Home Blog Pagina 141

Elena Ferrante. Parole chiave.

0

di Tiziana de Rogatis

Introduzione. Un successo internazionale.

1. I lettori di Elena Ferrante nel mondo
Come trovare un filo del discorso per raccontare le amiche che in America hanno celebrato il rito dell’acquisto in coppia della quadrilogia, come svolgerlo fino al lettore di Leeds, in Inghilterra, al quale la Napoli di Ferrante fa pensare a Glasgow, e in generale alle città al margine dell’economia neoliberista? Come tendere ancora il filo fino all’Australia dove una lettrice inglese, emigrata quaranta anni fa, ha trovato nell’Amica geniale la stessa violenza del suo minuscolo paese d’origine, nel Northumberland? In che modo ritrovare il bandolo in Cina, dove uno studente dell’Università di Nanchino mi racconta la parabola del Partito comunista italiano nella quadrilogia, mentre la studentessa dell’Università Fudan di Shanghai interpreta la smarginatura come una reazione all’arroganza che le donne subiscono?

Iconoclastia artistica e concetto di littéralité

18

di Andrea Inglese

(Questo testo è incluso nel volume Teoria e poesia, curato da Paolo Giovannetti e me, per le edizioni Biblion di Milano. Il volume raccoglie 11 testi di altrettanti autori che su invito dei curatori hanno realizzato una giornata di studio, con interventi e discussioni, alla Libreria Claudiana di Milano il 16 settembre 2017. Gli autori sono Giulio Marzaioli, Florinda Fusco, Vincenzo Frungillo, Stefano Ghidinelli, Italo Testa, Mariangela Guatteri (responsabile anche dell’immagine di copertina), Lorenzo Cardilli, Luigi Severi, Stefano Versace, Simona Menicocci.)

Ideologie del testo

Nel regime moderno delle letteratura, così come in quello delle arti, lo statuto di un testo, la sua appartenenza all’universo letterario, o a un genere specifico, nonché il suo funzionamento, e i suoi eventuali meriti e demeriti, non sono determinabili in modo esclusivamente consuetudinario, ma esigono periodicamente delle nuove forme di legittimazione.

I penultimi ( finale)

9

 

di 

Francesco Forlani

English Translation a cura del mio amico Gabriele Albarosa a cui va tutta la mia gratitudine.

Clickando sui numeri delle poesie si può saltare tra la versione originale in Italiano e quella in Inglese.

 


5.

Sono davvero poche le cose che il penultimo
chiede alle cose, a volte solo un segno, un cenno,
da parte a parte della vita, ma inequivocabile
preciso che non solo ti indica il cammino e la distanza
ma sembra quasi che ti tenga la porta al vivere.
Basta un sorriso, davvero poca cosa, al penultimo
incrociato o seduto a una fermata o nel cliq claq
dei portali dei convogli, un cartellone pubblicitario
che però si sovrappone per pensiero al tuo
un viaggio esotico, un panorama, i versi di René Char.
Basta davvero poca cosa, ma preziosa, al penultimo
per sentirsi seppur minima parte, un pezzo di questo mondo
così i tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno inverno
di piena neve, sussurrano courage, la primavera avanza.

p1

 


35.

Oggi ai penultimi parevano più nitidi i canti degli uccelli
in queste variazioni di luci e di stagioni
così ad aspettare il convoglio v’erano più dei tanti,
dei soliti in capo o in coda, a seconda del destino.
Ora che siamo a bordo e i gomitoli di lana sopra al capo
degli uomini, il tremolìo nei tratti scoperti della sopraelevata
quel tumulto, dicevo, pareva l’eco dei carrelli alle miniere
e delle scale mobili di Montparnasse degli ascensori
però non verticali ma obliqui, da un punto all’altro.
C’è nei foulard delle donne in questa alba buia,
nella cura dei nodi la timida traccia di un presente
senza memoria alcuna della faccia e senza oblio
qualcosa di simile al tenue profumo degli alberi
all’uscita di casa, ai più nitidi canti degli uccelli.

p2

 


13.

C’era che nel passaggio, sulla tratta
i vetri lasciavano vedere la preghiera

dei penultimi, la trasparenza.

Il capo chino su un lato
o appena appena sollevato
sopra il mento, dei passeggeri,
tra le loro file, sedili a quattro,

corridoi, gli strapuntini aperti.

C’era che gli occhi socchiusi
– che la causa confonde con il sonno-

suggerivano la grazia delle icone,
delle parole raccolte – magari
tra i muri di poco prima- e rivolte
ai Signori penultimi.

Sissignore, perché per ogni casta
– più o meno pura- c’è qualcuno
che difende i diritti degli uni,
che si fa pregare e quelli pregano,

socchiudono gli occhi, nella tratta
che da Nation va a Montparnasse

– Parnaso monte, regno di dei penultimi.

p3

 


31.

Non pensavo potessero le cose
essere penultime, possedere un tempo,
non la semplice durata proprio
l’estensione immisurabile di un corpo.
Al 127 della Rue de Charenton
appoggiato in un angolo uno specchietto
da bagno sul marciapiede,
con una lettera appiccicata sopra
agli uffici rivolta delle cose ingombranti.
Non era sbrecciato, rotto, graffiato,
annerito negli angoli come lo era quello
dei miei genitori che faticava a scorrere
nella canalina e s’impuntava quasi sempre
chiuso, facendo prigionieri la lametta,
spazzolino e dentifricio, un niente.
Quello specchietto sulla strada
con la sua lettera raccomandata, immacolato
sembrava ignaro del trasloco,
e senza più brame del padrone di casa,
sentinella silenziosa dei nostri passi
riflessi pareva una portiera quasi felice.

p4

 


81.

Accade a certi gesti di somigliare ad altro
smarrire il senso originario della rosa e il suo profumo
– a rose is still a rose –
e proseguire per altri campi ed altri venti correre.

Così il penultimo uomo stava per strada

raggomitolato sulla grata e dalla vetrina
della farmacia illuminato per metà,
quella che corrisponde al fianco su cui dorme.

Vedere la sua faccia sorpresa da sveglia
non quella generale delle attività delle isole
ma l’altra, così simile alla voce che riprende,
sgrida, ammalia nei sogni e ti risveglia.

Nel cuore della notte ti fa palpitare
un rumore di qualcosa in genere,
di qualcuno in genere la voce,
ma non c’è nessuno di fronte a lui.

Tranne la luna che è allineata al tetto

e tranne me che gli passo accanto.

p5

 


12.

Interstizio
è alla fine del giorno, è quando ci siamo già detti, ci batteremo, ci batteranno o vinceremo, che accade il pensiero e quando mi servono su un piatto di lava la carne che sa di fuoco, in salsa di pepe verde e insieme al vino rosso, mi accorgo, in questa solitudine che non fa rumore, né pena, di loro, soldati prigionieri delle loro uniformi che osservano me e sembrano dire che il fronte, che lo dice anche il nome, è quello che sta di faccia non alle spalle anche se corre il pensiero, in piccoli casi come questi, ai caduti in battaglia, a tanti, troppi, più giovani di te che non ce l’hanno fatta a passare il guado, a mantenersi vivi. Dovremmo forse smettere di pensare alla vita in modo militare, accettare la resa alle cose nell’ordine naturale in cui ci parlano, generalmente alla fine del giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 


85.

Se ne stanno seduti i penultimi
alle cinque e mezza del mattino
tutti occupati i sedili sulla banchina
prima che il primo treno del giorno
salpi e porti per mari di moquettes
e vetri negli uffici le donne delle pulizie
o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani
senza più nulla chiedere né altro domandare
– colpisce del signore ben vestito accanto
la cura che malgrado il buio dell’ora
ha messo nel lucidare le sue scarpe.
Fa un certo effetto vedere passare senza sosta
il primo treno senza persone, scivolare via
fino al capolinea da cui ripartirà subito dopo
come se fosse quella la rincorsa necessaria,
e pare salutare tutti come un medico
che all’orario di apertura ai pazienti sussurra
– buongiorno, nella sala d’attesa, senza indossare il camice
e fa solo un cenno per aria a dire,
è ora, siamo pronti a partire.

p6

 


25.

Come penultimi oggi eravamo tanti
e del nuovo anno avevamo l’estro
di schiena diritta non piegata ancora

dall’ora presta, dal rintocco genuflesso.

E sul tratto di strada – questo volevo dire –
che ci separa, stavolta all’uscio dei portoni
v’erano pini muti e senza luci,
su un lato riversi parevano dormire,

Custodire tra i rami come nidi il ciuffo
dei sogni sognati dai bambini coi pacchetti
regalo degli adulti apparenti donatori.

Così ci diamo al mondo anche noi.

p7

 


15.

Interstizio
Stasera dopo cena, rientravo lungo il viale che dal Castello di Diane porta alla scuola in cui insegno. Per via degli scioperi mi hanno messo a disposizione una camera in un alloggio di servizio. Ho così rifatto il percorso che di solito faccio in senso inverso, ma v’era lo stesso istante di luce sospeso tra l’alba, quando in genere arrivo e il crepuscolo, che non sai bene ma che riconosci dalla fatica a cosa corrisponda, una fine della giornata. E mentre attraversavo il cortile muto che poche ore prima respirava voci e grida, animato da decine e decine di zaini colorati, di gambe, di felpe, ho pensato a tutte quelle volte che mi era capitato di percorrere una spiaggia a sera deserta, fuori stagione, un campo di calcio dismesso, un luogo qualunque della memoria abitato dalla compresenza di quello che era in un tempo prima nel pieno e di quello che appariva ora nel vuoto. Alla maniera di certi musei che per strane ragioni ci è capitato di visitare senza alcun pubblico, ho percepito in modo chiaro quanto le cose ci dicano sempre più di quanto non si sia in grado di sentire veramente. Perché la vita fa rumore e le cose ci fanno da specchio.

p8

 


8.

Perfino tu, penultima luna
te ne stai appoggiata su un tetto
come una virgola ingrassata
e gravida di penurìa di tempo.

Così ripenso a quella notte
che alla coperta del clochard
distesa sul marciapiede, sulla grata
del metrò che sbuffa ad ogni ora

era cresciuta la faccia con un raggio
di luna che la faceva pulita e fine
come la maschera del poeta Baudelaire
al cimitero a Montparnasse

E bello è stato, quando oramai il vagone
lambiva l’incerto confine della Normandia
levando al cielo gli occhi ed il cappello
vederti alta in firmamento scuro come un’origine.

p9

 


69.

Cari penultimi vi devo raccontare
di come per tratti di strada
a quest’ora che perfino il vento pare
sussurrare cose dai portoni delle case
la Ville Lumière espone dei tableaux vivants
nella morsa di freddo e tra le grate
che sbuffano nuvole di fumo bianco.

Ora i due amici sulla strada coricati
come un allora facevamo da bambini
capa e piedi, cappa e spada,
come una scarpa fa con l’altra
per guadagnare spazio in quella congruenza.

Mentre più in là oltre l’insegna
ci sono i due amanti sopra a un materasso
matrimoniale e senza muovere un dito
– a stento respirare –
come il filo al gomitolo l’uno intorno all’altra.

Così mentre scendo le scale
appena illuminate dalla scritta gialla
mi chiedo quando è stato
che il vulcano ha incendiato i corpi
e ricoperto di cenere ogni grazia.

p10

 


46.

Haiku penultimo
Oro colato dal marciapiede,
cascata di calore la coperta
in cerca di un corpo

 


72.

Trafic ralenti, perturbé, inexistant dice la voce
così che la banchina alla fermata Dugommier
presentava il numero doppio di penultimi
raggruppati per fasce orarie ormai divelte
dall’incidente tecnico sulla direzione Etoile.

Ho immaginato allora – quando alla rampa è apparso
il solito convoglio e siamo saliti in massa –
che sulla tratta sarebbe stato un florilegio di squilli
di telefono per donne delle pulizie non presenti
come da contratto negli uffici, manovali assenti dai cantieri,
i professori dalle cattedre e impiegati dalla macchina
che amministra il tempo degli uomini e delle donne.

Invece era calato il silenzio interrotto soltanto dal segnale
di chiusura delle porte alle fermate, nessuno dal mondo
sopra di noi sembrava averci fatto caso, essersi accorto
della presenza di ciascuno dei passeggeri oltre l’assenza
ed è così che ho appreso, perturbé, dei penultimi l’inesistenza.

 


41.

Interstizio
Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta. E accade che anno dopo anno tanto più l’esperienza accresce la consapevolezza della propria invincibilità quanto più si sa con estrema lucidità che non ci sarà mai più nessun nemico ad affrontarci in campo aperto.

p11

 


84.

C’est l’heure! C’est l’heure!
pare che dica dall’alto della torre

l’orologio che domina la strada
e il palazzo della Mairie del dodici.

Dei penultimi ora mancano all’appello
i bianchi, le donne delle pulizie,
i commessi viaggiatori e i pendolari
ci sono solo gli operai e la pelle è nera.

(per lo più, innanzitutto)

Poco distante c’è un signore
che a prima vista pare normale
pure a quell’ora che è minima
se non avesse per calze delle buste
di plastica che dall’orlo sbuffano.

Le ginocchia di un manovale
contro le mie altrettanto
impegnato nel flusso passeggero
della prima metro.

E ce ne stiamo attaccati
studenti ed operai
come le lancette
di un orologio che segni
l’esatta metà del giorno
(e della notte)
c’est l’heure! c’est l’heure!

Così penso alla runner
incontrata all’incrocio poco prima
e al braccialetto che portava al gomito

orologio anch’esso divenuto
da misuratore del tempo contabile dei passi.

 


22.

Nelle ore in cui soltanto i topi
la fanno da padrona
e l’eco dei passi non li sveglia
né li fa fuggire dalle feritoie
che accolgono l’asfalto delle strade
s’ode dei matti l’orazione
alle stelle ormai scappate via
una nenia che è una forma di preghiera
una ninna-nanna al cuore che protegge
il sonno in quell’ora presta dei piccini
disseminati nei palazzi tutti intorno
cullati da lucine di notte disposte dalle madri
ma sono loro, i matti, che sorvegliano i sogni.

p12

 


55.

All’alba il paesaggio dei penultimi non ha colore
le cose se ne stanno nella tinta pastello, in un virato
seppia, che i contorni confonde e con essi i volti
di chi incontri per strada, ora un matto, un clochard
che ti chiede l’ora per finta, pochi spicci, una parola.
E si succedono le stagioni con un segno, la luce
che guadagna tempo, si nutre del buio e corre
la mattina presto e cambia l’angolo di strada, la fermata,
l’ingresso di casa, lo spigolo di muro, l’edicola muta.
Però sulla parete scorge la poesia delle vocali
il florilegio dei colori che il suono della lettera
la bocca fa tremare, la suggestione ingroppa.

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu, voyelles,
sposano la luce e fanno che a parola la cosa esegua,
il rosso della rosa rossa e il nero del cartello.
E pare dire amore in quello stesso tempo.

 


29.

Nel primo vagone dei penultimi un profumo
c’era quest’oggi a fare il macchinista
di quel tipo di viaggio che assomiglia
a certi momenti che la mente vaga
e a un inutile dettaglio, una cosa viva
timida s’aggrappa prima e poi con forza afferra
la provvida catena che ogni anello tiene,
aggancia, così di quel profumo di colonia
più forte ancora era il ricordo del rumore
della sua guancia che brillava e risuonava
dello schioccare delle dita aperte sul viso
come si fa con un muscolo della gamba.
Ed il voltarsi della faccia di mio padre
verso la mia, che da parte a parte scarta lo specchio
mi fa ricordare giovane lui e ora me più vecchio.

p14

 


82.

Interstizio
Sono stato a una serata di compleanno con il mio amico fraterno Skillo. C’era bella gente e un architetto palermitano che mi ha detto: sono di destra. Poi abbiamo mangiato il suo timballo spettacolare e tra una forchettata e l’altra mi ha detto che suo nonno era della X(decima) Mas. Io gli ho detto che quelli della Decima Mas erano stati marinai ancor prima che fascisti. Poi ho salutato tutti perché i ritmi impongono parsimonia delle ore. Così ha voluto a tutti i costi che prendessi un po’ di timballo- da me molto apprezzato- per casa. Mi ha preparato uno strano sacchetto di plastica con un doppio piatto di carta a chiudere tutto. Ho preso al volo un 26 che andava fino a Nation. Eravamo in un crocevia di rue fondamentali a Belleville, Rue de l’Ermitage e soprattutto la Rue des Cascades, quella dell’anarchico Espace Louise-Michel, e della canzone di Yann Tiersen. Sul tragitto scaldavo il timballo con le mani giunte. Arrivato a Nation realizzavo che dalla Place partono due boulevard filosofici, Bd Voltaire e Bd Diderot, a fondare la nazione. E mi sono anche reso conto di abitare da tre anni nel filosofo che preferisco, Diderot. Percorrendo il tratto di strada che mi separa da casa ho incrociato due penultimi. Lei dormiva sottocoperta e lui periscopiava il mare d’asfalto come un naufrago perlustra le distese d’acqua in attesa di aiuto. Ha incrociato il mio sguardo e mi ha chiesto qualcosa da mangiare – non denaro, non amore, non cielo- e mi è parso naturale porgergli il timballo che avevo tenuto al caldo fra le mani fino a poco prima. Gliel’ho lasciato dicendogli, è tutto quello che ho e sono andato via. La X Mas aveva colpito nel segno dell’amore come se quell’acronimo significasse Natale (Christmas).

 


76.

Nel mare – pensavo – non ci sono penultimi
e l’onda incede il passo pare affiorare solo
nell’ultimo tratto, alla risacca, e la deriva
silenziosamente scorre – il tempo d’amare
sul fondo l’anima scandaglia e imbianca –
nell’incessante ritmo delle correnti, il giorno
che all’alba appare traccia orizzontale
di vastità e regale solitudine di sale.

 


24.

Accade talvolta ai penultimi nel dormiveglia
di intravedere cose, smettere di ragionare
e lasciarsi portare dalle cose stesse
per strade impraticate e smesse.

Ora è una busta di plastica nel suo veleggiare
da un lato all’altro del viale Daumesnil, è presto,
sospinta da un attimo di vento, dalla luce sospesa
e rosa, pareva una medusa tra perduta gente, sola,

assistere come me discreto, al florilegio di luci
verdi e rosse, e gialle intermittenti a tratti sull’asfalto
del crocevia e impartivano ordini come marescialli d’antan
a un’armata di disertori, a soldatesche assenti.

Nei comandi di luce dei semafori
piegati ad arco sulle strade vuote
risuonavano i principi e la carta dei diritti
umani urlati a una città deserta.

p15

 


23.

Interstizio
Per strada con la mia collega di spagnolo Sandra ascoltavamo Cesaria Evora. Poiché Sandra è portoghese mi sono fatto tradurre la canzone che avevo ascoltato l’anno in cui era uscita e da cui non mi ero più separato. Così lei mi ha tradotto le strofe man mano che l’ascoltavamo. Non credevo che la frase d’attacco fosse una domanda, netta, precisa quanto la risposta.

Chi ti ha mostrato
questo lungo cammino.
Chi ti ha mostrato
questo lungo cammino
questo cammino per São Tomé?
Sodade Sodade Sodade
della mia terra di São Nicolau.

E allora mi è venuta in mente l’altra canzone della strada, Chan Chan di Compay Segundo, dove si ritrova questa poetica della distanza e in cui la strada la fa da padrona. In entrambi i casi, c’è una dimensione corale, la musica trascina gente, persone, mondi. Qualche giorno dopo, mentre tornavo a casa in taxi dominato dalla stanchezza una macchina davanti a noi si è lanciata in uno strano inseguimento, pericoloso e insensato. Al che il tassista ha commentato: “il ne peut pas faire à sa tête, la rue c’est un partage.” Non può guidare a cazzi suoi, la strada è una condivisione.

Così ho capito tutto ad un tratto come se fosse un’illuminazione imprevista e provvida, che davvero non ha senso dire cose tipo: ognuno deve prendere la propria strada, questo è il mio cammino, ecc, perché la strada non è per persone sole, il cammino è sempre e comunque di tutti.

 


1.

27 settembre 2017
la prima Poesia I Penultimi
Come davanti alle vetrine dei negozi
della haute couture in Avenue Montaigne
così il convoglio dei penultimi
passa davanti alle metrò dei ricchi
e famosi l’Odéon, St Germain de Prés

valgono il passaggio in questa vera alba

perché nero è il colore della pelle
e perché fuori l’alba è ancora senza luce.

p16

 


54.

Interstizio
Da quando ho cominciato questo nuovo lavoro d’insegnante nelle scuole medie di quasi Normandia ho insieme alla fortuna di sentire le temperature del tempo degli adolescenti, il doppio privilegio di “aprire” il metrò di Parigi alle cinque e mezza e di condividere con i penultimi la tratta che va da Nation a Montparnasse. A loro va la mia gratitudine. Perché fino a quando ci saranno i penultimi questo vorrà dire che c’è ancora margine per l’umanità, che non siamo giunti alla fine del viaggio, al termine della notte. effeffe.

Magellano

0

di Edoardo Zambelli

Gianluca Barbera, Magellano, Castelvecchi, 2018, 237 pagine

Io, Sebastián del Cano, el Perro, lo confesso, qui, ora, per la prima volta, ho tradito il mio comandante e ammiraglio, Ferdinando Magellano, nel più abietto dei modi, anche se non fui il solo. E per questo tradimento, così abilmente e vilmente occultato, mi sono appropriato degli onori, della gloria e delle ricchezze che a lui solo, Ferdinando Magellano, sarebbero spettati per diritto terreno e divino.

Queste poche righe si trovano nel prologo del nuovo romanzo di Gianluca Barbera, Magellano, uscito da poco per l’editore Castelvecchi. E già qui si possono trovare degli elementi di continuità con il precedente romanzo di Barbera, La truffa come una delle belle arti, uscito due anni fa. In certo senso, infatti, anche questo nuovo libro si apre con la dichiarazione di una truffa, una truffa questa volta molto più grande, e molto più vera: una truffa ai danni della Storia.

Come il titolo lascia immaginare, la vicenda raccontata è quella della spedizione di Ferdinando Magellano alla ricerca del passaggio che dal Sudamerica avrebbe consentito la navigazione verso l’Oriente. A raccontare in prima persona il viaggio non è Magellano, ma Sebastián del Cano, uno dei pochi sopravvissuti alla spedizione.

Inutile dilungarsi troppo sulla trama, che per quanto avviata a un’ovvia conclusione (la storia è quella) riserva comunque sorprese che sarebbe un peccato anticipare. Mi limito ad accennare a come la figura di Magellano emerga in tutta la sua profondità attraverso il rapporto che instaura con il protagonista (basato sostanzialmente su una fiducia e una stima mal riposte) e come a sua volta il protagonista emerga attraverso il suo rapporto con Antonio Pigafetta, il geografo italiano, anche lui partecipante alla spedizione e tra i pochi superstiti.

Romanzo storico, quindi? Sì e no. Certo, la ricostruzione storica è impeccabile (particolarmente impressionante la conoscenza da parte di Barbera del gergo marinaresco), in alcuni punti sono i personaggi stessi a “dilungarsi” in racconti che delineano il contesto storico e narrano le passate esperienze di Magellano. E poi, più banalmente, è storico se si considera il periodo in cui la narrazione è ambientata.

Detto questo, però, Magellano si presenta soprattutto come un romanzo d’avventura. E in questa definizione, io credo, si trova anche l’aspetto più interessante dell’operazione di Barbera: una sorta di svecchiamento, o forse sarebbe più giusto parlare di aggiornamento, dei modi della narrazione d’avventura. Aspetto, questo, evidente tanto nel passo del racconto – avvincente, senza rallentamenti – quanto nel linguaggio usato, che se da una parte si “immerge”, per così dire, nell’atmosfera storica e ammicca a modelli di riferimento facili da intuire (Stevenson e Salgari su tutti), dall’altra si concede spesso scivolamenti che lo riportano ad una lingua più vicina alla nostra di oggi.

Credo quindi di poter dire che l’abilità di Barbera sta nel raccontare, insieme, una storia e la Storia, senza mai far sì che l’una prenda il sopravvento sull’altra.

Ho iniziato individuando un tema (la truffa) che crea un ponte, una linea di continuità con l’opera precedente di Barbera e adesso ho parlato dei modelli che hanno ispirato questo nuovo libro, accennando a Stevenson e Salgari (ma anche Conrad, Melville e Mari). Ci tengo però in ultimo a precisare una cosa: che questo romanzo assomiglia, più di tutto, ad un romanzo dello stesso Barbera. E non è solo una questione tematica, ma tutto un insieme di componenti. Innanzitutto la componente linguistica (ho già detto della mescolanza tra lingua di ieri e di oggi, così come ne La truffa come una delle belle arti la lingua era continuamente contaminata da inserti dialettali). Anche in Magellano, poi, sono presenti divagazioni, a dire il vero meno che nel romanzo precedente, che della divagazione faceva uno dei suoi pilastri strutturali. C’è, ancora, l’uso di una certa comicità, spesso grottesca, che si ritrova intatta dal precedente romanzo. E più in generale c’è un passo che denuncia l’amore per la narrazione pura, per la semplice volontà di raccontare una storia.

Avventura, ritmo, divagazione, comicità, amore per la trama e cura della lingua: sono i tratti che consentono di tracciare un profilo di Barbera come narratore. Ed è il caso di dirlo, è uno dei più bravi e divertenti in circolazione.

 

Helena Janeczek vince il premio Strega 2018

8

Helena Janeczek, membro fondatore di Nazione Indiana, ha vinto il Premio Strega 2018 con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda), travolgendo di gioia tutti gli indiani. Ripubblichiamo questo suo pezzo apparso su Focus-In e proposto su NI l’8 agosto 2017.

Natural Born Italian

di Helena Janeczek

Un giorno litigavo con mia madre alla stazione di Gallarate. Lei avrebbe voluto aspettare che il temporale si calmasse, io togliermi al più presto i vestiti fradici. Qualcuno ci ha segnalate ai carabinieri. Con i miei occhi chiari e le Converse stinte, risultavo la badante violenta della sciuretta elegante. A quel punto non serviva che spiegassi chi ero e nemmeno che mia madre, pur scossa da una terribile crisi di pianto, trovasse il modo di confermarlo ai carabinieri. Ci hanno separate. Non potevo avvicinarmi a mia madre. L’hanno fatta salire sulla gazzella, accompagnata al mio portone e aspettato finché non sono arrivata, a piedi.

È strano quando cadono le maschere. Da un lato il pregiudizio capace di vedere cose mai accadute – la straniera che malmena la povera signora italiana. Dall’altro la maschera che io stessa porto tutti i giorni – il colore della pelle, la lingua del posto parlata senza un accento che non sia quello locale. Sarei stata più felice se avessi potuto raccontare quanto sia bello portarsi dietro tante lingue e trovarne una da cui farsi adottare. Amarla molto, la lingua madre adottiva, sentirsi ricambiata come una bambina che impara. L’innamoramento che vela lo sguardo e rende fiducioso ogni gesto è finito, in questi anni.

Vivo in Italia dal 1983. Ho lasciato la Germania dopo aver terminato il liceo. Nel tempo passato sin d’allora – trentacinque anni – molte ragazze hanno concluso il ciclo che va dalla nascita alla laurea, al primo impiego o addirittura al primo figlio. Di italiano ho: un figlio, un passaporto, un codice fiscale. Ho smesso di scrivere in tedesco sin da quando ho pubblicato Lezioni di tenebra, nel 1997.

Però qualcuno sistema ancora i miei libri nello scaffale della letteratura straniera, qualcun altro s’è lamentato (giuro) che gli editori lavorano così male oggigiorno da omettere l’edizione originale e il nome del traduttore. Qualcuno mi presenta sempre come scrittrice tedesca (o polacca, o polacco-tedesca, o polacco-tedesca d’origine ebraica), anche se non so l’ebraico, pochissimo il polacco e, in tedesco, faccio ormai fatica a scrivere persino un’email. Qualcuno trova gusto a segnalare un errore ortografico come prova che non sappia davvero l’italiano, mentre a un Mariorossi la stessa svista verrebbe imputata come prova di distrazione o d’ignoranza.

Che ci restassi male era frutto della mia ansia da parvenue delle lettere italiane, variante del narcisismo dell’artista. Il problema era mio, non dell’Italia da cui non si poteva pretendere che fosse pronta tutta intera a rendersi conto di non appartenere più soltanto ai Mariorossi. Me lo ripeto anche oggi, però il clima che si respira mi porta a percepire queste sciocchezze come sintomi di poco conto d’una questione assai più seria.

Italiani si nasce – non si diventa. Anzi, non basta neanche nascere in Italia per essere considerati italiani. Lo dimostra l’ostruzionismo feroce e la scarsa premura a superarlo che blocca da anni la nuova legge sulla cittadinanza: una legge che non si propone neanche di sostituire lo ius sanguinis con lo ius soli, ma lo vincola allo ius culturae, vale a dire alla frequentazione d’un ciclo scolastico. Il pregiudizio esplicito è assai più grave di quello implicito, quello che in inglese viene chiamato bias. Il problema è che non sono disgiungibili. Il razzismo nasce da un terreno ricco di pregiudizi latenti che si annidano anche in chi non può essere tacciato di razzismo (o omofobia o maschilismo). Capita che l’irritazione tiri fuori un “frocio”, “puttana”, “negro di merda” alla persona più convinta delle proprie idee progressiste. Certo, quando si è arrabbiati, si dicono cose che non si pensano davvero. Ma in quel momento si sente veramente il bisogno di ferire. E il sentimento è così forte da fornire pronta l’arma delle parole più offensive.

Negli anni Ottanta la presenza di stranieri in Italia era minima, i bambini di colore facevano tanta tenerezza. Predominava un senso d’accoglienza e nel mio caso – dato che venivo dalla favolosa Mitteleuropa che esisteva soprattutto nel catalogo Adelphi – pure una cospicua esterofilia. Poi sono arrivate le ondate migratorie e, con esse, la xenofobia e il razzismo. Nei primi decenni, c’era motivo di sperare che i processi di integrazione avessero attenuato ostilità e paure, cosa che, in parte, è avvenuta fino agli anni recenti, gli anni della crisi che hanno reso il razzismo più incarognito e cristallizzato, e dunque un perno centrale della politica. Oggi “xenofobia” è quasi sempre un eufemismo. Esistono generazioni di ragazzi che sanno parlare e scrivere solo in italiano, ai quali si continua a negare ciò che, di fatto, sono: italiani. Non erano ancora nati o erano piccolissimi, quando cominciai a lavorare a Lezioni di tenebra. Però le leggi scritte e anche quelle non scritte le detta la maggioranza che, in tempi di populismo, pretende d’incarnare il popolo tout court. Per la visione tanto diffusa secondo cui vengono prima gli italiani – quelli di sangue – né a me né a tanti ex studenti delle scuole e università italiane che oggi sono romanzieri poeti e saggisti spetta il diritto d’intendere come nostra la vera patria d’uno scrittore: la lingua in cui s’esprime.

Fossi più giovane, sarei forse tentata di rifare i bagagli. Ma le scelte che vent’anni addietro mi aprirono il futuro, sono oggi diffcilmente reversibili. Qui ho messo radici, qui vorrei restare, in fin dei conti. Così mi sto abituando all’idea che scrivere in questa lingua sia diventato un gesto che si inserisce nel quadro d’un conflitto destinato a durare a lungo e, probabilmente, incrudelire. In questa luce diventa secondario che i miei libri appaiano apparentati a quelli di molti autori con un retroterra nell’Europa centro-orientale e nella storia ebraica. La realtà che conta la determina chi ha il potere di stabilire chi sta dentro e chi sta fuori: sicuramente o soltanto sul piano dell’inclusione simbolica che è poi quella che riguarda la collocazione d’uno scrittore. Un tempo mi chiedevano di Joseph Roth e Elias Canetti, di Walter Benjamin e Hannah Arendt, convinti che li avessi letti in originale, e sottintendendo, se non una filiazione, una particolare vicinanza. Oggi risponderei che non faticherebbero a riconoscersi nelle vicissitudini del rapper romano Fat Negga, al secolo Luca Neves, che nel 2016 ha rischiato l’espulsione a Capo Verde dov’è stato solo una volta, da bambino.

Erano migranti e rifugiati: ostracizzati, detenuti nei campi d’internamento delle nazioni libere, sottoposti a infinite angherie per un visto o un permesso di soggiorno. Alcuni si tolsero la vita. L’impresa di continuare a scrivere in qualsiasi lingua avessero poi scelto, fu faticosa e lacerante persino per i più fortunati e combattivi, come ogni decisione che comporta una rinuncia, un parziale sacrificio. Ho avuto una vita infinitamente più facile e nutro una sincera gratitudine per la benevolenza che ho trovato in Italia. Ma sono figlia di profughi.

Enza Silvestrini – Controtempo

3

di Paola Nasti

In esergo alla nuova raccolta poetica di Enza Silvestrini (Controtempo, Oèdipus, 2018) un verso dal secondo libro dell’Eneide, tratto dall’incipit in cui l’eroe racconta alla regina del suo viaggio e della distruzione di Troia: sed si tantus amor casus cognoscere nostros/ et breviter Troiae supremum audire laborem/ quamquam animus meminisse horret luctuque refugit/ incipiam (….). A chi chiede il racconto doloroso, sebbene con un brivido di orrore si rifugga necessariamente dal lutto, Enea risponde risolutamente, virilmente: Incipiam – comincerò; nonostante tutta la pena del rievocare. Enea è l’eroe del nuovo inizio dopo la devastazione della patria. Il maschile che fonda le città, lasciandosi alle spalle affetti, luoghi cari, nostalgia. Anzi. Il dolore del viaggio e del ritorno – nostos/algia – è la sua cifra più significativa. Impossibile restare; impossibile partire; eppure: è necessità andare, fondare nuove città, lasciarsi alle spalle le rovine della città devastata. Allontanarsi dal luogo della devastazione. Se è la memoria questo luogo di macerie; se è il ricordo, l’identità a sbriciolarsi giorno dopo giorno; è possibile allontanarsi? è possibile restare? come può un figlio allontanarsi dalla rovina della patria – in questo caso: “matria – motherland” –  senza avvertire l’angoscia insopportabile della colpa? senza essere investito dal dolore per l’abbandono? Eppure si deve. Si deve lasciare la regina innamorata ai suoi strazi; le care strade dell’infanzia occupate dal nemico. Tradire la parte più profonda di se stessi. Questo richiede la vita. Tradire. Che è poi anche un “tradere”, tramandare memoria, raccontare di questa dolorosa necessità – incipiam. Il libro della Silvestrini affronta con energia maschile, col dinamismo dell’eroe che va, di Ermes più che di Estia, la malattia e la fine della madre. Estia ed Ermes. La conservazione, la permanenza, il focolare domestico; e l’andare, il veicolare messaggi e retaggi; Didone ed Enea; il femminile e il maschile. Entrambi sempre e necessariamente connessi, in ogni uomo, in ogni donna. A chi si ostina nelle rigide scansioni di genere, estendendole come criteri di valutazione alla produzione artistica e letteraria, questa raccolta poetica risponde con energia che in ciascuno coabitano entrambi gli dei – quella/o che resta vicino alla cenere; e quella/o che procede allontanandosi dal mondo in rovina.   Che è poi la fine del mondo dell’infanzia. Di quella patria che è la prima fase della vita. O della memoria invasa dal morbo.

La poesia di Enza Silvestrini ripercorre con ostinazione e tenacia a volte impietose lo svanimento dell’identità. La pietas, la devozione filiale, non possono medicare la violenza del distacco, la ferita che lacera il tessuto della memoria e dell’affetto. E allora non resta che raccontarne. Resistere raccontando, soprattutto poiché “…. il presente è /questo rogo ardente che dilania la città/ le urla così flebili/ appena un sussurro/ le foto o le statue degli antenati/ il peso accatastato sulle spalle/ delle quattro ossa di mio padre/ che gli anni e la miseria hanno reso svagato/ pallido come un’ombra/ e noi tutti lo siamo/ solo alcuni più di altri //  mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato / c’è bisogno di una radice da piantare in esilio (…)”. La responsabilità di sopravvivere ai morti e di portare a compimento l’opera. Mestiere impossibile e necessario. Lo sradicamento è così il tema portante di Controtempo. La lacerazione della memoria, dell’identità e degli affetti sono cifra di un altro sradicamento – quello del linguaggio. E la poesia, come sempre, ancora una volta, per fortuna, risponde a questa necessità – di restituire, reinventare il linguaggio quando esso è misconosciuto dalla neolingua dell’informazione. Nell’assedio del nuovo esperanto in cui siamo quotidianamente immersi la lingua poetica cerca di rifondare il linguaggio nella comunicazione, restituendogli la sua funzione di medium, di relazione: com-unicare, ri-cor-dare. Forse ogni poesia, ogni tentativo poetico, va in questa direzione, forse anche a prescindere dalla sua efficacia artistica. Rifondare la casa invasa dagli stranieri, da presenze estranee che la spossessano, le tolgono l’anima: “verrà un giorno/ dove la storia tra noi/ sarà azzerata/ non ci saranno stanze sconosciute/ o alberi amici/ non varranno testimonianze/ foto o scritti/ mi darai nome ancora una volta/ ma sarà di qualcuno marginale / e allora così slegati estranei/ ci ameremo di più/ tutti lo dicono/ verrà questo giorno”. La poesia comincia sempre nel luogo dell’azzeramento, nella minaccia della sparizione. E, significativamente, altro polo di questa raccolta è il tema della rovina, del resto, del reperto archeologico e il suo intreccio con la natura che l’avviluppa, lo abbraccia, lo conserva e lo nasconde e gli ricorda il suo futuro di dissoluzione e scomparsa: “tra queste rovine/ da diversi secoli sono tutti morti/ spetta a noi riportare qualche segno di vita/ così ci muoviamo lenti per toccare qualcosa/ che sappia di erba/ l’odore selvaggio della rucola/ abita qui da tempo/ penetra le narici… si incrociano reperti e mosaici/sbiaditi dalle intemperie/ non facciamo che ricostruire/ accavalliamo ipotesi felici”. L’opera diuturna del discorso che stabilisce trame e tessiture, come le erbacce tra i reperti archeologici, ostinatamente. E la resistenza consiste in questo parlare alle macerie, a quello che resta del passato: “parlo con le pietre/ in questo grande campo/ sostengono di essere state vive/…saremo anche noi rocce disfatte/ pulviscolo piuttosto/ aperture di pensiero improvvise/ e mi addolora la mia sorte/ quella che sopporto/da migliaia di anni/come tutti in fondo (…)” . La vicenda accomuna pietre e carne, fiori coltivati in vaso ed erbe spontanee:  “portami via al riparo dal vento/ dove il bosco è sontuoso di alberi fitti della/ statua acefala è rimasto un bel corpo di / muscoli e vene levigati dal marmo (…)”.  E alla fine la dissoluzione può persino risultare un’evaporazione lenta e degna di uno sguardo emozionato e curioso. Nell’ultima sezione della raccolta la dimensione del lutto e del tragico sembrano allargarsi in una meditazione quasi pacificata sulla soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Resta alla poesia rendere con la parola non solo la virtus che nasce dalla dura necessità; ma anche questo svaporare, questo dissolversi come atomi che lasciano il legame e questa ebbrezza di una nuova libertà: “ti immagino così svaporato,/ a resistere tenacemente nell’aria/ ancorato a qualcosa di solido/ per sottrarti a questa incontenibile flessibilità/ che ti sospinge da tutte le parti// chissà cosa si prova/ in questo fermento di libertà/ se c’è un principio/ di bellezza o di gioia/ in questo non essere (…)”.

 

* * *

 

 

quamquam animus meminisse horret (Eneide, libro II)

poco a poco
il mondo scompare
inghiottito dal buio nulla

prima vengono i ricordi
soffocati da fumo acre
stordimento delle voci e degli ultimi respiri

la memoria si rifugia
in luoghi sempre più antichi
ritorno bambino tra le braccia
della madre assente
giovinetto nei lunghi allenamenti
o custode del telaio bianco
torno liquido
ancora disperso
esitante sulla strada da fare

anche i nomi
tutti i nomi
quelli delle cose
dell’amore dell’ira o di ciò che ne resta
vanno via in qualche botola lontana
che non riapro mai
ogni gesto è nuovo
smottamento veloce di residui vaganti
i movimenti dimenticati
nel loro stesso compiersi

e quando per tre volte
il vuoto impetuoso mi respinge
uccidendo anche l’illusione di te
la salvezza sarebbe non avere alcuna salvezza

non voglio più vedere il presente
e il presente è
questo rogo ardente che dilania la città
le urla così flebili
appena un sussurro
le foto o le statue degli antenati
il peso accatastato sulle spalle
delle quattro ossa di mio padre
che gli anni e la miseria hanno reso svagato
pallido come un’ombra
e noi tutti lo siamo
solo alcuni più di altri

mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato
c’è bisogno di una radice da piantare in esilio

la pretesa di esser vivi in questo universo di morti
incalza lentamente
imbarcarsi di nuovo e partire
trovare terre da coltivare
altri uomini da uccidere
e lasciare traccia di sé

poi il mare vibra incolto

****

l’anima se ne va confusa
in questo limbo di sopravvissuti
echi di questo o quell’altro mondo
tuonano all’orecchio sbigottito
emergono frammenti di facce
storie mobili e scomposte
assapori la libertà insensata e divina
di posizionarli a modo tuo
le vie si fanno irregolari
nessuno può raggiungerti

mi batto in difesa dell’esattezza
provo a condurti sulla verità dei fatti
adduco prove minuziosi dettagli
riposiziono date e connessioni logiche

tu sembri convinta
tra le distrazioni del bucato e della pioggia
e per qualche istante
il mondo ridiventa uno
ma poi crudelmente ricominci la storia
di questo o quello
incurante di tempi e luoghi
fatti e circostanze
non c’è più modo di ritrovarsi di nuovo

****

la gloria delle ossa
si alza e si inabissa
intorno al soffio
segno che sei viva
nell’immensa immobilità
del corpo bianco
ritrovi improvvisi vuoti
sotto gli zigomi
nello splendore del pomeriggio

avanziamo verso la sera
in questa calma imperfetta
di sonno e veglia
la scatola del caffè è sempre la stessa
da almeno dieci anni

****

dalla cucina alla stanza contiamo venti passi
riducibili a quindici con un po’ di sforzo
le finestre qui
sono tutte sullo stesso lato
da est a mezzogiorno
per filtrare sole e pioggia
ti mostro gli spifferi nel cuore della notte
che confonde le pareti e i mobili di legno
pieni di cassetti e lenzuola bianche
tu conservi anche quelle strappate?
dobbiamo attrezzarci per l’insistenza invernale
che in questa casa
cresciuta senza ragione in diagonale
ammala di più le ossa

di qui non s’esce
che per qualche visita medica o di rara cortesia
facciamo una mappa dei percorsi possibili
procedendo dalle necessità quotidiane
il cane ha deciso di occupare il cortile
senza pensare alle conseguenze della sua assenza
mi presto a fare tua sorella Lola
vecchia o a vent’anni
è indifferente

***
le migrazioni convergono
nel centro del mondo
portando le spoglie di ogni passato
di geografie lontane e diverse
accese d’ira e inutili amori

l’esile potenza di ciò che è stato
reclama i suoi diritti di eternità
ma al presente
non c’è niente di preciso
che possa sostenerlo
impatta in un terreno molle
che può inghiottirlo ad ogni istante
e certamente lo farà
appena si chiuderanno gli occhi

****

portami via al riparo dal vento
dove il bosco è sontuoso di alberi fitti
della statua acefala è rimasto un bel corpo
di muscoli e vene levigati dal marmo

una torma di ombre
va spargendo i suoi lai
e in questo punto del prato
dove l’erba è più rada
si ammassano formiche speranzose
a caccia di briciole o cadaveri ambigui

mi accorgo d’improvviso
che qui troverei milioni di tane
ma di questo pensiero
la libertà mi spaventa
come i sentieri troppo isolati

quando mi stendo
il prato diventa una tomba
di fili d’erba rissosi e piccole vite

****

il fatto che sia già primavera
è una deduzione di piume
tentativi di teneri voli
cadono in tanti
dalla sommità dei nidi
e forse la specie
non conosce il dolore

Pensieri sparsi a poche ore dalla partenza per Lisbona

0

di Cristiano Denanni

(Pubblichiamo un estratto dal romanzo d’esordio di Cristiano Denanni («L’atlante dei destini», Autori Riuniti 2018). Si può disegnare una mappa del mondo attraverso le storie delle persone che lo hanno attraversato, che hanno amato sofferto e gioito? Stefano Solinas, il protagonista di questo romanzo, credeva di sì)

Torino, 16 settembre
So che sei in città e prima che io riparta ho bisogno di raggiungerti. Getto sul tavolo la mappa e la apro, dove sei? Ho camminato partendo da Sud, da Mirafiori; ho camminato ma ora voglio disegnare la ricerca sulla mappa davanti a me, voglio puntare col dito ciò che sto facendo. La sala della Biblioteca Nazionale è piena di una strana luce, le vetrate rettangolari incorniciano Piazza Carlo Alberto battuta da quel sole che viene dopo la pioggia, contraddittorio e miserevole eppure bello, amaro ma bello.

Mi riparo qui perché sono marcio, gli ombrelli mi infastidiscono e poi li perdo.

Inizio da questo posto. Punto gli occhi, punto un dito, perché ti sto cercando. Come ho fatto a piedi, parto dai bordi, dalle periferie, da dove forse sta ancora piovendo, o deve ancora cominciare.

Parto da quei palazzi rossi e marroni di Corso Giambone che erano l’accoglienza dei più poveri molti anni fa, tra fabbriche e ghetto, fra i campi sportivi e i cortili pacificati. Dove sei? Probabilmente molto prima del dito, forse molto più a sinistra dello sguardo, indubbiamente molto più lontana dell’intenzione di trovarti, ma non si sa mai, non è detto.

Torino batte, ribatte e rumoreggia. Mirafiori un tempo era erbacce e fabbrica, ora è locali e vialoni e il pensiero di essere stati inutili, ma nulla è stato inutile, è che il passato da solo non basta.

Ti sto cercando e so già che non ti troverò, ma voglio sapere dove hai camminato, dove un passante ti ha notata, dove un muto condominio ti ha distratta. Sulla mappa corro ancora, da Sud a Nord, e mi accorgo che devi aver osservato anche tu questi momenti. Lo sguardo si tiene saldo al dito, la carta è liscia, la legenda sul bordo, lontana.

Come si fa a pensare alla legenda di una città? Come si pensa di nominare vite senza raccontarle, come si esclude il tutto da un contenitore: la rabbia da una lotta, il suono da una parola?

Cammini diversamente da come ho sempre camminato io, ma cammini ugualmente.

Sei disperatamente bella nel tuo cercare un mondo che ti corrisponda, siamo maledettamente buffi a cercare sempre, a cercare ancora, a salire anziché accomodarci, a percorrere scalinate, a puntare il naso alla cima.

Il dito svolta e arriva ai piedi della collina: questa è la casa di Salgari, che aveva moglie figli e sigarette come alberi in tempesta, e parole e atlanti per raccontare storie. Corso Casale è traffico e fiume, eppure in certi pomeriggi ricorda mondi lontanissimi, quei pirati e quelle germinazioni. E ci sono giorni in cui l’amore è un tutt’uno con il lontano, e il fiume ti ricorda che per quel lontano si parte da qui.

Non finire di correre, non rispondere, non ti azzardare, io ti troverò. Anche se non ti trovassi lo farò, perché cercarti è diverso dal pensare a quanto sarebbe bello, a quanto potremmo fare e a quanto si potrebbe condividere. Cercare è prendere possesso di uno spazio e non vivacchiare, cercarti è un altro modo di dire il tuo nome e, in certi momenti, l’unica forma del mio esserti accanto.

Quando abbiamo smesso di tentare quello che vogliamo?

INTATTI FANTASMI CHIEDONO IL REALISMO: JACK SPICER

3

UN’INTERVISTA A NATHALIE QUINTANE

a cura di Andrea Franzoni

In occasione della prima pubblicazione in italiano di After Lorca, di Jack Spicer, presso Gwinplaine edizioni, ho chiesto a Nathalie Quintane ― scrittrice, intellettuale di rilievo e autrice della prefazione all’edizione francese delle opere complete di Spicer ― di tornare su alcuni dei punti più rilevanti, a mio avviso, della poetica spiceriana e della parabola che ha attraversato nella poesia americana ed europea.

Ho provato a portarti lontano ( cinque poesie)

0

di Antonio Merola

Ho provato a portarti lontano,
ma il mostro ci ha seguito ovunque
come a spaziare l’alberata in una grillaia:
sentiva l’odore del sole, tu piangevi
dietro a ogni angolo. Una lubricità
non bastava a nascondere la sfogliatura,
a scivolare altrove: avevamo paura
delle grandezze
come l’acqua dentro una fontana.

***

l’unicità si dipanava lungo la steppa
come soli freddi o rovine
nella pioggia: la notte durava una volta
sola come di fronte a un nemico
che voleva mutilare l’origine comune
prima della disparità delle losanghe:
e allora chi giocava ancora per non essere scoperto
cercava la musica del mare
come una speciale isola di bianchezza o schianto.

***

Nemmeno una scogliera di bianco
rugava la pesca
come la nostra immobilità che seguiva la pioggia
nelle montagne: si abboccava all’ardiglione
perché bisognava mangiare come una resipiscenza
ti sentivo lontano una strada
che forse vuoi percorrere da solo
mentre sulla collina una voce suonava il motivo
dell’abbandono: la binarietà era il nostro destino.
Avevamo commesso l’errore dei dinosauri:
essere troppo grandi per camminare.

***

c’erano solo i mostri che attraversavano la brina
come una piorrea dell’infinito oppure accecati
dalla stella polare: era l’estinzione della strada
contro il muro recintato di caligine
che riserenava la città… bisognava passare oltre
la vita: ho imparato che tutto si destina.

***

 

E così vengo imbestiato dentro il vagone spoglio di rifugio:
è ora di ritornare a casa attraverso l’oscuramento
negli occhi di uno sconosciuto oggi che tutto rimane uguale
a una pietraia come l’orientarsi della mia abitudine
allo scoliasta che rintraccia in uno spicilegio la favola a margine
della gigantessa slanciata senza patema sopra le stelle
cadute oltre lo strapiombo: amareggiare la città
non serve a niente davanti allo squadrare del treno.
Voglio essere come un forestiero nel mondo
degli uomini: fuori rintrona ancora l’ultima migrazione.

 

da In che luce cadranno / Gabriele Galloni

2

 

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile

***

Ai morti si assottiglia il naso. Quando
li sogni se lo coprono. È normale
vederli a volto coperto passare
dal corridoio al bagno alla cucina.

***

Si parlava dei morti. Sulla tavola
i resti sparsi della cena – quelle
bistecche appena cotte. Il frigorifero

in dialogo amoroso con le stelle.

***

I morti vanno in cerca di riposo
l’uno dell’altro facendosi carico
inutilmente; ché nel continente
si va un giorno in avanti e due a ritroso.

***

I morti hanno fiducia nella sorte.
A notte fonda salgono sugli alberi
del tuo giardino; li trovi che all’alba
non sanno come scendere dai rami.
Li vedi; non ti vedono. Li chiami
e non ti sentono. Li aiuti – scendono.

Ogni notte ritornano e dimenticano.

***

I morti seguono un apprendistato
severo. Per sei mesi sono semplici
ematomi; poi superfici lisce.
E se divengono quel che già sono

è solo merito loro (non scivolano).

***

I morti continuano a porsi
le stesse domande dei vivi:
rimangono i corsi e i ricorsi
del vivere identici sulle
due rive. In che luce cadranno
tornati alle cellule.

***

La pornografia dei morti
è un vuoto di finestra, un passo

tra la veranda e il giardino. È quello
che noi sogniamo tutto il pomeriggio.

***

Le catacombe
delle case bianchissime;
due morti fra i tanti,
due fratelli,
ci porgono le offerte che in virtù

di trapasso donarono gli amici.

 

In che luce cadranno / Gabriele Galloni. RPlibri, 2018
apparso nella collana L’anello di Möbius, sezione diretta da Antonio Bux

Minima Oralia : Luigi Cinque

5

 

Oral Poetry e Identità Selvaggia *

di

Luigi Cinque

 

Oral Poetry. Se ne parla molto spesso senza cognizione. Qualcuno crede ancora all’equazione che fu dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta, diventata da noi sottoequazione e farsa di provincia, di colonia, ovvero: il passaggio semiautomatico da medio poeta beat&freak a rockstar, e pure con significato politico. Da lì deriva probabilmente quell’auto referenzialità – quella speciale sindrome Bruce Springsteen, Patty Smith quando non Kathy Berberian o Demetrio – che oggi consuma i nostri poeti performer/lettori di poesie con musica. Quell’analogia era, in buona dose, dovuta al forte imperialismo americano postbellico, al suo potenziale di esportazione della lingua e il conseguente mercato che si produceva a scapito, si capisce, delle singolarità culturali colonizzate. C’era posto per quasi tutti i white americans. In un certo senso facevano un’azione di pulizia. Il furore mercantile dello zio Sam induceva, procurava e giustificava, a sua immagine e somiglianza, nei giovani readers&poets americani, una subliminale disposizione al saccheggio dei «negri», dei «colored bluesmen», degli hobos, dei dropout, del folk dei workers «with Grape of wrath» alla Steinbeck o «with bound for glory» alla Guthrie ma anche degli indiani, dei pakistani, degli aborigeni non americans del mondo. Li derubavano dei loro versi, dei loro racconti, dei loro modi di comunicare, delle loro ripetizioni. I nostri eroi beats erano assetati, famelici. Mescolavano il tutto in salsa Pound, Whitman, Baudelaire, T.S. Eliot, Rimbaud e rimodellavano a suon di black bebop in neorealismo on the road, in american way un po’ maledetta, leggendo in quei reading (che noi un paio di decenni dopo credemmo mitici) nei College in subbuglio, nelle strade e soprattutto nelle cantine dei bianchi new left, degli ebrei, dei siciliani, degli irlandesi, dei wasp.

Avete mai visto un nero in quel folto gruppo di beat/suca/parole? Pochissimi. LeRoy Jones (che non era ancora Amiri Baraka, sia chiaro) fu una delle poche eccezioni. Il procedimento era semplice: i nostri eroi riprendevano cinquant’anni dopo le avanguardie europee e, in un’America che si preparava all’hamburgerizzazione del mondo, a forza di droghe e di malinteso buddismo zen, teorizzavano che meno si pensa e più si è geniali; che tutti siamo geni e non lo sappiamo; che per diventarlo basta liberare se stessi «fino in fondo», anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi e, visto che siamo tutti geni, ne conseguiva, guarda guarda, che tutti possiamo diventare senza problemi geni del consumo: 1950, nascono i primi veri consumantes della storia umana. Tornando all’arte, i nostri eroi contribuirono (ma non furono i soli, mettiamoci le varie avanguardie!) anche alla nascita di una essenziale figura del Novecento: il genio artistico cretino come ci dice Alfonso Belardinelli.

Gli editori accorrevano spavaldi, li coccolavano, li spompinavano, promuovevano i loro eccessi infantili. I discografici fiutavano l’affare e fu così che molti di loro passarono al più remunerativo mercato musicale e il Ministero dell’Immagine Americana nel Mondo approvava. Dopotutto un certo antagonismo libertario faceva molto bene all’export, ma con la giusta dose di sovversione funzionale, si capisce, senza mai trasformarsi in eversione, altrimenti la questione si sarebbe complicata e il Sistema sarebbe poi stato costretto a usare metodi forti: vedi le morti eccellenti del rock fino a Lennon, per intenderci.

Tra questi poeti e cantori ci sono state schiere di esempi luminosi, certo, da Jim Morrison a Patty Smith passando per lo stesso Dylan. Da bravi inconsapevoli coloni siamo cresciuti con loro. Li abbiamo imitati come potevamo e, per anni (o forse ormai per sempre, perché hanno popolato i nostri vent’anni) li abbiamo molto amati.

Ma se torniamo al presente e restiamo in argomento, vediamo che l’oral poetry di casa nostra non fa che ribadire davanti al pubblico del primo quarto del terzo millennio fenomenologie ormai comico/mistiche del genio cretino.

Facciamo allora un po’ di chiarezza: l’oral poetry non ha niente a che fare con l’esercito dei poeti sordi, dei performer neostonati e postavanguardistici; non si collega alla nobile tradizione della poesia sonora europea; non è, come rischia di apparire, l’ennesima estrinsecazione del narciso celibe; non è una rivoluzione mirata a liberare il verso poetico dalla pagina angusta e librarlo nell’aere; non si tratta di mettersi davanti a un microfono e telefonare le proprie poesie leggendole con della musica di sottofondo. La «poesia detta» – chiamatela pure spoken poetry –, la parola-verbo, arriva da molto lontano. Essa si basa essenzialmente sull’ascolto, sulla pratica religiosa dell’ascoltare, del sentire. L’oral poet – diciamo così – che potremmo chiamare tranquillamente electric shaman – ascolta gli ascoltatori prima ancora di parlare, instaura un feedback e quando infine parla racconta quanto sta ascoltando in quel momento.

Non c’è voce poetica (suono) senza ascolto del mondo. Né può esserci alcuna forma di poesia orale senza quel piccolo teatro che è l’orecchio nel quale l’essere rimette in scena il «reale» e lo rappresenta nella forma alta di intrattenimento; non esiste oral poetry senza quell’attività di leghein (ascoltare, conservare, raccogliere, riflettere silenziosamente) che si è «smarrita» ci dice Heidegger «in favore dell’affermazione di un logos», di un io narciso, «tutto preoccupato di dire, affermare, discorrere».

Solo in questo modo si arriva alla «parola-suono» (che è la casa dell’essere), a una parola transitiva che è in grado di mostrare, manifestare al di fuori di se stessa, qualcosa che senza di essa rimarrebbe nascosta, o perlomeno invisibile.

«Il verso cantato deve cominciare sempre con il suono della vostra pelle» diceva uno dei Dagar brothers, cantante di Dhrupad, a proposito dell’inizio dell’esposizione. Nel suo caso i versi dei poemi vedici si tengono come riferimento e si improvvisano, si abbelliscono e all’istante vengono inventate tutte le possibili varianti ritmo-melodiche, ma dentro la tradizione. Via via la sua parola cantata diventa solo significante, suono, e perde lentamente il significato, che deve essere tuttavia percepito nella forma di una sparizione, come un frullare di ali ma senza vedere neppure il volo di qualcuno, uccello o demone che sia.

L’oral poetry viene comunemente definita come poesia composta e trasmessa senza l’ausilio della scrittura. Dunque siamo alla sintesi orale, non epica; alle formule che hanno il potere, se dette, pronunciate, cantate nel modo giusto, di mediare con l’altrove, con gli dèi, ognuno dei quali oltretutto ha una sua vibrazione su cui sintonizzarsi. La poesia orale esiste solo quando diventa e produce suono, realtà altra, parallela.

Le parole devono mantenere certamente un senso percepibile che si dissolve in altro, in una sorta di Identità Selvaggia, proprio nel momento in cui si pronunciano. Tutto questo non ha niente a che fare con l’idea, spesso sentimentale, che abbiamo di poesia. La poesia orale è suono. Suono che magicamente non esprime ma lascia sparire il poeta o, in certi casi (pochissimi) l’attore-medium che coscientemente fa risuonare versi di altri.

Chi ha avuto l’esperienza di vedere Carmelo Bene in azione, in scena, o chi con lui ha collaborato, come mi è capitato brevemente di fare, lo vedeva davvero sparire dietro il suono dei versi. Carmelo non esprimeva o comunicava niente. Tracciava traiettorie che disegnavano figure sonore e quelle figure (qui sto citando Alessandro Baricco) erano icone dell’umano. La poesia in questo modo smetteva di essere una telefonata fatta per comunicare e diventava un’entità di pietra.

Senza dimenticare l’attenzione ossessiva, obliqua e malvagia, che Carmelo poneva sull’uso del microfono. Quanti infiniti microgesti egli studiava tra i mille gradi di vicinanza alla bocca. Così il microfono diventava, come per i cantanti di rango, uno strumento che si suona come la coulisse di un trombone. Per fare questo serviva tecnica, esperienza, capacità di sintonizzare il proprio orecchio con il feedback che arrivava dai monitor di palco. Il microfono era l’amplificazione della voce, era la maschera greca, era la laringe e la corda vocale che proiettava l’io nel cosmo, era la capsula spaziale, era il nuovo capitolo della «presenza della voce».

Eccoci alla voce, alla sua presenza nel mondo, all’esercizio fonico che, dice Paul Zumthor, si manifesta preminentemente nell’uso del linguaggio. Zumthor fa una dichiarazione chiarificatrice: «Una voce senza linguaggio non è abbastanza differenziata da far passare la complessità di forze del desiderio che la animano, mentre la stessa impotenza colpisce la lingua senza voce che è la scrittura. Dunque le nostre voci richiedono il linguaggio e nello stesso tempo godono nei suoi confronti di una libertà d’uso pressoché totale e che ha al suo culmine il canto».[1]

Ma c’è qualcosa di più, ed è la relazione antropologica tra parola e musica. Eviterei la linea di fuga del folklore, ma lo stesso mi consento un richiamo al mondo tradizionale.

La parola poetica di tradizione si avvale di una precisa tecnologia dell’organo vocale. È di per sé significato e significante. Il poeta di tradizione orale controlla e suona «quell’eccesso di connotazioni che la voce, qualsiasi cosa faccia, porta con sé. Dal rumore più insolito al canto più squisito, essa crea una gamma molto vasta di associazioni culturali, musicali, quotidiane, emotive, fisiologiche» diceva Luciano Berio.

C’è dunque un’identità tra suono e significato che è da sempre la base della poesia di tradizione orale. Il poeta, il cantore, il cuntista modella la materia sonora per spettacolarizzare il frammento poetico o l’epica, e in tal modo il racconto che in esso si realizza non è propriamente quello che tende a ricostruire un passato secondo una prospettiva temporale ma diventa Onniscienza di carattere divinatorio.

Se ricerchiamo, per quel che ci è possibile, nella classicità mediterranea, troviamo che tra parola poetica e suono-musica esiste una vera e propria Identità Selvaggia: permane il senso che la parola è di per sé, innanzitutto, suono, mentre il rumore/suono/musica non è solo significante, ma, per via simbolica, verbo primario, radice, suggestione e significato esso stesso.
Il ritmo, già possessione metrico-poetica, diventa infine il luogo elettivo di quell’identità: il luogo vero della convivenza. Questo i tragici greci lo sapevano bene, e infatti elaboravano una partitura-tessitura di testo ritmico e suono: erano, insomma, autori-compositori a tutto campo, non semplici librettisti.

L’unità narrante di suono e parola è da considerare oggi, insieme alla microfonia e alle nuove tecnologie, come una vera possibilità di evoluzione contemporanea del teatro di poesia.
L’Identità Selvaggia è la sospensione del significato e del significante in uno stato di reciproco ascolto; è l’essenza stessa della poesia di tradizione orale; è un’azione scenico-sonora tesa a cogliere e restituire la risonanza altra – terza – tra musica e parola, considerando quest’ultima come anticipatrice di suono, e la musica come paesaggio della parola.

Se assistiamo, oggi, a reading che si spacciano come performance di oral poetry, ci accorgiamo, molto spesso, che i poeti portatori sono vittime di un insanabile equivoco. Leggendo le loro poesie davanti a un foglio scritto e accompagnati alla meglio da un ensemble musicale acustico o elettronico che sia, pensano di compiere il gesto forte e di approdare negli «orti saraceni» della «nuova Poesia liquida». Non è così. Intanto un’azione del genere presuppone in prima istanza – ma lo stesso non basta – la memoria del testo scritto. E poi mancano tutti quei fondamentali che ritroviamo nei residui di poesia orale tradizionale ancora vivi sia nelle fasce folkloriche europee, come i cuntisti, sia nelle grandi tradizioni dei griot africani, degli sciamani nordici, ma anche in molti infiniti studi realizzati in ambito di musica contemporanea. Rendiamo omaggio ai tanti vocalisti moderni che hanno sperimentato in questo senso.

In tutti i casi, pur lasciando al testo le sue prerogative grammaticali e fonematiche, la voce deve rispettare (o contraddire consapevolmente) i parametri dell’intonazione, del timbro, della durata, dell’espressione.

Da qui si passa al secondo punto. Al salto vero. Serve l’interplay. Il rito dell’oral poetry si compie solamente se in scena prende forma una nuova identità sciamanica. Il poeta deve ascoltare, giocare con gli altri aspetti della musica prodotta in scena poi costruire, inventando in tempo reale il poema. Questo è il salto: comporre nel tempo del rito scenico. Le parole non sono più «pre-visione» ma devono essere «in-visione»; devono essere possessione e improvvisazione, ovvero, elaborazione della parola metrica e del senso in tempo reale. Anche qui le tecniche oltre che i fondamentali sono decisive. Esse prescindono dal talento, si capisce, ma servono tuttavia alla forma, all’intrattenimento. Valgono soprattutto per esplorare l’immediato, alleggeriscono l’istinto. Servono a sospendere il tempo reale della performance e consentono all’esecutore di entrare nel tempo molecolare della comunicazione. Senza una tecnica acquisita è molto difficile proporre alcuna forma di relazione con la musica e con l’ascoltatore.

Vanno dunque considerati bagagli indispensabili per un «teatro poetico della visione» i parametri di ritmo, metrica, armonia, radice, significato, significante, comunicazione, ascolto, intonazione, microfonia, tempo reale, vocalità, elettroacustica, vibrazione, gesto/corpo, respiro, sguardo, silenzio, memoria/testo, bagaglio narrativo.

Se guardiamo alla tradizione, l’aedo, il rapsode, il griot, lo sciamano, il cuntista, ma anche i moderni poeti di strada metropolitani e molti performer di area classica/contemporanea, avevano e hanno padronanza di tecniche precise e studi preparatori a carattere ritmico/mnemonico/informativo. Procedono con un sistema di formule collegate le une alle altre secondo rapporti abbastanza complessi di equivalenza, di complementarità, di opposizione, sia semantici, sia funzionali. Così in scena, nel tempo di richiamo della memoria (quasi un pilota automatico), nella citazione della formula preparata, pur continuando a ritmare e dire, (o ripetere: la ripetizione è un elemento tecnico/formale decisivo) riescono a sdoppiarsi, permettendosi una sorta di sonnambulismo creativo e visionario che è quello che produce la forza «poetica e politica» del poeta medium; che gli fa tendere la mano dentro di sé a raccogliere informazioni extrasensoriali. Per questo il poeta performer contemporaneo deve costituirsi, anche all’interno della propria produzione, un bagaglio di memoria, lavorare in scena per strutture modulari a collegamento istantaneo, essere attore della composizione immediata.

Dopotutto, i ragazzi del rap americano, quelli della inner city, ovvero la città profonda e nascosta, quelli certo più veri e interessanti dei nostri eroi della beat generation, che oltretutto i fondamentali li hanno imparato dalla strada, usano le tecniche del dozens, un gioco verbale diffuso e memorizzato che permette di improvvisare su norme retoriche e metriche complesse e rigorose; che permette di picchiare con le parole come quel maestro di pugni e insulti verbali ritualizzati – dice Sandro Portelli – che risponde al nome di Muhammad Alì.

Penso davvero che oggi, nell’era della replica delle repliche, nel terzo e forse ultimo tempo della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, nel secolo della globalizzazione degli oggetti e della tribalizzazione dei soggetti, un’improvvisazione consapevole, sapiente, che si prenda in scena i tempi – irrinunciabili – della composizione di suono e senso sia l’unica vera prova di forza che possiamo operare. L’oral poetry deve riferire da altre dimensioni e determinare eventi non replicabili. Take cinematografici unici.

Sarà bene che le schiere di narcisi con pretesa di oral poetry escano dal povero surrealismo di massa con le loro paginette appoggiate su leggii defunti e provino a fare il salto nell’Identità Selvaggia della parola stabilendo finalmente una connessione accelerazionista e postumana tra arcaico tradizionale e terzo millennio. Questa sarebbe musica per le nostre orecchie. E se, poi, vogliono perpetuare la lettura, si convincano almeno che leggere in scena deve essere un modo di dimenticare. Una non forma dell’oblio. Un modo, come dicevamo citando Carmelo Bene, di scomparire e rendere nuovamente bianca la pagina appena letta.

In quanto poi alla canzone, essa è una singolarità differenziata. Gioca in un campionato diverso. E la pagina scritta di un libro di poesie è ancora altro. La questione è semplice e già ampiamente dibattuta. La confusione fa male.

 

[1] Paul Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, Bologna 1984.

 

* Oral Poetry e Identità Selvaggia è un capitolo di Kunzertu 77 18 . Memorie di bordo per una musica del futuro.        in uscita a fine Giugno 2018 per le Edizioni Hypertext O’rchestra e Zona Music Books

 

 

Storia di Abdelali migrante

1

di Marco Rovelli

(Nazione Indiana ha compiuto quindici anni a marzo, da allora molte persone e molte cose sono cambiate; testimonianza molto importante, e talvolta emozionante, di questa lunga storia è il suo archivio, del quale abbiamo deciso di ripubblicare alcuni post, che riteniamo significativi. Oggi proseguiamo con un brano di Marco Rovelli, in passato redattore di nazione indiana. La redazione) Questo articolo è statp pubblicato su Nazione Indiana da Sergio Baratto l’8 settembre 2004.

cellavulpitta.jpgUno sguardo azzurro, sorpreso da una foto tessera. Gli anni – diciannove – che non compaiono sul volto. Ma stanno tutti dentro, e sono molti di più.
In Marocco quegli anni non c’erano ancora. Abdelali se li è venuti a prendere in Italia. Ha raggiunto il padre, che si è messo in regola. Anche lui può stare qui, adesso.
Abdelali fa amicizia, s’impara presto a stare nelle strade di una città nuova che ti nutre. Abdelali impara a stare nei carruggi di Genova. E’ un ragazzo come gli altri, agli altri è legato dall’età, il confine di stato si fa presto a dimenticarlo. Basta un gesto per abbatterlo, e Abdelali ne fa tanti di gesti che lo accomunano agli altri. Come quello di arrotolarsi una sigaretta di hashish, come quello di comprare un po’ di più di fumo per rivenderlo e potersi permettere qualche piccolo piacere. Tanto più che il corpo di Abdelali comincia a prendersi anni troppo velocemente: lo stomaco a volte si piega dal dolore, e vomita sangue. In ospedale lo trattengono, e per un po’ quella è la sua dimora. Lo operano in fretta, gli aprono la pancia, poi lo sottopongono a sedute interminabili.

Chemioterapia. Dolore. Fatica. Abdelali esce dall’ospedale senza sapere bene cos’abbia, non si può credere di morire a diciott’anni. Intanto dimentica il dolore con i suoi piaceri.
Ma la legge non conosce piacere né dolore. E non le piace essere ignorata. Si presenta in divisa, e gli rovescia le tasche.
E rovesciano anche lui, con lo stesso gesto, anche se ancora Abdelali non lo sa. Glielo dicono dopo pochi mesi, ed è una catena di parole in rapidissima sequenza che gli sbattono in faccia, e gli chiudono la bocca: permesso di soggiorno revocato, ed espulsione. Tutto in un solo gesto rovesciato, tutto in fretta, più in fretta dell’operazione che lo ha aperto all’ospedale.
Si ritrova in una stanza fredda della Questura di Genova, quarantott’ore a pane e acqua, senza sapere cosa gli accadrà. Sa solo che ci sono delle persone delle quali adesso è in pieno potere, che possono disporre di lui come vogliono. Aspetta, e intanto vomita sangue.
Ma il suo sangue è uno spiacevole incidente per la legge, se la legge avesse vene non ci passerebbe sangue, ma la legge non ha vene, solo corde e funi. Così qualcuno pulisce il sangue di Abdelali, e in fondo gli va bene che non sia lui a dover pulire là dove ha sporcato, come sarebbe giusto.
Alla fine vengono a prenderlo, lo caricano su una camionetta dai vetri oscurati, nessuno sa se ad Abdelali siano venuti in mente i vagoni piombati che portavano nei campi gli indesiderabili, forse no, Abdelali è ancora troppo giovane, pensa solo al suo dolore, e al piacere che adesso non potrà più avere per far fronte a quel dolore.

Il viaggio è lungo, e non si può nemmeno guardar fuori. Ci sono solo le voci forti e scandite degli uomini in divisa, la voce di marmo della legge che riporta le cose al proprio posto, come nel cosmo dei greci ogni cosa ha il suo luogo proprio, e quello di Abdelali è fuori di qui, anche per il suo sangue non c’è posto, è stato già pulito, e anche quello vomitato nella camionetta verrà pulito al più presto.
Il luogo di passaggio tra il dentro e il fuori è il nulla di un campo. C.P.T., si chiama, centro di permanenza temporanea, ma Abdelali non conosce ancora così bene l’italiano da far notare l’incongruenza dell’espressione alla legge che lo custodisce. Che importa, adesso è a Brindisi, e tra poco sarà rimesso al suo posto, appena passato il mare. Il mare nostrum, non lo si scordi.
Per venti giorni Abdelali non merita l’ospedale. Vomita sangue, e gli danno Valium e Tavor. Tanto lo stomaco è già andato, che stia tranquillo per questo tempo che gli resta. Lo va a trovare un avvocato genovese, una ragazza dal sorriso amoroso. Prova a spiegare che il suo corpo cede, che lì non può stare, lo porta davanti al giudice, alzati la maglia, gli dice, il giudice vede lo squarcio nella pancia, e non solo la magrezza del corpo. Sono un giudice, non un dottore. Sono un giudice, così ha detto il giudice. E’ la legge.

Poi, quando il suo dolore grida troppo, lo portano all’ospedale. Abdelali ormai sa che lì lo cureranno quanto basta per alleviargli il dolore, e poi lo rimanderanno al campo, e di lì in Marocco. Abdelali scappa. Riesce a uscire senza farsi notare, e arriva alla stazione. Telefona all’avvocato dal sorriso amoroso. Vieni da me, gli dice lei. Lui arriva a casa sua, e l’avvocato dal sorriso amoroso quando gli apre la porta si spaventa, sotto l’azzurro degli occhi non c’è più quasi nulla. Andiamo in ospedale, gli dice. Aspetta, risponde Abdelali. Ho dei debiti, prima li voglio pagare. Dopo qualche ora Abdelali ritorna. Andiamo, dice. L’avvocato lo porta in ospedale, poi avverte il padre.
Voglio vedere la mamma, chiede Abdelali, non la vedo da quattro anni. Voglio vedere anche la mia sorellina che ho visto appena nata. Ma l’ambasciata italiana in Marocco non lo vede, quello sguardo, quell’azzurro che diventa sempre più azzurro su quel corpo che sta finendo di sostenerlo. I visti per la madre e le sorelle non arrivano, e Abdelali continua a vomitare sangue, a perdere peso e parola. Bisogna insistere. Bisogna gridare. L’avvocato lancia un appello su internet e sui giornali – pochi, solo quelli che riescono a dar voce al dolore senza farne trofeo. Mandate fax all’ambasciata, fate i visti alle donne di Abdelali. Nell’attesa, è l’avvocato la madre di Abdelali. E’ lei che passa i giorni all’ospedale con Abdelali, è lei che chiameranno in caso di morte. Abdelali si sta spegnendo, non si alza più dal letto, è un corpo chiuso, rinserrato. E’ solo dopo due settimane – alla fine del mese di febbraio – che Abdelali ha le sue donne. E le sue donne si fanno canali di un miracolo: Abdelali si fa trovare in piedi, e pare sano. Abdelali resta sano per una settimana, nell’incredulità dei medici.

Il padre ha rimesso il figlio alla Volontà di Dio. La morte – il suo quando, il suo come – è stabilita da Dio in un momento preciso quando il bambino è ancora nella pancia. Non si può che accogliere la Volontà, che arriverà quando Dio l’avrà deciso. Il medico non è d’accordo, Abdelali dovrebbe sapere che ha ancora non più di dieci giorni di vita, e regolare i suoi conti, se ne ha da regolare. Non si preoccupi, risponde il padre. Tu sei nelle mani di Dio, dice al figlio, che si accorge di un’altra verità. Mi stai mentendo, dice al padre, mi nascondi qualcosa. Ma le due verità non stanno insieme, quella del dottore e quella del padre, il padre non gli stava mentendo, gli diceva la sua verità, Abdelali capisce e accoglie la verità del padre. E accoglie il suo dolore, e il suo amore, e il dolore e l’amore della madre. E accoglie la sua morte.
E pure, ha ancora una richiesta. Voglio morire in regola, dice. Voglio il permesso di soggiorno. L’avvocato supplica la legge, Abdelali sta morendo, non soggiornerà a lungo ormai. Riesce a ottenere il permesso. Glielo portano in ospedale il 12 marzo, e Abdelali riesce ancora a immaginarsi un avvenire.
Il 17 marzo, di notte, Abdelali muore.

Un nuovo ruolo per il soggetto all’inizio del Novecento: anche intorno alla relatività #1

0

di Antonio Sparzani

“Poiché lo stile non è certo qualcosa di limitato all’architettura o all’arte plastica, lo stile è qualcosa che penetra

in ugual misura tutte le espressioni vitali di un’epoca. Sarebbe assurdo considerare l’artista un essere d’eccezione,

uno che conduce quasi una vita appartata, nell’ambito dello stile ch’egli crea, mentre gli altri ne restano esclusi”

[Hermann Broch, Huguenau o il realismo]

Non c’è dubbio che i venticinque anni che aprono il secolo XX° possono ben venir ripercorsi e descritti come un susseguirsi di radicali trasformazioni che hanno interessato i settori più diversi dell’attività intellettuale dell’Europa, dall’arte alla scienza, dalla musica alla linguistica, dalla letteratura alla filosofia e alla psicoanalisi.
Nel tentativo di parlare di un’epoca, alla ricerca di qualche denominatore comune nelle evoluzioni di diverse discipline, vi citerò un passo di un illustre storico delle idee, Carl E. Schorske, che, nell’introduzione alla sua lucida analisi dell’ambiente della Vienna fin–de–siècle, così si esprime:

“Ciò cui ora lo storico è chiamato ad abiurare, e più che mai al cospetto del problema della modernità, è la tendenza a enunciare aprioristicamente un comune denominatore astratto e categorico: ciò che Hegel chiamava lo Zeitgeist, e che Mill definiva “la peculiarità dell’era”. Scontato l’intuitivo discernimento di valori unitari, dobbiamo ora impegnarci nella ricerca empirica di pluralità, quale condizione preliminare per individuare schemi unitari nel contesto della cultura. Se peraltro ricostruiamo il corso dei mutamenti intervenuti nelle singole branche della produzione culturale, possiamo assicurarci una base più solida per definire i loro punti di affinità e di dissomiglianza. A sua volta un siffatto metodo ci porterà a discernere i comuni elementi d’interesse, i comuni criteri di raffronto di contrapposte esperienze che uniscono gli uomini, nella loro qualità di produttori di beni culturali, in un medesimo spazio culturale e sociale.”
(Carl E. Schorske, Fin-de-siècle Vienna, Alfred A. Knopf, New York, 1980; trad. it di Riccardo Mainardi, Vienna fin de siècle, Bompiani, Milano 2004², p. XVI).

Anche se l’idea di Zeitgeist ha conosciuto nel ventesimo secolo alcune versioni non banali – citerei per tutti Hermann Broch. vedi anche il brano posto qui in esergo – queste parole mi sembrano fornire un’indicazione metodologica largamente condivisibile.
Mi piacerebbe tentare di darvi un’idea di una delle più importanti rivoluzioni verificatesi nella fisica di quel periodo, la cosiddetta teoria della relatività, sotto un profilo che permetterà di inquadrarla, in un modo che mi pare plausibile, in un più generale atteggiamento che è comune per vari aspetti a quelli presenti negli analoghi rivolgimenti accaduti in altri settori della vita culturale dell’epoca.
Per rendersi conto di come i risultati ottenuti dai maggiori fisici del periodo, Lorentz, Poincaré, Einstein siano inscrivibili in un’analisi che converga sul ruolo del soggetto conoscente, occorre ripercorrere schematicamente la storia dell’idea di relatività, avendo riguardo al senso più elementare che questa parola assume nella teoria della conoscenza.
Comincerò dunque con l’affermazione quasi ovvia che, essendo ogni conoscenza descrivibile come un’interazione tra un soggetto cosciente e qualcosa di altro da sé, che chiameremo per comodità oggetto della conoscenza, il prodotto finale di tale conoscenza, cioè di tale interazione, ovunque esso si ritenga localizzato, sarà inevitabilmente costituito da contributi provenienti dall’oggetto e da contributi provenienti dal soggetto conoscente. Non occorre certo scomodare le moderne acquisizioni della fisica quantistica per corroborare una tesi del genere, quando basta ripercorrere gli aspetti gnoseologici già delle filosofie più antiche. Se fissiamo la nostra attenzione per il momento sulla conoscenza di oggetti materiali, appare evidente un primo modo in cui il prodotto della conoscenza – l’immagine retinica, o su lastra fotografica, dell’oggetto, o il corrispettivo mentale di una tale immagine – dipenda fortemente quantomeno dalla posizione e dall’orientamento dell’oggetto: lo stesso oggetto, visto di profilo o visto di fronte fornirà normalmente (salvo casi speciali, tipo quello di una sfera) immagini marcatamente differenti; o ancora, lo stesso oggetto, visto da vicino o da lontano, fornirà immagini differenti – più grandi. più piccole; il che permette di concludere subito che quel che appare rilevante a questo riguardo è la posizione relativa dell’oggetto rispetto al soggetto. Questa analisi del tutto elementare deve condurre a valutare come e in che misura diverse immagini possano riferirsi allo stesso oggetto, nel senso che, solo se le immagini differiscono l’una dall’altra secondo ben precise regole, si pensi nelle arti figurative alla dottrina della prospettiva, esse possono essere ricondotte a un qualche comune denominatore che viene indicato come “lo stesso oggetto”.
Questa locuzione identificatrice di un unico riferimento costituisce un’acquisizione – o forse una comoda convenzione linguistica – che Homo Sapiens compie nei suoi primi sei mesi di vita cosciente e che non è a quanto sembra propria di ogni organismo vivente (non, ad es., del moscerino della frutta, cfr. Marcus Dill, Reinhard Wolf and Martin Heisenberg, Visual pattern recognition in `drosophila’ involves retinotipic matching, Nature, vol. 365, (1993), p. 751).
Anche Ireneo Funes, l’uomo dalla memoria totale, protagonista del racconto Funes el memorioso di Jorge Luis Borges, non capisce perché si debba dare lo stesso nome al ‹‹cane delle tre e quattordici (visto di profilo) … e al cane delle tre e un quarto (visto di fronte)›› (Jorge Luis Borges, Funes, el memorioso, in Ficciones, Buenos Aires 1944; trad. it. Funes o della memoria, in Tutte le Opere, vol. 1, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1984, p. 712).
Questa basilare capacità di riconoscimento dell’identità indipendentemente dalla posizione relativa di soggetto e oggetto è la forma più fondamentale di relatività, quella detta Euclidea; la ragione del nome è da ricercare nel fatto che Euclidee vengono dette le trasformazioni che spostano un sistema di riferimento nello spazio e/o lo ruotano in un modo qualsiasi. Se guardo un parallelepipedo da una certa posizione e mi sposto attorno ad esso, so che l’immagine che percepisco nella mia retina cambierà seguendo il mio spostamento e so anche con buona approssimazione come cambierà; se cambiasse in modo diverso da come mi aspetto, comincerei a pensare che si tratta di un oggetto strano, che cambia inaspettatamente forma, o che comunque presenta qualche anomalia.

Dunque in un primo stadio vi è una separazione tra parte oggettiva e parte soggettiva nel prodotto della conoscenza che sembra del tutto ovvia e invariabile, e infatti così si è pensato per molti millenni. Qualcosa è cominciato a cambiare all’inizio di quella che chiamiamo era moderna, nel contesto di quel complesso di rivolgimenti culturali che va sotto il nome di prima rivoluzione scientifica. Per comprendere questo cambiamento, occorre cominciare a rendersi conto che tra gli oggetti di osservazione privilegiati per chi vuole indagare la natura vi sono non solo gli oggetti materiali, ma i loro comportamenti, le regolarità cui tali comportamenti sembrano obbedire, le leggi di natura. L’elaborazione di tali leggi è stata naturalmente un’operazione che ha richiesto secoli di tentativi, di proposte, di prove, di verifiche, di false partenze, che riempiono i volumi della storia della scienza. Ora, nella elaborazione che iniziò con Copernico per concludersi, in buona sostanza, con Newton, cominciò a prendere consistenza un’idea nuova, connessa con la cosiddetta legge di Galileo, o legge d’inerzia – formulata per la prima volta correttamente da Christiaan Huygens nel 1656. Secondo questa nuova proposta, frutto in verità di una riflessione secolare, cominciata agli inizi del Medioevo, se un corpo non interagisce con altri corpi, allora può sì stare fermo ma può altresì muoversi di moto rettilineo uniforme. Si capisce facilmente che questa è una novità forte rispetto al pensare che un corpo che non interagisce con altri corpi (‘sul quale non agiscono forze’) sta fermo; è un allargamento notevole. Ma un allargamento di cosa esattamente? Un po’ di riflessione conduce a notare che, se cominciamo a dare una vera rilevanza ai comportamenti degli oggetti più che agli oggetti stessi, ovvero alla loro forma, osservare un oggetto fermo, oppure osservarlo in moto rettilineo uniforme è da tutti i punti di vista che giudichiamo interessanti, la stessa cosa: in entrambi i casi si tratta dello stesso oggetto che non interagisce con alcunché d’altro; e allora il fatto di osservarlo fermo oppure in moto rettilineo uniforme diventa puramente contingente, dipende da circostanze che non vogliamo ritenere importanti per la conoscenza dell’oggetto, quindi circostanze che non appartengono veramente all’oggetto, dipendono piuttosto dal punto di vista dal quale lo si osserva, dipendono dal soggetto conoscente. Se guardo da riva una barca che scivola lenta sull’acqua la vedo muoversi di moto rettilineo uniforme, ma se la guardo dalla barca stessa la vedo ferma e se la guardo da una barca che analogamente scivola nello stesso specchio d’acqua la vedo muoversi in modo ancora diverso, ma sempre si tratta dello stesso oggetto che interagisce nello stesso modo con tutto quanto lo circonda. E allora ciò che si è allargato è in verità la parte di conoscenza che dipende dal soggetto conoscente, quella separazione di cui si parlava all’inizio si è spostata.

La parte dell’oggetto si è un po’ ritratta.

Fatemi concludere questo primo accenno al nostro tema con un passo tratto dalla Cena delle Ceneri di Giordano Bruno, scritto in quella sua prosa un po’ ostica e sgraziata, ma così penetrante e sottile che vale la pena di gustare lentamente. Si parla di una nave e di due mani, accostate, che lasciano ognuna cadere una pietra. Eccolo:

“. . . se dunque saranno dui, de’ quali l’uno si trova dentro la nave che corre, e l’altro fuori di quella, de’ quali tanto l’uno quanto l’altro abbia la mano circa il medesmo punto de l’aria, e da quel medesmo loco nel medesmo tempo ancora l’uno lascie scorrere una pietra e l’altro un’altra, senza che gli donino spinta alcuna, quella del primo, senza perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco, e quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro. Il che non procede da altro, eccetto che la pietra, che esce dalla mano de l’uno che è sustentato da la nave, e per consequenza si muove secondo il moto di quella, ha tal virtù impressa, quale non ha l’altra, che procede da la mano di quello che n’è di fuora; benché le pietre abbino medesma gravità, medesmo aria tramezzante, si partano (e possibil fia) dal medesmo punto, e patiscano la medesma spinta. Della qual diversità non possiamo apportar altra raggione, eccetto che le cose, che hanno fissione [l’esser fissate] o simili appartinenze nella nave, si muoveno con quella; e la una pietra porta seco la virtù del motore il quale si muove con la nave, l’altra di quello che non ha detta participazione. Da questo manifestamente si vede, che non dal termine del moto onde si parte, né dal termine dove va, né dal mezzo per cui si move, prende la virtù d’andar rettamente; ma da l’efficacia de la virtù primieramente impressa dalla quale dipende la differenza tutta.”
(Giordano Bruno, La cena delle ceneri, a c. di A. Guzzo, Mondadori, Verona 1995.)

Argonautiche – IV, 1223-1304

0

trad. isometra di Daniele Ventre

Drepane il settimo giorno lasciarono. Vento impetuoso,
limpido, venne dal lato dell’alba; e dal soffio del vento
mossi correvano sempre più oltre. E però non ancora
era destino per quegli eroi di sbarcare in Acaia,
prima che fino agli estremi di Libia non fossero giunti.
Già si lasciarono dietro il golfo che ha nome da Ambracia,
già la regione Curetide, a vele spiegate nel volo,
e con le Echinadi stesse, altre isole in fila disposte,
strette, e da poco la terra di Pelope s’era levata;
ecco che allora con furia procella di Bòrea funesta
proprio nel mezzo del mare di Libia prendeva a sbalzarli
per nove notti e altrettante giornate, finché la profonda
Sirte raggiunsero, là, dove via non c’è di ritorno
per i vascelli, ove siano forzati a raggiungerne il golfo.
E dappertutto è pantano, per tutto è un fondale coperto
d’alghe, su cui senza un’eco si volge la spuma dell’onda.
Su fin nell’etere sorge la sabbia e a quel lido non viene
mai animale che strisci o voli. In quel luogo gli eroi
una marea –dalla terra infatti fluisce a ritroso
spesso quel flutto e di nuovo si leva e con impeto piomba
contro le coste –all’interno del golfo li spinse veloce,
fin nel suo grembo, nell’acqua restò poca parte di scafo.
Giù dalla nave balzarono e angoscia li prese a vedere
l’etere e simile all’etere un dorso infinito di terra,
che si stendeva lontano e continuo, non un ruscello,
non un sentiero a distanza scorgevano, non un riparo
per i bovari, ogni cosa giaceva in un quieto silenzio.
L’uno con l’altro perciò si chiesero in tanta afflizione:
“Questa che terra si vanta mai d’essere? Dove i marosi
ci hanno gettati? Se avessimo osato, a dispetto d’angoscia
devastatrice, avviarci per quella medesima rotta,
oltre le Rupi; anche andando al di là del fato di Zeus,
era ben meglio morire tentando un’impresa grandiosa.
Ora che mai tenteremo, se qui ci costringono i vènti
a rimanere, anche un tempo esiguo? A tal punto il deserto
va dispiegandosi lungo una landa senza confini!”
Sì, così dissero: a loro angosciati nell’impotenza
della sventura, parlò Anceo il nocchiero in persona:
“Dunque moriamo d’atroce destino e non ha via di scampo
questa pazzia: si prepara per noi il dolore più cane,
nell’aggirarci per questo deserto, se pure spirasse
vento da terra: poiché se intorno mi guardo a distanza,
scorgo dovunque fangoso il mare e in gran parte anche l’onda
viene ad infrangersi sopra le bianche distese di sabbia.
E con violenza da tempo ormai si sarebbe spezzata
molto più in là sulla costa la sacra carena, dal largo
a trasportarla su in alto è stata la stessa marea.
Ora nel pelago quella precipita, solo acqua salsa
non navigabile stagna, che appena ricopre la terra.
Ecco perché di ritorno e navigazione già credo
ogni speranza intercisa. Un altro dimostri la sua
abilità: gli è concesso sedersi vicino alla barra,
se di partire ha la brama; però nessun giorno al ritorno
Zeus ha intenzione di compiere in coda alle nostre fatiche”.
Disse così fra le lacrime; e con il suo affanno concordi
erano quanti di navi sapevano. Il cuore di tutti
s’era agghiacciato, un pallore si stese d’attorno alle guance.
E come poi, somiglianti agli spettri d’anime nudi,
gli uomini in una città s’aggirano, quando di guerra
o pestilenza s’attendono il termine, o forse una pioggia
inesorata, che inonda a mille i lavori dei bovi,
o come quando talvolta effondono statue sudanti
sangue, o se immaginano di sentire mugghi nei templi,
o se magari dal cielo il sole conduce la notte
di mezzogiorno e lucenti nell’etere brillano gli astri:
sì, così allora gli eroi gran tratto sul lido disteso
si trascinavano errando. E subito buia la sera
precipitò: fra di loro offrendosi abbracci pietosi,
si salutavano in pianto, per poi consumarsi la vita
sopra le sabbie cadendo ciascuno in disparte, da solo.
E chi di qua, chi di là, andò ognuno a cercarsi un riparo;
e ricoprendosi il capo ognuno del proprio mantello,
senza mangiare né bere giacevano tutta la notte,
l’alba, in attesa di morte pietosa. E le giovani, a parte,
presso la figlia di Eeta gemevano insieme raccolte.
E come quando solinghi, caduti al di fuori d’un sasso
concavo, gemono acuti lamenti gli implumi pulcini,
o come quando sul ciglio del chiaro scorrente Pattòlo
destano i cigni la loro armonia, d’intorno la piana
rorida freme e non meno la bella corrente del fiume:
tali gli eroi, ricoperti di polvere i biondi capelli,
tutta la notte gemevano il loro pietoso lamento.

Les nouveaux réalistes: Alexandra Petrova

0

tratto dal romanzo Appendix (NLO, 2016).

di

Alexandra Petrova

 

Alex me fecit Mario

 

 A tutti gli scomparsi nelle acque
del Mar Mediterraneo e in quelle
dell’oblio questo libro è dedicato

 

 

La nuova leggerezza di Mercurio

(traduzione di Valentina Parisi)

 

No, non mi sarei dovuta abbuffare. Ma si erano abbuffati tutti! Gli ospiti, mia madre, mia sorella, la nonna e la zia.

“Mamma”, una voce strozzata mi uscì finalmente dalla gola secca, “là, per favore”. E con lo sguardo tentai di indicare la direzione. “Prometti di seppellirmi sotto quella betulla”. Gli alberi si chinavano su di me e frusciavano, la penombra mi rinfrescava la pelle.

I miei occhi misero a fuoco una macchia, mia sorella che si stava avvicinando. Con lo yo-yo in mano andò alla finestra, la spalancò e guardò in basso, nel nostro cortile-pozzo sempre un po’ torbido. Si sedette di lato sul davanzale e cominciò a giocare con lo yo-yo. I suoi calzettoni bianchi si confondevano con i tronchi delle betulle.

“Qui non ci sono betulle”, disse.

Provai ad alzarmi, ma fui assalita da un altro conato. I tentacoli appiccicosi e le lame ricurve da pirata che quella notte qualcuno mi aveva cucito nella pancia stavano cercando di uscirmi dalla gola. La bambina che avrebbe trovato la forza di ribattere alla vena polemica della sorella ormai era trapassata.

Il giorno prima, quando mi ero svegliata, era ancora buio, e sotto le mie palpebre si era intrufolata l’ombra mattutina di un enorme vaso di tulipani. Possibile che quel momento fosse davvero arrivato? Con cautela avevo lasciato penzolare una mano per tastare i regali. Ne avevo afferrato uno e lo avevo avvicinato a me, tentando di indovinarne il contenuto, ma mi ero addormentata di nuovo.

Alle nove ormai il sole si configgeva nei vetri delle finestre lavate da poco, riflettendosi nelle larghe assi del parquet tirato a lucido per la festa, e fissava insieme a me i pacchi e pacchetti scartati, sparsi sul pavimento. Alle dieci stavamo già preparando un antipasto dietro l’altro, mia madre batteva la carne e la infilava a pezzetti nel tritacarne, facendo uscire dai buchi pallidi vermiciattoli rossastri.

Nella mia pancia erano finiti parecchi morti ammazzati. Parti di maiale e di mucca, di aringa e di gallina, e poi l’oca dal cui fegato ingrossato si otteneva un prelibato patè. Galleggiavano in mezzo al purè, alla panna, alla gelatina, al pan di Spagna ammollato, ai succhi gastrici e anche a quello di mela, versato dal grosso barattolo da tre litri, con il coperchio di latta e l’elastico che odorava di acido.

Gli ospiti se ne erano andati, eppure restava ancora un’intera montagna di insalata russa, un po’ di quella di barbabietole e qualche fetta di torta. Dopo aver svuotato le insalatiere, finii anche il dolce, continuando a sparecchiare.

La fine di una festa è sempre ripugnante. Com’era stato bello invece quel mattino, e ancora più bella la notte prima, al chiaro di luna, con la carta da regalo che mi balenava di continuo davanti agli occhi.

L’impressione era che a inventare la vita fosse stato un essere del tutto privo d’immaginazione: inizio-fine, mangiare-cacare, bere-pisciare, giocare-dormire, mamma-papà. Oppure per esempio le case, che crescevano tutte in altezza, come tanti cubetti. Quando riuscivo a individuare delle eccezioni, anche minime, mi ci affezionavo subito come ai miei amici prediletti, e capivo che in realtà le possibilità erano molte di più. Ma fermarsi di colpo, quando uno sta già rotolando giù, richiede uno sforzo troppo grande, e molto spesso non ha neanche senso farlo.

La tovaglia cosparsa di macchie di vino e di barbabietola fu tolta e il pesante tavolo di quercia ripiegato da braccia femminili. La stanza divenne all’improvviso più grande e vuota. L’angoscia prese ad avvicinarsi sotto forma di ruttini rancidi.

Mia sorella accese la radio. Come sempre, attese l’inno dell’Unione Sovietica e poi andò a dormire. L’inno le dava una certa sicurezza. Io invece non ero sicura di niente, né dell’inno, né dell’asino di peluche che mio padre mi aveva regalato prima dell’inizio della scuola e che abbracciavo mentre dormivo, forse perché era l’ultimo regalo di mio padre. Non ero neppure certa del fatto che un bel giorno il nostro palazzo, e insieme a lui anche il resto del mondo, non sarebbe fragorosamente crollato. Ero scesa apposta dalla vicina del piano di sotto a vedere dove sarei finita se a un tratto fosse venuto giù il pavimento e, per ogni evenienza, avevo spostato il mio letto in modo tale da ritrovarmi direttamente nel suo. Non riuscivo mai a ricordare cosa dicessero alla radio, né a cogliere il senso dei discorsi degli adulti. Finito di leggere un libro, non ero in grado di dire di che cosa parlasse. Il succo delle cose, la logica della banalità mi sfuggivano, come se il mio organismo non fosse capace di assimilarli e li rigettasse, proprio come faceva adesso con i piselli, i cetrioli e i pezzetti di prosciutto che schizzavano fuori dal mio stomaco e che, chissà perché, non potevano più ricomporsi in un maiale o in una gallina, e neppure ridiventare una meravigliosa insalata nella sua insalatiera di vetro, ornata da mazzetti di aneto. Perché ero proprio io a soffrire questi dolori schifosi? Proprio io, mentre mia sorella, con i suoi calzettoni bianchi, se ne stava seduta sul fresco davanzale a giocare.

Non temevo affatto la morte, anzi in quel momento mi sembrava perfino rinfrescante, come l’acqua.

Quando finalmente mi trascinai giù per la nostra interminabile scala fino al cortile eternamente in ombra e mi misero sulla barella dell’ambulanza, prima che chiudessero di colpo lo sportello vidi per la prima volta che la porta della nostra casa era dipinta di grigio e che la vernice screpolata lasciava intravedere un altro colore, più chiaro.

E checché ne dicessero, nel cortile che credevo di lasciare per sempre si levavano i tronchi sparsi di alcuni alberi bianchi, sormontati da una rete di rami su cui si erano impigliate le prime foglioline primaverili. E anche se qualcuno non li vedeva, non significava affatto che non potessero esserci, benché fino ad allora non avessero trovato nemmeno una manciata di terra nell’asfalto.

La scala dell’ospedale, invece, la salii orizzontalmente. Ero pesante, il giorno prima avevo compiuto pur sempre dodici anni.

La pancia non mi faceva più male. Indossavo la camicia appena ricevuta in regalo da zia Ljalja, che mia madre chiamava “sottoveste”. Verde malachite, trasparente, con i pizzi – una cosa così non ce l’avevano né mia madre né mia sorella. Mia madre, con l’aria lievemente sprezzante e distaccata che aveva sempre quando parlava della famiglia di mio padre, aveva osservato che quella “sottoveste” non era adatta per la mia età, ma io avevo deciso di tenerla anche per la notte, perché mi conferiva particolari poteri magici.

In ospedale nessuno pensò a togliermela, in compenso, ahimè, i medici-assassini mi avevano sfilato le mutandine e adesso un dottorino dalle guance rosee mi stava trasportando premurosamente in braccio, con la passera all’aria su cui spuntava già una peluria scura, appena visibile. Mi trasportò così fino al quarto piano, l’ascensore non funzionava e io non dovevo assolutamente camminare, sennò dentro di me si sarebbe potuto rompere qualcosa.

Nella sala dei riflessi, tutta vetri e metallo, mi deposero su un catafalco gelido, sempre con la sottoveste indosso. Solo a quel punto venne fuori che non potevo nemmeno muovermi. I medici si affaccendavano intorno a me e, prima che riuscissi ad aprire bocca, mi misero una mascherina-museruola. Sospirando, mi accorsi che già al secondo respiro le voci volavano via chissà dove, lontano, in alto, sempre più in alto, finché non si fusero in un unico brusio, nel vuoto.

Da lì a un attimo riaprii gli occhi. Ero in una grande corsia, la pancia mi bruciava e mi faceva male, molto male. Urlai.

I medici accorsero e, fingendo di tastarmi, mi fecero un’iniezione. Quando mi risvegliai, mia madre, di nuovo china su di me, mi disse che avevo dormito molto a lungo, che l’operazione era durata quattro ore e che mi avevano ripulito tutto l’intestino. Avevo un’appendice enorme – diciotto centimetri, una cosa incredibile per la mia età. Sebbene fosse scoppiata, l’avevano messa in un barattolo pieno d’alcol e da quel momento in poi sarebbe rimasta lì, in mostra nel museo dell’ospedale. Avevo sempre indosso la mia “sottoveste”, che adesso era tutta sporca di qualcosa di marrone sulla pancia e, per colpa di questo schifo, aveva certamente perso gran parte della sua magia.

Ma, ancora di più, mi spiaceva per l’appendice. Eppure me l’avevano sempre detto: “Non mandare giù i noccioli, togli la buccia dei semi di girasole prima di infilarteli in bocca, altrimenti ti verrà l’appendicite”. Io però, di nascosto, inghiottivo non solo i noccioli delle ciliegie, ma anche le pagine dei miei libri preferiti (non a caso dicevano che li “divoravo”), oltre a perline colorate e manciate di terra – in generale tutto ciò che era meraviglioso e non pericoloso. Mi piaceva l’idea che tutto sarebbe rimasto dentro di me, in un sacchetto nascosto.

Una volta al cervo di Münchhausen era spuntato un albero in testa da un nocciolo di ciliegia. Per cui era assolutamente possibile che anche dentro di me si celassero i germogli di arbusti che potevano spuntar fuori in ogni momento, spandendo il loro profumo nel bel mezzo delle occupazioni quotidiane. I passaggi più spaventosi delle fiabe o quelli che mi piacevano di più rimanevano dentro di me per poi, un bel giorno, venir fuori del tutto inaspettatamente. Il luccichio delle perline di vetro levigate rischiarava l’oscurità delle mie viscere.

Un tempo i nostri antenati si nutrivano esclusivamente di erba e radici, per questo il loro intestino era molto più lungo. L’appendice era la testimonianza materiale di quell’epoca. Poi gli esseri umani avevano preso gusto a bere il sangue e a masticare la carne di esseri quasi uguali a loro e un tubo così lungo per la digestione dell’erba era diventato inutile, ma per qualche strano motivo, forse per rammentare l’innaturalezza del mangiar carne, l’appendice aveva continuato ostinata a spuntare a tutti. La definivano un atavismo. La vergogna può trasformarsi senza nessuno sforzo in un atavismo. Una volta la scuola ci aveva portati a visitare un campo di concentramento. La gente abitava lì vicino, armeggiava in cucina, faceva la fila per il pane, più o meno come allora, quando l’aria era irrespirabile per l’odore penetrante delle carne ebrea e rom bruciata. Forse a qualcuno veniva un po’ di nausea, ma già non ci si interrogava più sulla causa di quella reazione.

Anche se grazie all’evoluzione l’appendice non mi serviva più, avevano pur sempre tagliato via un pezzo di me. O meglio, pensavano che non servisse più, ma io sapevo già da tempo che, mettendosi dietro gli striscioni con gli slogan, si potevano leggere cose inimmaginabili. La gente guardava il mondo senza notare la sua multisfericità. Appena usciti dall’infanzia, iniziavamo ad assomigliare sempre di più l’uno all’altro . Si riusciva quasi sempre a indovinare come finivano le frasi degli adulti alla terza o addirittura alla seconda parola. In un universo simile bisognava per forza inventarsi un trampolino, un dirigibile, un bunker o un nido, o anche solo imparare a correre velocemente. Più veloce dei motorini e della luce. Nella borsetta-appendice erano custoditi tutti i materiali indispensabili per costruire macchine volanti, quella era la mia dote. Grazie agli oggetti che conteneva avevo capito, come per magia, che a mezzanotte non doveva per forza risuonare l’inno, che non era sempre necessario chiedere il permesso di alzarsi da tavola o limitare l’estate a soli tre mesi – un’estate relativa, per di più. In realtà, al mondo non esistevano nemmeno i mesi, oppure, se alle volte proprio ne capitava uno, allora poteva essere maprile, maggggio o serpentario. Ma ecco che il mio sancta sanctorum, il mio trampolino, il mio lanternino era finito in un barattolo, esposto alla curiosità generale. Da quel momento in poi la mia forza sarebbe rimasta lì, nascosta in un museo anonimo, non mi apparteneva più. L’appendice era mia, le perline e le pagine delle fiabe dei fratelli Grimm al suo interno erano mie, eppure non potevo più vantare alcun diritto su di loro. La mia vita precedente mi era stata tolta per sempre, con un taglio netto.

In quella nuova, successiva all’amputazione, cominciò a farmi male come un arto fantasma tutto ciò su cui avevo potuto contare fino a quel momento – la sicurezza del giocatore d’azzardo al pensiero del suo conto svizzero o quella del criceto mentre fa provviste di semi nella guancia. Allo stesso tempo iniziai a sperimentare un’ignota leggerezza. Perdere i bagagli fa spuntare le ali dietro la schiena o sui sandali, come accadde a Mercurio.

Insomma, bisognava rinunciare all’accumulazione diretta (che poteva sempre interrompersi tragicamente) e ricominciare da capo, contando solo su me stessa.

Il messaggio è democratico

0

[Questo testo è apparso in una versione un po’ differente sul n° 4 del 2017 della rivista “Trivio” (Oèdipus editore). L’intero numero, intitolato Polesìa, è stato curato da Ferdinando Tricarico, che partendo da questa crasi di Polis e Poiesis ha invitato un ampio numero di poeti (51) a scrivere sulla nozione di “democrazia”, lasciando massima libertà nelle forme e nella lunghezza. Il numero contiene anche interventi del curatore, del direttore Antonio Pietropaoli e due saggi (Per una poesia democratica, di Francesco Muzzioli e Dopo la democrazia. La parole dei corpi ribelli di Giso Amendola).]

 

di Andrea Inglese

 

In ogni suo punto il messaggio è complesso, stratificato, rilevante a perdita d’occhio, ma nel suo insieme è liscio, flessibile, omogeneo.

Les nouveaux réalistes: Alberto Bile

1

Smarrirsi: quando lo smartphone sostituisce il destino

di

Alberto Bile

 

«Sono scappato a Honk Kong col primo idrovolante su cui son riuscito a salire, alle 3.45, e mi son messo a letto coprendomi bene per non farmi assaltare dai fantasmi, con una domanda in testa a cui non riesco a trovare risposta: che cos’è una città? Le case? La luce? I cammini che ci si sono fatti come le linee del destino sul palmo di una mano? O la memoria che si ha delle emozioni che ci si sono avute? Forse le fantasie che il solo nome suscita ancor prima di esserci stati? […] E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove la tua sicurezza? A quale immagine di città ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui?». Così Tiziano Terzani in una lettera alla figlia (Un’idea di destino, Longanesi, 2014). Ora, nei nostri viaggi, sul palmo della mano più che il destino abbiamo uno smartphone, un telefono intelligente. L’immagine della città in esso contenuta stenta tuttavia a dirci chi siamo, e la marea altrui ci travolge altissima. Finiamo anzi per farne parte.

Il problema non sono cellulari e app di per sé, ci mancherebbe. Chi scrive ne ha fatto e fa uso in diverse fasi del viaggio. Il problema è che possono prendere il sopravvento e l’iperconnessione può snaturare il senso del partire. Non siamo educati alla tecnologia e non ne capiamo i rischi: cosa guadagniamo e cosa perdiamo. Non c’è un foglio illustrativo che menzioni tempo sprecato e solitudine, e che ci parli del senso di vuoto di arrivi in hotel con connessione immediata al wi-fi, invece di posare le valigie, affacciarci alla finestra e andare. Fotografiamo il mare in tempesta prima di farne parte. Accogliamo esultanti ogni nuova connessione, ma è comunque su un piccolo schermo, magari acceso di notte: illumina gli sguardi spiritati di ragazzi nei letti a castello, in un ostello che ha gli spazi comuni semivuoti, birre che meriterebbero di essere stappate, amache da dondolare e linguaggi da esplorare.

Nell’ultimo “Album Viaggi” de «la Repubblica», nell’articolo Nessuna mappa né conoscenza, l’app ci guiderà, Marino Niola scrive: «Ormai non servono più né cartine né senso dell’orientamento, né esperienza né conoscenza, né organizzazione né preparazione». Non servono a cosa? Occorre metterci d’accordo sull’obiettivo del viaggio: se è muovere il nostro corpo in luogo altro, allora è vero, non servono a niente. Se invece è conoscere e rigenerarci, tutto ciò è ancora indispensabile. Altrimenti il viaggio diventa una specie di “Pokemon Go”, una realtà virtuale aumentata, dove inseguiamo, acchiappiamo e passiamo oltre. Una processione di gente accartocciata su uno smartphone e non un cammino che drizza la schiena, alza le antenne e spalanca gli occhi e le narici.

La pallina che si muove su una mappa disseminata di stelle sarà anche a volte utilissima, ma il rischio è di essere solo pedoni su una scacchiera di percorsi consigliati. È l’emozione della scoperta a venir meno, se non in forma di imitazione e di sentire obbligato: possiamo arrivare più velocemente possibile alla stella (ma può mai essere lei quella cercata da Terzani?), inanellare una dopo l’altra le giostre della città luna park, possiamo farlo, certo, ma possiamo anche spegnere il cellulare, chiedere indicazioni in un negozio di alimentari, restare a parlare due ore di musica, uscire con una busta di caffè verde che non ci serve a niente. Possiamo, come invoca Claudio Magris ne L’infinito viaggiare (Mondadori, 2017), «viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai».

Non consumare, ma immaginare e poi interpretare un luogo. Attendere, fantasticare. Masticare entusiasmo e timore. E, una volta arrivati, perché no, annoiarci pure. «Benevola noia, protettrice insignificanza», per dirla sempre con Magris. Foriera di intuizioni e incontri risolutivi. Starcene a guardare, sentire di perdere il tempo. Invece di riempire il vuoto fissando lo schermo tentatore, passare dalla sospensione all’azione, dal silenzio alla conversazione inattesa con i compagni di viaggio. Alzarci di scatto e fare una scelta indimenticabile. Trovarci a giocare a calcio in piazza con bambini colombiani, e segnare tre gol. Scoprire la musica portoghese da un vecchio juke-box. Fingere di essere assistenti di Tony Renis per poter entrare negli studios di Abbey Road (ma questa è un’altra storia).

Un luogo è molto più di un safari. È molto più di tre o quattro stelline di valutazione o di un hashtag. Persi tra reporter e blogger che dei loro viaggi sanno raccontarci solo un selfie e un sorriso smagliante (centinaia di like, consenso facile, un enorme “embè?” a spazzarli via) dimentichiamo di essere un paese di grandi raccontatori. Così Renzo Biasion in Sagapò (Einaudi, 2014): «Sulla passeggiata, nella parte della città rimasta intatta, tutto era come prima. Le donne camminavano allacciate ai loro amanti, reclinando la testa sulla loro spalla. Bambini, ignari, giocavano. Un vecchio seduto su una panchina fumava lento, assaporando con delizia ogni boccata di fumo. Le donne erano tanto belle, pulite, coi capelli lucidi, lunghi, abbandonati sulle spalle». Che cosa c’è in una passeggiata! Capiamo ancora che i bambini sono “ignari”, sentiamo anche noi la delizia del fumo lento? Cerchiamo donne belle solo in foto.

Niola saluta l’arrivo delle app che ci permettono «di cercare anime sorelle, desiderose di condividere la nostra erranza». Ma allora cosa rimane dell’erranza? Cos’ho in comune con queste anime sorelle, se non una certa ansia? Intento come sono a cercarle con un dito sullo schermo, a scorrere il catalogo delle autorappresentazioni, non troverò nessun’anima sorella, né alimenterò la mia con conversazioni da treno, ricordi d’infanzia e sogni.

Infine, propone Niola, «se poi sentiamo la mancanza delle persone che fanno parte del nostro quotidiano materiale e virtuale, c’è la possibilità di ricevere un alert […] che ci avverte se un conoscente, un amico o un nostro contatto è in giro negli stessi giorni e dalle stesse parti». Per amor di Dio! Non è meglio dimenticare per un po’ il nostro quotidiano (materiale e ancor di più virtuale), senza esserne prigionieri? Possiamo cambiare identità, in viaggio: ci rendiamo conto? Possiamo fingerci dj, scrittori maledetti. Possiamo tuffarci nel nuovo, e tornare un po’ nuovi anche noi, nel quotidiano.

L’anno scorso a Parc Guell, circondato da schiavi del selfie che non guardavano dov’erano, da allucinanti pose da sfilata di moda, osservavo un agente della Security con l’impossibile speranza di un suo intervento, un sequestro di cellulari. L’applicazione di un decreto legge che fissa un tetto alle foto, che proibisce quelle con autori inclusi. In un futuro ipotetico di selfie vietati, vuoi vedere che molti non troverebbero più ragioni per viaggiare? In quanti accetterebbero di confrontarsi con genti nuove, invece di condividere affannosamente con la nebulosa virtuale di conoscenze vecchie?

E invece siamo pronipoti di “Capitan Video”, il crocerista maniaco della telecamera ritratto nel 1997 da David Foster Wallace in Una cosa divertente che non farò mai più (Minimum Fax, 2010): «La registrazione magnetica dell’esperienza in crociera extralusso di Capitan Video deve essere una di quelle cose noiosissime alla Andy Warhol, di lunghezza esattamente pari alla crociera […] La gente mostra una tolleranza sorprendente verso Capitan Video, almeno fino alla terzultima sera, durante la Scorpacciata Caraibica di Mezzanotte in piscina, quando fa irruzione nel trenino conga e cerca di cambiarne la direzione in modo da riprenderlo al meglio; e a quel punto c’è una specie di incruenta ma irritata sommossa contro Capitan Video, che mostra uno sguardo offeso per il resto della crociera, mentre riordina e cataloga i suoi nastri».

La rivolta ha avuto vita breve. Adesso, tra tanti “Capitan App”, il trenino conga stenta a partire, e se parte è irriconoscibile: tutti sembrano più intenti a riprenderlo e a dargli un voto che a divertirsi. E poi è un trenino già ampiamente previsto, se ne conoscono i componenti da settimane. Non vale quanto quello dell’altra nave da crociera, il viaggio altrui che scorre sullo schermo.

E ci smarriamo smarriti, tra la gente che non sa smarrirsi.

 

Il segreto e la maschera -Colpa del mare e altri poemetti di Bruno di Pietro

0

di Daniele Ventre

La raccolta Colpa del mare e altri poemetti (Oèdipus, Salerno, 2018) ci fornisce il quadro pressoché completo della carriera poetica di Bruno di Pietro, se si esclude la recente silloge Impero (sempre uscita per i tipi di Oèdipus, nel 2017).  L’intero libro, appartenente alla collana Intrecci, consta di dieci sezioni, in origine indipendenti, ognuna delle quali connotata da una propria specifica identità formale, ognuna centrata su uno specifico nucleo tematico, tutte però unificate e rese omogenee da un dettato e da una poetica di fondo, che si strutturano attorno a due tratti identificativi: la nitidezza compositiva, che agisce a tutti i livelli del tessuto verbale e fonico, e la costruzione della persona loquens secondo la trama di un soggetto storico identificabile ma decentrato, rispetto alla luce che delimita il focus delle scene che la memoria storica si rappresenta.

Il corpo centrale dell’opera, il vecchio Colpa del mare (Oèdipus -collana Megamicri-, Salerno, 2002), parrebbe evocare banalmente, nel suo titolo, l’idea uniforme di un’ontologia liquida, sfuggente e acquorea, non fosse il primo tassello dell’opera, pronto lì a richiamare atmosfere parmenidee e severiniane (a dispetto della reminiscenza eraclitea dell’esergo), secondo il gioco di una contraddizione calcolata. Le Eleatiche si presentano all’orecchio del loro avventurato fruitore con un incipit odissiaco e meridiano, in cui campeggia un “tu” lirico da monodia greca alto-arcaica; nello stesso tempo, nella struttura da mottetto, l’esordio in cui l’emittente è in apparenza al suo dégré zéro, pura voce strutturante, la sua presenza si afferma nonostante l’ordito di prefissi negativi che accompagna tutti i capisaldi semantici del messaggio: “l’indisciplina degli eventi”, “l’incerto dire inesistenti/l’identico la trama la ragione”. Così l’essere qui si afferma sin da subito, per quanto sia “disadorno il divenire”, nel tema della persistenza che si fa ritorno, circolarità, nietzscheana ma già stoica, e saldamente ancorata al cuore incrollabile della verità ben rotonda di cui alle reminiscenze parmenidee. Il gioco del ritorno procede per inclinazioni ontologiche spontanee, senza ragioni astute a prevalere (“inclinano all’esistere anche i sassi… inclinano ad esistere le sere”) e senza trionfi escatologici (“cospirano le cose a un solo scopo/dirti che non sei aquila ma topo”); per contrasti di luce e buio estremi, come da tradizionale doxa plausibile della natura (“l’aurora illumina di luce greca/la linea dei cipressi e la ferita…/ nel trapasso fra la cieca// notte la solitudine e l’invidia”), nella quale “l’evidenza delle cose” candita nel blocco di luce-ombra, rimane “immobile impronta/ benché il vento agiti mimose”; per negazione del principio di verità-origine-fondamento, a fronte della dimensione esistenziale deiettiva e frammentaria, isolata e isolatrice (“ma quale origine gli vuoi trovare/ a quell’affanno che ci affatto soli” ma cfr. anche, più avanti, in Colpa del mare “io rifiuto la questione trita/per cui una cosa debba avere inizio”) con negazione montaliana della dicibilità: “e non so dirti il poco né l’intero/ (le parole confessano indigenti/ la poca confidenza con il vero)”; per ironizzazioni di senhals tradizionali consacrati dalla tradizione poetica dalla quercia e dalla roccia o meglio dal faggio di virgiliana memoria e dalla luna di leopardiana rimemorazione, “tu sai che ho provato, ombroso faggio,/ a credere alla meta più che al viaggio…// verde in viso l’invidiosa luna/ alle frasi formate sospirando”, in cui la personificazione selenitica si rovescia nel suo opposto e l’immagine sottende al contempo l’orizzonte archetipo dello phthónos tôn theôn e la negazione del primordiale istinto umano di personalizzare l’universo. L’intera sezione delle Eleatiche si connota per questo moto pendolare fra negazione, teologia negativa, problematicità, e affermazione della presanza di una quiddità-haecceità del reale (“la via dell’essere è acquitrinosa/al posto del nulla c’è sempre qualcosa”). La stessa struttura formale denuncia in sé questa duplice anima in conflitto dialettico. Alcuni dei componimenti della sezione incipitaria sono metricamente normati in modo uniforme, e comunque tutte le poesie eleatiche sono articolate in terzetti di quartine endecasillabiche variamente rimate, in quella che abbiamo accennato essere una struttura da mottetto; il secondo componimento è l’unico a sottrarsi a questa formula tre per quattro, ma si ripartisce comunque in quattro terzine non incatenate, rispettando in ogni caso la convenzione interna della super-strofa dodecastica. Ma su un piano più sottile, l’endecasillabo che Bruno Di Pietro usa, spesso e volentieri è internamente minato da anacrusi, è ipermetro o ipometro, o si sottrae di quando in quando alla legge di Bembo e al suo vincolo accentuale, o si ricompone all’orecchio solo tramite dialefi, sinalefi e sinafie estreme, o ammette la metaritmisi col doppio quinario il cui primo membro è sdrucciolo, secondo un uso metrico ben noto alla tradizione novecentesca non francamente versolibera o atonale. La via del ritmo, nelle Eleatiche, è ominosa.

Se è la nitidezza compositiva che segnava la messa a punto del dettato poetico della prima sezione, con Colpa del mare viene precisandosi l’altro connotato specifico dell’autore, cioè, come si è detto, la costruzione di una persona loquens storicamente definita; questa costruzione dell’ethos non si manifesta sin dall’inizio, ma viene emergendo, in modo sfumato, sulla scia di una tranche iniziale che sembra semplicemente proseguire la meditazione ontologico-esistenziale delle eleatiche. L’orientazione dei testi, che assumono via via un tratto più marcatamente versolibero, di una metrica di unità brevi, verticali, dagli spazi bianchi e dalle pause vaste, viene assestandosi sul tema della meditazione pitagorica del numero come cifratura del reale, e centrale diviene qui la figura di Ippaso di Metaponto (“Ippaso svela il numero infinito/ e dice ‘chiunque può essere arconte…’”). La centratura dell’io lirico come io narrante segna qui il passaggio evolutivo fra la trama obbiettiva delle eleatiche e “la semplice struttura del reale” che in essa si squaderna acquitrinosa e segreta, e nel contempo limpida e palese, e la progressiva scoperta di un soggetto poetico di nuova stoffa, che emerge in modo aperto nel canto di Liside. Il Canto di Liside, terza sezione dell’opera, segna questa emergenza della maschera come travisamento/manifestazione. La maschera di Liside, come tutte le altre maschere che seguiranno, è un’epidermide fittizia che l’autore traccia come calco di sé sul reale e impronta timbro del reale sopra di sé. In questo senso è l’ultimo componimento della sezione a essere, in qualche modo, rivelatore: “…Liside… nulla poteva insegnare/ se non…/…di quella ruga che divide/ dalla sapienza i molti./ Dirai che era graffiato/per aver lasciato/ il mare/ indietro”. La linea di sviluppo tematica dei primi tre tempi della raccolta, scandisce il resto dell’opera e definisce una chiave di lettura omogenea: da un lato, il reale acquitrinoso, che “si ama se segreto” (separato, nascosto), e ne sono traccia i misteri di Eleusi di cui alla terza lirica di Colpa del Mare; dall’altro la maschera, che segna l’interfaccia, la pellicola, la membrana osmotica di separazione permeazione del soggetto (poetico-)ontologico con il reale, maschera le cui rughe inseguono l’orogenesi dell’esperienza, si imprimono di traccia del secretum demetrico, inconscio generatore, misterioso, del reale, per poi dissolversi in esso.

Prima dell’articolarsi definitivo per maschere ed eteronimi, tuttavia, la raccolta fornisce una sorta di pausa autobiografica centrale, lo spazio che l’autore come individuo empirico concede a sé stesso e alla sua immediata prossimità affettiva ed esistenziale. Ne fanno fede i componimenti epigrammatici di Velieri in bottiglia, Avari fiori, Iscrizioni (etimologia letterale di “epigramma”) e Piccola suite. Se Velieri in bottiglia è la traduzione degli universali delle Eleatiche nel mondo delle piccole cose, in Avari fiori il rapporto con il “tu” dell’interlocutore, spesso nominato e identificabile, dà luogo a una poesia dell’immediata vicinanza affettiva, che ricorda certa maniera breve di età ellenistica, né è priva di accenti neocrepuscolari; gli epigrammi di Iscrizioni procedono sulla stessa linea, a partire dai versi dedicati al nome del padre, in una Spoon River minimale; la Piccola Suite conclude l’eterogenea sezione centrale con una sinestesia fra rappresentazione visuale e accenno sinfonico. La poetica della maschera e dell’eteronimo sembrano cedere qui, momentaneamente, a un altro tipo di ethos, un’altra persona loquens, un’altra pellicola di travisamento poetico, la cui interfaccia col segreto del reale si parcellizza, si pointilizza in una pluralità di atomi esperienziali minimi, dando luogo a un sorite ontologico in cui il rumore dell’esistenza viene progressivamente eroso grano a grano, sfumato nel suono e nella luce del mondo tramite la sinestesia, infine ridotto a silenzio.

Le maschere rivelatrici tornano nel culmine della raccolta con acque/dotti (il poeta tardoantico Massimiano Etrusco), Il fiore del Danubio (Ovidio esiliato a Tomi) e Della stessa sostanza del figlio (l’eretico fiorentino Francesco Pucci). Tutte queste maschere si definiscono per una dimensione comune, la parziale marginalità o lateralità, visto che Liside è un pitagorico tardo, e minore, Massimiano Etrusco ci parla dallo sfacelo della periferia temporale dell’evo antico, Ovidio non è più il poeta delle Metamorfosi, o il Naso magister degli Amores e dell’Ars, ma l’esiliato e antagonista senza volerlo, e Francesco Pucci appartiene alla storia minima e atroce delle persecuzioni di eretici riformati dell’Italia alla seconda metà del Cinquecento, in un Rinascimento in contrazione. Questa frequentazione del confine e del margine è particolarmente evidente proprio nel personaggio di Massimiano Etrusco: “ho sognato la bussola/ ma non l’invento/ e non mi oriento/ fra il mezzo e il fine/ (frequento ogni giorno/ un confine”). Tuttavia essa traspare ampiamente anche nella ridefinizione della figura di Ovidio esule, frequentatore di “cose impure”, relegato, condannato a una veglia perpetua ai confini del nulla: “l’insonnia è impazienza/ attesa di sopravvivenza/ tempo utile/ a squarciare la coltre (previsione dell’oltre)”; la stessa dimensione liminare, sulla soglia della morte, chiude l’opera nella figura di Francesco Pucci, pur non ancora pronto a “vedersi passare”. Così nell’opera di Bruno Di Pietro la maschera limite fra reale e soggetto poetico, sia essa forma o eteronimo storico o scomposizione dell’immagine in un sorite di esperienze minime, si trasforma in diaframma fra il sé e il nulla, in un rapporto ambiguo in cui la buccia del fenomeno scarnificata nel travestimento diviene l’unica sostanza concreta e certa.

Ne risulta una forma di espressione in forte controtendenza, essa stessa liminare, sussurrata, come sussurrata è la gnome in parentesi che spesso chiude, firma stilistica dell’autore, i componimenti di Colpa del mare e altri poemetti, in un verso che si muove in punta di piedi come ultima voce di una linea poetica laterale, atipica, residuale, di lirismo dissimulato, molto oltre il tempo del grande tramonto dell’io lirico.

 

After Lorca, di Jack Spicer – una prima traduzione italiana

5

Caro Lorca,

Vorrei poter fare poesie di oggetti reali. Che il limone fosse un limone che il lettore possa aprire o spremere o assaggiare – un limone reale, come un giornale in un collage è un giornale reale. Vorrei che la luna nelle mie poesie fosse una luna reale, che all’improvviso possa essere coperta da una nuvola che non ha niente a che fare con la poesia – una luna completamente indipendente dalle immagini. L’immaginazione dipinge il reale. Mi piacerebbe indicare il reale, rivelarlo, per fare una poesia che non abbia suoni al suo interno se non l’indicare di un dito.

Abbiamo entrambi provato ad essere indipendenti dalle immagini (tu sin dall’inizio e io solo quando sono diventato abbastanza vecchio da stancarmi di provare a far sì che le cose si connettano), a rendere le cose visibili piuttosto che a farne delle immagini (phantasia non imaginari). Com’è facile, in una rimuginazione erotica o nella più vera immaginazione onirica, inventare un bel ragazzo. Com’è difficile prendere un ragazzo in un costume da bagno blu, visto non meno casualmente di un albero, e renderlo visibile in una poesia tanto quanto un albero è visibile, non come un’immagine o un dipinto ma come qualcosa di vivo – catturato per sempre nella struttura delle parole. Lune vive, limoni vivi, ragazzi vivi in costume da bagno. La poesia è un collage di reale.

Ma le cose decadono, ribatte la ragione. Le cose reali diventano spazzatura. Il pezzo di limone laccato sulla tela comincia a sviluppare muffa, il giornale racconta di fatti incredibilmente antichi in uno slang dimenticato, il ragazzo diventa un nonno. Sì. Ma la spazzatura del reale continua a penetrare il mondo attuale, rendendo i suoi oggetti, a sua volta, visibili – il limone chiama il limone, il giornale il giornale, il ragazzo il ragazzo. Ciò che decade riporta il proprio equivalente all’essere.

Le cose non si connettono; corrispondono. È questo che rende possibile ad un poeta di trasportare oggetti reali, di portarli attraverso il linguaggio con la stessa facilità con cui li può portare attraverso il tempo. Quell’albero che avete visto in Spagna è un albero che non avrei mai potuto vedere in California, questo limone ha un odore diverso e un diverso sapore, MA la risposta è questa – ogni posto e ogni tempo ha un oggetto reale per corrispondere al vostro oggetto reale – quel limone può diventare questo limone, o può persino diventare questo pezzo d’alga, o questo particolare tono di grigio in questo oceano. Uno non deve immaginare quel limone; deve scoprirlo.

Perfino queste lettere. Esse corrispondono a qualcosa (non so cosa) che avete scritto (forse così poco chiaramente quanto quel limone corrisponde a questo pezzo d’alga) e, a sua volta, qualche futuro poeta scriverà qualcosa che corrisponde ad esse. Questo è il modo in cui noi morti ci scriviamo l’un l’altro.

Con affetto,

Jack

 

 

*

 

 

Narciso

Una Traduzione per Richard Rummonds

 

Bambino,
Come continui a cadere nei fiumi.

Sul fondo c’è una rosa
E nella rosa c’è un altro fiume.

Guarda quell’uccello. Guarda,
Quel giallo uccello.

I miei occhi sono caduti
Nell’acqua.

Mio dio,
Come stanno colando! Ragazzo!

– E io stesso sono nella rosa.

Quando ero perso nell’acqua
Capii ma non ti dirò niente.

 

 

*

 

 

La Ballata della Fuga

 

Una Traduzione per Nat Harden

 

Tante volte mi sono perso lungo l’oceano
Con le orecchie piene di fiori appena tagliati
Con la lingua piena d’amore e d’agonia
Tante volte mi sono perso lungo l’oceano
Come perdo me stesso nei cuori di alcuni ragazzi.

 

Non c’è una notte in cui, dando un bacio,
Uno non senta i sorrisi della gente senza volto
E non c’è nessuno che toccando qualcosa appena nato
Possa dimenticare davvero gli immoti teschi di cavalli.

 

Perché le rose cercano sempre nella fronte
Un duro paesaggio d’osso
E le mani d’un uomo non hanno altro scopo
Che imitare le radici che crescono sotto campi di grano.

 

Come perdo me stesso nei cuori di alcuni ragazzi
Molte volte mi sono perso lungo l’oceano
Lungo la grandezza d’acqua vago cercando
Una fine alle vite che hanno provato a completarmi.

 

*

 

Venerdì 13

Una Traduzione per Will Holter

 

Alla base della gola c’è un piccolo marchingegno
Che ci rende capaci di dire qualsiasi cosa.
Sotto di esso ci sono tappeti
Colorati di rosso, blu, e verde.
Dico che la carne non è erba.
È una casa vuota
In cui c’è soltanto
Un piccolo marchingegno
E grandi, bui tappeti.

 

 

*

 

 

Caro Lorca,

La solitudine è indispensabile per la poesia pura. Quando qualcuno si intrufola nella vita di un poeta (e ogni improvviso contatto personale, che sia a letto o nel cuore, è un’intrusione) questi perde momentaneamente l’equilibrio, scivola nell’essere che è, usa la sua poesia come si usa il denaro o la simpatia. La persona che scrive la poesia emerge, esitando, come un paguro dal suo guscio. Il poeta, per quell’istante, cessa di essere un uomo morto.
Io, per esempio, non ho potuto finire la lettera che vi stavo scrivendo sui suoni. Eravate come un amico in una città lontana a cui di colpo non ero più in grado di scrivere, non perché la struttura della mia vita fosse cambiata, ma perché d’improvviso, temporaneamente, non ero nella struttura della mia vita. Non potevo parlarvene perché entrambi, questo ed io, eravamo momentanei.
Perfino gli oggetti cambiano. I gabbiani, il verde dell’oceano, i pesci – diventano cose da scambiare per un sorriso o il suono di una conversazione – gettoni più che oggetti. Niente importa, se non la grande menzogna del personale – la bugia a cui questi oggetti non credono.
Quell’istante, dicevo. Può durare un minuto, una notte, o un mese, ma ve lo assicuro, García Lorca, la solitudine ritorna. Il poeta incista l’intruso. Gli oggetti tornano al loro posto, accigliati, in silenzio. Comincio di nuovo a scrivervi una lettera sul suono di una poesia. E questa cosa immediata, quest’avventura personale, non sarà trasferita nella poesia come lo erano le onde e gli uccelli; apparirà, tutt’al più, nel delicato disegno delle crepe, in una poesia in cui l’autobiografia è andata in pezzi ma non ha distrutto del tutto la superficie. E l’emozione incistata diventerà essa stessa un oggetto, da trasferire infine nella poesia, come le onde e gli uccelli.
E io diventerò di nuovo il vostro speciale compagno.

Con affetto,
Jack

 

 

*

 

 

Jack Spicer (Los Angeles, 1925 – San Francisco, 1965) fu poeta, studioso di linguistica, libertario – perse la cattedra per aver rifiutato il giuramento di fedeltà agli Stati Uniti – vicino a Robert Duncan e Robin Blaser con cui diede vita al San Francisco Renaissance, insegnante, ispiratore dei language poetsinsofferente nei confronti di definizioni ed etichette.

La casa editrice Gwynplaine, la rivista Argo, nella figura del curatore Fabio Orecchini, e l’impresa creativa non-profit Nie Wiem hanno sostenuto la traduzione di After Lorca (1957), la prima importante pubblicazione del poeta Jack Spicer in Italia. C’è ancora tempo per aiutare il progetto:

https://www.produzionidalbasso.com/project/after-lorca-di-jack-spicer-prima-traduzione-italiana/

 

After Lorca (1957) di Jack Spicer 
Edizioni Gwynplaine, collana Argo, 2018

Con una introduzione di Federico Garcia Lorca
Traduzione e Nota di Andrea Franzoni
Post-fazione di Peter Gizzi
A cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini – Rivista ARGO

 

*

Malcolm Morley (1931-2018)

0

Rinaldo Censi

Di Malcolm Morley, deceduto qualche giorno fa a ottantasei anni, prima della carriera di artista, mi ha sempre colpito l’infanzia disagiata, quasi dickensiana. Frequenta una scuola navale. Ha una gran passione per i modellini. Durante la Seconda Guerra Mondiale rimane traumatizzato. Una notte, il suo palazzo viene bombardato. La corazzata H.M.S. Nelson che stava costruendo finisce polverizzata, come la parete di casa. Viaggia in nave. Viene arrestato per furto e condannato a tre anni di prigione. Mentre li sconta, legge il libro di Irving Stone sulla vita di Van Gogh. Inizia a dipingere. Si iscrive a un corso per corrispondenza. Quando esce, si arrabatta, dipinge acquerelli, frequenta il Royal College of Art, a Londra. Arriva il primo choc: la mostra degli espressionisti astratti americani alla Tate. È il 1956. Della mostra alla Tate ricorda l’impatto con le opere di Clyfford Still, Rothko e soprattutto Barnett Newman. Parte per gli Stati Uniti. Raggiunge una ragazza ebreo-russa che aveva conosciuto su un bus. Si sposa e si separa. Torna a Londra per diplomarsi. Viaggia in transatlantico. Si trasferisce a New York. Dipinge. Cerca una sua “casa”, cioè una modalità espressiva propria, che lo affranchi dalle correnti, dalle mode. Sono i tempi dell’espressionismo astratto e della Pop Art. Warhol si era preso le bottiglie di Coca Cola, Lichtenstein i fumetti, Wesselmann le labbra e i grandi seni. Morley ci prova con i transatlantici.

Scende nel porto e cerca di dipingerne uno. Le dimensioni sono enormi, sfuggono. E poi c’è la faccenda meteorologica. La luce cambia, o piove: è un casino. Così decide di lavorare a partire da fotografie, cartoline, depliant. Le copia letteralmente. Trasferisce non il transatlantico, ma la fotografia, su tela. L’ingrandisce, facendole fare un enorme salto di scala. Lo chiameranno Iperrealismo, Foto realismo, o – come preferiva Morley – Superrealismo. Con lui cui sono Chuck Close, Ralph Goings (e prima di loro Richard Artschwager). Rispetto ai mezzi di riproduzione meccanica della Pop Art, gli “iperrealisti” compiono il gesto inverso. Dipingono a mano. Morley utilizza una lente di ingrandimento e una griglia fittissima. Capovolge il quadro e lo nasconde, fatta eccezione per la minuscola porzione da dipingere. Vuole restare distaccato. Vuole: «far affiorare la superficie della tela, ma senza provocare onde». Tutto è piatto, il tocco invisibile, cancellato.

Un marinaio sa che senza vento non ci saranno onde. Morley invece farà i conti con qualsiasi corrente atmosferica. Col tempo il suo tocco cambia, come i mezzi utilizzati. Performance, sculture, combined painting. Ma su tutto resta la pittura. Rispetto alla nettezza superrealista, il tratto si allarga,  si fa a volte impreciso, astratto, brutale. Sembrano quadri dipinti da un marziano. Una volta Dalí gli dice: «Malcolm, lei ha un occhio fantastico; dovrebbe dipingere cose che nessuno abbia mai visto ma che siano reali». Credo l’abbia preso alla lettera.

 

 

Overbooking: Primo Levi

0

Nota

di

Alida Airaghi

Di Primo Levi (Torino, 1919-1987) tutti conoscono i capolavori narrativi, testimonianze tragiche dell’esperienza vissuta nel campo di Auschwitz, in cui fu deportato nel 1944 in quanto ebreo: Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora quando?, I sommersi e i salvati. In pochi sanno invece che Levi fu anche autore di versi, scritti tra il 1943 e il 1987, anno del suo suicidio, e pubblicati da Garzanti nel 1984, con il titolo Ad ora incerta. Il volume, ristampato più volte, contiene 63 poesie e dieci traduzioni (perlopiù da Heinrich Heine), ed è introdotto da un’epigrafe tratta da Coleridge: “Since then, at an uncertain hour, / That agony returns… (“Dopo di allora, ad ora / incerta, / quella pena ritorna”), utilizzata già come esergo in un romanzo.

Il libro, che nel 1985 vinse il Premio Abetone e il Premio Giosuè Carducci, aveva suscitato pareri critici contrastanti: piuttosto negativi quelli di Cases, Fortini e Mengaldo, più positivamente solidale quello di Giovanni Raboni, che così si espresse in una recensione su La Stampa del 17 novembre 1984: “A me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […]. In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa”.

Primo Levi stesso, tuttavia, aveva dichiarato, con sorniona ironia: “[…] conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti”. Aggiungendo, nella prefazione al volume, di aver ceduto al richiamo della poesia “ad intervalli irregolari, ad ora incerta. […] in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”.

Come nei romanzi, l’imperativo che sembra guidare la scrittura in versi di Levi è decisamente comunicativo; ciò che preme all’autore è poter raccontare ai lettori le esperienze vissute, i sentimenti e le riflessioni che lo animano. Una sorta di lascito e insegnamento etico, da esprimere con radicale onestà: “È poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”.

Chiarezza che nelle poesie di Ad ora incerta viene perseguita con coerenza, con l’intendimento severo di trasmettere un monito a chi legge, senza raggiri stilistici o adulterazioni letterarie: il tono classicheggiante, biblico-dantesco, sospeso tra l’ironico e il perentorio, non rifugge da arcaismi e formule desuete, ma è sempre e comunque finalizzato a un coinvolgimento ammonitore del pubblico (“Voi che vivete… Considerate… Meditate… Ripetetele”, “O tu che segni, passeggero del colle”, “Dimmi: in cosa differisce / questa sera dalle altre sere?”). Uno stile quasi profetico, dunque, con una palese finalità didascalica, che si riflette anche nei contenuti.

I temi ecologici risultano evidenti nell’attenzione rivolta non solo al mondo animale e vegetale spesso antropomorfizzato (gabbiani, corvi, lucciole, formiche, chiocciole, topi, buoi, dromedari; ippocastani, agavi, licheni), ma anche nell’appello indirizzato all’umanità perché non persista nella distruzione cieca e masochista dell’ambiente, convincendosi invece che l’evoluzione della specie dovrebbe perpetuarsi in un perfezionamento materiale e morale, e non in una degradante regressione (Autobiografia).

L’ateo Primo Levi, pur orgogliosamente partecipe del proprio ebraismo (“popolo di altera cervice, /Tenace povero seme umano”), non crede a una divinità provvidenziale e benevola. Crede invece

nell’indifferenza del cielo verso il destino degli uomini, condannati all’infelicità, inghiottiti in una notte senza riscatto che accomuna tutte le creature nella sofferenza: “Forse è questa l’eternità che ci attende: / Non il grembo del Padre, ma frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si convolgono perpetuamente invano”, “Signore, a fare data dal mese prossimo / Voglia accettare le mie dimissioni. / E provvedere, se crede, a sostituirmi”.

Si salvano i rapporti affettivi con i familiari, con i compagni di una vita, con gli amici: “Cari amici, qui dico amici / Nel senso vasto della parola: / Moglie, sorella, sodali, parenti, / Compagne e compagni di scuola // … A voi tutti l’augurio sommesso / Che l’autunno sia lungo e mite”.

All’amata moglie Lucia, cui è dedicato il libro intero, sono riservate parole commosse e grate, dall’epoca del fidanzamento fino all’età più avanzata: “Abbi pazienza, mia donna affaticata //… Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici / Per questo tuo compleanno rotondo //… Sono il mio modo ispido di dirti cara, / E che non starei al mondo senza te”.

Il mito, la Bibbia, la storia universale e la scienza sono presenti in tutta la raccolta, che cita Aracne e Lilit, Plinio il vecchio e Galileo, la lotta partigiana cui Levi prese parte attivamente in gioventù e i cui ideali teme siano stati abbandonati o traditi.

Ma ovviamente è la tragedia della Shoah, rivissuta nella memoria lacerata e mai più ricomposta, a risuonare come un basso continuo in questi versi, insieme al dovere morale di rendere testimonianza di quell’orrore. Ecco quindi il ricordo dei milioni di vittime innocenti, dalla bambina incenerita a Pompei fino ad Anna Frank, “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”, quando “Ognuno è nemico di ognuno”: sempre con il terrore che l’abominio possa ripetersi, e di dover riascoltare “Il percuotere di passi ferrati” o “Il comando dell’alba: / «Wstawać»”. Per questo la notissima esortazione civile di Shemà, anteposta a Se questo è un uomo, rimarrà valida in eterno: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate ritornando a sera / Il cibo caldo e visi amici // Considerate se questo è un uomo, / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no”. Nella stessa maniera rimangono legittimi anatemi e maledizioni, rivolte sia ai torturatori nazisti come Adolf Eichmann (“Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte //… O figlio di morte, non ti auguriamo la morte. /… Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti”), sia ai pavidi che non si sono opposti: “Vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi”.

Demoni e “fantasmi immondi”, incubi e paure incontrollabili continueranno a tormentare Primo Levi, nonostante il desiderio più volte espresso di trovare sollievo dall’angoscia e dal tormentoso senso di colpa per essere scampato all’Olocausto. La voglia giovanile di tornare a cantare, “di camminare liberi sotto il sole”, di recuperare un impegno di lotta contro ogni sopruso, lentamente si ammorbidisce in una più docile e rassegnata aspirazione alla pace: “Felice l’uomo che ha raggiunto il porto, / Che lascia dietro sé mari e tempeste, / I cui sogni sono morti o mai nati…”.

Ma nell’ultima composizione del volume (Almanacco) torna desolata la constatazione che di fronte all’eternarsi indifferente degli elementi naturali, solo l’uomo è capace di intestardirsi nello scempio e nella devastazione: “Noi propaggine ribelle / Di molto ingegno e poco senno, / Distruggeremo e corromperemo / Sempre più in fretta; / Presto presto, dilatiamo il deserto / Nelle selve dell’Amazzonia, / Nel cuore vivo delle nostre città, / Nei nostri stessi cuori”.