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Ci sono bestie al confine (parte II)

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di Benny Nonasky

Arrivammo al bosco e la luna di formaggio era ancora alta in cielo. Il bosco era un completo di ombre e scricchiolio di neve e giunture. Non sapevamo quanto tempo ci avremmo messo a raggiungere il fiumiciattolo e il muro divisorio. La guida non aveva specificato nulla, tranne dirci che non ci fossero pericoli al suo interno. <<Ci ha lasciati così, senza dire nulla. Che Dio perdoni la sua cattiveria>>, disse l’uomo anziano che tenevamo in mezzo per evitare che lo perdessimo o che si facesse male cadendo. <<È stato un figlio di puttana! Se fossimo ancora a casa, a un tizio del genere gli avrebbero spaccato la testa. Codardo. Vengono qui e si montano la testa! E la fratellanza? E Dio? E la misericordia? Figlio di una cagna.>>, disse innervosito il ragazzino dietro al vecchio. <<Basta, con queste parole. Sprechi solo fiato. E poi, quant’anni hai? Dieci? Undici? Dove le hai prese quelle parole? Ti senti meglio di lui a pronunciarle? Tieni il vecchio che sta per cadere! Quel tizio avrà quello che si merita. Dio è testimone e giudice. Che sia benedetto.>>. Dissi questo con stizza e paternalismo. Non che io fossi credente o altro, ma era l’unico modo per calmare quelle anime infreddolite, stanche e nervose. In fin dei conti, era l’unica cosa che non fuggiva dalle nostre menti indolenzite. Era sempre lì quando lo si cercava. O no? Quel Dio era l’unica soddisfazione che gli era stata permessa. Grazie a lui potevano parlare, avere un lavoro, delle medicine quando stavano male, dei sogni da raccontare. Era il biglietto da visita e l’identità. Altro non era consentito. Non più. Altro era morte. Per questo dovevo rassicurarli con Dio e la sua grandezza. Ma poi, quale grandezza? Eccoci qui, esiliati e derisi e offesi. Quale Dio vuole per la sua gente tale martirio e silenzio? Quale Dio mette nelle mani degl’uomini odio e rancore? Quale Dio desidera la morte del bambino, il divieto del bacio in pubblico, l’oscurità dei volti di una donna, costringendoci ad accompagnarle in giro anche quando non si ha voglia, a produrre armi e bombe, a difenderci dalle zanzare e i reumatismi? Con quale Dio hanno bombardato la mia casa, ucciso mio padre e il futuro di un intero popolo? Pensavo e mi domandavo le solite cose. Da quando ero partito, ero ossessionato dall’incomprensione generale e dall’esser giudicato per la mia religione e non per il mio stato di uomo in pericolo, costretto a fuggire per la violenza subìta. Ho visto bambini e donne e uomini annegare, venir picchiati e uccisi nelle carceri e nelle strade. Ho visto le macerie e la fine di una generazione. Siamo nulla. Non ho altri pensieri. Anche in quel momento e mi ritrovai solo. Me lo meritavo. I miei compagni di viaggio erano scomparsi. Solo io e il bosco. Avrei voluto gridare i loro nomi, ma i miei compagni non esistevano e correvo il rischio futile di esser udito anche dalle guardie di frontiera. Comincia a sentirmi soffocare. Tornai indietro. Scavai la neve che mi circondava le ginocchia. Perché tutto ciò? Per quello che ho detto al ragazzino? Per quello che ho pensato? Non sapevo più dove mi trovassi. Girovagavo a zig zag tra gli alberi. Sudavo e continuavo ad aver freddo. Inciampavo, cadevo e mi rialzato. Fino a quando non vidi un uomo venire correndo verso di me. Mi fermai. Si fermò. Annaspava. Come me stava sicuramente cercando una via di fuga da quel labirinto. Decisi di andargli incontro e così fece pure lui. A pochi metri di distanza mi fermai. Per quanto il tempo ne avesse rovinato l’aspetto: quell’uomo ero io. Lo guardai. Lui fece un ghigno. Scattammo insieme. Lo presi per il collo. Lui rideva e non faceva resistenza. Capì subito che era inutile: qualsiasi cosa fosse era già morta. Lo lasciai andare e mi allontanai deluso e sfinito. <<Dove vai, stupido? Non hai capito che è puro fallimento? Stai andando contro un finale già scritto e maturato da millenni di storia. Nessuno ti vuole. Nessuno ci vuole. Non ti bastano le migliaia di vittime? Non ti bastano i muri e le guardie che chiedono i documenti e scelgono per te? Hanno scelto sempre per noi. E tu hai tradito la tua terra andandotene, dimenticandoti di tutti. Ti ricordi la via dove correvi per arrivare prima al venditore ambulante di pistacchi? Non esiste più. Anche quell’uomo, sgozzato come esempio, perché era solo un esempio, non un uomo timorato di Dio, ma un esempio tra gli esempi per apprendere il compito e la punizione. Te lo ricordi? Riuscirai a raccontare in giro i tuoi ricordi, la bellezza del luogo, la tua felice adolescenza? Pensi che questo ti farà avere un posto a tavola dopo il confine? Pensi che loro da te vogliano la felicità, il ricordo, la meraviglia dei minareti? Stupido, loro vogliono vederti piangere, soffrire per riempire il loro vuoto umano, politico, giornalistico. Loro hanno una carta sanitaria, noi siamo solo stranieri venuti da un mondo lontano, incomprensibile. Esattamente quel mondo che loro hanno plasmato e distrutto. Mi dispiace, amico, ma stai andando dalla parte sbagliata: la tua storia è dalla parte del male. Ti è andata così.>> Mi voltai lentamente. Non avevo afferrato tutto quello che aveva detto, mi interessava ben poco. Sapevo che era la parte riluttante di me. Io dovevo andare avanti. Diventare l’esempio buono perché c’era un uomo buono che lo stava aspettando, ovunque andasse. <<Ascolta, io sono quasi arrivato alla mia meta, che sia libertà o prigione ben poco mi preoccupa: ho visto la fine e non mi resta che portarla sulle spalle e nel cuore. Altro non mi duole. Io passerò quella fottuta barriera e ricomincerò. E se per caso mi bloccassero o mi pestassero o mi gridassero contro qualsiasi merda esistente: nulla, nient’altro sarebbe utile a sconfiggere la mia voglia di rinascita, vita e speranza. Il dolore che porto in me non ha cura, ma solo la voglia sfrenata di ricominciare e con quel dolore ricostruire la mia vita e quella della mia terra. Pensi che me ne sia dimenticato? Pensi davvero che io abbia perso l’amore verso di essa? Io voglio esser di nuovo bambino e correre allegro tra la gonna di mia madre e il bastone del nonno. Io voglio ancora le carezze di mio padre e le sue letture poetiche prima di andare a dormire. Sono cose che non potrò più avere, ma che posso dare. Il mio dolore è il mio biglietto da visita. Ma io sono un altro uomo, che posso ancora dare e riemergere.>> L’altro me mi guardò beffeggiante e disse secco: <<Non qui.>> Poi fece il solito ghigno e proseguì: <<Imparerai la lezione. Sei solo un numero, un ennesimo numero da catalogare, gestire e ricollocare. La tua fiducia mi fa venire il voltastomaco. Dovresti solo pregare di non finire in ospedale dopo aver incontrato le armi della polizia al confine. Lo farò io per te. Ti aspetto al ritorno. Ben arrivato.>> <<Eccolo lì il muro! Quel bastardo della guida aveva ragione, è pieno di cani e agenti armati. Ora come la mettiamo?>>, il ragazzino sputò a terra e si strinse le braccia al petto per il freddo. Sì, eravamo arrivati. Effettivamente era pieno di guardie, anche se non sembravano controllare tutto il reticolato. Spostandoci verso destra avremmo avuto un ampio spazio libero. Il problema erano i cani e il loro naso. Puzzavamo. Puzzavamo di miseria e paura. Mi voltai e mi vidi guardarmi, sorridere, alzare le mani al cielo e urlare. Fu così che arrivarono i draghi.

Tu devi sperimentare il dramma per conoscerlo e prevenirlo. La pelle altrui ti fa schifo, non la sopporti, inquina l’ambiente abituale. Devi generalizzare per decifrare un malessere soggettivo. Perché tu vuoi partecipare, e per farlo devi condividere il pensiero della massa deforme. Tu sei convinto di non poter vivere altrimenti. Ti hanno insegnato che la diversità genera ribellioni e solitudini. Hai appreso la lezione e ora giustifichi la tua aridità col principio che le acque sono morte e gli algoritmi utili alla socialità. Tu abbrevi il raggio della speranza nell’immobilità dei divani. Sei un pollice su di un pulsante in procinto d’un’infiammazione perenne. Click. Da dietro cime abissali s’alza un demoniaco urlo che sconvolge la piattezza dei giorni a venire. Gli alberi s’inchinano al suo disperato lamento. C’è una lunga processione d’animali che cerca un paesaggio utile alla salvaguardia della specie. Tu stai pronto col mirino puntato. Conterai fino a dieci e poi: no, non lo farai: sei un qua qua qualsiasi. Non mi stupisce questa tua ritrosia. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. La menzogna è realtà e diviene presente e passato. L’estremismo abbraccia le tue esperienze sterili. È quotidianità. Tu vivi nel dilemma identificativo, non sai da che parte stare. Nel frattempo cadono come alberi secchi sul suolo e il loro corpo genera una ferita inestinguibile perché la terra ha solo memoria del sangue che s’accumula, si dilata, che attende il giorno del verdetto e della condanna. La terra è realtà ed è presente, passato e futuro. Tu apprendi questa lezione dai telegiornali e dai titoli accattivanti condivisi dagl’amici. Tu perdi il tuo tempo a discapito del tuo corpo e della sanità pubblica. Tu dai troppo lavoro ai becchini. E i cimiteri esplodono di gioia.

I draghi ruotavano sulla nostra testa; facevano un chiasso assurdo coi loro rauchi versi e lo sbatter d’ali lento e meccanico. Il fuoco delle fauci era un faro che circoscriveva la zona protetta. Il vento improvviso ci costrinse a chiudere gli occhi e a coprirci i volti sudati dal freddo intenso dell’ansia e della fame e del ghiaccio che marmorizzava gli alberi e rendeva difficile la salita fino al muro. I soldati non davano peso a quel assordante suono e alle folate improvvise. I soldati, essendo pezzi di ferro e circuiti, non avevano i problemi di una casa esplosa e il cuore ferito dalla morte dietro ogni sguardo. Stavano fermi, sicuramente ci aspettavano, il tradimento fa parte della condizione umana per la sopravvivenza del più forte. <<Non so bene come fare, la signora va caricata sulle spalle. Tu pensi di farcela? Io starò davanti, ho le cesoie nella borsa. Inoltre, se per caso mi beccano, vi coprirò: correrò verso di loro mentre voi tornate indietro di corsa. Ci siamo capiti?>>, dissi strofinandomi gli occhi indolenziti. <<Non penso sia una buona tattica. Lo dico per te: se gli corri incontro, ti farai uccidere. Tu non conosci la loro lingua né loro la tua. Ti prenderanno per un pazzo suicida. I saggi ormai sono morti con la prima alba del mondo.>>, disse il vecchio rivolgendo lo sguardo alla notte. <<Non importa. Sono già morti tutti e io avrei poco da guadagnare dopo quel muro. Ho sofferto e continuerò a soffrire. Non sono né giovane né anziano. In poche parole: non servo a nulla.>> Non ci furono altre osservazioni, perché l’attenzione venne catturata da una situazione orribile che si stava andando a creare: da una delle torrette sbucò uno di quegl’esseri marci e zoppicanti incontrati tra i fabbricati. Cominciò a confabulare con uno dei soldati e, d’un tratto, indicò noi, il bosco, la catastrofe della nostra storia. Il soldato che discuteva con quell’abominio urlò qualcosa ai suoi colleghi. Questi si voltarono e puntarono i fucili verso il nostro nascondiglio. Nel frattempo i draghi presero a puntare il loro fuoco verso di noi. <<Siamo nella merda>>, disse il ragazzo. Arrivarono altri soldati e altri esseri deformati armati. <<Ma a cosa servono tutti quei mostri e quelle armi, siamo solo dei dispersi e dei disperati! Che Dio ci aiuti.>>, disse la signora con le lacrime agl’occhi e le mani giunte a preghiera rivolte al cielo. <<Mi prenda con lei, capitano. Non posso accettare questo dolore e quest’infamia verso l’uomo. Ho bisogno di combattere per dare un senso al mio posto sulla terra, per ricordare i nome di tutti i defunti. Mi dia una spada e uno scudo: che le mie ferite siano il sangue dei martiri e della possibilità!>>, dissi guardando il cavaliere che fissava i soldati pronti all’attacco. Disse: <<Voi siete il presente, noi il passato e loro tentano di conquistare il futuro. Voi capitate in mezzo, sarà sempre così per il presente. Siete un passaggio, un errore di calcolo; nessuno vi considera nel momento in cui voi esistete. A loro non interessa cosa vi accadrà oggi né cosa vi sia successo ieri. A loro interessa che domani non sia come oggi, che l’ordine venga rispettato e che le paure siano sempre condivise e rese inquietanti. Loro hanno capito che se si vuole un domani, bisogna cancellare ciò che è avvenuto in passato così da renderlo possibile, non colpevole, non compreso, riutilizzabile e giustificato dalle masse. Tu devi salvare il tuo corpo e il tuo spirito e quello dei tuoi compagni. Non siamo mai soli. Tu sei degno di questa terra. E ogni morte è un’offesa inscritta nel tempo e, cosa che loro non vogliono comprendere, nel futuro. Quel futuro d’odio e repressione che stanno creando.>> Non ci furono altre parole tra noi due. Iniziò la battaglia. Un’altra guerra dove crollarono case, le ossa e vennero psicologi per sostenere gl’incubi dei bambini. Noi ci trovammo immersi in altri rimpianti e colpi di mortaio. La descrizione della guerra si risolve in polvere, fiammate urla e crateri inestinguibili. Tagliai la rete di filo spinato, feci passare i miei compagni e dinnanzi a noi si parò il vuoto. Un grande abisso ci assorbì nel suo insieme confusionario e immobile. La nostra identità non ha certificato di nascita. Tutta la nostra esistenza si è ridotta a una ricerca forsennata della casa dei nostri sogni: quella che abbiamo lasciato, quella che siamo costretti a ricevere. Mi voltai indietro ad osservare la fine di un conflitto che non conosce misericordia. Non c’era più nessun combattimento. Solo soldati che ci prendevano a calci mentre tentavamo la fuga verso l’ennesima, provvisoria salvezza. Ci furono degli spari. I cani ringhiavano sotto la luna di formaggio. Qualcuno gridò ad un Dio che nel silenzio dei secoli ha sconfitto l’idiozia e la banalità del figlio ribelle, lasciandolo al suo inferno, al suo destino programmato. Mi girai verso i miei compagni, erano stanchi ma confortati. Loro non hanno visto nulla dietro ai loro passi. Loro vivono nella speranza di una casa e nell’amore democratico di una madre carica di cicatrici e disprezzo. <<Andiamo.>>, dissi. E c’incamminammo mentre la notte sbiadiva e un’altra notte riluceva nei brividi infiniti di una prigione o di un cespuglio umido e selvaggio.

2.

Europa era una ragazza dotata di una bellezza singolare. Quando Zeus la vide ne fu talmente eccitato da portarla sull’isola di Creta per violentarla. Ciò avvenne dentro un boschetto di salici. Così nacque la prima piaga. Da qui parte e si conclude la nostra storia, carica d’amore e aggressività. Incipit della creazione. Andando tutti per lo stesso mare. Andando tutti per la stessa strada. La nostra storia.

Io: Ho un cuore in un letto d’ospedale innamorato del letto d’ospedale.
Lei: Mi hai tradito ancora.
Io: Mi sono allontanato da ogni cosa.
Lei: Cosa ti spinge verso l’estremo?
Io: Le mie ali scorticate.
Lei: Così cadrai dentro le tenebre del ricordo.
Io: C’è già un cadavere dentro di me.
Lei: Posso vederlo?
Io: Guardami.
Lei: Posso toccarlo?
Io: Toccami.
Lei: Non mi ami più.
Io: Ho amato così tanto da indurre al suicidio il mio corpo.
Lei: La tua metamorfosi è stata solamente un cicatrice nell’anima.
Io: Le mie ossa tremano. Nasce in me un senso di pericolo incontrollabile.
Lei: Hanno offeso la tua vita.
Io: Hanno distrutto le mie origini.
Lei: Ora aspettami dove mai più c’incontreremo.
Io: Ti aspetto da un tempo non descrivibile.
Lei: Sono sempre stata lì. E ti ho osservato.
Io: Ti ho sempre vista lì, ma non ricordavo il tuo nome. Per raggiungerti.
Lei: Bastava un tuo sguardo e sarei diventata il tuo viaggio di speranza.
Io: Io ho conosciuto la tua ospitalità in divieti e bastoni.
Lei: Questa è la malattia che mi ha colto.
Io: Non so se ci sarà mai un citofono col mio cognome a casa tua.
Lei: La tua terra ti chiama.
Io: La mia terra non mi offrirà più il sole del mare. La mia terra è silenzio.
Lei: Fin quando non tornerai, resterai uno straniero. L’accento del luogo ti rende parte del suo passato.
Io: Il mio passato è stato distrutto e non trovo nessun ricordo tra le cose che lo rappresentano.
Lei: Sei destinato all’assenza.
Io: La mia terra è assenza. E io sono la mia terra.
Lei: Non c’incontreremo mai. Lo ricorderai il mio nome?
Io: Il tuo nome è una cicatrice inferta. Tu ricorderai il mio?
Lei: Il tuo nome è inciso sulle mie labbra e le mie labbra conoscono unicamente la tua carne.
Io: Conosco i brividi dei tuoi morsi e dei tuo baci agognati.
Lei: C’incontreremo.
Io: Non c’incontreremo mai. Sono qui e non mi vedi. Sono qui e sono in prigione. Chi sono per te?
Lei: Sei la lesione sulla mia pelle divisa e mai contenta. Ricorre in me l’odio e la deportazione.
Io: Non voglio far parte di te. Cullami e basta.
Lei: C’è un lato di me che lo farà.
Io: Non mi considerare un numero nelle tue tabelle. Non cerco la sopravvivenza.
Lei: Io sono solo il tramite. Ora, ti prego, amami per quella che sono.
Io: Ti amo per quella che sei. Sono qui per te.
Lei: E non hai paura della mia follia politica e razzista?
Io: Ho solo paura delle tenebre del ricordo.
Lei: C’è già un cadavere dentro di te.
Io: È la mia terra e la mia famiglia. Il mare che non rilascia perdono.
Lei: Sei destinato all’assenza.
Io: Non senza di te.
Lei: Io sono già assente. Al primo sbarco, al primo centro d’identificazione.
Io: Mi abbandonerò alle cose che accadono e cercherò la mia terra.
Lei: La tua terra ti chiama?
Io: La mia terra è silenzio. E io invece urlo. E anche tu servi silenzio.
Lei: Siamo fatti della medesima costituzione. Scompariamo, divorati da una malattia indicibile.
Io: Allora, ora, ti prego, amami per quello che sono.
Lei: Sarà fatto: ce ne andremo insieme e torneremo a casa, la casa del vuoto e delle macerie.
Io: C’incontreremo lì.

(Ed il pubblico esorta ed applaude)

Qui la prima parte del racconto

Bagatelle su una sciarada in divenire

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di Andrea Piccinelli

 

Ciò che assurge a nozione comune
come interazione di interferenze
divergenti, scoordinate nel tempo
e nello spazio. I modelli validi
perché pensati, elaborati,
confrontati, sussunti,
veicolati, introiettati. Fino a
divenire (moriture, ineffabili)
idee prevalenti.

 

 

 

Gli esiti collettivi irrazionali
determinati da moventi
individuali razionali
conformati a pretesto
per ridurre l’impronta dello Stato.

 

 

 

Se le mire egemoniche degli uni
collidono con le aspirazioni altrui
le garanzie da conseguire e
i propositi di cooperazione
saranno ineluttabilmente vani.

 

 

 

Sul delegare a uffici indipendenti
il progetto velleitario e
le risoluzioni da attuare
per solcare il giusto sentiero
sotto l’egida dell’Urgenza.

 

 

 

Chi avalla logiche moralistiche
applicate ai casi più disparati
fomentando i prodromi
di un risentimento diffuso.

 

 

 

Non pare peregrino
notare l’approccio monetarista
e la mutria dei nostrani burgravi
estensori della congiura
che additò lo zimbello
per forviare l’indignazione.

 

 

 

In ossequio a un paradigma di breve
respiro, si persevera nell’estenuare
i passivi privati con
l’inesorabile profluvio
di capitali da allocare
in operazioni profittevoli
(scevre da rischi per i creditori)
in virtù del sistema valutario
artatamente anchilosato.

 

 

 

Le aspre ricette austriache
dei novelli tribuni della gente
atte a frenare gli schiamazzi
e custodire l’ordine sociale.

 

 

 

Come preconizzato
da eoni di riscontri empirici
la tara è il parossismo
del lato dell’offerta
che, in assenza di acquirenti,
produce scorte per i magazzini.
Ne consegue la riduzione
del denominatore
con l’ovvio detrimento
del rapporto tra i termini.

 

 

 

Il paradosso singolare
dei depositari di ampie visioni
che, con subdola sicumera,
invocano l’intervento espansivo
del banchiere centrale
per dar linfa all’apparato tarlato
imputando all’egoismo
dei congiunti iperborei
le storture di un meccanismo
ideato per non funzionare.

 

 

 

Dunque, potrebbe radicarsi
la coazione alla continenza,
la polvere negli occhi torvi,
l’inciampo (rimugina), l’emergenza,
l’omodossia dell’austerità espansiva,
il paradigma familiare
del risparmioaccumulospesa
per remunerare gli ottimati
e fare i necessari passi avanti
verso una piacevole asfissia.

 

 

*

 

 

da Andrea Piccinelli, Degenza autoptica, Sigismundus, 2017.

Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume

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di Armand Robin

Il sorprendente insieme di parole: «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume», incontrato in una raccolta di traduzioni quando studiavo l’arabo letterario, all’inizio mi stupì, ma mi sembrò ragionevole dopo aver visto che lo scopo prefissato era soltanto di far applicare su un piccolo numero di precise parole alcune formule di quell’algebra che è la lingua araba. (E poi, mi dicevo, perché i leoni non dovrebbero fare quello che vogliono, e che a noi sembra assurdo?)
Analogamente, ora che mi è venuta fame di studiare una nuova lingua con l’intento di riuscire a leggere nel testo originale i poemi epici antropofagi, mi è sembrato eccellente che il pastore Vernier, autore di una grammatica tahitiana di cinquantasette pagine, mi proponga fin dall’inizio degli esempi come questo: «Mi piacciono le cozze, ma non la balbuzie». Così sono certo che il mio uomo è serio: pensa unicamente alla grammatica.
Del tutto diverso, da quello che riesco a capire, è il linguaggio stupefacente che i politici parlano con tanta naturalezza. David Rousset normalmente viene criticato proprio perché scrive frasi tipo «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume». Bah! Non si merita un biasimo tanto encomiastico. Riconosco una certa finezza nell’«arrivismo del cattivo stile» di cui i politici si servono con incontestabile maestria; ma se dovessi biasimare David Rousset di qualcosa, di certo non sarebbe per il leone, il burnus, o per il fiume, ma per il fatto che per tutto il periodo dell’occupazione tedesca, durante il quale ho voluto considerarlo come uno onesto, mi abbia sempre dato del tu, e che di colpo, non appena si è sentito sicuro di aver conquistato saldamente quel fantasma tra i fantasmi che in gergo chiamano «successo», mi dia del lei. Preoccupato di tenermi fuori dal suo «tu», e dando un grave significato non grammaticale a un tradimento grammaticale, improvvisamente si è ritrovato ben al di sotto del probo pastore Venier, che una simile infamia la commise soltanto allo scopo di fornire un’occasione per far capire bene come in polinesiano sia di una certa importanza distinguere la «û» dalla «U». Da David Rousset non ci possiamo aspettare che scriva secondo verità: «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume».
Dal canto suo, dovendoci dire che il cielo gli è parso particolarmente azzurro, Éluard scrive: «Il cielo è azzurro come un’arancia». Esiste qualcosa di più naturale, di più chiaro? Di fatto, «il cielo è azzurro come un’arancia (è arancio)». È triste che un tale poeta, geniale nell’ellissi, perda qualsiasi senso della grammatica non appena si fa prendere dal linguaggio ellittico della politica; per esempio non esiterebbe un secondo a ripetere: «Tito è un agente del Vaticano». Mi fa pensare a Picasso, che con un unico tratto disegna i contorni di un corpo di donna senza tracciare le forme di una gamba, e questa, assente, è non solo visibile ma persino evidente: vediamo ciò che materialmente non ci ha dato modo di vedere; eppure è lo stesso uomo che preso da un lavoro difficilmente qualificabile (perché politico), fa tappezzare i muri del mondo intero con le sue colombe firmate, e nessuno le vede. In queste colombe più nessuna ellissi; eppure non mancano le piume, a mancare è l’anima di Picasso, la quale, nata da lui, infinitamente reale, non ha bisogno di disegnare una colomba per essere vista.
Éluard e Picasso sanno scrivere e dipingere «leone, burnus e fiume» finché restano indenni dalla propaganda. Ma non appena questa malattia mentale li prende, pur conservando in apparenza la composizione dei medesimi insiemi di parole o di forme, eccoli rivestiti da un corpo estraneo che tramite le loro mani maneggia l’istupidito pennello o la stilografica. Come mai il poeta o il grammatico sono nel vero quando propongono degli insiemi di strane parole, mentre il politico, facendo lo stesso con il linguaggio, si ritrova quasi automaticamente in errore? È un mistero che vale la pena di spiegare.

Quando la radio di Mosca, nel servizio in lingua ceca del settembre 1951, trasmette che Tito «è un agente del Vaticano, un brigante assoldato dal Papa», etc, etc, inizialmente si potrebbe essere tentati di ammirare, o meglio di gridare all’involontario talento poetico. D’altronde, grammaticalmente parlando, è evidente che in simili ingiurie le ellissi sono ovunque: restituito alla sua interezza, il ragionamento potrebbe svolgersi come segue:
Tutto ciò che è «americano», ovvero tutto quello che non sta dalla nostra parte, è portatore di ogni vizio e di ogni crimine; ora, Tito da un lato, e il Papa dall’altro, considerato che non sono conformi ai nostri sogni, sono al servizio degli americani; dunque, Tito è una spia al soldo del Papa e il Papa una spia al soldo di Tito.
Schema degno di nota, manca solo il buon senso! Allo stesso modo, grazie a una famosa deviazione della virtù retorica, nel 1946 gli staliniani accusavano gli avversari trotskisti di essere agenti della Gestapo: «Non siete forse stati deportati e puniti dalla Gestapo? Di conseguenza avete avuto qualcosa in comune con la Gestapo!» Ridotti all’unico argomento possibile contro l’evidenza, ecco cosa sono arrivati a dire. Nel caso dello spirito totalitario, ovvero (detto semplicemente) nel caso della follia, il contrario assorbe il suo contrario, così che il principio di identità è metafisicamente pervertito; il segno di diversità più evidente viene trasformato nel suo contrario. Logico: qualsiasi atto di guerra contro le facoltà dello spirito termina con una violazione del sillogismo.
Abbiamo parlato di ellissi grammaticali. Nell’esempio dato sono effettivamente numerose e di grande insolenza. Ma bisogna andare più in là: in realtà non si è trattato affatto di ellissi di qualità grammaticale; per essere anche più precisi, le ellissi grammaticali, relativamente facili da rilevare, sono soltanto l’ombra portata su frasi e parole da un’ellissi gigante che invece non ha nulla di grammaticale ed è pertanto, intrinsecamente, una mistificazione. Quello che non viene mai espresso in queste propagande, nemmeno nella sua forma più nascosta, è la petizione di principio, di carattere metafisico, secondo la quale l’avversario è ontologicamente il male, e che per questo non ha diritto di esistere, e ancora meno ha diritto a parole corrette. In attesa di essere annientato fisicamente, l’avversario deve essere verbalmente annichilito, in qualunque maniera: in breve, nel suo caso, il limite dell’assurdo deve venire costantemente infranto, e l’assurdo reso perfetto, in modo da scoraggiare lo Spirito e lo strumento dello Spirito: il Verbo. Niente deve niente significare. Una trappola che non ha nulla a che vedere con le legittime astuzie dello stile sta surrettiziamente posata sopra ogni parola.
La prima settimana del mese di giugno del 1951, la radio di Bucarest (descrivendo la Francia) trasmette:
«La Francia di oggi ha il volto pallido e avvizzito, ha gli occhi lucidi, l’angolo della bocca è orribilmente scosso da un ghigno impotente e bloccato e la fronte è devastata dal presentimento del castigo incombente. La scuola del crimine funziona a pieno regime, soprattutto nelle chiese, e con ogni mezzo».
Fin qui, nulla da criticare allo stile; il testo non manca di una certa energia; l’autore, marxista, deve aver letto soprattutto la Bibbia, a meno che non abbia letto niente al di fuori di quel nulla che corrisponde agli ordini di dire qualcosa di ben determinato. La qualità del testo sul piano dell’irreale è innegabile. Per quale ragione, malgrado tutto, è un cattivo testo? Per quale ragione apprezziamo «Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume», e qui, invece, nonostante l’innegabile buona volontà, ci è impossibile anche la più blanda approvazione?
Il fatto è che il grammatico arabo propone un’assurdità apparente, che tale non è: perfettamente adeguata al suo oggetto essa smette di essere assurda. Lo stilista di Bucarest invece ci inganna o è ingannato, o meglio (in rapporto a una verità certa) ci inganna ed è ingannato al contempo, poiché in fondo quelle parole lanciate come un anatema non possono esistere realmente, e accedono all’essere solamente se il loro divulgatore – o il loro attore o il loro autore – sa di essere posseduto da un’entità di propaganda, sa diessere agito da delle potenze metafisiche che premono su di lui dall’esterno e se ne servono come di uno strumento di vaniloquio, utilizzando il suo linguaggio come un sotto-linguaggio. Ma anche se lo sapesse, avendo percepito il proprio annullamento, diventerebbe immediatamente incapace di sfuggire al nulla. In un modo o nell’altro, il suo testo in verità è inesistente, di un’inesistenza potente, se così si può dire. E poi come concepire un «ghigno bloccato» che «scuote l’angolo di una bocca»! Il mio grammatico arabo in confronto ha del talento. Siamo tristemente costretti a concludere che non soltanto questa gente non ha niente da dire, ma che in più non sa come dirlo.
Una mente fragile di ordine molto inferiore (l’uomo era anche più basso!), apprezzatissima dalla borghesia – si faceva chiamare Stalin – ha licenziato uno scritto penoso sulle questioni grammaticali. Ne ho sentito parlare per settimane, mesi, anni, secondo tutte le ricette della propaganda ossessiva. Di solito mi si accusa di essere troppo indulgente nei confronti di quell’ingenuo! Lo so che le sue considerazioni sulla grammatica sono davvero noiose e che di certo non avrebbero la stima dell’onesto pastore Vernier, ma sono pronto ad ammettere che nelle circostanze che seguono fui preso dalla tentazione di apprezzare il grammatico Stalin:
Tra i notiziari informativi della radio interna russa, ce n’è uno che per almeno tre anni, dalle 6,45 alle 7 del mattino, fu di natura talmente fantasmagorica da poter essere preso sul serio da coloro che si interessano di politica o diplomazia.
Per quanto mi riguarda, quella radio mi invaghì grammaticalmente. Mi accorsi che tutte le frasi, e per tutta la durata della deliziosa trasmissione, erano composte da poche parole rette da un’unica ferrea legge: come per una regola inedita nella storia del linguaggio, i tre termini «iosif vissarianovič stalin» dovevano occupare la metà di ciascuno degli insiemi di termini. Per il cervello l’effetto prodotto era terrificante.
Vidi lì il primo esempio d’un tentativo di soggiogamento non più soltanto dei popoli e delle menti, ma persino delle leggi elementari di costruzione delle frasi: avevo a che fare con una lingua russa per la quale quindici minuti ogni mattina tutte le parole eranoabolite a profitto della triade sopraverbale «Iosif Vissarionovič Stalin». Ne sono più che certo: lì davanti a me stava uno dei supremi tentativi per ottenere l’alienazione mentale di ogni uomo.
Ho detto che in quell’occasione fui tentato di ammirare il grammatico Stalin. Dopo qualche istante di riflessione invece mi resi conto che in tale circostanza Stalin non aveva affatto agito da grammatico, ma da stregone. Lo sentii vecchio, superato. Il pastore Vernier mi sembrò molto più sicuro della memoria degli uomini.
Lo Stalin, che non ha mai studiato la grammatica araba, non ho smesso di seguirlo. È caduto sempre più in basso, quasi la mente più impotente del tempo presente, soddisfatto di farsi ripetere ad ogni istante dalle sue radio che è l’uomo più geniale, più amato, più saggio che il mondo abbia mai conosciuto. Ogni giorno si fa servire il genere di discorsi di cui ha bisogno il debole. Rinuncia a dominare la grammatica; è come se in un sapere così modesto avesse trovato una forza superiore.
Nei momenti in cui l’essere di propaganda vi assale con maggior forza e già vi considera sua preda, è auspicabile scongiurarlo mettendogli davanti una frase tanto carica di verità come:
«Il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume».
L’innocenza del Verbo risiede lì.

 

*

da Armand Robin, L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti. A cura di Antonio Malinverno. Giometti & Antonello, Macerata, 2018 (pp.23-28)

 

ANTONIO MORESCO Come si diventa nazisti oggi

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L’Italia di Salvini raccontata tre anni prima. (da qui)

(Pubblichiamo volentieri questo video, dove tre anni fa Antonio Moresco già intuiva la svolta autoritaria, che ha confermato con il governo Lega/5telle le sue peggiori previsioni. Gli amici de Il primo amore hanno condiviso qui la risposta di Helena Janeczek a Roberto Saviano.)

Post in translation: Jan Balabán

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da Chiedi a papà

di

Jan Balabán

traduzione dal ceco di Alessandro De Vito

Hans aveva una specie di superstizione. Valutava il giorno che veniva dal fatto se al mattino incontrava più belle donne, o se ne incontrava più di brutte.

Per quegli occhi profondi sbirciati qua e là furtivamente, per quelle labbra sensuali, per quell’inclinare il capo o quel sorriso che attraversa il volto come un’affermazione della vita terrena Hans non rimpiange di stare in tram e non al volante del fuoristrada nero che in quel momento è fermo al semaforo rosso accanto al tram. Il conducente tamburella nervosamente con le dita sul cruscotto, visibilmente in preda alla rabbia perché l’incrocio lo sta tenendo fermo allo stesso livello di quegli sfigati che osservano la sua auto dai finestrini del tram. Ascolta il suo stereo ma non può vedere con quanta bellezza quella ragazza appoggia la testa all’asta di sostegno, non al lucente palo da striptease di un dancing bar, ma qui, di fianco alle porte di un tram. Lei ascolta la sua musica con le cuffie, appesa al giorno, senza sospettare che qualcuno sia così incantato dalla sua grazia. Hans sente il brusio delle cuffie e immagina come la musica a pieno volume si incanali nei suoi rosei canali uditivi, come con quella musica vibri tutta, e vibri il cerchietto argentato coperto a metà dai suoi capelli. Hans ci crede, a quell’istante. Non alla ragazza. Sa bene che può accadere che apra la bocca e che da essa fuoriesca qualcosa di volgare o di stupido. Hans crede di aver scorto il lembo tondeggiante della splendida giornata che oggi potrebbe essere, che certamente per qualcuno è.

Poi diventa verde. Il SUV nero in basso sotto il finestrino scatta con tutta la sua velocità, a capofitto e lesto come un maiale verso la greppia. La ragazza si gira verso Hans, lo guarda, poi si perde tra la gente.

Le cose stanno in modo del tutto diverso, gli aveva detto un giorno suo fratello minore Emil a proposito di quella sua indagine stregonesca. Statisticamente deve esserci ogni giorno più o meno la stessa quantità di belle e di brutte. Sono solo i tuoi occhi che a volte riescono a selezionare le belle, in quella massa di persone, e altre volte quelle che fanno schifo.

Che fanno schifo, così aveva detto, aveva usato quella parola. Diceva tranquillamente di una donna, solo così allo sguardo, che fosse uno schifo. Emil era fatto così già nell’infanzia. Tutte e tutti sono schifosi, per contro è bella solo quella a cui sta pensando lui. Così fantastica, che non può davvero esistere. Può presentarsi solo per un momento, solo per un secondo, e la cosa peggiore è che in Emil la delusione non arriva con la bellezza, ma la precede. E questo, Emil, sono di nuovo i tuoi occhi a farlo. Sono occhi che la bellezza non la vogliono vedere, ma vorrebbero lanciarla sulla gente. Un po’ come tu ti getti sulla gente, come un cane lupo su una recinzione sormontata da filo spinato.

Emil sarebbe stato d’accordo con quel cane. Sì, la bellezza deve ferire, strappare la cortina dell’indifferenza.

Ma questa cortina qualche volta è necessaria, perché l’uomo non si esasperi ed impazzisca. Perché, Emil, possa essere normale almeno nelle cose normali.

E cosa sono le cose normali? Hans richiamò alla mente l’aspetto furente – e la voce – di Emil. Il suo rancore verso tutto ciò che proprio in quel momento non è suo. Verso tutto ciò su cui non ha messo le mani da solo, come il cacciatore sul cervo.

Le cose normali non esistono. Solo un idiota può desiderare delle cose normali. Hans, tu lo sai cos’è che mi ferisce, per me non è così. Le tue persone normali vorrebbero vedermi rinchiuso in riformatorio, in manicomio, in caserma con una baionetta nel culo, legato stretto.

Emil era capace di mettersi subito a urlare e subito offendersi violentemente, a umiliarsi e a vendicarsi da solo di quell’umiliazione, e tutto in un solo minuto, in un solo secondo che non fosse dedicato a lui.

Hans prosegue verso il suo posto di lavoro, come ogni normale persona onesta, ma sente che gli è sfuggito qualcosa, di aver dimenticato di pagare, di compilare, di inviare, di dire qualcosa a qualcuno. Tutto ciò è probabile, ma non gli fa male. Neppure quella cosa della bellezza. A fargli male è l’angoscia di Emil. Il ricordo di quando ce l’avevano entrambi, insieme. Di quando tutti e due guardavano il mondo solo dall’angusta feritoia di una cittadella solo loro. Gli fa male come il ricordo di una vecchia consuetudine. Il ricordo di un uomo che è morto, di papà, sulla cui tomba la terra non si è ancora assestata. E come la prendeva lui? In realtà più come Emil, ma ha trascorso tutta la vita nell’idea che il mondo è buono, per via del Signore.

Il tram si fermò al parco nella piazza. Un tempo qui avevo l’ufficio, ma non mi è andata bene. Hans si ricorda di come restava in attesa di un lavoro qualsiasi per giorni interi. Controllava la posta nevroticamente, ogni ora. Telefonava. Stupidamente domandava alle segretarie dei suoi perlopiù ex clienti se non avessero qualcosa per lui. Fingeva di non essere sul lastrico, e con sempre maggiore difficoltà allontanava la voglia di fare un salto attraverso il parco al negozio a prendere una bottiglia. Non ne aveva i soldi, o meglio, non ne avrebbe dovuti avere, dato che gli mancavano per l’affitto di casa e per le tasse.

Una volta, finalmente, dopo una giornata del genere uscì da quella trappola del lavoro senza lavoro e incontrò al parco, sotto un alto pioppo nero, una ragazza che risplendeva nel suo sorriso. Sorrideva così pienamente e completamente, come se in effetti le fosse riuscito qualcosa, come se si fosse proprio innamorata. Dei grandi occhi scintillanti. Poi la ragazza si pulisce il naso col fazzoletto, che tiene, un po’ curiosamente, nella manica del cappottino rosso. Ed ecco che sorride ancora di più, perché non si tratta di un fazzoletto, ma di un sacchettino di plastica con del solvente. È così bella che tutto dovrebbe finire proprio adesso. La vita e il mondo. Adesso, e non chissà quando in ospedale, tra bende e garze e sputacchiere, o attaccati a qualche terribile macchinario che delle spietate infermiere ti lasciano squittire vicino alla testa per tutta la notte.

Hans scese dal tram. Il pioppo nero non può certo sfuggirgli, in quella luce mattutina. È dalla morte di suo padre che ci va, è una specie di totem. Il suo tronco alto e imponente è incurvato come una fiamma per una ventata. Quando il vento si placa la corona torna indietro, anche se il tronco resta ancora sbilanciato nella direzione del soffio. Un magnifico arco che resiste lì da almeno quarant’anni. I pioppi neri crescono velocemente e muoiono, come fanno le persone. Quarant’anni è durato il vento che ha incurvato il tronco, il vento che ha piegato mio padre, la mia gente e il mio paese, e ora vorremmo credere di poter tornare di nuovo verticali? Quell’albero è un monumento al nostro tempo e ai suoi piedi c’è una giovane ragazza, quasi ancora bambina, con la sua droga e gli occhi spalancati sull’universo, che sorride più di quanto sia mai possibile.

Il pittore Hans ripiegò il suo blocco con diversi schizzi di un’unica immagine, chiedendosi tra sé come sarebbe stata quella bella giornata.

Nota al romanzo del poeta e amico Petr Hruška

«La morte osserva le nostre vite.
L’evento centrale dell’ultimo romanzo di Jan Balaban è l’agonia e la morte di un uomo, ma ciò che racconta davvero è l’impegnativa ricerca della vita. Poiché questa deve sempre essere trovata nella profondità di ciascuno. E poi di nuovo reinventata. In un certo senso siamo tutti simili ai personaggi della meravigliosa storia di Jan Balabán, traboccante di conversazioni, di soliloqui e silenzi. Una storia in cui si cerca la verità, e si trova la sincerità. Tutti noi, nella nostra parabola mortale, cerchiamo di scoprire qualcosa sull’essenza della realtà, o almeno trovarci per un un momento vicino a qualcosa di importante.
È quasi impossibile, perché ne sappiamo terribilmente poco. La nostra mente è sopraffatta da domande e dubbi, sfiducia e incredulità, nervosismo e aggressività. L’energia viene sprecata nel cieco affanarsi quotidiano. Le parole si ribellano in una inesattezza maligna, le mani sono corte…
Abbiamo ancora un cuore.»

 

VivaVoce#08 Edna St. Vincent Millay [ 1892 – 1950 ]

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Edna St. Vincent Millay a Mamaroneck NY, 1914, foto di Arnold Genthe.

Edna St. Vincent Millay a Mamaroneck – NY, 1914, foto di Arnold Genthe.

Edna St. Vincent Millay
legge Recuerdo
da Collected Poems [1931]


 

Recuerdo

We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry.
It was bare and bright, and smelled like a stable
But we looked into a fire, we leaned across a table,
We lay on a hill-top underneath the moon;
And the whistles kept blowing and the dawn came soon.
 
We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry;
And you ate an apple, and I ate a pear,
From a dozen of each we had bought somewhere;
And the sky went wan, and the wind came cold,
And the sun rose dripping, a bucketful of gold.
 
We were very tired, we were very merry
We had gone back and forth all night on the ferry.
We hailed, “Good morrow, mother!” to a shawl-covered head,
And bought a morning paper, which neither of us read;
And she wept, “God bless you!” for the apples and pears,
And we gave her all our money but our subway fares.

Ricordo

Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri,
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry;
Era vuoto e illuminato, e sapeva di stalla
Ma abbiamo fissato un fuoco, siamo crollati su un tavolo,
Ci siamo sdraiati in cima a una collina arresi alla luna;
E i fischi continuavano e l’alba è venuta subito.
 
Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.
E tu hai mangiato una mela, e io ho mangiato una pera,
Della dozzina che da qualche parte avevamo presa;
E il cielo divenne pallido, e il vento si fece freddo,
E il sole sorse sgocciolando d’oro un secchio.
 
Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri
Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.
Abbiamo salutato, “Buondí, mamma!” una con in testa lo scialletto,
E comprato un giornale del mattino, che nessuno avrebbe letto;
E lei ha pianto, “Dio vi benedica!” per le mele e le pere,
E le abbiamo dato tutti i nostri soldi, tranne quelli per la subway.

[ trad. Orsola Puecher ]

 

di Orsola Puecher

 

La voce di Edna Saint Vincent Millay cantilenante a tratti, ma ferma e forte, ci arriva dall’inizio del secolo scorso per raccontare di un traghetto notturno, quello di ⇨ Staten Island, che non costa nulla e non si ferma mai, e vaga per tutta la notte, portando due amici, forse innamorati, in un viaggio che finisce regalando delle pere e delle mele, comprate magari come cena per risparmiare, a una donna, una mamma archetipo, con uno scialletto in testa. Ancora sul traghetto, o sulla riva, o durante la corsa, o dopo, la mattina presto, le regalano anche tutti i loro pochi soldi, tenendosi solo quelli della tariffa della metropolitana per il ritorno.
 
  
  

L’avventura di un incontro fra due giovani bohemienne del Greenwich Village, il ricordo di una notte, i rumori, i fischi, il chiarore di un fuoco, sdraiarsi alla luce della luna, aspettare l’alba, con pochi soldi, la stanchezza e l’allegria della libertà da ogni vincolo di tempo e spazio. La stanchezza allegra di quando si é giovani e innamorati dopo una notte di veglia fra le tante piccole sconsiderate cose che si fanno. I primi due versi “Eravamo molto stanchi, eravamo molto allegri/Eravamo andati avanti e indietro tutta notte sul ferry.” si ripetono all’inizio di ogni stanza. Come in una ballata inquadrano le singole scene e trattengono solo per qualche istante il passato e lo scorrere della notte. La parola è semplice: il racconto quotidiano, liberato dal lirismo ottocentesco, diventa acutamente poetico solo nel descrivere il cielo che impallidisce, l’alba che sgocciola oro e la rima culla la notte fino al mattino. La semplicità eleva e trasfigura ogni cosa.


 
Henry e Cora

Edna Saint Vincent Millay è la prima donna a vincere il Premio Pulitzer per la Poesia da poco istituito, a soli 31 anni nel 1923, con la raccolta The Ballad of the Harp-Weavernasce. Nasce a Rockland nel Maine. Il secondo nome Saint Vincent, da lei molto amato, le viene dato in onore di un ospedale di New York dove lo zio ebbe salva la vita poco prima della sua nascita. La madre Cora Lounella Buzelle è infermiera e il padre Henry Tolman Millay insegnante, vive un’infanzia fra le montagne in una mitica casa dove
 

Between the mountains and the sea where baskets of apples and drying herbs on the porch mingled their scents with those of the neighboring pine woods.

Edna, Norma e Kathleen
Dopo alcuni anni di separazione i genitori divorziano ed Edna con la madre Cora e le sue due sorelle Norma e Kathleen e si trasferiscono di città in città vivendo molto poveramente, ma con al seguito un baule pieno di libri, classici da Shakespeare a Milton, che la madre era solita leggere alle figlie. Le ragazze crescono indipendenti e con atteggiamenti inconsueti per l’epoca. Edna che amava farsi chiamare Vincent si scontra per questo con il preside della scuola elementare. Alle scuole superiori inizia a sviluppare il suo talento letterario, vincendo premi di poesia e pubblicando sonetti su piccole riviste locali
 
 
Nel 1913 a 21 anni entra nel famoso ⇨ Vassar College, crogiolo di talenti letterari, da Mary McCarthy a Elizabeth Bishop.

  
  

Si laurea nel 1917 e si traferisce a New York da sola, nel Greenwich Village, dove vive una vita molto povera ma molto stimolante, in un ambiente che era il fulcro della vita culturale e letteraria dell’epoca. Scrive drammi sperimentali per il teatro e articoli su riviste con lo pseudonimo di Nancy Boyd per mantenersi. E’ molto corteggiata ma molto indipendente.
 

Smoking!

 
Con il poema ⇨ Renascence ottiene il quarto posto nel concorso The Lyric Year, ma a detta di tutti avrebbe meritato il primo premio, così il vincitore del secondo posto le offre i suoi 250 dollari e una facoltosa mecenate delle arti Caroline B. Dow dopo aver sentito la Millay recitare le sue poesie e suonare il pianoforte al Whitehall Inn di Camden, nel Maine, ne fu così impressionata, che si offrì di pagare i suoi studi al Vassar College, che altrimenti Edna non avrebbe mai potuto frequentare.

  
  

Edna e Jan

 
La raccolta del 1920 A Few figs from Thistles suscita scandalo per la sua esplorazione della sessualità femminile. Nel gennaio del ’21 Edna va a Parigi dove incontra e ha un breve relazione con la scultrice ⇨ Thelma Wood e nel 1923 sposa Eugen Jan Boissevain vedovo di una sua compagna del Vassar College, l’avvocato e giornalista femminista ⇨ Inez Milholland.
Un matrimonio molto aperto che durò 26 anni, con vari altri rapporti per entrambi, come l’importante relazione con il poeta ⇨ George Dillon, che Edna aveva incontrato in occasione di una sua lezione all’Università di Chicago nel 1928, quando Dillon era ancora uno studente ed era di ben quattordici anni più giovane di lei. La relazione le ispirò i sonetti della raccolta Fatal Interview, pubblicata nel 1931.
 
Edna e George

 
Edna e Jan comprano la fattoria di Steepletop ad Austerlitz NY con orto e giardini, dove si stabiliscono.
 
Austerlitz estate 1929

 
Durante la Prima Guerra mondiale Edna è pacifista, ma nel ‘40 sostiene le forze alleate, cosa non molto ben vista nei circoli letterari. Scrive un articolo sul New York Times Magazine sulla città boema di Lidice devastata dai nazisti che poi le ispira il poema Murder of Lidice, usato come base per il film del ‘43 Hitler’s Madman. diretto da Douglas Sirk.
 

The whole world holds in its arms today
The murdered village of Lidice,
Like the murdered body of a little child.



 
Nel ‘43 riceve la Medaglia Robert Frost per il suo contributo alla poesia americana.
Boissevan muore nl 1949 di cancro ai polmoni e Millay vive da sola ad Austerlitz per l’ultimo anno della sua vita. Nel 1950 cade dalle scale per un infarto e viene trovata solo dopo 8 ore. E’ sepolta ad Austerlitz con il marito.
La sorella di Edna, Norma, e il marito, il pittore ed attore Charles Frederick Ellis, si stabilirono a Steepletop dopo la morte di Edna. Nel 1973 fondano una colonia di artisti sui sette acri intorno alla casa e alla rimessa. Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1976, Norma prosegue nel programma fino al suo decesso, avvenuto nel 1986.
 
La casa di Steepletop

da Storia di un avanguardia
di ⇨ Matthew Josephson
Il saggiatore, aprile 1965
Pag. 66-68
[ trad. Matilde Boffito Serra ]
 
 
Una sera a Clemenceau Cottage il ronzio delle chiacchiere e il fuoco di fila dei paradossi si arrestò quando uno degli habitués si presentò con una giovane donna sui ventisei anni, piccolina, dai capelli color rame. Aveva un nasino all’insù e un sorriso incantevole, sebbene non fosse una bellezza, era graziosissima, parlava con una voce dolce e camminava come se fluttuasse nell’aria. Era Edna St. Vincent Millay, una delle voci nuove della poesia americana, che si era conquistata la fama qualche anno prima con la lirica Renaissance, diventando così la graziosa sibilla dell’epoca nuova. A quel tempo la su produzione teatrale, Aria da capo, in cui ella stessa doveva rappresentare la parte principale, era in prova al teatro dei Provincetown Players, sotto la direzione di John Light.
Edna Millay, la piccola fata di Rockland, nel Maine, e di Vassar College, creava facilmente intorno a se un’aria d’incanto a cui tutti bramavano partecipare. Ci raggruppavamo intorno a lei, pendevamo dalle sue labbra, la viziavamo un poco; i più maligni si esprimevano con dolcezza. Quando se ne andò parlammo di lei con profondo interesse. Circolavano già due sottili volumetti di sue liriche. Alcuni di noi che scrivevano versi, ma alla maniera di Ezra Pound, si domandavano se non ci fosse ancora nell’opera sua un pochino del gergo ottocentesco sulla natura e sulla vita. Ma gli altri ci fecero tacere indignati come se avessimo bestemmiato. Indicarono numerosi brani che riflettevano direttamente e con forza, la naturale personalità della Millay e non erano chiacchiere per amor della rima, Queste espressioni del suo alto spirito e del coraggio con cui affrontava la vita esercitarono un forte fascino sulle femministe di tutto il decennio. Numerose ragazze venivano da Radcliff o dal Vassar College per far carriera a New York, spronate da verso come: ”Oh mondo, non posso abbracciarti abbastanza stretto…”; parlavano arditamente di vivere in fretta e di andare in ferryboat a Staten Island con il loro giovane amico.
Senza dubbio Edna Millay descriveva il proprio godimento dei piaceri d’amore con una schiettezza e un’evidenza rare nelle poetesse dal tempo di Saffo in poi, e difendeva il diritto della donna all’”incostanza”, ben poteva essere stato incostante l’uomo, in passato, ma che apertamente una giovane donna dichiarasse passeggera l’attrazione provata per alcuni individui dell’altro sesso, e
 
…ragione insufficiente
per riparlarne quando c’incontreremo di nuovo.

 
era un po’ forte. E ancora:
 
Quali labbra baciarono le mie, e dove e perché.
Più non ricordo, e quale braccio si posò
Sotto il mio capo fino alla mattina…

 
Più di un galante conquistatore del nostro circolo letterario doveva essere scottato da quelle provocanti dichiarazioni. Ho interrogato recentemente in proposito una delle vecchie amiche della Millay, Susann Light, ora Susan Jenkins. Non erano offesi quei bei tipi della capacità di Edna di dimenticare il loro fascino virile? “Ah” fu la risposta “non ci credevano mica!”
Con mio rincrescimento vidi assai di rado Millay fino a parecchia anni dopo a Parigi. A dire il vero non era nel suo elemento, come a Staten Island o sulla costa del Maine. Non c’erano, lì, le onde dell’oceano, non selvaggi promontori, non gabbiani roteanti intorno alla sua graziosa testolina. Non bisogna dimenticare tuttavia l’effetto ispiratore, quasi di una George Sand americana, da lei esercitato sulla concezione morale della vita degli anni venti.


 
Fra i libri

 

 

VivaVoce#01: Thomas Stearns Eliot [1888–1965]
VivaVoce#02: Gherasim Luca [1913–1994]
VivaVoce#03: Sylvia Plath [1932–1963]
VivaVoce#04: Guillaume Apollinaire [1880–1918]
VivaVoce#05: Juan Gelman [ 1930, Buenos Aires ]
VivaVoce#06: Elizabeth Bishop [ 1911 – 1979 ]
VivaVoce#07: Virginia Woolf [ 1882 – 1941 ]

 

Sulla scogliera

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di Claudio Magris

(riporto qui una delle “istantanee” scritta da Claudio Magris nel 2009, ma quanto mai attuale sul tema migranti. a.s.)

Sulla riviera di Barcola, a Trieste. Si fa per dire, riviera; una sottile striscia di scogli, spiaggia libera che costeggia la strada principale di accesso alla città, acqua subito profonda, sulla riva tamerici spumose come onde, un orizzonte marino vasto e aperto, che nell’infanzia dava il senso dell’immensità oceanica, in un’educazione sentimentale in cui s’imparava una volta per tutte il legame fra l’eros e il mare. Quella gente in costume da bagno, non in uno stabilimento né su una vera spiaggia, ma alle porte della città e quasi già in città, dà un’impressione di vita persuasa e goduta.

Trieste non è solo crocevia tra Est e Ovest, come recita la sua didascalia, ma pure fra Nord e Sud, fra la malinconia scandinava di certi tramonti d’inverno e la vitalità meridionale dell’estate. In fondo al golfo, dove le acque italiane divengono slovene e poi croate, si vedono il duomo di Pirano, la plurisecolare orma del leone di San Marco nell’Istria, e più avanti Punta Salvore, col suo faro e i suoi pini nel vento. La popolazione che da maggio a ottobre arriva ogni giorno su quella scogliera di Barcola è abitudinaria; per tacita convenzione, ognuno di noi ha il suo posto sulla riva, genericamente rispettato dai vicini, con cui s’intrattengono rapporti garbati ma senza prendersi né dare confidenza. Ogni tanto aleggia, annunciata sui giornali, la minaccia di divieti, piani regolatori, costruzioni di stabilimenti a pagamento o di porticcioli turistici, minaccia finora ogni volta sventata da pugnaci lettere inviate alla stampa e alle autorità dagli uomini di penna, numerosi e assidui fra quei bagnanti, e da proteste che arrivano da triestini residenti da anni a New York o ad Adelaide ma non dimentichi di quella scogliera. Le autorità, a dire il vero, dimostrano di comprendere che quella libertà di tocio ossia di tuffo è un bene pubblico, una buona qualità di vita collettiva, e si preoccupano delle docce gratuite e delle tamerici. Qualche anno fa la scogliera era salita alla ribalta delle cronache grazie a un annegato, il cui corpo riportato a riva e coperto da un lenzuolo era rimasto a lungo in mezzo ai bagnanti che avevano continuato tranquillamente a prendere il sole accanto a lui, in quella familiare indifferenza della vita per la morte che la grande e rovente luce dell’estate rende ancora più spietata. Il telo che lo copriva sembrava non tanto un rispetto per lui e per l’inviolabile, universale mistero che gli era accaduto e in cui egli era entrato, quanto un riguardo verso i bagnanti, perché non fossero turbati dall’intollerabilità e dall’impudenza della morte. Solo un bambino guardava incuriosito quella sagoma a terra, forse senza capire bene cosa fosse successo, come un cane che fiuti qualcosa di ignoto. Pochi gli schiamazzi, rari i disturbi alla quiete pubblica. Una madre redarguisce il figlio, un bambino di quattro o cinque anni che gioca con un’incantevole coetanea — nera come l’ebano, evidentemente adottata dai genitori, due tedeschi che si sono sistemati un po’ più lontano — sparando con una pistola ad acqua e scavalcando di corsa i corpi distesi al sole, per lui non ancora desiderabili o conturbanti. Sgridato, il bambino protesta, dicendo che allora bisogna rimproverare pure la bambina. “Quale bambina?” chiede la madre, che non la vede perché si è nascosta dietro un albero. “Quella che parla che non si capisce niente,” risponde lui, evidentemente colpito dal fatto che la piccola chiami le cose in modo per lui incomprensibile e un po’ arrabbiato di scoprire che esse possano avere altri nomi.

Non gli passa per la mente di identificarla con il colore della sua pelle, che pure spicca nettamente anche accanto all’abbronzatura dei bagnanti; quella differenza dí colore, che in altre situazioni avrebbe potuto e forse potrebbe ancora provocare separazione e segregazione, è irrilevante rispetto alla differenza tra l’italiano e il tedesco. Neppure quest’ultima, peraltro, ha il potere di separarli, perché, appena riapparsa la bambina nel frattempo debitamente ammonita (in tedesco) dai suoi genitori, i due riprendono subito a rincorrersi e a spruzzarsi, ignari di aver tenuto una bella lezione sulla diversità e sull’identità, temi del resto cari anche ai convegni cultural-balneari così frequenti sulle spiagge estive, almeno quelle un po’ più eleganti della scogliera di Barcola.
10 agosto 2009
[da C.M., Istantanee, La nave di Teseo, Milano 2016, pp. 95-98]

Helena Janeczek risponde all’appello di Roberto Saviano

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Qui l’appello di Roberto Saviano

L’importanza di essere piccoli – ottava edizione

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L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI è un festival di poesia e musica nei piccoli borghi dell’Appennino tosco-emiliano che si svolge dal 2012 e organizzato dall’associazione SassiScritti. L’ottava edizione del festival, dal 2 al 5 agosto è dedicata alla memoria di Pierluigi Cappello, poeta che abitando un margine ha stabilito un nuovo centro. Di seguito riportiamo il programma e tutti i dettagli per potervi partecipare.

 

Programma di incontri e concerti acustici

(ingresso gratuito)

 

giovedì 2 agosto ore 20

loc. Stanco, Grizzana Morandi, BO

Lastanzadigreta (concerto acustico)

Maria Grazia Calandrone (lettura)

MADERA BALzA – Monica Demuru e Natalio Mangalavite (concerto acustico)

 

venerdì 3 agosto ore 21

loc. Monte Baducco, Castiglione dei Pepoli, BO

Silvia Vecchini (lettura) e Bianco (concerto acustico)

in caso di pioggia: Casa del Popolo di Rasora

 

sabato 4 agosto ore 20

Parco Didattico Sperimentale del Castagno, Varano, Granaglione, BO

Sibode DJ in La storia di Sibons (storia musicale fantastica per bimbi dai 5 ai 92 anni)

Poetry Slam ‘I Piccoli’ – con E. Galli, P. Gentiluomo, F. Gironi, G. Sandron, S. Garau, M. Simonelli – Mcee Luigi Socci

“Impara a nuotare” – Filippo Gatti  con Francesco Di Bella

presentano Virginia Tepatti e Viviana Strambelli (concerto acustico)

 

domenica 5 agosto ore 21

Centro di Educazione Ambientale di Acquerino, Sambuca Pistoiese, PT

Ida Travi (lettura) e Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata (concerto acustico)

 

 

Anche questa è poesia:

programma di passeggiate, laboratori e altri attraversamenti

 

giovedì 2 agosto, ore 17

loc. Stanco, Grizzana Morandi, BO

‘Luoghi morandiani, trekking a cura di Michela Marcacci (guida ambientale escursionistica)

prenotazione obbligatoria: info@guidappenninotrekking.it – 348 340 8892

a seguire Lastanzadigreta (concerto itinerante con laboratorio per grandi e bambini)

 

venerdì 3 agosto, ore 16:30

loc. Monte Baducco, Castiglione dei Pepoli, BO

‘L’anima del bosco’, trekking a cura di Michela Marcacci (guida ambientale escursionistica)

durante il trekking: “Con passi piccoli” laboratorio erboristico a cura di Cecilia Edera Lattari

prenotazione obbligatoria: info@guidappenninotrekking.it – 348 340 8892

 

sabato 4 agosto, ore 16:30

Parco Didattico Sperimentale del Castagno, Varano, Granaglione, BO

visita guidata del Parco a cura di Ugo Neretti (agronomo)

Prenotazione obbligatoria: amministrazione@cooperativasocialemonghidoro.com – 335 534 9605

a seguire Sibode Dj in La storia di Sibons (storia musicale fantastica per bimbi dai 5 ai 92 anni)

 

domenica 5 agosto

Centro di Educazione Ambientale di Acquerino, Sambuca Pistoiese, PT

15:00,  I suoni del bosco,  trekking a cura delle guide del Centro di educazione ambientale di Acquerino, con Alessia Fappiano (naturalista), in collaborazione con Lorenzo Gori del Rifugio Il Faggione

prenotazione obbligatoria: cea.acquerino@yahoo.com

 

dalle 17 alle 19 ,  La Misura dell’erba:  Installazione e Laboratori di illustrazione per bambini e grandi

a cura di Ginevra Ballati e Laura Cameli,

costo: 10 euro adulti, 5 bambini prenotazione obbligatoria: misuradellerba@gmail.com

 

È possibile cenare nei luoghi in cui si terranno gli eventi – prenotazione consigliata 3485900361

In caso di pioggia gli eventi (tranne i trekking) si terranno comunque in posti al chiuso nei luoghi indicati

 

FB SassiScritti_ L’importanza di essere piccoli

www.sassiscritti.org ; 3493690407 – 3495311807

L’importanza di essere piccoli c’è grazie a: Daria Balducelli, Ambrogina Bertone, Andrea Biagioli, Alessandro Borri, Azzurra D’Agostino, Sante Di Clemente, Lucia Mazzoncini, Guido Mencari, Andrea Montagnani, Lara Monterastelli, Silvia Tesone, Luca Zanoni e tutti coloro che si fanno piccoli.

 

realizzazione grafica: Guido Mencari www.gmencari.com

video: Andrea Montagnani www.pupillaquadra.com

fotografie: Beatrice Bruni www.beatricebruni.com

 

con la collaborazione di: Parco Didattico Sperimentale del Castagno, Casa del popolo circolo arci di Rasora, ARC di Monte Baducco, Associazione Amici di Stanco, CEA di Acquerino, libreria l’Arcobaleno di Vergato, libreria Lo spazio di via dell’Ospizio di Pistoia, Birra del Reno di Castel di Casio, I testi del Borgo di Porretta Terme, Azienda Agroforestale Iori Massimo, Le grandi ricette di Anna B. catering Castel di Casio, Califfo ristopub di Porretta Terme, Hotel Roma di Porretta Terme, Hotel Helvetia di Porretta Terme, Fiorista Pozzi, gelateria la Baracchina di Porretta Terme, Oriana Giocattoli e Bomboniere, rifugio Il Faggione di Acquerino, B&B ”6 Stanco?” di Stanco

 

Un ringraziamento in ordine sparso a: Luca Boschi, Patrizia Guidi, Andrea Mussi, Marco Tamarri, Francesca La Mendola, Sara Lodovisi, Marco Leporatti, Carolina Mariti, Anna Castellari, Lorenzo Gori, Samuele Pesce, la famiglia Grandi di Stanco

Immagine di apertura di Guido Mencari.

 

Ci sono bestie al confine (parte I)

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di Benny Nonasky

1.

Ci sono delle bestie al confine. Il cielo è nero e ci spiega che la morte è un sintomo dell’arbitrarietà dell’uomo; le sue azioni bastarde, le carceri dell’aria, l’irrilevanza e lo stoicismo balsamico. Ci sono bestie al confine sotto la neve e il gelo dell’inverno costante e privo d’emozioni. Se qualcuno si chiedesse se il presente è una misurazione del passato: questo è il presente e il passato è un’orgia del presente fluido, maleducato, folle. Troppi aggettivi. Più inutili che interessanti. Come le domande intelligenti sullo stato attuale, le dinamiche, il declassamento del lavoro, il terrore, i continui trattati e minacce e storie strappalacrime. Non funziona più nulla. La fabbrica del cuore si è fermata. Hanno smantellato ogni singolo organo utile alla lavorazione. È come si ci fosse stata un’esplosione immane dentro a quel giorno. Troppi sentimenti in un solo istante. Un crollo dietro l’altro. L’idea di unificazione e perdono. Avere una madre unica, vedova e spenta in un’eredità vile, sporca, annacquata. Eppure ancora c’era gente che doveva nascere (deve sempre nascere altra gente). Qualcuno lo dice: <<I bambini, una volta nati, sono già abbastanza vecchi per poter morire.>> Come non dare attenzione alle paure del vento; come non generalizzare la morale delle mense dei poveri; come non chiedere altri cinque minuti alla sveglia, così, fino a dimenticarsi del mondo, del domani, delle vacche da portare al pascolo, del maiale da ingrossare per la pattumiera dell’umido? La polvere oltrepassa le cose. Avanza in noi un processo meccanico di arrotondamento: bisogna avere sempre un ritorno: bisogna avere un valore economico: il mare è per le crociere: i recinti tengono buone le bestie. Esiste ancora un destino comune? Siamo figli senza sensi di colpa?

Tu non hai sentito la spada che ti ha trafitto. Hai odorato il sangue colante e hai percepito il vomito e il rancore. Tu non sai cosa vuol dire amare la nostalgia e la ricerca di una casa. Può essere la tua salvezza. L’analfabetismo storico accompagna la tua gradevole quotidianità. Le tue origini sono utili per le cresime. Tu generalizzi la struttura politica dei porti. I doganieri ti annoiano. Sei la parte latente della certezza. Ti ancori alle paure delle iene. Ridi con loro. Azzanni la preda già stroncata dall’orrore natìo. Hai accarezzato la vertigine dell’onnipotenza territoriale. Anche se le tue origini dipendono dai piedi logori e scheggiati da una terra cruda e secca. Le mosche hanno seguito il tuo percorso d’espansione. Hai mutato i tuoi lineamenti per la sopravvivenza del figlio. Eri un bastone, poi una pietra, poi un fuoco, un ferro, una lama, un proiettile e plutonio. Hai sviluppato un cervello utile alla macchina e all’omicidio. Hai osservato i treni passare; hai ascoltato le grida sulle navi e nei campi innevati. Non hai appreso un cazzo: sei andato oltre le nuvole e hai stuprato la luna fino a mutare la geometria del cielo. Hai seminato tubi di scarico tra gli uccelli. Hai costruito rovine e non c’è più un flipper disponibile col quale alleviare la tensione dei perdenti. Hai perso il divertimento dello stare insieme, la vecchiaia, il metabolismo corretto. Hai lasciato le frontiere ai manganelli e al filo spinato. Tu hai percepito il vuoto e l’hai condiviso con l’albero e Dio. Ora osservi con pietà il tuo corpo in balìa del tempo che scivola lentamente, in canoa, sul tuo sangue. Il tuo sangue adesso ti parla della crudeltà del gesto di diniego, della bomba sganciata, della famiglia in fuga, del timbro non emesso, del centro d’identificazione e detenzione, del perché è utile lo zen e il condividere la meraviglia di un’Epipogium aphyllum da poco sbocciata o la neve su San Pietroburgo o i mandorli in procinto di eiaculazione. Non manca molto al funerale. Hai odorato il sangue e hai riconosciuto l’eredità che hai portato.

Dovevamo arrivare in un punto preciso, lì la guida ci avrebbe spiegato come arrivare al muro. Ci guardavamo senza dire una parola. Il conforto non stava riposto nel nostro cuore malato. Eravamo su d’un palcoscenico senza conoscere il copione. E la gente cominciava a divertirsi. Noi, i protagonisti. Il silenzio: l’unica possibilità. Si percepivano i passi pesanti, il fiato balbuziente e asmatico. Procedevamo in fila, a ridosso della ferrovia. Ogni tanto si sentiva abbaiare un cane e delle voci in una lingua sconosciuta, ma che ormai faceva parte del nostro mondo quotidiano. Era l’unica certezza dell’esser lì, da qualche parte. <<Dobbiamo andare oltre quei binari. Da lì in poi è tutta una scommessa. C’è una strada sterrata che fiancheggia dei prefabbricati in disuso. Lì siamo allo scoperto. Fiancheggeremo le pareti cercando di tenerci all’oscuro anche se quella maledetta luna sembra prenderci per il culo stasera. Guardate quant’è grossa, la maledetta.>> Era incredibilmente sensuale e mastodontica. Avrei voluta baciarla. Abbracciare la sua crosta livida e porosa. E poi l’avrei presa a morsi perché, era un formaggio, uno di quelli coi buchi. Tra il duro e il morbido. Saporito al punto giusto. Avevo fame. Troppa fame. <<Va bene. Fiancheggiamo i prefabbricati e poi da lì quanto manca alla recinzione?>>, disse una tizio con la barba ben curata e un volto abbastanza magro e serio. La guida non lo guardò, aveva ancora gli occhi fissi sulla luna. Forse anche lui pensava al formaggio. Gli rispose con calma: <<Dopo averli superati c’è un tratto di bosco molto fitto. Lì siamo al sicuri. Ho avuto notizie certe che nel bosco non ci sono guardie né cani. Il problema viene dopo. Il muro di filo spinato è a ridosso di un fiumiciattolo. C’è poca acqua, sicuramente gelata, ma rallenterà la vostra corsa. Ci saranno guardie armate, molte guardie armate pronte a frenare la vostra fuga. Forse qualcuno di voi non ce la farà. Fatti vostri. Il mio compito è quello di portarvi fino al bosco. I soldi valgono tanto. Tu hai portato le tenaglie e le torce?>> Mi voltai e feci sì con la testa. Avevo tutto nello zaino. Pure un coltello lungo diversi centimetri. Ero pronto a tutto. Appena non sentimmo più rumori e non vedemmo più ombre, passammo la ferrovia e ci immergemmo tra i ruderi grigi dei prefabbricati. Non sentivo più le mani, anche se in braccio tenevo il bambino della signora che mi stava dietro. Non so se fosse vivo o morto. Non avevo tempo per accertarlo. Non si lamentava. Non emanava nuvole di vapore. Avevo tanto timore di essere la sua tomba e il suo ultimo ricordo. Pensai ai miei fratelli dispersi sotto le macerie e a mio padre sgozzato davanti a mia madre. Cominciai a piangere. A denti stretti. Bagnai il bambino, ma non si mosse. Senz’altro era morto. Improvvisamente sentimmo degli spari e delle urla. Non capivamo da dove arrivassero. Sembravano intorno a noi. Ma intorno a noi c’erano solo pareti e una strada vuota. Ci nascondemmo dentro una di quelle casupole di mattoni e lamiere. Diventammo delle statue. Dal lato destro della strada sbucarono almeno cento cavalieri, con corazza, scudo e lancia. Dalla parte sinistra, invece, vennero fuori degl’esseri immani, putridi, pieni di chiazze livide e purulente. Strisciavano i piedi e si dannavano. Grugnivano come porci destinati alla mattanza. Sembravano doloranti e feriti, ma impugnavano spade e fucili d’assalto con tono fermo e sicuro. Li dividevano pochi metri. I cavalieri abbassarono le lance, tenendole tese davanti a loro. Gli essere immani invece puntarono le loro armi e alzarono gli occhi al cielo perdendo l’iride chissà dove. Sembravano pronti allo scontro e sapevano già chi avrebbe avuto la testa rotolante dal patibolo. Ma non avvenne nulla. Restarono così per qualche minuto. Poi, dalla cavalleria, si fece avanti colui che teneva nelle mani un cuore crudo che ancora sembrava pulsare. Lo gettò ai piedi degli immani e disse: <<La condizione umana è simile a quella di uomini incatenati in un sotterraneo, la cui porta non si apre e non fa passare luce se non quando il carnefice viene a prendere colui che sarà messo a morte1.>> Dopo aver detto questo, l’uomo scese da cavallo e calpestò il cuore che ancora sembrava pulsare. Gli uomini immani abbassarono le armi e cominciarono ad ululare come demoni imbestialiti. Chiusero gli occhi e presero a correre in direzioni sparse, senza logica. I cavalieri li lasciarono andare. Non si mossero fino a quando l’ultimo essere non fu più visibile alla vista. Poi si girarono in modo sincronizzato verso il nostro nascondiglio e alzarono le lance al cielo. Erano bellissimi e le loro corazze brillavano sotto il bagliore potente della luna. Noi restammo senza fiato. Avevamo paura. Cercai la guida con gli occhi, ma non la vidi. Non la vidi mai più. <<Bastardo>>, dissi a bassa voce. L’uomo che era sceso da cavallo e che aveva calpestato il cuore prese a muoversi verso di noi. <<Uscite>>, disse. <<Ora non siete più in pericolo.>> Effettivamente non provavamo alcun timore. La sua voce sontuosa e calda ci offriva sicurezza – e noi necessitavamo di tale sentimento. Uscimmo allo scoperto. Io mi trovai davanti a tutti. Il cavaliere mi venne incontro e mi tese le mani. Io gli diedi il bambino. Lui lo prese con se e andò verso la madre. <<Madre, lui adesso è nelle mani del mondo. Respira con gli oceani e le montagne. Adesso fa parte di noi. Le prometto che diventerà un uomo valoroso e che manterrà il suo volto, il volto della donna che lo ha amato, per il resto dell’eternità. La difenderà fino al suo ritorno. Lì vi abbraccerete di nuovo e sarete di nuovo famiglia. Non lo dimenticare madre: lui è tuo come la fonte per un ruscello.>> La donna cadde in ginocchio e baciò la terra. Le lacrime le scorrevano sul volto e non avevano suono. Il cavaliere tornò al suo cavallo. Diede il bimbo ad un altro soldato e, spronando il cavallo, si diresse verso il bosco che ci attendeva prima della recinzione. Dopo che vi fu scomparso dentro, anche gli altri cavalieri partirono al suo seguito.

Questo mare fu il primo mare, il primo sale, il primo viaggio, il primo sguardo alle stelle. Oltre di lui, il vuoto e la caduta infinita. Dentro di lui, il vuoto e la caduta infinita. Ora non ci interessano i secoli nei secoli: ora siamo addormentati su di un letto di cadaveri che non abbiamo voluto, votandoci al respingimento coatto della disperazione. L’arancione riflette il bagliore del sole e sono cieco dinnanzi alla morte imminente. Quante storie d’orrore potremmo scrivere su noi stessi.

<<Possiamo andare?>> I ragazzi della ronda erano pronti ad uscire dalla caserma per iniziare il turno. Come ogni notte, si armavano di pistole elettriche, abiti mimetici, torce e lucidi manganelli tra le mani. Ogni notte, ispezionavano il porto di Caulonia, dalla parte ovest dove si trovava il grande centro della marina militare, fino alla punta opposta dove troneggiava il grande faro rimesso in funzione per rintracciare le imbarcazioni dei disperati in arrivo. Le ronde si trovavano in tutte le zone costiere e, tutte le ronde, erano composte da letterati ed artisti; coloro che avevano istituito tali meccanismi di difesa in regime spontaneo e sotto la supervisione della Marina. Queste ronde erano utili per la difesa della Nazione, per lo stipendio e la scrittura – perché la gente voleva leggere quello e quello le si dava. Come ogni notte, i ragazzi della ronda di Caulonia, percorrevano quella decina di chilometri recintati da un muro alto una ventina di metri, con torrette d’appostamento e filo spinato elettrico. L’esercito aveva costruito in fretta e furia quella protezione obbrobriosa su tutto il territorio dopo l’ultimo grande sbarco sulla costa meridionale, che aveva portato ad un duro scontro tra la cittadinanza e la disperazione causando diversi morti e danni ingenti alle abitazioni. Non si poteva più lasciar correre. Non si poteva più far nulla senza una decisione presa dall’alto. Non si poteva più difendere, ma solo attaccare. <<Ma questi sono i soliti discorsi politici. Il problema è il colore, il sudore e la lingua.>>, disse Antonio, grattandosi il naso col mignolo. <<E la religione?>>, gli ribatté Mauro. <<Dio ha già fatto il suo: ci ha divisi alla nascita. Ha già dato.>>, rispose Antonio in tono beffardo e guardando di sottecchi Lara che ascoltava silenziosa con la testa nascosta da un passamontagna spesso e ruvido. Effettivamente era una serata gelida. In quella zona erano anni che non pioveva né cadeva un fiocco di neve. Non si poteva più coltivare nulla. L’acqua era razionata e gli alimenti venivano consegnati, ogni mattina, in ogni casa ancora abitata. Ormai erano rimasti in pochi in quella landa desertica e gestita dai trafficanti di uomini e droga. I sette della ronda erano tutti del posto, obbligatoriamente del posto perché conoscevano ogni anfratto e costruzione. In caso di sbarco, dovevano bloccare ogni fuga prima che le guardie delle torrette sparassero colpi. Altrimenti, non sarebbe stato divertente. <<A che ora dovrebbe arrivare l’imbarcazione segnalataci dal centro di comando?>>, chiese Paolo. <<Intorno alle tre e quindici minuti e 21 secondi. Appena raggiungiamo il faro, controlliamo a che punto sono.>>, rispose Antonio. Il faro era su un promontorio a ridosso della spiaggia. Non ci si poteva entrare. Veniva gestito da un computer dentro una cabina a qualche metro di distanza dalla struttura. Al suo interno, oltre al faro, era stata installata una videocamera a luci infrarosse utile a carpire, già a una debita distanza, le navi in arrivo e comprendere il punto d’approdo. Arrivati, Antonio si mise a smanettare al computer e vide l’imbarcazione carica di disperati puntare alla costa. <<Eccoli lì! Sono un bel po’. Questa notte ce la spassiamo e mi sa che ce n’è pure per l’esercito e le loro banali pallottole. Anche per domani abbiamo qualcosa da scrivere.>> Gli uomini lasciarono la postazione e andarono verso il punto d’arrivo prestabilito dal computer. Antonio, Paolo, Lara, Mauro, Domenico, Luca e Sasà, si misero in formazione: una fila schierata, come muro di pelle in tuta mimetica, sulla spiaggia umida, davanti al mare. Alle tre e quindici minuti e ventuno secondi, la nave attraccò con un tonfo sordo sulla spiaggia. I disperati sapevano a cosa andavano incontro. Saltarono dalla prua e cominciarono a correre in ogni direzione. Ma la ronda era preparata. Dalla spiaggia si alzarono delle reti sostenute da braccia meccaniche piantate nel profondo della sabbia come la coda di un pavone. I disperati ci finirono dentro come pesci senza via di fuga. Partì il gioco. I letterati cominciarono a manganellare e picchiare tutti quegli animali che si dimenavano nella rete. Scariche elettriche venivano lanciate a quelli che correvano, mentre le mine sotterrate nella sabbia e i colpi di fucile automatico sparati dalle torrette facevano saltare in aria coloro che, in qualche modo, erano riusciti a superare la trappola della rete metallica. Il sangue macchiava le tute e le mani. Si sentivano urla e risate e la voce di Antonio che, come ogni notte, raccontava la sua storia: <<Ancora qui, nella notte scura delle belve e del desiderio. Ancora a qui a cercare la correttezza e la pulizia, perché ci guida la mano. Scriviamo quindi con la maiuscola Verità e Giustizia e con la minuscola menzogna e offesa2. Abbattiamo le diversità che non ci competono. Difendiamo questa terra che c’ha partoriti nel suo grembo crudele e magnifico. Battezziamo la nascita col sangue impuro. Che questa paura sia un peccato da purificare; che questa battaglia sia dimora di Dio e perdono del Padre. Andiamo incontro al nemico, carichi di dolore e vendetta. I mostri sono da calpestare per raccontarlo, prima di andare a letto, ai bambini. Non saremo mai pronti a lasciarci andare. Il nostro amore è il nostro amore. Noi siamo la falce che insegna al grano la musica della vita. Nessuno può uccidere i nostri sogni e la nostra sicurezza. Ecco l’assassino, arriva di nascosto, ruba il lavoro e la famiglia, mangia il cibo che trova per le strade, vive nell’ombra e sgozza sotto i ponti le nostre gole pronte a cantare. Da cosa nasce cosa. Il ministro ha assegnato il caso al poliziotto più competente. Lui ha catturato l’assassino e si prepara alla prossima battaglia. Eccolo sulla spiaggia. Sente il tonfo della nave colpire la sabbia. Saltano giù i disperati e cominciano a correre. Lui ha preparato tutto: fa azionare le braccia metalliche per le reti. I pesci sono in trappola. Afferra il suo arnese di tortura e prende a punire nel nome di sua madre violata da questi sporchi bastardi. Sì, perché lui predice il futuro: sa che un giorno accadrà. Quindi colpisce. I crani si frantumano con un colpo secco alla nuca. La colonna vertebrale si spezza premendo il ginocchio sulla schiena con tutto il peso del corpo. Track. Il sangue cola, imbratta le vesti e la notte. Tutto il mare è una ferita che fugge via. Fino all’ultimo. Fino a quando sua madre non lo ringrazia dal regno dei cieli. E può gridarlo. Dirlo al mondo, soddisfatto: “Ci possono essere momenti più belli, ma questo è il nostro!3”>>.

1 Blaise Pascal

2 Czesław Miłosz

3 Jean-Paul Sartre

Bussola

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di Gianni Biondillo

Mathias Enard, Bussola, edizioni e/o, 418 pagine, traduzione di Yasmina Melaouah

Non basta vincere un Premio Goncourt – nello scorso 2015 – per giustificare l’enorme successo in Francia di Bussola, romanzo di Mathias Enard. Quattrocentomila copie per un libro dove, a conti fatti, non succede niente per oltre quattrocento pagine sono un mistero.

Bussola è la storia di una notte insonne. Franz, il protagonista del romanzo, è uno studioso specializzato in musicologia orientale. Si gira e rigira nel letto, senza prendere sonno. E allora pensa, ricorda, elabora, ragiona. Il tutto in un infinito flusso di coscienza ben rappresentato da pagine dense come muri, con pochi punti a capo, saltando di palo in frasca, senza un ordine logico.

Franz pensa sopratutto a Sarah, anch’essa orientalista, all’amore che prova per lei, lontana, distante, chissà dove. Pensa a come l’ha conosciuta, a tutte le volte che si sono incontrati. Ma tutto ciò, a ben vedere, è solo una scusa.

È dell’amore fra Oriente e Occidente che il romanzo in realtà parla. Enard, che è storico dell’arte ed orientalista lui stesso, sfoggia nelle pagine una erudizione davvero ammirevole. Fra nobili austriaci e sultani, fra compositori italiani e archeologi siriani, fra scrittori francesi e fumatori d’oppio egiziani, Fra Vienna e Palmira, Parigi e Costantinopoli, tutto il romanzo è un profluvio di aneddoti, curiosità, citazioni, intuizioni che cullano il lettore fino all’ultima pagina.

Ciò che ne esce fuori, chiusa la titanica avventura della lettura di questo romanzo lento, denso, affascinante, è un’idea meno banale di due concetti oggi così vilipesi dagli integralismi di ogni razza. Enard ci fa guardare alle culture orientali e occidentali non come ad un inevitabile scontro di civiltà, ma come a un infinito incontro amoroso. Un ponte, come quello sul Bosforo, che unisce Oriente e Occidente. Che lega Franz a Sarah.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione n° 52, del 27 dicembre 2016)

Un nuovo ruolo per il soggetto nella nuova cultura dell’inizio del Novecento: anche intorno alla relatività #2

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di Antonio Sparzani

Si è visto qui che Filippo Bruno (Nola 1548 – Roma 1600), che assunse il nome di Giordano entrando in convento come domenicano, aveva ben chiaro che è la ‘virtù primieramente impressa’ che fa la differenza nel moto delle due pietre e non una qualche proprietà intrinseca dell’una delle due rispetto all’altra.
Ma la letteratura, come spesso accade, ci fornisce qualche altra occasione di riflettere sull’argomento: un secolo prima del nostro Nolano, Ludovico Ariosto descrive (vedi anche qui) il breve duello tra Rodomonte e Brandimarte, quando il primo vuole impedire il passaggio del secondo sul ponte da lui custodito:

Nel volersi levar con quella fretta
che lo spronar de’ fianchi insta e richiede,
l’asse del ponticel lor fu sì stretta,
che non trovaro ove fermare il piede;
sì che una sorte uguale ambi li getta
ne l’acqua; e gran rimbombo al ciel ne riede,
simile a quel ch’uscì del nostro fiume,
quando ci cadde il mal rettor del lume.

I duo cavalli andâr con tutto ‘l pondo
dei cavallier, che steron fermi in sella,
a cercar la rivera insin al fondo,
se v’era ascosa alcuna ninfa bella.
Non è già il primo salto né ‘l secondo,
che giù del ponte abbia il pagano in quella
onda spiccato col destrero audace;
però sa ben come quel fondo giace.
[Orlando Furioso, c. XXXI, str. 71-72]

Dunque cadono entrambi in acqua i due valorosi guerrieri, ma, si noterà, mentre stanno “fermi in sella”; ecco quindi che la parola fermi – era appena stata usata la locuzione “fermar il piede” per alludere ad un arresto rispetto al ponte, o alla terra – si adatta altrettanto bene a chi, s’intende rispetto a terra, cade e si muove quindi velocemente. Altro segnale che già la lingua naturale incorpora questa equivalenza di situazioni, “fermo” ha significato rispetto a qualcosa, e quel che per me è fermo, può non esserlo per te.
Mentre stendiamo un pietoso velo sulla non brillante prestazione del cavaliere di Carlo in questa occasione, passiamo a sottolineare che è in questo complesso di idee che nasce la vera rivoluzione della scienza nell’età moderna, nella consapevolezza che non è più interessante dare un privilegio assoluto all’osservatore solidale con la Terra, che la Terra è un corpo che si muove nello spazio come gli altri pianeti, e che dunque l’assenza di interazione non garantisce più lo star fermi rispetto a qualcosa di fissato una volta per tutte, garantisce invece soltanto il muoversi di moto rettilineo uniforme rispetto ad una varietà molto ampia di osservatori privilegiati, detti appunto inerziali. La stessa nozione di fissato una volta per tutte perde interesse e senso in un mondo in cui la Terra smette di essere il centro privilegiato dell’universo.
In questo senso si è prodotto, come accennavamo, un allargamento del soggetto, cioè una restrizione, nel prodotto della conoscenza, della parte strettamente dipendente dall’oggetto osservato – l’eventuale velocità costante di un oggetto non è più una sua proprietà interessante, perché diventa qualcosa che, per così dire, ci mette il soggetto di suo.

Per passare alla tappa successiva in questo cammino dell’evoluzione dell’idea di relatività, bisogna lasciar scorrere più di due secoli: durante tutto il Settecento e tutto l’Ottocento la descrizione fisica del mondo si è in un primo tempo consolidata e focalizzata sulla meccanica, che ha conosciuto uno sviluppo e dei successi assolutamente clamorosi (si pensi alla scoperta dei pianeti – visibili solo strumentalmente – esterni a Saturno) e in un secondo tempo ha costruito interamente un nuovo settore della disciplina, quello dell’elettromagnetismo (la sintesi Maxwelliana è del 1873). Proprio in conseguenza di questo sviluppo, che da un lato aveva costituito un grande successo e una straordinaria complessiva conferma della fisica classica – così viene appunto detta la fisica sviluppata nei secoli ora menzionati – verso la fine dell’Ottocento si profilarono dei problemi che apparivano assai ardui – quello ad esempio di una conferma definitiva dell’esistenza dell’etere – e che assunsero un po’ alla volta una rilevanza cruciale.
Un notevole sforzo venne dispiegato per chiarire come mai i vari tentativi di mettere in evidenza la presenza effettiva di questo sfuggente etere fossero falliti, malgrado l’accuratezza messa in campo (i più importanti furono gli esperimenti di Michelson, e di Michelson e Morley poi, nel corso degli anni ’80 del secolo XIX°), ma nonostante il fatto che una spiegazione fosse alla fine stata data all’interno della fisica classica (teoria di Hendrik A.Lorentz), accadde all’inizio del Novecento che il giovane scienziato tedesco Albert Einstein, che fino ad allora si era occupato di fondamenti della termodinamica, proponesse una soluzione radicalmente nuova del problema, servendosi di parte del formalismo escogitato da Lorentz e usando varie cruciali intuizioni già di Henri Poincaré.

Mentre qui non v’è spazio per una trattazione, anche solo qualitativa, della proposta di Einstein, pubblicata nel 1905 sugli Annalen der Physik, occorre tuttavia comprendere in che modo una tale nuova teoria si inserisca nel filo che abbiamo cercato di sviluppare a proposito della “parte soggettiva della conoscenza”. A tal fine basta ricordare alcune delle conseguenza più “strane”, perché controintuitive, della nuova teoria, nota da allora, perché Max Planck le diede questo nome, come teoria della relatività ristretta (o speciale). Occorrerà premettere che alla base di questa teoria sta il postulato, assai strano, che la velocità della luce, ovvero la velocità con la quale si propaga nel vuoto qualsiasi radiazione elettromagnetica, è costante, indipendente dal luogo e dalla direzione e, soprattutto, non dipende dall’osservatore che la misura. La stranezza di una tale assunzione deriva dal fatto, che ognuno di noi trae non solo dalla fisica Galileiana, come si diceva, ma dall’esperienza quotidiana, il fatto che la velocità di un qualsiasi oggetto cambia a seconda che la si misuri da fermi (diciamo rispetto alla Terra) o da un veicolo in moto; è esperienza comune che la velocità di un treno varia a seconda che la si misuri dalla banchina o da un treno in corsa su un binario parallelo. Einstein invece postulò che la velocità della luce nel vuoto, indicata universalmente con c, assuma il valore di circa 300000 Km/s, rispetto a qualsiasi osservatore, sia sulla Terra sia in moto rispetto alla Terra con qualsivoglia velocità. Fu proprio la stranezza di questa posizione che costrinse Einstein, per far sì che la meccanica mantenesse quello status di teoria autoconsistente che naturalmente doveva possedere per mantenersi nell’ambito della razionalità scientifica, a criticare il concetto tradizionalmente indiscusso di simultaneità, fino a portare alle conseguenze che ora ci interessano. Queste conseguenze si chiamano abitualmente contrazione delle lunghezze e dilatazione dei tempi. Delle quali parleremo nella prossima puntata.

20 luglio 2001, Genova, Carlo Giuliani

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“”Dall’interno del veicolo un carabiniere – identificato come Mario Placanica secondo le sue stesse dichiarazioni – dopo aver estratto e puntato la pistola verso i manifestanti intimandogli di andarsene, spara due colpi. Un colpo raggiunge allo zigomo sinistro Carlo Giuliani che morirà nei minuti successivi. Il fuoristrada, nel tentativo di fuggire rapidamente dai manifestanti, riprende la manovra passando sul corpo del ragazzo due volte (una prima in retromarcia, la seconda a marcia avanti). Sono le 17:27 del 20 luglio 2001. Tutta la sequenza è registrata nei filmati degli operatori presenti sul posto.””

Glossario dei tempi

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di Giorgio Mascitelli

Con la fine del secolo breve e della guerra fredda ossia dell’ordine nato dalla seconda guerra mondiale, l’epiteto ‘nazista’, usato espressamente oppure richiamato per allusione, ha conosciuto una seconda giovinezza in ragione direttamente proporzionale alla crescita della depoliticizzazione nella società.  Sdoganato all’inizio degli anni novanta dall’apparato mediatico con la funzione di propaganda bellica ( all’epoca della prima guerra del Golfo era Saddam Hussein a essere il nuovo Hitler), essa è ormai diventato una componente essenziale di qualsiasi comunicazione tesa a stigmatizzare un comportamento considerato a vario titolo inaccettabile e irrappresentabile. In questo senso l’aspetto significativo di questo fenomeno non è tanto l’accusa di nazismo in situazioni per così dire codificate e classiche di polemica politica, per esempio l’accusa rivolta a Putin e ai separatisti russi durante la guerra civile in Ucraina verosimilmente per nascondere la presenza predominante dell’estrema destra  nei ‘rivoluzionari’ ucraini o la lunga serie di scambi di accuse reciproche nel conflitto israelo-palestinese, ma il suo passaggio alla dimensione quotidiana. Ne ha fornito un esempio autorevole alcune settimane or sono il Santo Padre quando ha definito espressamente l’aborto selettivo una forma di nazismo in guanti bianchi.

E’ chiaro che la generalizzazione dell’uso del termine da parte degli operatori mediatici è stata possibile solo nel quadro di una fondamentale depoliticizzazione che consente di evitare di prendere quelle misure cautelative che un giudizio politico del genere imporrebbe a chi lo formulasse: ecco allora che diventa credibile, come è successo nei mesi scorsi, denunciare come fondatore di lager il precedente ministro degli interni Minniti e contestualmente chiedergli provvedimenti contro organizzazioni in odore di neofascismo.

Il passaggio decisivo si ha quando questa modalità viene ripresa sui social in rete da parte di utenti comuni e diventa un fenomeno di massa, assumendo un carattere fortemente aggressivo. Allora veramente ognuno può diventare il nazista di qualcun altro in qualsiasi momento per qualsiasi motivo. Tale trasformazione è connessa con quella che il filosofo Byung-Chul Han ha chiamato la società dell’indignazione, tipica dell’epoca della rete, ossia una società in cui dominano insistenza, isteria e riottosità che “non ammettono nessuna comunicazione discreta, obiettiva, nessun dialogo, nessun discorso” ( Nello sciame trad.it 2015 p.18).  Ma l’allusione al nazismo può trovare posto anche in una discussione pacata, ce ne sono perfino sui social, non contrassegnata da quello che i tedeschi chiamano shitstorm, ossia la tipica aggressione verbale nella rete, a segnalare una sua trasformazione in un repertorio argomentativo naturale e ovvio, una sorta di seconda natura ideologica. Per esempio un paio di mesi fa, nel commentare uno stato di politica su facebook, uso l’espressione ‘scelte delle èlite finanziarie’ e mi viene risposto inopinatamente se sono convinto che le èlite finanziarie siano composte da ebrei. Il ragionamento è interessante, il mio interlocutore, che è democratico di sinistra antirazzista ed è una persona colta, teme che io sia un antisemita perché nella sua convinzione per parlare di élite finanziarie si deve essere per forza antisemiti, in quanto va da sé che esse siano composte da ebrei e chiunque non sia un antisemita non parlerà mai di èlite finanziarie. Qui vediamo come addirittura un tipico stereotipo antisemita ( l’alta finanza è costituita da ebrei) riviva in una forma antirazzista nella persuasione che chiunque parli di élite finanziarie non possa  farlo che per esternare i propri sentimenti antisemiti e pertanto un sincero democratico non debba parlarne mai. Eloquente in proposito la reazione di smarrimento e di incomprensione del mio interlocutore quando finalmente si è convinto che avevo citato le èlite finanziarie non per motivi complottistici antisemiti, ma per parlare effettivamente di queste.

Questo episodio, che testimonia di una mentalità diffusa, non è spiegabile senza quello che Jonathan Friedman ha chiamato associazionismo, ossia la tendenza a valutare  una tesi non per quello che sostiene effettivamente ma per il modo in cui si colloca in un determinato immaginario sociale, di modo che diventa pressoché naturale associare a una certa affermazione tutta una serie di altre affermazioni, anche se la prima non le implica affatto logicamente. Questo tipo di logica è praticata non soltanto nelle conversazioni private, ma anche in una dimensione pubblica, essendo caratteristica del politicamente corretto, ed è sicuramente uno dei meccanismi alla base della rapida moltiplicazione delle accuse di nazismo.

La più ovvia delle conseguenze di questo fenomeno, ma non per questo la meno grave, è che il concetto di nazista e anche quello di fascista, per il quale valgono considerazioni analoghe, sono quasi completamente inutilizzabili per l’inflazionamento e la torsione semantica a cui sono state sottoposte le parole che li indicano. Visto che purtroppo  viviamo in un’epoca in cui qualche segnale oggettivo e pericoloso di fascinazioni nostalgiche c’è, questo è un motivo di preoccupazione in più.

In secondo luogo esso finisce con il creare un sacco di interdetti ossia di argomenti su cui non è possibile discutere perché bollati come sicuro sintomo di nazismo: non è un caso infatti che questa tendenza non sia un fenomeno spontaneo, nato in rete, ma sia l’imitazione di una pratica mediatica della società dello spettacolo, dove è stato introdotta con finalità di propaganda. Il fatto che la pratica dell’interdetto venga replicata a livello di massa rende molto difficile la nascita di un reale discorso di controinformazione e di critica dello stato di cose presenti, in quanto la funzione critica trova uno degli elementi fondamentali nello smascherare ciò che vi è dietro ogni interdetto anziché metterne di nuovi.

Infine, la perdita del valore specificamente politico dell’accusa favorisce una commistione tra una dimensione morale, una politica e quella emotiva che produce confusione e smarrimento, del tutto funzionali ai processi di depoliticizzazione. Che questa commistione sia una caratteristica sia del politicamente corretto sia del linguaggio mediatico, è una considerazione pertinente, che non posso però sviluppare qui, ma che va in ogni caso tenuta a mente.

Viviamo in tempi la misura dei quali ci è stata offerta da un politicante austriaco che ha rispolverato l’espressione asse tra Roma, Berlino e Vienna: e poco importa che quest’asse non si realizzerà mai per l’evidente inconciliabilità geopolitica degli interessi dei contraenti, la misura dei tempi ci è offerta dal fatto che abbia potuto permettersi di usare un’espressione simile, cosa fino al 2001 impensabile. Viviamo in una società in cui la macchina mitologica ha ripreso a funzionare e a offrire le sue vittime sacrificali per nascondere i problemi che non si possono o si vogliono affrontare. In questo contesto l’uso rigoroso di alcuni concetti e termini connotati storicamente non è una questione filologica, ma politica. Infatti, la ragion politica, per quanto parziale e fragile, man mano che passo  ci incamminiamo nella nottata del mito è l’unico strumento che ci resta ( e lo affermo in polemica con tutta una temperie culturale che ha affermato l’importanza dei sentimenti in politica come unica garanzia di autenticità) per provare a orientarci e a non essere del tutto passivi nel buio che ci circonda..

 

Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto: storia di un tributo intermittente

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  di Chiara Portesine

Il dibattito con il Gruppo 63 affiora come un basso continuo nella maggior parte degli articoli letterari di Andrea Zanzotto, un idolo polemico che proietta la sua ombra su materiali di discorso eterogenei, che spesso non implicherebbero un confronto diretto con la Neoavanguardia. Che si parli di Luzi, Pasolini, della Science Fiction o di Leiris, attraverso trattazioni esplicite o allusioni mai troppo velate, la nemesi privilegiata della riflessione zanzottiana rimane il Gruppo 63 (quantomeno a partire da 1962, anno di pubblicazione dell’articolo dedicato ai «Novissimi» [PPS 1107-1113] (1), e fino a quando, negli anni Ottanta, il  dibattito si sposta progressivamente sul territorio dei nuovi Media e della televisione) (2).

Per riassumere sinteticamente i capi d’accusa, Zanzotto taccia lo sperimentalismo neoavanguardista di «disimpegno» [FA 109], di ostentare una trasgressione meramente di facciata, quando, nel concreto, le premesse e l’operazione stessa del Gruppo non si contagiano mai con il nucleo traumatico del mondo contemporaneo (il «terrore assoluto» [ivi, p. 275]), ma si muovono entro il territorio protetto e non belligerante della forma, in cui «ogni rischio è puramente convenzionale, endoletterario» [ivi, p. 109]. Di fronte alla disgregazione moderna del ‘senso’ («il trauma incombente sulla lingua» [FA 359]), la Neoavanguardia non propone altro che un macabro divertissement (il «frigido artificio» [ivi, p. 62]), una ridda per aristocratici annoiati sulle rovine del linguaggio; come scrive Raffaele Donnarumma nel suo Tracciato del modernismo italiano, «l’atteggiamento dell’avanguardia è eroico e patetico […]. Rovesciare gli idoli tardo romantici e spazzar via il ciarpame piccolo borghese vuol dire rinnovare la vita in una festa sanguinaria» (3). Affidandosi alla deriva infinita dei significanti, si pone di fronte alla realtà con un gesto ludico-regressivo, mentre per Zanzotto la letteratura ha ancora la possibilità e anzi l’obbligo di veicolare un’ipotesi di autenticità (per quanto pericolante e minimale). La parola poetica, infatti, è «la figura che rimane sui muri dopo una deflagrazione atomica» [AD 358], la radiazione fossile che sopravvive nel mondo a testimoniare la sopravvivenza del senso, «le frange di una vitalità sulle rovine» [PPS 1088-1089].

Zanzotto licenzia la Neoavanguardia con il sigillo infamante di «fenomeno, tutto sommato, d’ingenuità-irriverenza in relazione a cose note» [PPS 1109]. In realtà, la laboriosa digestione dell’esperienza del Gruppo 63 emerge dal costante bisogno di rintracciare modelli alternativi, autori-exempla pure situati in un generico côté sperimentale ma variamente schierati in nome dell’istanza affermativa e della persistenza del dire poetico (da Emilio Villa a Amelia Rosselli). Lo scopo dell’atto artistico consiste nell’«arrivare ad un’altra poesia piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in un certo modo nell’annichilimento» [AD 345] (4).

Più ambiguo e possibilistico si configura il rapporto con l’odiosamato Edoardo Sanguineti, di cui Zanzotto non perde occasione per rimarcare velleità e vizi di forma, ma che considera un referente d’elezione per testare la propria poetica riformata, sorta come presa di coscienza del «chaosmos» contemporaneo [FA 208] e accelerata proprio dalla provocazione terroristica della Neoavanguardia. Si potrebbe dire, per usare una metafora, che il Gruppo 63 è stato la leva obbligatoria (5) della letteratura italiana secondo-novecentesca, la brusca chiamata alle armi che costringeva a schierarsi (anche in qualità di disertori). Zanzotto vuole, però, scegliere il suo avversario e riconosce a Sanguineti l’onore delle armi (nonché i germi potenziali di uno sperimentalismo più persuasivo rispetto alla combriccola «sessantatré-ese»), «pur con tutto il male che merita gli si dica in faccia per gli equivoci di cui si è fatto furioso portabandiera» [PPS 1130]. Per Zanzotto, le intuizioni tecniche del poeta genovese e la sua grammatica dell’eversione mantengono un alto grado di interesse fino a quando non travalicano il piano letterario-linguistico in nome di una poco convincente vocazione politico-sociale. L’errore di Sanguineti consiste nel rifiutare un’intera tradizione letteraria in nome di un’utopica fuoriuscita dal circuito della convenzione/storia, trovandosi di fronte a uno scacco preliminare (la convenzione è insuperabile) e all’interrogazione su un falso problema (l’unica sfida autentica della letteratura contemporanea è quella di tornare a una significazione –anche minima– attraverso la crisi, per «coordinare sia pure minimamente ciò che sfugge da tutte le parti come sabbia» [AD 198]).

Da un punto di vista tecnico, le risoluzioni retoriche e sintattiche di Sanguineti seducono Zanzotto, che vorrebbe adoperare gli strumenti della grammatica laborintica pur tenendo saldo un controcanto costruttivo. Ad esempio, loda «l’asintattismo di fondo» delle poesie sanguinetiane, visto come la figura retorica più adeguata a mimare il presente, ma ne mitiga e irreggimenta gli esiti formali inserendo subito un segno di valore più, una tensione alla ristrutturazione etico-linguistico, in nome di quella che Guglielminetti ha definito «resistenza della sintassi poetica» (6), grazie alla quale «da questo asintattismo, nei suoi minimi tessuti, nelle sue microstrutture, si lascerà intravvedere una indicazione sintattica» [PPS 1112]. Ogni volta che si accosta a singoli espedienti artigianali del laboratorio sanguinetiano, Zanzotto sembra prendere appunti per assimilare in veste normalizzata le competenze artigianali di Sanguineti, addomesticando il «babelismo smitragliato» [PPS 1130] in una nozione operativa e ancora civile/civilizzatrice. Simili riconoscimenti di valore (parziali e quasi malgré soi) ricorrono spesso nella riflessione zanzottiana; ad esempio, parlando di Vocativo, rammenta l’esperienza di Laborintus per «la comprensione della funzione che può assumere l’intarsio latino per uno che scriva in italiano» [ibidem].

L’attestazione di un sotterraneo influsso esercitato dalle sperimentazioni sanguinetiane viene tematizzata addirittura in modo esplicito, in un’intervista del 1969 Su «la Beltà», dove, incalzato dall’intervistatore sui futuri lavori in via di pubblicazione, Zanzotto allude agli Sguardi i Fatti e Senhal con queste parole sibilline:

Come tutti ho quantità di appunti e di fiches nei cassetti […]. Forse il commento in versi al test di Rorschach, un mio Rorschach in versi, che sto rimuginando da anni? In ogni caso arriverà in ritardo; certo qualcun altro avrà avuto la stessa idea, o mi precederà Sanguineti (come è avvenuto per altri temi), pubblicando tutto il suo TAT o qualcosa del genere [PPS 1148].

Tale allusione a un’affinità elettiva di risorse formali (una consonanza addirittura preventiva, aurorale) appartiene al generale «tributo intermittente» a Sanguineti, che Zanzotto formula e dissimula di soppiatto nei suoi interventi critici, oppure è spia di un rimando effettivo e circostanziato a una realtà testuale della raccolta Gli Sguardi i Fatti e Senhal? L’ispezione degli autografi svela una situazione genetica molto più complessa, che porterebbe a considerare l’intera raccolta zanzottiana come un «contrasto» poetico (per usare le parole dell’autore stesso) [PPS 373] il cui interlocutore iniziale doveva essere proprio Edoardo Sanguineti.

Gli Sguardi, i Fatti e Senhal: un contrasto camuffato con Edoardo Sanguineti

Pubblicato nel 1969 (a un anno di distanza dalla Beltà) in edizione privata a limitatissima tiratura e ristampato solo nel 1990 da Mondadori (con un intervento di Stefano Agosti e alcune note supplementari del poeta), il poemetto Gli Sguardi i Fatti e Senhal rimane in una nicchia “cautelare” per volontà dello stesso autore, che escluderà la raccolta anche dall’antologia Poesie 1938-1986, in una sospetta quarantena editoriale. Stefano Agosti parla di «una vera e propria enclave nel percorso espressivo di Zanzotto, o di una vera e propria isola, che solo il presente volume [Le poesie e le prose scelte] ha consentito di esibire insieme al continente di cui comunque fa parte» [PPS XXXIII]. Lo studioso accosta la ritrosia divulgativa degli Sguardi alla pubblicazione in sordina di Filò (edito nel 1976 per le edizioni veneziane del Ruzante e ristampato solo nel 1988 da Mondadori), ma per quest’ultima Agosti rintraccia una possibile strategia autoriale, vale a dire che «si tratti di un’anticipazione (o della prova) di un esperimento che verrà funzionalizzato solo successivamente» [ibidem] –ossia l’assunzione del dialetto nella sezione centrale di Idioma–. Ma quali motivazioni potrebbero aver condotto Zanzotto a proteggere il poemetto dalla fruizione su scala nazionale?

Da un punto di vista strettamente formale, gli Sguardi non inaugurano né anticipano alcuna direzione stilistica, proseguendo la sperimentazione in bilico tra «un certo filo logico e il puro non-senso» [PPS 1530] avviata all’altezza della Beltà e confluita, con variazioni e aggiornamenti, in Pasque (che, come suggerisce Stefano Dal Bianco nelle note critiche in appendice al Meridiano, «si sarebbe tentati di leggere come una ‘seconda puntata’ o una lunga appendice della Beltà» [PPS 1538]).

Alla base di questa procrastinazione editoriale risiede forse un contenuto rimosso, che Zanzotto si è premurato di occultare nell’affastellamento stratigrafico delle fasi redazionali, attraverso una proliferazione di varianti di depistaggio, volte a cancellare (o, come direbbe Derrida, «barrare») il movente originario.

Consideriamo le note dell’autore stesso alla raccolta e le osservazioni in risposta all’intervento di Agosti, posposte all’edizione mondadoriana del 1990: oltre ai temi già rilevati da diversi studiosi (7) (e suggeriti dall’autore stesso), come il riferimento al mito di Diana, l’impresa americana dell’allunaggio, la prima tavola del test di Rorschach (nel cui dettaglio centrale è ravvisabile un’allusione alla figura femminile), le numerose interferenze con il lessico fumettistico-favolistico, l’impianto cinematografico della visione (8), è interessante notare come Zanzotto rimarchi più volte il carattere intertestuale e dialogico del poemetto. In Alcune osservazioni dell’autore, in calce all’intervento di Stefano Agosti, Zanzotto insiste sul carattere citazionistico e sui numerosi “copia e incolla d’autore” di cui sarebbero disseminati gli Sguardi, ricollegandosi ai versi di Mallarmè evocati dallo studioso (che pure Zanzotto confida di non aver mai letto):

Nello stesso tempo arriva da quei versi una confortante, dolce sensazione di unità che, quasi appartenente, inerente ad un sincronico “inconscio” poetico ed anche letterario, si ritesse avanti e indietro in un tempo che non è quello dei giorni e degli orologi. Così, tutti coloro che abbiano avuto certe esperienze poetiche, grandi o piccoli, precedenti o successivi, si trovano entro una sola corrente profonda, rientrante in se stessa come l’omerico fiume Oceano, rapiti in essa, testimoni di essa, più o meno consapevolmente non importa. Né importano “plagi”, imitazioni, o altri tipi di contatti tra autori, che non sono mai casuali, mentre importa che vi sia questa communio, questa circolazione, questo dare e ricevere, questo rubacchiare in una specie di ipnotica cleptomania, od arrivare a punti che possono essere contemporaneamente d’incontro e di scontro. Di tutto questo, ne Gli Sguardi i Fatti e Senhal v’è addirittura uno spreco, se si pensa alla brevità del testo, una ridda di minimi furti, in cui la “cosa rubata”, la refurtiva è (vedi vv. 291-2) di scarso conto, o a tal punto ridotta per dispersione, perdita. In questa consapevolezza (non sempre emergente, però) quando ho inviato a qualche amico il poemetto, al posto del © del copyright ho aggiunto a mano “Nessun diritto è riservato: magari da me si copiasse/ tanto quanto dagli altri ho copiato” [PPS 1530].

La schermaglia prudenziale, come vedremo, non è così retorica come potrebbe sembrare. A quali furti testuali allude questo passaggio? Anche nella Beltà Zanzotto aveva ammonticchiato una serie di citazioni più o meno dichiarate (9), eppure non aveva sentito il bisogno compulsivo di giustificarsi e scagionarsi in anticipo come in questa nota. Excusatio non petita, accusatio manifesta?

A questo proposito, è opportuno rievocare il nome di Edoardo Sanguineti, a partire da un piccolo foglio di block notes che si può consultare presso il Centro Manoscritti di Pavia, all’interno della cartellina DS5 che, oltre a un dattiloscritto con correzioni autografe, contiene due fogli di carta velina (f. VI, 42, solo recto, e f. VI, 43, sia recto che verso) con appunti a mano dell’autore. Queste tre pagine di piccolo formato (mm. 211 x 141 e 212 x 142), raccolte come materiali di lavoro relativi alla correzione del dattiloscritto DS5, in realtà sarebbero da leggersi parallelamente al dattiloscritto DS3 (che, ad una comparazione biunivoca delle varianti, si rivela precedente a DS5 –a partire dal titolo I fatti di Diana e Senhal, cancellato con una barratura orizzontale e modificato nel titolo corrente, già emendato in DS5–). A livello di DS3, infatti, si verifica il processo macroscopico di emendatio che viene a coinvolgere i frammenti sbozzati in ff. VI, 42 e 43. Il contenuto di queste tre facciate è riassumibile in un breviario di citazioni sanguinetiane (f. VI, 42), in cui Zanzotto annota i versi che più gli sono piaciuti di Laborintus ed Erotopaegnia, appuntando diligentemente la pagina di riferimento o il numero della poesia da cui ha estrapolato il sintagma, e in una tabella di riconversione “sanguinetiano-zanzottiano” (f. VI, 43), che consta di una colonna sinistra deputata a raccogliere un elenco di citazioni sanguinetiane (alcune si ripetono rispetto a f. 42) – sempre corredate di precisazioni bibliografiche– e a destra la corrispondente “traduzione”, ristrutturata e camuffata da Zanzotto per essere accolta negli Sguardi:

A una lettura della tabella, risulta chiaro il confronto serrato con le soluzioni linguistiche del novissimo, in un tentativo di auto-aggiornamento a partire da materiali formali del “nemico”. L’operazione del poeta veneto rivela, pertanto, un’interconnessione inaspettata e una lettura accanita (ai limiti del freudiano) di quella stessa opera che, nel 1956, aveva denigratoriamente bollato come «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso». In questi appunti di destinazione privata Zanzotto si sbilancia addirittura in esclamazioni di ammirazione incondizionata («belli! Erotop.» [f. VI 42]; «tutto il 13» [ibidem]), senza le avversative e i cauti distanziamenti che avrebbero costellato un eventuale posizionamento pubblico nei confronti del Gruppo 63.

In sintesi, la volontà generale di Zanzotto è quella di assimilare in forma variata e positiva quella che considera la vera (e unica) rivoluzione di Sanguineti, ossia quella che si registra a livello di assemblaggio formale e strutturazione della pagina poetica. Proporrei di parlare del rapporto Zanzotto-Sanguineti secondo la categoria bloomiana del «poeta rivale» (10), coniata a proposito di quello che potremmo definire un “assorbimento agonistico” della poetica marlowiana all’interno dell’opera di Shakespeare. Lo sperimentalismo moderato di Zanzotto sembra generarsi a partire da un’originaria assimilazione parassitaria dell’altro laborintico, secondo un’azione prospettica che ricorda le modalità mediche della vaccinazione: attraverso l’inoculazione di una parte del virus si ottiene un’immunizzazione definitiva.

Curioso, a questo proposito, l’atteggiamento della critica, che finora non mai approfondito un’eventuale connessione tra i due autori, nonostante alcune palesi emergenze sanguinetiane nella Beltà, facendosi forse depistare dal rifiuto della Neoavanguardia ostentato programmaticamente da Zanzotto («il grande rivale di Sanguineti, nel match finisecolare (e oltre)», secondo la definizione di Cortellessa (11). La tendenza interpretativa è anzi quella di suggerire una partizione epistemologica, un aut aut tra poetiche alternative e non assimilabili: una linea di sperimentalismo ideologico e distruttivo (Sanguineti) e uno sperimentalismo formale e costruttivo (Zanzotto), in lotta per una possibile egemonia generazionale. Negando a priori l’ipotesi di una convergenza liminare (nonostante alcuni temi affini –primo fra tutti la ripresa in chiave contemporanea del topos lunare–), si è insistito troppo su una presunta ed esteriore separatezza esistenziale.

Significativo, a questo proposito, l’articolo di Fausto Curi, Brevi riflessioni su Zanzotto e Sanguineti, il cui incipit recita: «ora che la morte, e solo la morte, li ha ricongiunti, sembra più doverosa qualche riflessione su di loro, collocandoli uno di fronte all’altro» (12). L’articolo continua nel solco di questa incomunicabilità costitutiva, per cui «nessuno dei due si era sforzato di capire le ragioni dell’altro» [ivi, p. 448] e Zanzotto «era rimasto fermo al parere negativo espresso sui Novissimi nel suo articolo del 1962» [ibidem]. Sarebbe curioso sottoporre a Curi la tabella preparatoria per gli Sguardi, in cui emerge invece lo sforzo di misurarsi a ogni verso con le «ragioni dell’altro», con un’acribia filologica che forse non aveva lo stesso Sanguineti (autore dalle «scarse varianti» (13) nel correggere il suo Laborintus.

Anche Fernando Bandini, pur avendo intuito un’affinità complessiva per quanto riguarda certi espedienti formali, sembra subito sconfessare una tale illazione; le convergenze tematiche e sintattiche sono interamente giustificabili a livello di fonti comuni, come due intertestualità autonome che si parlano soltanto in differita, attraverso i rispettivi modelli letterari:

Di questo manierismo [contemporaneo], Costanzo ha offerto, in tavole sinottiche, degli «esemplari autenticanti», ed è singolare la somiglianza tra certi stilemi di Zanzotto e Sanguineti. Non si pone naturalmente nessuna questione di presunte relazioni tra i due poeti. Sono le fonti ad essere comuni (Novalis, Morgensterm, certo Landolfi, ecc.) a creare quel linguaggio di riporto che fonde immagini su acque e alfabeti vegetali (14).

Naturalmente, è doveroso e raccomandabile conservare la specificità teorica dei due autori, le cui poetiche hanno generato filiazioni di «nipoti e nipotini», adepti diretti e scuole critiche assai differenti. Tuttavia, mentre Sanguineti può essere tranquillamente studiato prescindendo dal percorso di Zanzotto, ritengo che non valga altrettanto per il poeta di Pieve di Soligo, la cui parabola poetica a partire dalla Beltà non può essere compresa e contestualizzata senza un marcato riferimento alle sperimentazioni del Gruppo 63. Senza il «terrorismo verbale» (15) della Neoavanguardia forse, parafrasando una citazione di Silvio Ramat (16), l’arcadia zanzottiana non sarebbe mai stata travolta.

NOTE

(1) Segnalo in apertura alcune sigle citate nel testo: AD = Aure e disincanti nel Novecento italiano, Mondadori, Milano, 1994; FA = Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Mondadori, Milano, 1991; PPS = Le poesie e le prose scelte, a cura di S. Dal Bianco, G. M. Villalta, Mondadori, Milano, 1999.

(2) Cfr. ad esempio il saggio del 1989 intitolato Poesia e televisione [PPS 1320-1331]; già nell’Intervento del 1981 Zanzotto dichiarava che «tutti gli apparecchietti della civiltà tecnologica hanno ormai condizionato la nostra quotidianità, ma possono anche fornirci delle chiavi di espressione più complete» [PPS 1284].

(3) raffaele donnarumma, Tracciato del modernismo italiano, in Sul modernismo italiano, a cura di Romano Luperini, Massimiliano Tortora, Napoli, Liguori, 2012, pp. 35-38 (36).

(4) In termini quasi analoghi, Zanzotto parla della sua stessa operazione poetica, in un’intervista dal titolo Il mestiere del poeta: «A proposito dell’informale, direi che io ho tentato di afferrare qualcosa dello scontro tra l’idea di una massima strutturazione (a carattere sistolico, come si suol dire) e le tensioni della non-struttura che oggi sono nell’aria» [PPS 1133].

(5) Come scrive Maria Corti nel suo Viaggio testuale, «da un lato ci sono i Novissimi, fenomeno letterario in senso stretto […], fenomeno di rottura, di eversione delle codificazioni del sistema letterario; i Novissimi, e il nome stesso in metafora lo suggerisce, hanno marcato, per dirla con Lotman, la categoria ‘fine’ dei modelli letterari vigenti a livello tematico e formale» [maria corti, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, p. 115].

(6) marziano guglielminetti, Zanzotto e la resistenza della sintassi poetica, in Letteratura italiana. Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, X, Milano, Marzorati, 1979, pp. 9765-9771 (9765).

(7) Cfr. stefano agosti, L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in PPS IX-XLIX (XXXII-XXXV); fernando bandini, Zanzotto dalla Heimat al mondo, in PPS LIII-XCIV (LXXX-LXXXIII); clelia martignoni – Daniele occhi, Gli Sguardi i Fatti e Senhal: di alcuni percorsi genetici tra gli autografi, «Autografo», XLVI, 2, Novara, Interlinea, 2011, pp. 21-33; luigi metropoli, Il nulla maiestatico e i senhal, «Quaderni veneti», Ravenna, Longo, 2004. Segnalo, inoltre, la tesi magistrale di Daniele Occhi, Per “Gli sguardi i Fatti e Senhal”. La genesi del testo sulle carte autografe (Università di Pavia, aa 2009-2019, relatore prof. Martignoni, correlatore prof. Stefanelli); sebbene non abbia ancora avuto modo di prendere visione di questa ricerca, si tratta del primo compiuto tentativo di censimento integrale e descrizione archivistica degli intricati materiali della raccolta, con ipotesi sulla progressione genetica degli inediti.

(8) Cfr. john p. welle, Zanzotto: il poeta del cosmorama, «Cinema & cinema», 49, 1987.

(9) Come viene dimostrato esaurientemente in luca stefanelli, Attraverso la Beltà di Andrea Zanzotto : macrotesto, intertestualità, ragioni genetiche, Pisa, ETS, 2011.

(10) arold bloom, Il poeta rivale, in Anatomia dell’influenza. La letteratura come stile di vita, Milano, Rizzoli, pp. 67-83.

(11) andrea cortellessa, Petrarca è di nuovo in vista, in Un’altra storia: Petrarca nel Novecento italiano, atti del convegno di Roma, 4-6 ottobre 2001, Roma, Bulzoni, 2004, pp. I-XXXI (XIII).

(12) fausto curi, Brevi riflessioni su Zanzotto e Sanguineti, «Poetiche», 13, 2/3, 2011, pp. 447-453 (447).

(13) erminio risso, Laborintus di Edoardo Sanguineti, San Casario di Lecce, Manni, 2006, p. 11.

(14) fernando bandini, Zanzotto tra norma e disordine, in Letteratura italiana. Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, X, op. cit., pp. 9756-9765 (9759-9760).

(15) fausto curi, Struttura del risveglio. Sade, Benjamin, Sanguineti. Teoria e modi della modernità letteraria, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2013, p. 226.

(16) silvio ramat, Andrea Zanzotto. Dalla purezza lirica dell’idillio all’arcadia travolta, dalla parola poetica all’oggettivazione della lingua: la grammatica emozionale e la resistenza delle parole assolute, della fede nella poesia, in Letteratura italiana. Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, op. cit., pp. 9730-9753.

Juke-box: Gianni Maroccolo

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Come fanno i larici d’autunno

 

di Mirco Salvadori

 

 

Un’altra volta forse si prenderà
le mosse da un punto più
alto
fin qui è stato risalire a colpi
d’orgoglio confuso con l’idea
da proporre
quella volta non ci sarà bisogno
di voltarsi indietro e nemmeno
di guardare troppo avanti
ciò che ci sarà –la cura
nel fare, l’intuizione
del propizio, l’abbraccio
o la parola secca- basteranno
e basterà la pioggia se pioverà
e il sole se farà caldo
la strada deserta
o il rombo della gomma sull’asfalto

 

(Biagio Cepollaro – Le Qualità – La Camera Verde, 2012 )

 

 

È tutto racchiuso nel breve istante della morte, nell’altrettanto fulmineo sbocciare della nuova vita. “Rinasce chi sa tornare, rinasce chi sa cadere, rinasce chi sa morire, rinasce chi sa cambiare colore come fanno i larici d’autunno” canta Cristina Donà in ‘Vdb23/Nulla è Andato Perso’, album firmato da Gianni Maroccolo con Claudio Rocchi. Rocchi, colui che comprese il segreto per rendere la vita tale, accettando la morte e la successiva rinascita. Il magico viandante volante, l’artista coerente e coraggioso, l’amico inseparabile tutt’ora presente quando il verso annienta e il suono colpisce. È da lui che prende il via questa storia di indipendenza e rinnovamento.

La sera scende lieve in questo angolo di Toscana. In lontananza si percepisce l’urlo costante del traffico impazzito che avvolge Firenze ma qui è il silenzio che regola i movimenti. Sono seduto sull’antica pietra del Teatro Romano, l’orecchio teso nell’ascolto del suono che appartiene al presente, armonia che mi porta indenne la voce di chi ci ha lasciato, di chi ha dovuto abbandonare i suoi dischi le sue corde, i panni stesi ad asciugare lasciando sul cuscino l’impronta dei suoi sogni. Claudio Rocchi è scomparso nel 2013 dopo aver collaborato con Gianni Maroccolo alla realizzazione di ‘Nulla é Andato Perso’, disco che rappresenta una sorta di suo testamento pubblico giunto a noi grazie all’opera divulgativa del bassista e compositore grossetano, figura centrale del suono indipendente italiano, raro musicista a cui sembra inevitabile la necessità di allontanarsi in fretta dalla melma della conformità come scrive Battiato nel testo della lunga suite che rappresenta l’asse portante di questo splendido lavoro corale.

Scomodamente seduto sull’antica scalinata cerco di mettere ordine in un passato che ha lasciato dietro di sé memorie e passi d’altri ch’io calpesto, come recita Giovanni Lindo Ferretti interpretando l’inquieto valzer che ancora imperversa nella balera sempre aperta del mio cuore. Mi perdo nella musica e i ricordi iniziano a pulsare, si materializzano sul palco assumendo fattezze umane, quelle di Simone Filippi, Antonio Aiazzi, Andrea Chimenti e Gianni ‘Marok’ Maroccolo. Musicisti un tempo attivi in formazioni che appartengono alla storia del rock indipendente italiano, esponenenti di una cultura non solo musicale che individuava Firenze come città simbolo dell’esplosivo movimento new-wave degli anni ‘80. Sono riuniti qui a Fiesole per celebrare l’ultimo concerto dedicato a Claudio Rocchi e allo spirito di autonomia che lo distingueva, un concerto che nel corso di due anni ha riempito decine di teatri in tutta Italia, un live dal quale é stato tratto un triplo album di incomparabile valenza artistica, un vero manifesto poetico di indipendenza culturale.

Scruto le nostre espressioni, distinguo i segni del tempo nel loro sguardo mentre accarezzo le cicatrici che attraversano il mio.

Sovrasta il piacere dell’ascolto, questo enorme specchio che si erge lungo i confini della notte fiesolana, una superficie che riflette il nostro passato, la storia collettiva dei sopravvissuti ad un’era di tempeste e mareggiate di cui ora rimane solo un borbottio di tuono e la volontà indomita dei pochi che insistono nel bisogno di cambiamento.

Di morte e rinascita é intessuta la lirica poeticamente interpretata da Andrea Chimenti mentre Simone Filippi filtra la violenza del battito, Antonio Aiazzi colora il cielo sintetizzandolo di passione e Gianni Maroccolo disegna movimenti di irresistibile danza alternandosi tra l’elettronica e le corde del suo amato strumento pensando a quella sua vecchia produzione discografica il cui titolo recitava: ‘Solo Un Folle Può Sfidare Le Sue Molle’.

Quanti sono rimasti indietro, ancorati a ricordi e celebrazioni, quanti non hanno retto il passaggio delle stagioni, abbarbicati sopra fragili troni di cartapesta. Quanti hanno rinunciato al rischio della follia, sbriciolandosi nelle trite e antiche movenze del rock’n roll.

Gli occhi chiusi, raggomitolato nel suono del basso, Marok sta forse pensando al momento nel quale ci saremmo ritrovati quarant’anni più tardi, ancora una volta decisi a cambiare colore, proprio come fanno i larici d’autunno, proprio come raccontava Claudio, convinto che ciò che ci sarà –la cura nel fare, l’intuizione del propizio, l’abbraccio o la parola secca- basteranno.

 

 

ERBARIO UMANO (un numero di “Zeus!”)

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Differenze tra piante e persone
Ce ne sono tante di differenze tra piante e persone: le
piante non hanno capelli e le persone sì, corti o lunghi.
Le piante hanno fiori molto belli e profumati e le persone
non hanno fiori né foglie. Ci sono piante estive e piante
autunnali, invece le persone cambiano carattere a seconda
del tempo, sono un po’ lunatiche insomma. Per nutrirsi i fiori
hanno le terra per piantare le radici, noi invece abbiamo le
radici ma nei denti. Ci sono momenti che l’uomo fa male alla
pianta, invece la pianta è innocua: di differenza ce n’è
tanta. Se io mi immagino di essere una pianta, ad esempio
una pianta di pesche, avrei bisogno di meno attenzioni che
una persona, la pianta è più autonoma.

Vorrei che tu fossi qui

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(Sergej Roić è un amico scrittore croato/ticinese. Ha  scritto un romanzo lo scorso anno per Mimesis che parla di intelligenza nell’universo, principio antropico, università di Camberra, elefante meridionale, Syd Barrett e tanto altro. Sergio – così lo chiamano gli amici – ce ne regala un estratto. G.B.)   

di Sergej Roić

Puoi liberare te stesso abbastanza da vivere la realtà del mondo mentre la vita scorre davanti a te, con te, e tu ti muovi in avanti con essa? Puoi farlo? Perché se la risposta è no, rimarrai per sempre al punto di partenza, fino alla tua morte. So che potrebbe sembrarvi un’idiozia, ma è di questo che parla la canzone

Un ragazzo e il suo doppio

Due ali aveva questa sfera di pura gloria, due ali d’argento chiaro, che si esaltavano sempre all’arrivo del Dio: e ora dall’ombra si alzarono piume immense, una a una, fino a dispiegarsi per intero; mentre ancora l’abbacinante globo si teneva nascosto, in attesa del comando” trova sottolineato a matita sul libro di poesie di John Keats nello studio del padre.

Lì accanto, un foglio sostiene “Oggi Roger torna dalle vacanze”. Nel quaderno dove il padre annota gli argomenti su cui riflettere la risposta a una sua domanda telefonica: “Dire a Roger che la vita umana è un palazzo dalle molte stanze. La prima di cui varchiamo la soglia la chiamiamo la camera dei bambini, o la camera senza pensieri. Ci rimaniamo un lungo tratto, e nonostante la porta della seconda camera rimanga aperta non ci interessa affrettarci verso di essa, ma vi siamo spinti dal risvegliarsi del principio di pensiero dentro di noi. Non appena entriamo nella seconda stanza siamo pervasi dalla luce e dall’atmosfera, non vediamo nient’altro che piacevoli meraviglie e pensiamo di attardarci lì per sempre estasiati”.

Girando la pagina, legge un pensiero a proposito di un vaso greco disegnato in tutti i suoi particolari dalla ferma mano del padre: “Oh, forma attica! Posa leggiadra con un ricamo d’uomini e fanciulle nel marmo, coi rami della foresta e le erbe calpestate. Tu, forma silenziosa come l’eternità, tormenti e spezzi la nostra ragione”.

Syd esce di casa, si precipita in strada. Percorre le vie di Cambridge, umide e nere, ritrovandosi nell’incerto territorio che confonde la veglia col sonno – è rientrato nel cuore della notte e non ha visto, non ha salutato nessuno. Vi è mai capitato, la mattina presto, trovandovi nell’incerto territorio che confonde la veglia col sonno, pensa, compone, di incamminarvi per strade umide e nere – lo spicchio d’arancia che fa capolino dietro l’angolo è il camion della nettezza urbana – di leggere, gli occhi improvvisamente spalancati, particolari fin lì invisibili di parlanti estroversi palazzi? Percorrete la vostra via per la prima volta; avete una grande immaginazione; potreste giurare di aver vissuto una vita sorprendente e improbabile, non vi riconoscete. Siete chiunque, siete quell’uomo uscito or ora dall’androne – uscito, si vede, a comperare le sigarette. Chi crede di essere?

Il ragazzo si mette a correre e durante la corsa, tangibile, reale, che si tocca con mano, che si aspira e poi rigetta fuori dai polmoni assieme al fiato, vede davanti a sé la forma attica, la forma di quel vaso greco. Mio padre vuole parlarmi, mio padre vuole parlarmi, ripete in mezzo alla strada, all’alba, a Cambridge, a due passi da casa. Due ore dopo è di nuovo a Londra. Compone, pensa.

Ora scendete nel tunnel della metropolitana. Che parla dell’audace colpo dei rocker che all’alba, proprio qui sotto la vostra strada, hanno ribattezzato cielo e inferno la fermata del metrò della terribile battaglia di Waterloo. Ristabilito l’ordine, tutto il tunnel continua a parlarne.

Correndo Roger “Syd” Barrett pensa, compone. Più corre veloce e più calda, liscia, svelta, calma, giusta è la melodia che lo accompagna.

Vi guardate attorno e nella vostra carrozza, dall’altra parte del corridoio – com’è svelto e passionale il mondo – un giovane nero inforca il vis-à-vis di una donna bionda. Si guardano. Lui attacca bottone mentre una frotta di militari in piedi presso la porta – militari dagli sguardi d’acciaio, i capelli a spazzola – emette un trattenuto muggito di rivolta. Lei gli tocca la coscia. È veramente una bella bionda. I capelli vaporosi, il seno protuberante, è molto intraprendente. I militari ululano la loro disapprovazione. Un vecchio tignoso vomita con sincopato accento del Nord “Ai miei tempi, queste cose…”. Il nero rilancia e ora la sua mano si fa largo ben oltre l’orlo della gonna. Una sorda eccitazione si impadronisce della carrozza: ora tutti sono per l’ordine e la morale. I militari, l’uomo del Nord apostrofano la donna: “Puttana, vai a battere da un’altra parte”. “Jimmy, no” tre soldati trattengono il commilitone alto e secco dal volto scrofoloso. Jimmy-il-soldato vorrebbe – grida – farla finita. “Diamogli una lezione” barrisce il vecchio. I due ragazzi (sì, certo, se astraete dal trucco di lei sono giovanissimi) si guardano, il treno ferma, le porte si aprono, loro sgattaiolano verso la sicurezza della pensilina lì fuori urlando “Syd Barrett, Syd Barrett, vieni con noi!”. Così non vi rimane che seguirli, così verrete a sapere – in un bar, davanti a un caffè – che sono studenti di recitazione, che nel metrò alberga un pubblico feroce e che i loro compagni – lui bianco, lei di colore – ottengono un effetto uguale e contrario, anzi, vengono portati in trionfo.

Ottengono un effetto uguale e contrario, anzi, vengono portati in trionfo lo ripete e ripete davanti al giovane nero e alla ragazza bionda finché il refrain si materializza, si aggiusta, coglie al volo quella storia per farne un viaggio, una canzone, una battaglia.

A mezzogiorno di una qualsiasi giornata d’estate Syd Barrett, il cantante e paroliere dei Pink Floyd, e colui che lo accompagna sempre, l’altro sé, pensa e compone: è seduto su una panchina della metropolitana di Londra e non vede una ragione di essere lì piuttosto che in qualsiasi altro luogo che conosce.

Chi sono? Dove mi trovo? Eccomi per la prima volta in me stesso come in un incredibile paese straniero dice, e poi lo canta, a tutti e a nessuno lì nel metrò. Si siede di fronte a una ragazza. Si alza e anche lei si alza. La segue lungo un primo, un secondo cunicolo. Lei sceglie la “veloce” per Wimbledon e lui dice “peccato”. Se invece avesse svoltato a sinistra verso l’uscita, l’avrebbe raggiunta lì, proprio nel punto dove inizia la piazza, in cima alla scalinata. Cosa le avrebbe detto? “Per gioco, posso parlarti?”. E non poteva seguirla e chiederglielo a Wimbledon? “No, ogni gioco ha le sue regole”. Barrett lo dice, lo ripete, parla a se stesso, la gente nel metrò non ci fa caso. Lui è Roger, Syd per gli amici, Barrett, il cantante, il genio, e sta diventando pazzo.

Non vede

            una ragione

                            di essere lì

                                            piuttosto che in qualsiasi

altro luogo che conosce.

Non vede una ragione.

Nè acqua per le voci

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di Marina Massenz

( i due testi qui presentati sono tratti da Nè acqua per le voci, Dot Com Press, 2018, ultima raccolta poetica di Marina Massenz,g.m.)

 

Siamo usciti dalla scatola proprio stamattina

 

Siamo usciti dalla scatola proprio

stamattina giunture e riflessi crac

crac arrugginiti messa in moto

lenta ma efficace infine attivi

Le armate spettrali di Bergamo

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di Romano A. Fiocchi

Heinz Schilling, 1517. Storia mondiale in un anno, Keller editore, 2017.

Heinz Schilling è professore di Storia moderna. Per quanto tedesco, il suo libro di ben 383 pagine si apre con la cronaca di una strana battaglia combattuta nel dicembre 1517 a Verdello, frazione di Bergamo. Davanti a un boschetto, due armate guidate dai reciproci sovrani con tanto di vessilli, trombe, tamburi, e composte di fanti, cavalieri, artiglieria, si scontrano sino all’ultimo sangue. Poi spariscono. Sono spettri. E come tutti gli spettri sono un presagio di ciò che sta per accadere: eventi celesti, intemperie, rincari, carestie, epidemie, guerre. Non è così solo per quei pochi che vanno oltre la superstizione del popolo non istruito e sanno leggere la realtà per quello che è: l’esalazione di mucchi di letame che l’inverno rigido fa volteggiare nell’aria. Eppure, all’epoca, gli spettri servirono a materializzare prima le paure dei contadini, poi quelle degli abitanti della città, poi addirittura quelle del Papa e dei cardinali riuniti in Concistoro. A Schilling servono invece per materializzare lo spirito del 1517.

La battaglia spettrale di Verdello non è l’unico punto di riferimento di questa monografia dedicata a un solo anno della storia dell’umanità. Altri tre eventi lo caratterizzano: l’invasione dello Yucatàn da parte dei conquistadores spagnoli; l’incontro di un’ambasciata portoghese presso il delta del Fiume delle Perle (Zhujiang) con il segretario provinciale di Canton, in quello che allora si chiamava il Regno di Mezzo; le novantacinque tesi contro le indulgenze affisse sul portale di una chiesa di Wittenberg da parte di un misconosciuto monaco agostiniano che passerà alla storia con il nome di Martin Lutero.

Schilling, incastrando tra questi quattro elementi tutta una serie di fatti e di approfondimenti storici, sia antecedenti sia successivi ma comunque determinanti per una comprensione a tutto tondo dell’anno in questione, fornisce le chiavi di lettura dell’attuale compagine mondiale. Perché fu proprio allora, nel 1517, che prese il via la cosiddetta globalizzazione. Certo, con la Riforma di Lutero al centro di tutto la visione diventa un po’ germanocentrica. Fin dai banchi di scuola ci è stato insegnato che la Storia moderna inizia con il 1492, la fatidica data della scoperta dell’America, e non dall’affissione delle novantacinque tesi di Lutero. Ma è anche vero, dal punto di vista dell’evoluzione del pensiero, che il gesto del monaco di Wuttenberg liberò la capacità del mondo cristiano “di apprezzare in modo critico le Sacre Scritture e quindi di sottrarsi all’immutabilità numinosa della comprensione”. La Riforma, proprio in quanto figlia dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani portati all’estero, non fu quindi solo un enorme passo verso il pluralismo confessionale ma anche una spinta formidabile verso il libero pensiero che condurrà all’Illuminismo.

È un bel testo, questo di Schilling. Non trattandosi di un libro di Storia in senso stretto, riesce a spaziare attraverso gli eventi universali passando per la Querela pacis (Il lamento della pace) di Erasmo da Rotterdam, I quattro cavalieri dell’Apocalisse di Albrecht Dürer, la teoria monetaria di Copernico, le donne del Rinascimento, le trame di potere dei Medici. O addirittura curiosità emblematiche come l’elefante indiano Annone, donato dal re portoghese Manuele a Leone X, che ne fa il suo beniamino (tanto che Pietro l’Aretino coglierà il pretesto per scrivere una feroce satira contro di lui e contro la Curia romana, Le ultime volontà e testamento di Annone, l’elefante).

Le stesse tesi di Lutero, per quanto punto di convergenza di tutte tematiche trattate nel libro, sono presentate nella loro obiettiva verità storica: una semplice raccolta di critiche costruttive che il monaco agostiniano rivolse alla Chiesa romana nella speranza di ottenere un ritorno alla spiritualità. Furono dunque il momento favorevole, l’indifferenza di Roma, ma soprattutto l’incredibile diffusione della stampa a trasformare uno spunto di riflessione in una riforma vera e propria. Sì, perché a soli cinquant’anni dalla rivoluzione di Gutenberg l’informazione non circolava più attraverso la limitata corrispondenza privata degli umanisti ma in forma di libri, opuscoli, volantini, immagini stampate, tutto materiale che moltiplicava la diffusione della conoscenza. Compresa quella dei mondi esotici, come dimostra l’incredibile popolarità della xilografia di Dürer dedicata al rinoceronte indiano Ulisse, ospitato nel recinto reale di Lisbona e dono del governatore delle Indie Albuquerque al re del Portogallo.

Il 1517 è anche l’anno in cui fanno comparsa due grandi potenze straniere: gli Ottomani da una parte e l’Impero moscovita zarista dall’altra. Roma, Bisanzio, Mosca, ecco dunque la “terza Roma”. Sarà Sigmund von Herberstein, una sorta di Marco Polo tedesco, che in qualità di legato dell’imperatore Massimiliano farà un resoconto dettagliato dei territori immensi del nuovo Cesare. Il suo Rerum Moscoviticarum Commentarii quadruplicherà l’elenco dei fiumi e delle località note tanto da permettere il primo vero aggiornamento delle conoscenze geografiche. Herberstein saprà inoltre riportare anche un’analisi attenta del carattere del popolo russo che metterà in risalto il servilismo dei sudditi rispetto ai superiori, la smania di potere e il dispotismo dei potenti. Aspetti sociali che in cinquecento anni non sembrano molto cambiati.

1517. Storia mondiale di un anno, diciamolo, è anche un bel libro dal punto di vista grafico-editoriale, a cominciare dalla suggestiva copertina con la riproduzione del rinoceronte di Dürer. Ma anche per la scelta dei caratteri tipografici e per l’impaginazione impeccabile e ariosa, che dà respiro alla lettura. Conta anche questo, in editoria, specie in tempi di omologazione e di sensazionalismo a tutti i costi. Lo so, dell’editore Roberto Keller ho già parlato altrove, sempre qui su NI. Merita comunque l’ennesimo applauso.

Un’ultima nota. Il Medioevo è stato archiviato eppure ancora oggi ci sono pubblicazioni, riviste e blog che trattano della battaglia degli spettri di Verdello come di un fenomeno paranormale realmente accaduto. Questo fa pensare che mezzo millennio non è ancora bastato per sconfiggere le nostre paure.

 

Bloomsday: italiani in trappola nella scacchiera di Joyce

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di Bianca Battilocchi

Ma lo ‘sbaglio’ non sarebbe che del tutto carente senza il ‘vagabondaggio’,
cioè senza il labirinto, ma, sia chiaro, un labirinto incoerente,
cioè un labirinto che non ha fine, non ha uscite, non ha entrate
(si entra dove si vuole, anzi si è già dentro) un labirinto che genera labirinto.

(Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma, 1982)

In occasione dei recenti eventi organizzati a Dublino per celebrare Bloomsday – che cade il 16 giugno, il giorno in cui è ambientato l’Ulisse di Joyce, di cui Leopold Bloom è il protagonista principale – si sono realizzate fertili congiunzioni nate all’insegna di un felice caso.

Come perpetuando il gioco infinito dell’errare nella lingua (e nel mondo), avviato fatalmente dall’iperscrittore irlandese, i due indomiti traduttori italiani del Finnegans Wake hanno deciso di brindare a questo nella sua amata-odiata città, seminando nuove tracce delle loro sudate ma divertite scoperte e intrecciandole con quelle di nuovi potenziali lettori. Sono Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni i primi pezzi mossi in questa narrazione aperta da cui si sono sviluppate manganellianamente storie parallele. Nella veglia di Bloomsday presso la National Library of Ireland e grazie alla collaborazione con l’Istituto di Cultura Italiano di Dublino, hanno intrattenuto un vasto pubblico conversando e divagando con il giornalista Edoardo Camurri e l’attore Alessandro Bergonzoni, entrambi già ben addentrati nel labirinto joyciano.

Da principio è stato necessario avvertire il lettore-giocatore del suolo friabile e instabile della scacchiera sulla quale Joyce ci invita a giocare, della sintonia dell’errare con l’errore e quindi dei fenomeni di “errorismo”, delle geometrie non euclidee, come ipertesto prescelto dal creatore di Bloom, autotradottosi in italiano come Giacomo Giocondo. Un’ulteriore istruzione per l’uso è stato l’invito al non riconoscersi, ad abbandonare i sentieri a noi familiari, per permettere di perderci liberamente nei percorsi labirintici di JJ e approdare all’impensabile, a nuove forme di conoscenza. Va rammentato che l’autore irlandese non ha composto opere enigmistiche e, in maniera evidente, nel Wake dove non esiste un codice unico soggiacente per “scioglierne” le allusioni e i misteri. Al vagabondare joyciano nel linguaggio non c’è antidoto, si tratta anzi di un “infinire”, non si inizia né si finisce, le categorie di Spazio e Tempo non esistono più, in obbedienza al nodo scorrevole del “riverrun”, figura di un serpente che si morde la coda.

Si può tradurre allora l’opera matura di JJ come un “libro di vento/ libro divento” dove si possono continuamente compiere trasformazioni, metamorfosi alchemiche di natura simile a quelle dei Tarocchi di Emilio Villa o ad alcuni versi di Carmelo Bene (“Non dico niente.Soffio di vento. Divento soffio”), due autori che ammirarono profondamente le innovazioni linguistiche e anarchiche del collega irlandese. In aderenza alla logica eraclitea dell’eterno scorrere, Bergonzoni conclude con una fulminante interpretazione del gesticolare dei vigili urbani, che subito si fa appello: “Circolare, c’è un mondo da vedere!”

Rispondendo all’attore bolognese e soffiati dal vento d’Irlanda, i due “straduttori” hanno girovagato nei giorni seguenti in un pellegrinaggio laico per Dublino e dintorni per riannusare i portoni joyciani e i luoghi emblema come fossero carte universali da leggere e rileggere per penetrare sempre più a fondo nelle stratificazioni escogitate dal Giocondo. Nella giornata di Bloom, mentre alla National Library musicisti eseguivano le canzoni italiane citate nell’Ulisse, i due joyciani non hanno potuto declinare l’invito alla festa nel giardino del presidente Michael Higgins, in compagnia di Camurri e di altri colorati stregatti e cappellai matti.

L’indomani, a loro insaputa, si festeggerà il buon non compleanno di Bloom, che li troverà circondati da nuovi improvvisati ma entusiasti giocatori, alla vecchia farmacia (ora libreria) Sweny citata nell’Ulisse e ancora profumata dalle saponette al limone. In questo luogo preservato da volontari e riempito di memorabilia joyciane e musica irlandese, si viene accolti calorosamente da PJ in camice, da anni il principale orchestratore di continui incontri e sessioni di lettura da opere di Joyce proposte in molteplici traduzioni, tra cui non mancano mai quelle in italiano (ora lette alla domenica pomeriggio). Il convegno del giorno dopo Bloomsday ha visto come partecipanti alcuni studenti di Cosenza capitanati da una fata professoressa (e poetessa) che dopo averli introdotti a Joyce, ha ritagliato del tempo nella loro visita a Dublino per portarli alla celebre farmacia. E così sono state lette pagine dell’Ulisse, una dopo l’altra, dall’episodio di Circe, le voci dei traduttori alternate a quelle degli studenti e quella di un nuovo personaggio attratto dall’orbita del gioco, Massimiliano Bianchi, neuroscienziato nella vita e autore di Odysseus, opera poetica in inseguimento spontaneo della prosa joyciana. Vengono lasciati messaggi preziosi a questo giovane pubblico dagli occhi sbarrati, leggere Joyce il prima possibile – JJ è per tutti, non solo per accademici – e non dimenticare la libertà del lettore nell’interpretare i testi, “i libri sono di chi li legge”. Rifocillandosi al Kennedy’s (il pub di fronte) i nostri protagonisti si accorgono di nuovi pezzi sulla scacchiera, tre membri di un book club di Roma venuti appositamente per il festival e catturati dalle malie dello stregone plurilingue PJ, che li fa accomodare al tavolo (da gioco). La dimostrazione, forse, che il caso, sotto un segno “giocondo” apre le strade più sorprendenti?

Nota

L’immagine si riferisce a Enrico Terrinoni e Massimiliano Bianchi al reading dell’Ulisse presso la vecchia farmacia Sweny di Dublino.