feltrinelli, formata Epub, 2017.

[xxvi] Filia Francesco, La zona rossa, Il laboratorio edizioni, Nola, 2015. De Santis Alessandro con Metro C, Manni, Lecce, 2013, usa una tecnica compositiva molto simile a quella di Filia, articola un racconto per frammenti, con vari personaggi, con una scansione temporale esibita in ore e minuti, sulla città di Roma, ambientato nella metropolitana linea c della capitale, che in verità non è mai stata realizzata.

[xxvii]Scaramuccia Federico, Coma una lacrima, d’If, Napoli, 2011.

[xxviii]Renda Marilena, Ruggine, Com Press, Milano, 2012.

[xxix]Orecchini Fabio, Per Os, Sigismundus, San Benedetto del Tronto, 2016. Di Fabio Orecchini bisogna ricordare anche il testo sul mondo operaio e le morti per amianto Dismissione, Sossella editore, Roma, 2014. Sempre sul mondo operaio è il poemetto di Sara Ventroni Nel gasometro, Le Lettere, Firenze, 2006.

[xxx]Testa Italo,  I camminatori, Premio Valigie Rosse, Livorno, 2013, p. 11.

[xxxi]Testa Italo, Tutto accade ovunque, Aragno, Milano, 2016, p. 21.

[xxxii]Raos Andrea, sul retro di copertina, Le api migratori, Oèdipus edizioni, Salerno, 2007.

[xxxiii]Trucillo Luigi, Darwin, Quodlibet, Macerata, 2009.

[xxxiv]Pacini Bernardo, La drammatica evoluzione, Oedipus, Salerno, 2016.

[xxxv]Mari Lorenzo, L’ornitorinco, Prufrock, Costa di Rovigo, 2016.

 

Vincenzo Frungillo, Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione, con tavole di Francesco Balsamo, Carteggi Letterari le Edizioni, Messina, 2017. Pagg. 141, !8 euro.

Forma e colpa

7

(a seguito del dialogo fra Alberto Giorgio Cassani e Gianfranco Tondini inerente il crollo del ponte Morandi, e dei commenti che ne sono seguiti, l’architetto Andrea Tonus ha voluto mandarmi un suo approfondimento che qui volentieri pubblico. G.B.)

di Andrea Tonus

Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela.

C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese:

la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle […]

Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in tante altre città.

Sanno che più di tanto la rete non regge.

Italo Calvino, “Le città invisibili”

 

Apro con questa citazione da Italo Calvino, che immagina una città apparentemente fragile, mantenuta in funzione invece dall’umiltà dei suoi abitanti. La città non è fragile, ma regge solo fino ad un certo punto, che non va oltrepassato.

A fianco di questa citazione voglio ricordare anche la descrizione della città di Sofronia, contenuta nello stesso libro meraviglioso di Calvino, dove a essere provvisoria e smontabile, accanto al luna park fatto di tende e baracche è la città di pietra .

Le due citazioni assieme costruiscono per me le due parti di un assioma: se vogliamo conservare la città dobbiamo essere umili e amorevoli nei confronti di ciò che essa ci tramanda, anche se sembra esso possa durare in eterno. Illudersi di questa eternità è atto di hybris, come direbbero gli antichi.

Vorrei mettere in luce il fatto che da un lato vi sono ragioni che portano a chiedere la conservazione del viadotto Morandi (ovvero di ciò che ne rimane) e dall’altro come il progetto del suo abbattimento per far posto ad un nuovo ponte sia in un vero e proprio atto di hybris attualmente in corso.

Non è vero, come scrivevo pochi giorni fa in un commento su questo sito, che nessuno invoca la conservazione di quanto rimane del viadotto . In realtà le voci contrarie all’abbattimento ci sono, e la cosa più sorprendente è che concordano certamente su un punto fondamentale: non c’è monumento più consono alle vittime del crollo che il ponte stesso.

Non fosse altro che per questo motivo, il tentativo della conservazione di ciò che rimane del ponte andrebbe fatto. In realtà non è un caso che questa voce provenga da questo ambiente. Se ci si pensa, non può essere un altro ponte a rappresentare la memoria di ciò che è accaduto, come a Berlino è conservato ciò che rimane della chiesa commemorativa del Kaiser Guglielmo I a ricordo della tragedia della guerra, o la ancora più drammatica prefettura di Hiroshima, deformata e liquefatta dalla bomba atomica. Oppure, con un esempio forse ancora più parlante a noi italiani, come la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, mai cancellata dai cittadini dopo la strage del 2 agosto 1980, dove il muro lacerato e il pavimento incavato stanno a testimoniare quanta violenza l’uomo riserva all’altro uomo. E si vengano a vedere le commemorazioni annuali per capire quanta condivisione di quella ferita c’è ancora! Altro che i simbolici ricordi sulle nuove opere! Sul fronte opposto, purtroppo non si può che constatare una volontà di cancellare la tragedia che non si intona certo con il bisogno di ricordare le vittime.

Ci sarebbe da considerare seriamente anche i segni casuali, come l’infortunio all’atto di presentazione del modellino del nuovo ponte, perchè comunque sono in accordo col fatto che si sta mettendo in atto una cancellazione che servirà a coprire le responsabilità, o meglio ad accollarle infine a qualcosa che non può reagire, è muto testimone (finchè c’è) di tutta la tragedia: il ponte stesso, con la sua strana e drammatica forma.

Ora per arrivare alla conclusione bisogna osservare bene la forma del ponte di Morandi, poiché è in essa che si concentra l’atto critico creativo, che infine è forse l’unico rimedio contro la hybris, perché è consapevole della sfida che l’uomo fa alla natura mediante la sua opera.

L’ingegner Morandi non è nuovo alla messa in scena drammatica delle forze che agiscono nelle sue strutture: è nella sua poetica, rendere attraverso la forma la fragilità dello sforzo delle strutture contro le forze soverchianti della natura. Si pensi ai pilastri meravigliosamente inclinati del salone dell’auto di Torino. Le strutture dell’ingegner Morandi chiedono attenzione anche all’uomo comune, dichiarando la propria fragilità mediante la forma, come la città fatta di corde di Calvino. Tutt’altra cosa rispetto all’altro grandissimo ingegnere italiano del novecento, Pierluigi Nervi, con le sue strutture che invece mettono in evidenza e dichiarano la loro forza nella ripetizione e nell’imitazione delle strutture naturali (celle, nervature). A me il linguaggio poetico di Morandi ha sempre attratto di più di quello di Nervi. Tuttavia proprio la forma così drammatica, così parlante della fragilità umana contro la potenza della natura, ora forse sarà la condanna del ponte.

Infatti, fin dalle prime ore assistiamo alla critica della forma del viadotto. Si sostiene che è proprio la tipologia di ponte costruito da Morandi ad essere sbagliata, portando a riprova il fatto che non è stato replicato sovente, e che anche un altro viadotto costruito nello stesso modo ha avuto un incidente.

Questa critica, che pare oggettiva, perché il crollo è sotto gli occhi di tutti, è però totalmente al di fuori del campo dell’ingegneria, e perciò al di fuori del campo delle responsabilità verificabili. Significa porre sotto accusa l’intera opera dell’ingegner Morandi. Un progetto ingegneristico infatti non può essere sbagliato per forma: l’ingegnere opera continuamente supportato dalle leggi della scienza delle costruzioni, il progetto risultante non può dirsi neanche interamente suo. Dire che il ponte sul Polcevera è sbagliato per forma significa dire che Morandi non sapeva applicare le leggi della scienza delle costruzioni e che indirettamente tutta la sua opera è sbagliata da questo punto di vista. Infatti Clemente Mastella, sindaco di Benevento, trovandosi di fronte ad un altro ponte dell’ingegner Morandi, per prudenza l’ha chiuso al traffico. Infatti da più parte si insiste sul fatto che la tecnica e la scienza costruttiva hanno fatto passi avanti dagli anni della costruzione.

Niente di più falso, e le prove sono sempre sotto i nostri occhi: andate a vedere le piramidi di Giza, o i ponti romani o medioevali. Ogni epoca della scienza costruttiva ha costruito le sue opere durevoli. Gli argomenti addotti da questi critici sono capziosi, si infrangono contro l’evidenza del fatto che le altre parti del viadotto sono ancora in piedi nonostante l’enorme sollecitazione subita dal crollo, che gli altri viadotti costruiti da Morandi sono ancora li, che tutte le altre opere di Morandi sono ancora in piedi. In più aggiungo ancora con un brivido che il tratto crollato non era quello sopra le abitazioni, il che ha limitato grandemente il numero di vittime. Basta una foto di ciò che rimane del ponte per capirlo. Non grido al miracolo: forse la manutenzione è stata più accurata su quei piloni. Il viadotto è additato come un mostro, ma forse è stato più amorevole di noi. Morandi non ha progettato e realizzato un castello di carte che crolla al primo soffio di vento. Nonostante l’apparenza.

Ora si parla di demolizione, di costruire un ponte che duri mille anni (con tutte le tristissime memorie che mi evoca questa frase) di riqualificare urbanisticamente il quartiere sottostante. Questi atti sono atti di superbia, che illudono consapevolmente facendoci credere invulnerabili alle ingiurie della natura e dell’uomo. Il ponte Morandi invece è testimone, parlerà per sempre della tragedia. La sua demolizione corrisponde alla cancellazione della memoria pubblica, e il risultato sarà per l’ennesima volta la solitudine dei familiari delle vittime e degli sfollati dalle case sotto il viadotto a patire il dolore senza una collettività che li sostenga.

 

Elezioni svedesi: la solita disinformazione

5

di Monica Mazzitelli

(ho chiesto alla mia amica Monica di permettermi di postare anche qui su NI un pezzo bello e chiarificatore sulla situazione svedese. Monica vive in Svezia da tempo, parla la lingua ed è attenta a quel che accade. La ringrazio anche qui. A.S.)
In questi giorni ho letto alcuni articoli di giornali italiani sedicenti comunisti a proposito delle elezioni qui in Svezia, e sono rimasta abbastanza sbigottita dai contenuti. In sostanza, tutti ripetono di fatto la stessa identica vulgata del partito nazionalista e xenofobo Sverigedemokraterna (“Democratici di Svezia”) ovvero che gli svedesi siano “stufi dei problemi della criminalità causati dall’immigrazione” e “stanchi di dover sostenere economicamente la pressione fiscale generata dai costi dell’immigrazione”.
Vorrei rassicurarvi su una cosa: qui in Svezia non c’è alcun tipo di fenomeno che possa essere descritto come un problema di criminalità come lo conosciamo noi in Italia. Il livello è semmai paragonabile a quello di una cittadina altoatesina. Inoltre anche qui come in Italia i crimini sono in continua discesa, omicidi compresi. Aumentano quelli afferibili alla sfera sessuale non tanto perché ne aumenti la portata in termini assoluti (a eccezione di quelli legati all’eccessivo consumo di materiali pornografici, su cui ho scritto in passato), ma soprattutto perché la giurisprudenza in materia di crimini di natura sessuale si fa sempre più aspra – fortunatamente – e sanziona praticamente qualsiasi tipo di comportamento che non sia frutto di una piena e consensuale scelta adulta.

Della liquefazione del “tu”

7

di Mariasole Ariot

“Un senso di decadenza ci deprime, se opponiamo allo scatenamento senza misura, all’assenza di paura, il calcolo.”
G. Bataille

Esiste una zona vuota, in perdita, all’interno della quale i soggetti si muovono attraverso la parola – nella quale i soggetti muovono e sono mossi dalla parola, incisi, marchiati, tracciati, modificati dalla parola, parola che proviene dalla propria bocca, come dalla bocca dell’altro. Il presupposto quindi per cui un soggetto venga in qualche modo prodotto e sia in continua produzione è in primo luogo il fatto che vi sia parola, in secondo luogo, che questa parola venga ascoltata o sia ascoltata, in terzo luogo, che questo incontro si dia all’interno di una zona vuota.

Dove abita il troppo, non può darsi nulla, se non l’incessante ripetizione di ciò che già c’era. È questo forse il più difficile nodo da aggirare: significa spogliarsi, denudare gli spazi, creare nuove pareti e nuovi confini, aprire interstizi atemporali e aspaziali. Qualunque incontro avvenga all’interno di un dispositivo già ammobiliato, già previsto, già costituito – dove nulla c’è da attendersi se non ciò che già ci si attende – non produce movimenti significativi nei soggetti. Al contrario: siamo di fronte alla caduta della soggettività e alla presa di potere del potere stesso, un potere fine a sé stesso, che non ha più bisogno di niente, che si basta da solo.
Se cade la soggettività, cade anche, di conseguenza, la possibilità di produzione di nuovi significanti e significati e il passaggio liquido di produzioni attraverso la porosità dei corpi della lingua.
Non si tratta di uno svuotamento, del porsi come esseri vuoti, ma di saper aprire zone vuote all’interno di corpi pieni.
Quando ciò non accade, quando corpi e spazi restano come masse informi di carni compatte, non c’è più incontro con l’Altro ma piuttosto un incontro con la devitalizzazione di una possibilità mancata – che a sua volta produce non perdita dell’io ma perdita del vitale.

Il soggetto si immobilizza, diventa ossa, sasso, pietra, ombra di sé stesso.
Se questa devitalizzazione si realizza fino al compimento, se nasce da un incontro già previsto, che non contempla stupore, non possiamo credere che questo passi sotto traccia senza incidere i soggetti dell’incontro: piuttosto li scarnifica. Un “non è” non significa che quel “non è” non sia attivo, che non agisca sui corpi e sulle soggettività in causa: agisce per difetto, portando a desertificazione.
Eppure: non siamo forse al centro di un’epoca in cui il tu non è più un tu soggetto singolare ma piuttosto un tu espanso fino alla sua dissolvenza? In cui si smette di parlare ad un singolo (in una danza tra il dire e l’ascolto) e si parla solo alla moltitudine in una produzione di un incessante rumore di sottofondo che scarnifica la parola fino a farla diventare l’ombra di ciò che potrebbe essere?

Un’esigenza di spalancare la bocca di fronte a un tutti che in fondo è un nessuno, un proliferare di frasi, elementi, tracciati rivolti a una platea in forma di corpo unico che non ha teste.
Perdute le teste degli altri, cade anche la propria, scollata dal contingente, scollata dall’infinito, testa che si addobba di decori e si dilata fino ad occupare tutto lo spazio presente.
E dove lo spazio è chiuso, dove non esiste più spazio all’interno dello spazio, là muore il linguaggio, là muore l’incontro, là muore il dire, là avviene l’indicibile: miliardi di io cantano sordomuti della parola.

La linea automatica produce trecento piani cucina

1

di Francesco Terzago

La linea automatica produce trecento piani cucina
al giorno, ogni giorno, senza sosta. Ventiquattro ore
su ventiquattro. Trecentosessantacinque giorni
all’anno (o trecentosessantasei, se necessario) – le lastre
di pietra da tre-quattrocento chilogrammi sono mosse
dai bracci meccanici con la stessa semplicità
con la quale io posso sollevare un giornale
o una corteccia di betulla e usarla come
un ventaglio; il foro dove sarà ospitato il lavello
è ricavato con un getto largo come uno spillo,
un getto d’acqua ad alta pressione
e graniglia: sabbia né troppo sottile, né troppo spessa,

dieci validi motivi per ammazzare i poveri più uno francamente pretestuoso.

1

di Pino Tripodi

conviene iniziare con l’undicesimo motivo, quello pretestuoso. ciò si deve alla semplice coincidenza che lo scrivente è un povero anche lui, quindi se afferma che ha dieci buoni motivi di ammazzare i poveri significa che quei motivi sono validi anche per lui. se fosse onesto per coerenza logica dovrebbe essere ammazzato. ora, voi potreste dubitare della sua onestà, ma vi sbagliereste perché finito di redigere quei dieci validi motivi per ammazzare i poveri l’autore si fa ammazzare veramente. c’è solo un unico problema materiale da risolvere per rispettare la saggia decisione. avendo lui stesso scritto del problema chi è che dovrebbe farlo fuori? sembrerebbe una difficile faccenda ma invece è veramente una quisquilia. ecco la risoluzione. è  lui che di sua propria mano uccide il povero che è in sé. con quali mezzi non è difficile congetturare. sarebbe inutile, incoerente e dispendioso provvedere con sistemi che richiedono una certa frequenza col denaro, l’eutanasia in olanda, la clinica della morte in svizzera, la pistola, i farmaci o l’iniezione letale. esclusa la morte in sintonia col capitale occorre cercare gratuiti mezzi per porre fine all’esistenza.  ciascuno si direbbe saggiamente è meglio che muoia nel suo brodo, quindi, anziché provare truci soluzioni, buttarsi dal balcone, tuffarsi in mare con uno scoglio al collo o giù di lì – rimedi, è bene dichiararlo, che ostano alla sensibilità umanitaria dell’autore -, la più semplice mossa è abbandonarsi alla propria condizione, lasciarsi cioè morire d’inedia e fame. chi ha l’abitudine forzata a centellinare il pane e il companatico della sopravvivenza in ciò non riscontra particolare resistenza. la consuetudine da fame di prassi attenua alquanto i crampi e la sensazione rotatoria della testa quando il proposito dell’inedia diviene cosciente e radicale. si arriva alla fine lucidi di raziocino e illuminati di mente. la dipartita dalla povertà affrontata con lungimiranza avviene serena come il sonno se il corpo non è oberato da funzioni digestive complicate come quando fa incetta di lardo e fave irrorati a volontà da una ciofeca che è scandaloso assai chiamare vino. cosicchè, anzichè protrarre gli incubi della fame che lo devastano ogni qualvolta serra gli occhi, oltre la propria morte il povero può sognare di vivere felice con la sua bella magari ancora sconosciuta in barba a ogni ristrettezza.

risolto il problema della fine, dell’undicesimo motivo francamente pretestuoso, ci possiamo concentrare sull’inizio, sui dieci validi motivi per ammazzare i poveri.

a mo’ di avvertimento, prima di iniziare, occorre rendere palese che i dieci motivi non sono dettati certo da invidia o da rancore. come si potrebbe se chi scrive appartiene a quell’umana condizione.

essendo come già detto anche lui povero l’autore se scrive le seguenti cose è  per puro spirito di conoscenza basato sulla profonda esperienza maturata dal momento in cui senza chiedergli permesso è stato per caso più che per spasso gettato nella vita. le considerazioni svolte pertanto non sono sterili elucubrazioni intellettuali ma semplici constatazioni oggettive, fotografie scattate per mostrare il vero senza le lenti e i trucchi delle ideologie. il suo unico intento è che la verità si faccia strada. il resto non interessa perché privo di secondi fini.

 

il primo valido motivo è davvero lapalissiano. i poveri sono troppi nella miseria ma ancor di più nell’opulenza. non c’è tempo, società o regione del mondo dove non sia così. non c’è individuo, famiglia, governo o religione che non abbia avanzato programmi davvero razionali per eliminare la povertà. ma tutto è stato inutile. la ragione è presto detta. i poveri sono i parassiti della ricchezza. più cresce l’albero dell’abbondanza più i poveri vi allignano come funghi velenosi che rendono amara la vista ai ricchi. cercare di potarli è inutile. meglio ammazzarli dal primo all’ultimo esemplare. così il paesaggio della ricchezza diviene uniforme e chi ha i mezzi per natura non viene umiliato nel guardar cose che sono francamente indegne di essere osservate.

 

il secondo valido motivo non ha meno evidenza. i poveri non sono tali per disgrazia o sfiga. è un’ingiustizia davvero grande pensarla in questo modo. poveri lo sono per colpa e per natura. la colpa è antica e la natura non perdona. da poveri nascono poveri. è una legge incontrovertibile dell’umana specie che se si rispetta va bene a tutti, ma se qualcuno pensa di fare il furbo sovvertendo le leggi basilari del creato a pagarne le spese sono proprio loro, i poveri, e chi altrimenti. qualcuno poveretto pensa se sono nato povero la colpa è del ricco, ma non ci vuole una gran logica per capire che tale congettura non ha senso.  i poveri son poveri perché la povertà ce l’hanno nel sangue. chi nasce povero non ha ragione alcuna di recriminare. a render complicata la faccenda c’è quella piccola eccezione di poveri ricchi per caso. sono davvero pochi ma l’indagatore attento non fatica a snidarli di modo che il caso venga senz’altro smascherato. i poveri ricchi per caso sono quei poveri che per qualche scherzo di natura – anch’ella, checché si dica, non è del tutto esente dall’errare – si trovano nel torbido a gozzovigliare con mezzi di proprietà e d’uso geneticamente non propri. quando questa vergogna accade, i poveri non stanno a proprio agio e allora non passa molto tempo che restituiscono non sempre volentieri il maltolto pagando il fio con qualche decennio di prigione, con l’infamia a vita o con la morte.

il secondo motivo si rafforza per un’altra ragione.

l’intelligenza non si addice ai poveri –  nei loro geni è dimostrato che la stupidità prolifera balzando ben oltre i limiti della decenza – eppure un qualche  barlume di ratio alligna pure dove meno te l’aspetti. se così non fosse molti poveri non avrebbero coscienza che sono poveri per colpa e per natura e invece conoscono davvero bene la verità tant’è che  passano la vita a odiare i genitori che li hanno gettati nella vita in questo stato. l’odio cresce con l’età tant’è che se i poveri meno scemi potessero agire impunemente nessun loro genitore sopravviverebbe alla furia che hanno generato. se l’odio maturato dalla nascita si raggruma più spesso nell’astio atavico anziché nell’omicidio dei genitori è per viltà, per la paura che ammazzando il padre o la madre toccherebbe qualche annetto di galera in più. ma questa frustrazione dell’inibirsi a volta di ammazzare mamma e papà a causa dei natali socialmente indesiderati si scatena contro il prossimo, infatti è cosa nota che i poveri si ammazzano tra di loro alla prima occasione. il secondo motivo umanitario rafforzato per ammazzare i poveri è dunque di necessità per cancellare questo scempio liberando in un colpo solo odio, viltà e astio che non si addicono certo al resto dell’umanità.

 

 

il terzo motivo è che nel vizio innato che i poveri hanno d’ammazzare capita che ci vada di mezzo qualche innocente ricco. i poveri si ammazzano tra di loro, è vero, ma qualche volta nel loro furore umanicida c’è qualche onesto cittadino che ci capita di mezzo. non è più per volontà classista che i poveri ammazzano qualche ricco – ormai questa vergogna è stata per fortuna quasi completamente eliminata dalla faccia della terra – pur tuttavia qualcuno dei ricchi ripeto non proprio di proposito ci capita tra gli ammazzamenti dei poveri. se i ricchi non fossero mai toccati i poveri dovrebbero essere lasciati liberi di ammazzarsi tra di loro così parte della fatica di farli fuori tutti sarebbe risparmiata e il terzo motivo verrebbe volentieri a mancare.

 

il quarto motivo è il commercio carnale a cui i poveri si danno nel goffo  tentativo di accalappiar qualche ricchezza. vendere il proprio o l’altrui corpo dovrebbe essere attività da perseguire duramente, ma così non è perché purtroppo vi è qualcuno anche tra i ricchi che compra ciò che non andrebbe mai venduto. qualcuno potrà dire che non tutti i poveri si donano alla prostituzione e quel qualcuno avrebbe sicuramente la ragione dalla sua. l’autore non intende negare che fra i poveri vi è chi non si prostituisce. assodato il fatto, tuttavia, non si può non constatare che la prostituzione è esclusiva facoltà dei non aventi. da ciò ne discende che con l’ammazzamento dei poveri il commercio carnale si estinguerebbe per la prima volta nella storia dell’umana specie.

 

il quinto motivo è che i poveri sono tarati eticamente. con quel deficit che hanno non c’è bisogno di diventar malvagi. lo sono di costituzione. nella malvagità congenita sviluppano un senso di colpa davvero originale che gli occupa la totalità della materia cerebrale. il senso di colpa non rivolto alla propria persona, sia beninteso, ma a quella altrui. la loro mente non si pervade come sarebbe sensato e giusto della coscienza della propria colpevolezza, ma della scriteriata sensazione della colpa altrui. sono davvero maniacalmente bravi a trovare la colpa di altri nella bugiarda presunzione di essere innocenti sempre. se sono povero il povero pensa la colpa non è mia. e non essendo sua il povero si trova qualche nemico da colpevolizzare tra la folla. la società, la chiesa, lo stato, il ricco, il vicino, non importa chi. il povero non pensa sia merito suo la sua povertà. il ricco invece è di gran lunga più intelligente. sa che non ha nessuna colpa per la sua condizione, non va cercando colpe a caso ma meriti circostanziati e per coerenza estrema ritiene giustamente che l’avere assai è esclusivo merito suo. i ricchi dunque sono per il giusto merito, i poveri invece non riconoscono la giustezza di questa fondamentale priorità dell’umana condizione. senza avere merito alcuno pensano di appropriarsi degli altrui averi, ma questo notoriamente è un furto che andrebbe sradicato.

 

l’invidia compare come sesto ma è tra i più validi motivi per ammazzare i poveri che giuro sono invidiosi di natura. sembrano servizievoli e fedeli, si strusciano sui ricchi come fossero gatti in calore, rispondono a bacchetta sissignore appena intravedono un abbiente disponibile a sganciare la moneta ma non è onesto quel che fanno. anche quando sembrano fedeli più del cane fido sono soltanto opportunisti pronti a tradire al primo segnale di profitto. l’invidia dell’altrui ricchezza gli scorre nel sangue che circola in ogni corporea parte della persona per cui da quell’invidia primigenia il povero sviluppa una natura invidiosa  di ogni cosa. l’invidia è il sentimento generale della povertà. i ricchi si sa non sono affatto invidiosi, perché dovrebbero provare invidia davvero non si capisce, per cui si può dedurre senza probabilità d’errare che una volta ammazzati i poveri anche l’invidia sarebbe definitivamente debellata.

 

il settimo motivo riguarda il sistema della pecunia. tutte le società sopportano con cadenze sempre più vicine crisi devastanti che scuotono l’umano agire mettendo a rischio davvero grande ogni colonna della società. eppure  la causa generale di ogni crisi non è un mistero per nessuno: sono loro i poveri senza dubbio alcuno l’origine del male. per chi, per pregiudizio veramente irriguardoso verso le scienze che studiano con meticolosa precisione come e perché l’economia va in crisi, conservasse un residuo dubbio l’autore consiglia un supplemento d’informazione. il dubbioso a quel punto non potrebbe disconoscere le ciclopiche risorse che sono dilapidate con l’obiettivo  di tenere i poveri in vita. inoltre, la ragione umanitaria esagera fornendo oltre il necessario per  la sopravvivenza anche i mezzi immeritati per condurre esitenza dignitosa a tutta la canaglia.

tra prigioni, scuole e ospedali, tra il circo e il pane, quel dubbioso così saprebbe quanto costano i poveri alla comunità che a un certo punto è naturale non ce la fa più a sopportare quell’immenso peso e crolla come la pera un tempo molto aggraziata e bella ma resa fragile in breve dal beccare di corvi e merli che in compagnia di mosche, formiche e altri insetti la bacano così tanto che al primo fievole vento si butta a terra dalla disperazione anche se non è poi così matura. senza l’ingiustificata poverofilia che porta le società a spese così vertiginose le crisi non scuoterebbero più il mondo. la poverofilia fa male al resto del creato, dunque se per ragioni umanitarie è duro abbandonare i poveri al loro colpevole destino, l’autore deduce che è meglio ammazzarli tutti così da estirpare all’origine la sorgente delle crisi.

 

l’ottavo valido motivo è di ordine demografico. i poveri sono come i conigli, più sono poveri e più fanno figli. nel tempo in cui la poverofilia non era così in voga il problema si risolveva spontaneamente. l’innata pulsione proletaria del poverume era bilanciata dalla provvida natura che decimava i frutti della povertà in eccesso. se ogni povero senza pensiero generava dieci e più figli in media ne restavano due a perpetuare con generazioni successive la vergogna. ma adesso la natura non è lasciata libera di fare il suo mestiere perché i poverofili l’hanno espropriata della sua facoltà massima, quella di selezionare il buono e di sopprimere il marcio. se come tutti dicono la natura va aiutata sarebbe logico e giusto sopprimere il marcio in vece sua che è impedita da circostanze veramente disgraziate. questa missione è avvalorata da un’altra considerazione. i poveri non è che fanno i figli e basta. non si contentano di riempire il mondo di problemi, pretendono anche che a mantenerli non siano loro che li hanno a casaccio generati  ma quelli, i ricchi dico, che stanno bene attenti a partorir la prole perché si sentono, è ovvio, responsabili di ogni loro azione. dunque, ammazzando i poveri come da programma l’equilibrio demografico sarebbe assicurato.

 

 

il nono motivo è davvero cruciale. in tutto il mondo esiste la questione criminale.  tra mafie di diverso colore e stile, tra bande di farabutti che studiano ogni modo per truffare, tra ladri bambini giovani e vecchi che ruberebbero pure la preghiera sopra l’altare, non c’è spazio della vita che non sia contaminato dalla furfanteria. l’insicurezza endemica fa molto male alla salute, con la canaglia in giro non è in stato precario solo la proprietà privata ma l’intera sfera della vita in ogni momento è resa insicura, vilipesa, minacciata.

in più c’è un crimine sottile che si dovrebbe evidenziare anche se quel crimine più fastidioso di tutte le mosche e le zanzare non è non si capisce per quale insana ragione trattato sempre come tale.

l’autore si riferisce alla questua e alla sua variante, il barbonaggio. vedere le città colme di parassiti che lasciano puzze, orine ed escrementi in ogni angolo,  che si attaccano alla coscienza della gente fin quando stufa di lamenti e piagnistei si scuce la moneta sudata con fatica è una pena quotidiana assai gravosa. vi è chi per compassione si sente d’elargire una moneta, un vestito usato o un sorriso a caro prezzo, ma non è questo il giusto piglio d’affrontare la questione. l’elemosina non è come lo sprovveduto crede un modo gentile di chiedere. è invece un furto con destrezza compassionevole. la questua e il barbonaggio sono altri modi di rubare.

eppure, niuno disconosce il grande utero che partorisce il crimine. ognun sa che il povero più onesto è un ladro patentato. di più. è un criminale nato. le scienze di diverso indirizzo e tipo hanno tentato di curare la situazione col farmaco, con la catena, con l’educazione. ma ogni sforzo è risultato vano. chi nasce criminale non si può emendare. l’unica soluzione è quella finale. solo ammazzando i poveri in un baleno del problema criminale non si avrebbe realtà e neanche memoria, aspetto quest’ultimo tutt’altro che da minimizzare perché quando il crimine appare la memoria diventa un male assai difficile da curare.

 

 

il decimo motivo è davvero intuitivo. i poveri non si sa per quale genetica ragione hanno la pulsione di muoversi in modo convulsivo. qualcuno va dicendo che amano migrare per questioni di guerra o di lavoro, ma non è vero niente. si muovono per pulsione innata come fanno le mosche o le zanzare. provate se volete a servirle di sostanze zuccherose e di sangue. zampettano giusto per riempirsi la pancia a sbafo approfittando delle scorte altrui, ma poi che fanno, se ne stanno forse fermi o continuano a mordicchiare a destra e a manca senza omettere di scacazzare? la risposta al facile quesito va da sé.  anche quando sono abboffate di reddito e di lavoro non perdono il gusto di fastidiare il prossimo per puro spirito persecutorio. come le mosche e le zanzare i poveri sciamano ovunque. la genetica ragione glielo impone. e dove vanno portano in dono tutti quei problemi trattati negli altri nove validi motivi. cercare di fermarli, respingerli, spedirli al mittente non serve proprio a niente. anche riempire le prigioni è un errore colossale. l’unico rimedio ormai lo sapete, dunque che ve lo dico a fare.

 

per ultimo occorre segnalare le perplessità di un caro amico il quale venuto a conoscenza dei qui presenti dieci validi motivi per ammazzare i poveri mi ha redarguito. dieci son troppo pochi. in verità lui dice i validi motivi sarebbero infiniti, infatti per quanto il caso nella storia sia stato a lungo studiato nessuno ha mai trovato un motivo davvero serio perché i poveri debbano rimanere in vita. il caro amico ha ragione, non lo si può negare, ma per difendere l’autore almeno parzialmente dall’accusa tocca segnalare che se avesse dovuto stilare anziché dieci tutti i validi motivi l’impresa iniziata con dedizione e cura non avrebbe conosciuto fine. perciò la scelta di limitarsi ai dieci che sono senz’altro validi non ha pretese che siano quelli gli unici motivi per ammazzare i poveri. d’altronde ciascuno può trovare i suoi, chi glielo impedisce, il menu dei validi motivi offre possibilità di scelta illimitate.

ciò che conta per davvero è che il presente scritto sia ultimo nel suo genere. il più famoso data quasi trecento anni or sono. ma swift, il grande maestro dell’umile autore, scrivendo la sua modesta proposta in due cose certamente si sbagliava. la prima è prevedere di ammazzare solo una parte dei bambini nati in povertà col che il problema si attenua certo ma non si risolve affatto. il secondo consiste nel trattare quei bambini da ammazzare come cibi prelibati la qual cosa non si può negare ma non corrisponde in pieno ai gusti alimentari dell’autore.

i dieci validi motivi invece dovrebbero godere di unanime consenso e di legittime aspirazioni a divenir prassi reale per l’umana specie nel sol dell’avvenire.

se nei prossimi secoli qualcuno contrariamente alle speranze dell’autore avrà l’ardire di affrontare la questione vorrà dire ahimé che anziché estinguersi per sempre i poveri non si sa per quale assurda ragione saranno stati almeno in parte risparmiati dall’essere ammazzati.

 

 

Voci della presenza. Rossana Abis

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Pubblico alcune poesie inedite tratte dalla raccolta Voci della presenza di Rossana Abis, accompagnate dalla nota introduttiva di Franca Mancinelli, uscita per la rivista Poesia, maggio 2017.

Non è facile sintonizzarsi sulle frequenze della poesia di Rossana Abis, così alte da creare attorno uno spazio di attesa perché la parola sprigioni tutta la potenza da cui è stata generata. Per questo ogni verso sorge sulla pagina come dilatato nel bianco, lasciando spazio al silenzio, «voce maestra che interviene», in un ritmo naturale e necessario quanto il respiro. Questi testi nascono da un’esperienza della poesia vissuta come istintivo esercizio di ascesi, pratica spirituale. Si nutrono di pensiero, di auscultazioni e veglie, di un meditare lucido e febbrile. Costantemente sporta oltre se stessa, Abis è alla ricerca di quei particolari stati in cui è possibile accogliere il ritmo interno delle cose ed entrare in vibrazione con esso. Allora giungono «le voci della presenza», la realtà è restituita al suo mistero, alla sua nascita incessante. In questo atto di fedeltà e di tensione verso l’origine, la poesia è ciò che è più prossimo a una lingua primordiale, che precede e sta oltre le parole, nel contatto con la vita stessa. È nostalgia di appartenenza a una totalità che può ancora affiorare «quando cediamo il passo / a ciò che realmente ci sostiene», quando lasciamo che la nostra individualità si dissolva per tornare a essere la «buona presenza onnisciente / dispersa e ritrovata in ogni luogo».
Il cammino percorso dai primi testi a questa silloge inedita è nell’aumentata capacità di abitare la materia della parola proprio mentre si misura con l’ineffabile e con l’invisibile. Rispetto alla sua precedente raccolta (La cifra del nulla, Zonza editori, Cagliari, 2007), la lingua ha preso pienamente corpo, un corpo che vive di percezione, e si fa evanescente tramite della visione. Per una poesia come questa che nasce da una condizione di spossessamento e di vacanza dell’io, accogliendo la fitta trama delle voci, il lavoro deve essere stato nel riconoscersi e fondarsi dentro una propria voce. Forse è anche per questo che sulla pagina arriva così scandita, in una dicitura nuda e concentrata sul singolo verso, come rispondendo a un’armonia nascosta nelle cose: «Si va a capo / attratti da un gesto / da una luce che appare / improvvisa / e scompare nella nebbia». Questo rapporto con un mistero che affiora dalla realtà ai suoi «occhi infallibili» attraverso un’attenzione potenziata, conferisce ai suoi versi la forza trasparente dei cristalli. Il dato biografico è fin dai primi testi polverizzato da un’ansia di oltranza e da una ricerca di verità che coinvolge le fondamenta dell’essere. Eppure il punto di partenza resta affidato al corpo, al «muto / approssimato / intraducibile / sentire», come tramite di conoscenza. In questa direzione sono maturati i testi di questa silloge, superando il rischio di una parola sospesa nell’astrazione che apparteneva a una parte del libro precedente, debitore di un’esperienza intellettuale sorta attorno alla faglia da cui scaturisce la propria esistenza (Placido Cherchi, nell’ampio saggio introduttivo, ne ha tracciato le coordinate nei termini di un pensiero sciamanico-gnositico e ha riconosciuto, con Julian Jaynes, la natura «bicamerale» di questa visione poetica). Eredi di quel legame magico tra la parola e la realtà che la sua terra, la Sardegna, vive nella tradizione dei Brebus, questi versi attingono a quell’ancestrale forza capace di trasformare noi stessi, di determinare le cose. La forma contratta e memorabile che assumono a volte i testi, può discendere da qui, come anche dalla tradizione degli Improptus, pratica di presenza viva che accoglie un bagliore e gli dà fiato.

Franca Mancinelli

Voci della presenza

Io cado ogni notte – e mi spoglia

e possiede la mia nudità.

Rivelazione della carne,

sacramento della notte,

svegliarsi è avere un'età,

cessare di appartenersi.


*** 


L’orologio segna un’ora

che non esiste più,

o forse un’ora ancora a venire.

Un istante raccolto e narrato

solo attraverso i gesti.

La vita è atto, l’oscuro tempo

del suo compiersi irrisolto.


*

Quando ero piccola le voci

cercarono inutilmente di iniziarmi

alla poesia.

Ora il tempo è trascorso

e io dipingo gli occhi

che non vedono,

riempio di fori le orecchie

che non sentono.


*


Riassetto stabile.

Ma per poco.

La tua fissità è a misura

D’un raggio moltiplicato

densità del movimento

la cui spinta decisiva

dipende dalla profondità

del centro.

*


Riassetto stabile.

Ma per poco.

La tua fissità è a misura

D’un raggio moltiplicato

densità del movimento

la cui spinta decisiva

dipende dalla profondità

del centro.


**** 


Se la cronologia dell’esistenza

avviene scorrendo

in duplice binario

tu sai che in controtempo

il tuo vero destino va cercato

come il gatto bambino

che in tondo si rincorre

mordendo nella coda

il suo avversario.