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Ponti d’autore che crollano

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Il corteo presidenziale attraversa il ponte nel giorno dell'inaugurazione il 4 settembre 1967
Il corteo presidenziale attraversa il ponte nel giorno dell’inaugurazione il 4 settembre 1967

(sul tragico evento del ponte Morandi crollato a Genova ricevo una riflessione di Alberto Giorgio Cassani e una replica di Gianfranco Tondini che volentieri pubblico. G.B.)

di Alberto Giorgio Cassani

«London Bridge is falling down falling down falling down»

Thomas Stearns Eliot, The Waste Land, 1922

Gianfranco,

Gli antichi lo sapevano. Ma ne erano coscienti anche il Petrarca – «nil penitus firmum, nil immortale per evum / mortales fecisse manus» (Epystole metrice, Ad Guillelmum Veronensem)e, nel secolo scorso, Ernst Jünger – «non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento» (Sulle scogliere di marmo). Siamo noi moderni che ce ne dimentichiamo continuamente, convinti delle “magnifiche sorti e progressive” della tecnica. Chi ci ha preceduto era perfettamente consapevole che tutte le costruzioni dell’uomo sono opere che sfidano la natura e gli dèi. Soprattutto i ponti, opus periculosum maxime, dal momento che non solo conficcano i loro piloni nella dea terra, ma osano perfino interferire col libero scorrere delle acque di fiumi e mari, per gli antichi, potenti dèi anch’essi. Se ne accorse il gran re Serse, quando incatenò con catene di ferro il sacro Ellesponto e proprio per ciò, secondo Eschilo, fu sconfitto dai Greci. Era per questo motivo che ogni sacrilegio edilizio richiedeva per compensazione un sacrificio cruento. Ed era per tale ragione che a custodire il Pons Sublicius, il più antico ponte di Roma, era preposto il pontifex maximus, cioè la più alta carica sacerdotale. E forse era per minimizzare il sacrilegio che in questo ponte non poteva essere usato alcun metallo, simbolo del faber, mestiere manifestamente legato ad attività infere. Anche gli uomini del Medioevo, pur credendo a un solo dio, e considerando idoli gli antichi dèi pagani, attribuivano la costruzione dei ponti a schiena d’asino della propria epoca al diavolo, scaricando evidentemente su di lui ogni responsabilità sacrilega.

C’è un racconto che fissa il discrimine tra mentalità antica e moderna: The Bridge-Builders (1893) di Rudyard Kipling. In esso si mostra la frattura tra una concezione tradizionale, ancora impregnata di senso panico – espressa, a suo modo, dall’indiano Peroo – e la sicurezza dei calcoli matematici dell’ingegner Findlayson. Nello scritto, alla fine, in apparenza, sembra sconfitta la superstizione negli antichi dèi, a fronte della vittoria del nuovo dio, the Technique. Ma ogni crollo di ponte contemporaneo, ogni viadotto che schiaccia le auto di un inconsapevole guidatore, ogni megastruttura che frana al suolo sta lì a dichiarare l’impotenza della creduta divinità di fronte alle forze della natura che operano silenziose, lente ma implacabili. Ne era cosciente un grande italiano che rispettava gli antichi, pur essendo a tutti gli effetti uno dei primi uomini dell’età moderna, Leon Battista Alberti, quando affermava che lo stillicidio di una piccola goccia d’acqua fa marcire qualunque trave (e in seguito il tetto e l’intera costruzione), se non s’interviene in tempo; così come l’incessante passaggio di una fila di formiche lascia un segno anche nella più dura selce.

Il crollo del viadotto sul Polcevera di Riccardo Morandi a Genova è dolorosissimo per le vittime inconsapevoli e incoscientemente fiduciose dell’eternità delle cose costruite dalla mano o dalle macchine dell’uomo; ma chi, attraversando un ponte, pensa che possa crollare?

Con le proporzioni che ci consente la morte di tante persone, questo evento è funesto anche per la perdita di un capolavoro architettonico dell’ingegneria italiana (o presunto tale, visto quanto accaduto?). Non è rovinato a terra un qualunque viadotto autostradale, costruito magari con più sabbia che cemento, ma l’opera più conosciuta di uno dei maggiori strutturisti del secolo scorso.

Si parla ora di allarmi inascoltati e, a distanza di due anni, suonano profetiche le parole di Antonio Brencich , professore di tecnica delle costruzioni all’Università di Genova – assai critico verso il presunto chef-d’œuvre – che aveva evidenziato, in un articolo on-line, «diversi aspetti problematici» del ponte, dall’aumento dei costi di costruzione rispetto al preventivo, al «piano viario non orizzontale», evidente per chi attraversava il ponte fin dagli anni Ottanta. Ora si aprirà un’inchiesta e si vedrà, probabilmente, quali sono state le responsabilità.

Gli antichi avrebbero additato un unico colpevole: l’hybris dell’uomo.

Riccardo Morandi mostra il modello del ponte al Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat dopo la sua inaugurazione

di Gianfranco Tondini

18 agosto 2018

Alberto,

Il tuo pensiero su questa storia tragica mi ha afflitto, come è giusto che sia. Con chiarezza indichi quanto lontano bisogna guardare per cercare le colpe, e indichi molto lontano, indichi l’hybris, l’arroganza dell’uomo e l’ottusità che la correla. E questo conosciutissimo vizio, che tra gli antichi e gli dèi veniva preso molto sul serio, è proprio il nostro peccato capitale, il peccato originale per cui siamo stati scacciati dal giardino di dio per finire in un mondo di sofferenze. E il fatto che su questa faccenda non siamo molto cambiati sin dalle origini, mi fa pensare che l’arroganza dell’atto di sfida contro la natura – che è madre, ma è anche una parte propria di se stessi – sia una caratteristica della specie. Una caratteristica non da poco, che secondo me sta alla base della nostra evoluzione e che ora ci sta portando persino verso l’ultra umano. Del resto, la Bibbia ci racconta che i primi uomini, anziché ubbidire a dio e partire per fondare colonie, pensarono bene di costruire una torre per cercare di raggiungerlo.

E allora se è così, se quest’arroganza è parte della nostra natura, ebbene che sia il ponte, che siano gli innesti biotecnologici, che sia la scoperta dell’America e i viaggi su Marte! Siamo fatti così.

Che c’entra dunque un ponte con l’arroganza umana? Non c’è niente di male a fare un ponte, anzi è un simbolo positivo che rappresenta il contatto fra le persone. Il problema del suo crollo, poi, è dovuto a un errore umano e non certo alla natura, la quale da parte sua ha rispettato lo speranzoso patto di inazione – il quale, solo, permette la sopravvivenza delle opere degli uomini, come ricordava Leopardi.

Ho saputo che il crollo del ponte Morandi è dovuto alla mancata manutenzione, e che sarebbe bastato averne più cura per evitarlo. Ogni articolo di giornale già spiega cosa si sarebbe dovuto fare, e ogni giornalista, e telespettatore, e tecnico, e politico del paese sa cosa si sarebbe dovuto fare, e come e perché, e non si tarderà a risalire la catena delle colpe. Quindi che c’entra l’arroganza dell’uomo? Mica si è trattato, che so, di un campeggio in un torrente o di una villa sul Vesuvio.

Invece si, è proprio così come dici, si tratta ancora di quell’arroganza. E penso che la meccanica di quell’arroganza, dai tempi di Leopardi si sia inclinata leggermente verso qualcosa di un po’ peggiore.

Cerco di spiegarmi.

Dicevo della mancata manutenzione per la quale, dal punto di vista giuridico, la responsabilità del crollo del ponte è umana. Tuttavia, se fosse stato per un terremoto, uno tsunami o la caduta di un monte, non sarebbe cambiato di molto. Dal punto di vista giuridico c’è sempre una responsabilità umana: materiali scadenti, cattive costruzioni, mancati controlli, mancate segnalazioni, inavvertenze, sottovalutazioni, inadempienze previsionali, calcoli sbagliati, eccetera. Il punto di vista giuridico ha prevalso, al punto che un sistema di previsione dei fenomeni catastrofici, con tanto di responsabili governativi, è stato istituito in Francia dopo l’estate del 2003, quando il caldo uccise più di mille anziani, dei quali si continuarono a scoprire i corpi per quasi un anno.

Insomma, potrebbe sembrare che gli uomini si attribuiscano la colpa anche per i fenomeni naturali, come ad esempio il caldo. Pensando a Leopardi, verrebbe da dire: che arroganza! Ci crediamo così capaci di controllare la natura (tra cui anche le leggi della fisica, come nel caso di un ponte), da ritenerci responsabili se un vulcano erutta?

A pensarci però, la cosa potrebbe avere un senso. Potrebbe forse significare che, anche senza saperlo o averlo ben chiaro, l’uomo di oggi si imputa la responsabilità della propria arroganza nei confronti della natura, come facevano gli antichi? Neanche per sogno, la risposta è no: lo fanno al massimo gli individui, ma non lo fa la specie. La specie avanza inesorabile e non può governare il proprio andamento, come dimostra anche solo il più inestinguibile dei tabù: la demografia. La specie opera ottusamente per la propria espansione, ignorando il rispetto della natura e persino la propria stessa sopravvivenza.

No, l’uomo non ha più alcuna reverenza nei confronti della natura. La colpa che l’uomo si imputa non è di rovinare il pianeta e la propria stessa specie, ma – è questo il mio concetto – si imputa la colpa di non mantenere lo sforzo costante e necessario per sostenere le strutture artificiali che costruisce, e che sfidano la natura. L’uomo si incolpa di non avere fatto il proprio dovere, il quale consiste nella manutenzione. È proprio a questa responsabilità che afferisce il punto di vista giuridico (e solo relativamente a quella della rovina del pianeta: le leggi ecologiche e le risibili ammende sono lo scarso frutto di un’estenuante sforzo politico e sociale di pochi contro molti).

La colpa dell’uomo, insomma, è di non avere mantenuto lo sforzo costante e necessario a tenere in piedi l’opera. La manutenzione. Del ponte, della nave, dell’aereo, del treno, della scala mobile, dell’ascensore, del palazzo, della diga, della centrale elettrica, del passaggio a livello, della cucina a gas, del motorino, eccetera eccetera. E cos’è la manutenzione, se non un servaggio alla tecnica – e solo molto più indirettamente un servizio all’uomo?

A governare un mezzo abnorme come una nave da crociera – meravigliosamente governabile al semplice patto di rispettare certe condotte di comportamento – noi vogliamo persone capaci di controllare la propria natura e di oscurarne una sezione per diventare parti e ingranaggi del funzionamento tecnico della macchina. Ma cosa succede se Schettino, invece di spersonalizzarsi, si dedica al piacere tanto raccomandato dai greci? Il disastro. Ed è in quel caso un disastro rassicurante, perché c’è come spiegazione un tizio così chiaramente colpevole, che di più non si potrebbe. Siamo rassicurati dall’idea che niente può andare storto, a patto che si mantenga lo sforzo.

La tecnica è la nostra mediatrice culturale con la natura: dobbiamo solo asservirci alla prima e ci toglieremo dal giogo della seconda. Questa, che ci convinca o no, è la nostra condizione attuale. Impensabile ai tempi di Leopardi.

La colpa che l’uomo si dà è la mancata dedizione allo sforzo costante che – come le formiche – la nostra specie compie per opporsi alla principale legge della natura: la caducità delle sue opere e della vita. Ogni cosa che riguardi l’uomo, o che da lui provenga, richiede costante cura, cioè uno sforzo costante per farla durare, che si tratti di ponti, libri o giardini. E con questo, rifiutiamo di accettare che le opere dell’uomo possano essere assoggettate alle stesse leggi della natura, che poco alla volta fa crollare ogni cosa. E allora ecco che squadre di operai, ingegneri, periti, sismologi, esperti di fisica, responsabili della protezione civile, giudici, sindaci, vigili del fuoco, burocrati, assessori, ministri e quanti altri, costituiscono il gruppo dello sforzo, cioè coloro che si rendono necessari per mantenere il ponte in uno stato durevole. E ora si chiedono a gran voce controlli per ciascun ponte.

E dunque, che si tratti proprio di questo? Che sia proprio questo sforzo ottuso, il pegno che dobbiamo pagare per la nostra arroganza? Per opporci alla Legge continuando infinitamente a costruire la torre? Incolpanti l’esistenza, chinati sotto il peso del nostro stesso progresso, indifferenti, indaffarati e impegnati per tutte le ore escluse dal sonno, a mantenere in piedi le nostre piccole e grandi torri di Babele. Il tempo dell’esistenza volutamente impegnato in queste responsabilità. L’esistenza scandita dalle fasi binarie dello sforzo di Sisifo.

Generazioni

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di Roberto Antolini

Appena entro nel negozio, Diego mi fa un cenno d’intesa «Sì sì – mi dice – il pacco da Milano mi è arrivato ieri. E dentro c’era anche il tuo disco dei Country Gazette». Già uscendo dal negozio strappo subito via la copertura in cellophane, e salito in macchina schiaffo il CD nel lettore. E avvio.
Teach your children parte con quattro grattate del violino (che sostiene per tutto il pezzo la linea melodica), e subito dopo arriva la base ritmica fatta da un banjo saltellante, dal basso e dalla chitarra. Di primo acchito farebbe quasi pensare ad un pezzo di liscio, ma i Country Gazette non erano proprio solo un gruppo da cow-boy. Questo pezzo è il migliore del disco, non è musica da ballo, anche se così è stata arrangiata da loro. E tutto sommato lo si sente. Anche così arrangiata sprigiona quel qualcosa di epico che mi aveva colpito anche allora, più di 40 anni fa, accoccolato nel buio davanti al bivacco della Madonnina, sul Becco di Filadonna. Con una radiolina appiccicata all’orecchio e sotto di me, nell’inizio di una notte quasi estiva, una distesa di boschi prima e poi, in fondo, le luci colorate di Trento, baluginanti in un crepuscolo non ancora esaurito. Una musica maestosa, e un testo che anche allora mi aveva trafitto come una illuminazione: «because the past is just a good bye».

Chissà perché ho aspettato tutti questi anni per regalarmi il disco. Veramente, da principio, della canzone sapevo solo quello che ne aveva detto quella radio libera che l’aveva trasmessa quella sera : che era dei Country Gazette. Poi però, anni dopo, ascoltando musica a casa di amici, avevo scoperto la sua vera carta d’identità. Il titolo innanzitutto, e poi che non era proprio dei Country Gazette. Loro l’hanno reincisa qualche anno dopo, ma il pezzo è di Grahm Nash, un musicista inglese, che aveva iniziato la carriera nell’ambiente del British pop degli anni ’60, con il gruppo degli Hollies, uno dei primi sorti ad imitazione dei Beatles. Ma che poi si era trasferito in America, in California, dove si era integrato nella comunità di musicisti della West Coast. E là aveva contribuito a formare, giusto in tempo per il festival di Woodstock del 1969 (e quindi per venire immortalati nel famoso film-documentario che ne è stato ricavato) quel gruppo di all stars che è passato alla storia con un nome fatto dalla somma dei cognomi dei quattro componenti: Crosby, Stills, Nash & Young.
La “fucina” dei CSN&Y è fra le più creative non solo del periodo, ma di tutta la storia del rock. Si tratta di quattro personalità vivide, ciascuna caratterizzata in un proprio modo, derivato da esperienze musicali precedenti importanti e tutte ricche di un proprio humus. Oltre al British pop di Nash, si trovano a convivere, e a fondersi in un nuovo sound, il limpido country-blues di Stephen Stills ex componente dei Buffalo Springfield, il folk-rock di David Crosby uno dei fondatori dei Byrds (band molto amata da Bob Dylan, dato che gli aveva regalato il primo vero grande successo internazionale con la loro fantastica versione elettrica di Mr Tambourine Man) e l’impronta acida del canadese Neil Young, anche lui ex Buffalo. Il tutto amalgamato in un equilibrio sempre instabile, ma che ha distillato gemme immortali.

CSN&Y includono Teach your children nel loro primo disco d’assieme Déjà Vu del 1970. Dimostrando che la ricettività del gruppo non è solo musicale. Nel 1970 la gioventù americana è in rivolta contro la scelta di Nixon di approfondire la guerra in Viet Nam aumentando continuamente il numero di soldati americani mandati laggiù (vi ricorda niente dell’oggi?) e bombardando a tappeto il piccolo Viet Nam del nord, su cui alla fine verranno rovesciate più bombe di quelle sganciate in tutta la seconda guerra mondiale, inutilmente perché comunque gli americani nel 1975 dovranno andarsene. Teach your children è una canzone sulla guerra, ma non solo su quella del Viet Nam. Parla del gap-generazionale fra padri e figli, giustapponendo i ricordi degli orrori della seconda guerra mondiale che ancora tengono irrigiditi i padri nella guerra fredda, con la rivolta contro la guerra in Viet Nam dei figli. Canta la comprensione tramite il rispetto dei reciproci traumi, e di vissuti divaricati e resi incommensurabili dalla storia, che solo l’affetto può avvicinare. Già Bob Dylan aveva cantato ai genitori – in The times they are a-changin’  – «non respingete quello che non potete capire». Nash dice ai padri: «Voi che avete fatto molta strada/Dovete trovare una regola secondo la quale vivere e diventare voi stessi/Perché il passato è solo un addio/Insegnate bene ai vostri figli/L’inferno dei padri lentamente scomparirà». Ma dice anche ai figli «E voi che siete nel fiore degli anni/Non potete sapere le paure con le quali sono cresciuti i vostri genitori/Perciò vi prego aiutateli con la vostra giovinezza/Loro cercano la verità prima di poter morire».
La versione CSN&Y di Teach your children è molto bella. Ha una sua forza essenziale, basata sul semplice suono di una chitarra ritmica, punteggiata da luminosi ricami della steel guitar di una guest-star come Jerry Garcia, il miglior chitarrista della West Coast. Ma è resa folgorante soprattutto da un impasto vocale straordinario, sommessamente polifonico, che sarà il marchio di fabbrica dei CSN&Y. Insomma, quella dei CSN&Y è indubbiamente la migliore, ma per me la versione dei Country Gazette è una madeleine, mi fa fare un salto indietro di 40 anni.

In quel maggio avanzato di metà anni ‘70 stavo facendo il servizio militare negli alpini, in un paesino sperduto del bellunese, e mi avevano dato la prima licenza, di un week-end. Ma io, appena arrivato a casa – con sommo sconcerto di mia madre – invece di crogiolarmi negli affetti familiari, sbatto quattro cose, fra cui una radiolina, in uno zaino e parto, a sera, per andare a dormire nel bivacco della Madonnina, sul Becco di Filadonna. Arrivo giusto in tempo per prendere l’ultima corsa della cabinovia che da Folgaria portava al rifugio Paradiso, un po’ sotto la cima del Monte Cornetto (qualche giorno fa, per nostalgia, sono tornato a cercare la cabinovia, ma non c’e’ più, hanno tirato via anche i cavi).
Da lì poi, già con le prime ombre della sera, parto all’arrembaggio. Salgo un erto pratone sopra il rifugio. Mi perdo ad un certo punto tra i mughi, e – tra i mughi, nella sera calante – vengo preso da sconforto. Ma ritrovo in tempo la strada e sono subito in cima al Cornetto. È una zona che porta impressi i segni della prima guerra mondiale 1914-1918 (un secolo ci separa da quel disastro, da cui è iniziato il declino dell’Europa ed il passaggio dell’egemonia mondiale oltre l’Atlantico). Dopo il Cornetto, lungo il sentiero di origine militare che con lievi saliscendi batte la cresta verso il Becco di Filadonna, se ne notano continuamente tracce: resti di fortificazioni, ormai sgretolate dalle molte stagioni, ma non ancora riassorbite completamente dalla montagna. Di sotto, ad est, ai piedi di uno strapiombo roccioso, si stende l’altipiano di Lavarone. Lì correva il fonte della Grande Guerra, e nel 1916 è impazzata la Strafexpedizion del comandante austroungarico Conrad von Hötzendorf, in cui è scomparso anche il fratello di mio nonno (anche il nonno è stato poi portato via dalla guerra, falciato in Galizia da una malattia da trincea, ma per fortuna però, prima, aveva fatto in tempo a concepire mia madre). Dai forti di entrambe le parti, collocati ai margini opposti dell’altipiano, i cannoni rovesciavano valanghe di fuoco. Le truppe bloccate nei forti venivano martellate senza un attimo di respiro per giorni e settimane. Morivano, impazzivano, i corpi restavano atrocemente mutilati nell’indifferenza.
Adesso nel sottostante altipiano tutto tace, la vita scorre immemore, i resti dei forti sono diventati attrattive turistiche, si spandono le ombre di una quieta sera, because the past is just a good bye.
Grazie al mio allenamento di marce alpine, scivolo anch’io quietamente lungo la cresta, in leggerezza. Eccitato da tanta libertà dopo mesi di caserma, con un leggero venticello nei capelli, ammaliato da tanta serotina bellezza. Sono rapidamente nella conca sotto il Becco, e decido di lasciar perdere la cima, che già conosco. Punto diritto al Bivacco. Attraverso una bocchetta a fianco del Becco e prendo l’ultimo tratto di sentiero ora in leggera discesa, che percorre una cengia sottoroccia. Compare subito, prima in lontananza, poi rapidamente guadagnata, l’affascinante guglia di pietra della Madonnina, sotto cui sta, a 2030 metri sull’altezza del mare, il bivacco.
Ancorato ad uno spalto roccioso incombente sopra la sella di Vigolo Vattaro. Ad est il lago di Caldonazzo, ad ovest Trento. Nient’altro che una baracca metallica con letti a castello, tutto quello che serviva per una notte di libertà, fra camosci lunari e gli spiriti delle cime.
Non ho bisogno di nient’altro.
Senza smettere di contemplare tiro fuori dallo zaino la mia radiolina, me la attacco all’orecchio, accendo. Cominciano a fluire le note di Teach your children.
E le parole :

Voi che siete pieni di esperienza
Dovete avere una regola secondo la quale vivere
E diventare voi stessi
Perché il passato è solo un addio.

Insegnate bene ai vostri figli,
L’inferno dei padri lentamente scomparirà,
E nutriteli con i vostri sogni
Quello che sceglieranno, voi lo saprete.

E voi, che siete nel fiore degli anni,
Non potete sapere le paure con le quali sono cresciuti i vostri genitori,
Perciò vi prego aiutateli con la vostra giovinezza,
Loro cercano la verità prima di poter morire.

Insegnate bene ai vostri genitori,
L’inferno dei figli lentamente scomparirà,
E nutriteli con i vostri sogni
Quello che sceglieranno, voi lo saprete.

 

Ndr: questo pezzo, intitolato “Generazioni”  apre – quasi un prologo che dà la colorazione emotiva – la bella raccolta di passeggiate/narrazioni storiche di Roberto Antolini “Verso il Brennero”, pubblicata da Publistampa (Pergine Valsugana, 2018), con introduzione di Giulio Mozzi. In passato Nazione Indiana ha accolto uno dei testi inseriti in questo volume (nella sezione “Altipiani”). Nell’immagine più in basso: il forte Cherle di Lavarone, del quale si parla nello scritto.

Questa la presentazione del libro sulla quarta di copertina:

Questo libro compie un vagabondaggio. Dai sentieri della Prima guerra mondiale che ancora tracciano le creste del Becco di Filadonna, ai palazzi che sono stati sede di case commerciali nel distretto paleo-industriale della seta della Rovereto sei-settecentesca, in una passeggiata che attraversa i luoghi forgiati dall’età della seta roveretana. Dagli altipiani coperti di selve affacciati sulla val d’Adige, colonizzati da popolazioni germaniche nel basso medioevo, alle architetture razionaliste della Bolzano “italianizzata” dal fascismo dopo la Grande Guerra. Dalla valle dell’Isarco, grande scenario della rivolta contadina del 1525 guidata dal Bauernführer Gaismair, alla val Pusteria che nella prima metà Cinquecento pullulava di anabattisti, e dove ancora tornano – discendenti degli esuli – gli hutteriti canadesi a metter lapidi in onore del loro fondatore, al maso natale di Moos. Luoghi nelle terre fra Verona e il Brennero, da sempre corridoio di transito per merci, eserciti, idee, in viaggio fra l’Europa centrale e il mondo mediterraneo. Resta in bocca il sapore della polvere del tempo, «perché il passato – come cantavano negli anni ’70 Crosby, Stills, Nash & Young – diventa subito un addio», nel succedersi delle generazioni che formano la Storia.

Messa in atto de L’Épuisé di Gioacchino Lonobile

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Messa in atto de L’Épuisé

di Gioacchino Lonobile

La voce neutra, priva di qualunque intonazione e sentimento sembrava quasi essere slegata da quella ragazza, anche se di certo era la sua. Le sue labbra si muovevano, solo quelle. Erano l’unico indizio che quella voce fosse la sua, e non provenisse, invece, da qualche altra stanza, o da altri appartamenti che si affacciavano sullo stesso cavedio, che faceva da cassa di risonanza di segreti e litigi, rendendo pubblico il privato di ogni famiglia. Solo il movimento delle labbra.

L’uomo sdraiato sul letto aveva sentito ogni rumore come se arrivasse da un luogo remoto: le chiavi nella serratura, il fruscio dei sacchetti, il tintinnio delle bottiglie, l’aprirsi e il richiudersi dello sportello del frigo, i passi che percorrevano il corridoio fino alla stanza, la mano sulla maniglia, il cigolio, il silenzio, la scissione, forse dovuta all’aria rarefatta, tra le parole e il corpo, di chi era tornata da lavoro e aveva sistemato la spesa in cucina.

  • Sei stanco? – chiese la ragazza.
  • Il vecchio sta peggio di me – disse.
  • Quale vecchio?
  • L’ultimo – rispose indicando la scrivania vicino la finestra – Vedi sta là seduto, fermo, con la testa tra le mani, certe volte porta i palmi davanti al viso e li guarda, ma solo di rado. L’osservo da stamattina.

La ragazza strinse gli occhi per cercare di mettere meglio a fuoco, la stanza era immersa nella penombra, solo due lame di luce arrivavano dalle imposte fino al letto, mostrando nel loro percorso i granelli di polvere che avrebbero impiegato un’eternità a depositarsi.

  • Sì, lui sta peggio – ripeté l’uomo sdraiato. La sua voce non era staccata dal corpo, anzi non riusciva a liberarsene, usciva dalle viscere solo dopo un travaglio che pareva essere senza pari – È esausto. Ha terminato. Nulla gli è più possibile.
  • Che vuol dire? – chiese lei.
  • Io avrei potuto fare la spesa, la doccia, avrei potuto cercare un lavoro, o anche solo affacciarmi alla finestra. Non l’ho fatto, ma avrei potuto. Il vecchio no, ha esaurito anche questa potenza. È esausto – tornò a dire.

La ragazza continuava a rimanere davanti la porta, né fuori, né dentro la stanza. Lo guardò per un minuto, un minuto intero, di certo in occasioni come quella un minuto non durava mai sessanta secondi. Sospirò e si chiese se c’era un limite al non far nulla. La gonna le scendeva lungo le gambe bianche fino al ginocchio, che s’intravedeva da un piccolo spacco laterale.

  • Lui è l’ultimo. Vedi, sta seduto. Non si può morire da sdraiati.

La ragazza strinse di nuovo gli occhi, questa volta più che per vedere meglio, per meglio intendere le parole che stava per sentire.

  • La messa in atto prevede uno scopo, alzarsi per cucinare, per andare in cantiere, preparare il caffè. La messa in atto ha un fine, pone di fronte a delle esclusioni, a delle scelte sempre diverse e queste alla lunga stancano. Si è stanchi di qualcosa… – fece una breve pausa a cercare la forza per continuare – Invece, si è esauriti di nulla. Solo l’esausto ha esaurito il possibile, perché non ha più bisogno di niente – disse muovendo appena la testa in direzione della scrivania.

La voce di un bambino entrò dalla finestra che dava sul cavedio.

  • Ho finito! Ho finito!
  • Arrivo, arrivo – gli fece eco la voce di una donna che doveva essere la madre.

Fuori non c’era un filo di vento, l’afa di quei primi giorni d’estate rendeva irrespirabile l’aria e sarebbe stato sempre peggio, al culmine il cielo si sarebbe colorato d’ocra per un pomeriggio intero e allora sì sarebbe stato tremendo, ogni volta sembrava dovesse finire il mondo, poi la pioggia, carica di sabbia del deserto, scendeva copiosa per qualche ora, sporcando auto in sosta e balconi, ma almeno regalava una notte di refrigerio.

  • Stare sdraiati non è la fine, non si è ultimi, ma penultimi. Io sono il penultimo. Sta sdraiato chi è stanco, e così facendo può recuperare anche le forze per muoversi, rigirarsi da un lato o dall’altro. Quando ci si siede a quel modo è la fine. Lo vedi il vecchio? Non si muove da lì, ha la testa tra le mani, i gomiti appoggiati alla scrivania, fermo, esausto, l’ultimo.

La ragazza aprì un bottone della camicetta a pois neri e si passò una mano sulla fronte sudata, spostando da un lato la frangetta. Sentiva i vestiti pesargli addosso, forse presto sarebbe arrivata la solita fitta al fianco che da settimane la tormentava, quella notte aveva dormito poco e male, i ragazzi a scuola erano stati tremendi, gli esami di fine anno si avvicinavano.

  • Il passaggio sarà rapido, forse istantaneo, chi può saperlo, di certo sarà inesorabile, e da stanco diventerò esausto anch’io, da sdraiato starò seduto. Guardalo il vecchio, sta sognando. Sogna la sua stessa insonnia, sogna sé stesso seduto con la testa tra le mani. Non ha nessun’altra possibilità, nessun altro sogno gli è consentito.
  • Hai finito? – disse la ragazza spazientita.
  • Non ancora, ma basterà poco, anche solo un attimo, e da penultimo diventerò ultimo come lui.
  • Lui chi? – gridò. L’aria vibrò e solo allora la sua voce sembrò appartenerle, solo allora le sue parole uscirono dal suo corpo – Non c’è nessuno, non c’è nessun vecchio. Lo capisci che sono solo scuse le tue. Non c’è nessuno a parte me e te in questa stanza. Anzi non c’è nessuno a parte te! – la ragazza si girò di scatto e uscì sbattendo la porta.

L’uomo sdraiato alzò gli occhi verso la scrivania, la sedia in effetti era vuota, l’ultimo posto si era liberato.

Cartiglie

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di Andrea Inglese

 

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Se vi dico basta, basta, questo dovrebbe essere sufficiente, ve lo dico, anzi ve l’ho detto, stiamo affondando, non sono allegorie, guardatevi i piedi, se ancora li vedete, per quel poco, o le ginocchia, se è già tardi, e che non sia ancora troppo tardi lo dice il fatto che parlo, io riesco a parlare, e voi mi ascoltate, riuscite ad ascoltarmi, si affonda, mica solo noi, non scherziamo, affondiamo e scherziamo?

Nelle isole estreme

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di Gianni Biondillo

Amy Liptrot, Nelle isole estreme, Guanda editore, 2017, 258 pagine, traduzione di Stefania De Franco

Vivere nell’arcipelago delle Orcadi significa trascorrere l’infanzia e l’adolescenza sferzati da un vento impetuoso e incessante. Significa accettare la natura soverchiante, gli orizzonti infiniti del Mare del Nord, sentirsi al contempo liberi da ogni vincolo e prigionieri dei pregiudizi e dei confini insulari. Una esistenza duale, bipolare, esaltante e deprimente.

Per Amy Liptrot ha significato, raggiunta la maggiore età, fuggire da questo inferno paradisiaco e cercare il proprio destino in un paradiso infernale. Londra. La città globale, la metropoli artificiale. Dove i rapporti umani si dimostrano altrettanto artificiali, dove cadere nel baratro dei propri turbamenti significa sprofondare nell’alcol, nelle droghe, negli eccessi senza fine.

Nelle isole estreme non è fiction né autofiction. La voce dell’Io narrante è davvero quella dell’autrice. Questo libro è il resoconto a ciglio asciutto di come una ragazza talentuosa, sensibile e intelligente, ha creduto di poter trovare la libertà nella dipendenza, nell’umiliazione, nella perdita della dignità, raccontandoci senza sconti, senza autocompiacimento, colma di vergogna, di nottate nei letti di estranei o riversa nel proprio vomito ai bordi delle strade.

Ma è anche il diario di una rinascita. Di chi per ritrovare se stessa è tornata alle proprie origini. Di chi, per placare il vento furente che la devastava dentro, ha cercato la riabilitazione nella potenza delle tormente invernali delle Orcadi. E fra nuotate nelle acque gelide, appostamenti alla ricerca di uccelli rari di passo o infinite camminate di perlustrazione, isola dopo isola, cercare gli appigli di una nuova dignità, consapevole che, se non si potrà mai uscire dalla dipendenza, la lotta per governarla è un più alto obbiettivo. Questo resoconto di ventiquattro mesi di astinenza sono lì a testimoniarlo.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione n° 9 del 28 febbraio 2017)

Un nuovo ruolo per il soggetto agli inizi del Novecento, a proposito di arte e letteratura #4

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di Antonio Sparzani

Bathers at Moritzburg 1909/26 Ernst Ludwig Kirchner 1880-1938 Purchased 1980 http://www.tate.org.uk/art/work/T03067

Vale la pena, per proseguire questa panoramica sul ‘nuovo ruolo del soggetto’ nel passaggio tra Ottocento e Novecento andando al di là della fisica, di accennare ad alcuni temi rilevanti per altre discipline che potrebbero meritare approfondimenti per interrogarsi, senza forzature, su quale modalità specifica assume, all’interno di ogni diverso settore, questa spinta all’espansione del soggetto.

Per quel che riguarda la storia dei fenomeni artistici, mentre rimandiamo al lavoro presente in questo stesso volume di Giacinto Di Pietrantonio, mi limito a far notare che il 1905 è forse anche per la storia dell’arte europea, un anno simbolico: la prima istanza organizzata di quel movimento in seguito assai più vasto e variegato che andò sotto il nome di espressionismo, fu la fondazione, nel giugno del 1905 a Dresda del gruppo “die Brücke” – il ponte – da parte di Ernst Ludwig Kirchner, Fritz Bleyl, Erich Heckel, Karl Schmidt (da allora in poi Schmidt-Rottluff), che aveva esplicitamente il fine di trovare nuove forme d’arte in opposizione alla tradizione accademica ricevuta, cercando anche, con il nome “il ponte” la possibilità di contatti positivi con altre forme di espressione artistica. Scrivono i fondatori del gruppo a Emil Nolde, invitandolo a unirsi a loro: ”Uno degli scopi della Brücke è di attirare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento, e questo lo dice il nome stesso: ponte”. La volontà ormai emergente nei fermenti artistici nella Germania del primo decennio del secolo è quella di ribellarsi alla tradizione accademica classica, di ribellarsi anche alle conquiste dell’Impressionismo, che sembravano ormai inadeguate, e di acquistare una capacità nuova non solo di vedere la realtà, ma di modificarla intervenendo direttamente. Scrive l’allora celebre critico d’arte Hermann Bahr nel 1916 – con una prosa essa stessa espressionista – nel libro che si intitola, appunto, Espressionismo:

‹‹Un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama soccorso, invoca lo spirito: è l’Espressionismo […] L’occhio dell’Impressionista sente soltanto, non parla; accoglie la domanda, non risponde. Invece degli occhi gli Impressionisti hanno due paia di orecchie, ma non hanno la bocca… Ed ecco l’espressionista riaprire all’uomo la bocca. Fin troppo ha ascoltato tacendo, l’uomo: ora vuole che lo spirito risponda›› (Hermann Bahr, Expressionismus, München 1916, trad. it. di Bruno Maffi, Espressionismo, Bompiani, Milano 1945, pp. 84-85)

indicando così in poche righe le caratteristiche del movimento: una volontà esasperata di comunicazione, di espressione, improntata alla forza del tratto e del colore e ricercata attraverso la violenta carica emotiva dello stile e dei soggetti. Su un altro pianeta, si direbbe, rispetto agli sviluppi della fisica, se non fosse che anche qui il bisogno primario era quello di esplodere i bisogni e le conquiste del soggetto. Esplosioni che certo l’arte non controllava in alcun modo con gli strumenti razionali che la fisica aveva a disposizione e che, più o meno accuratamente, utilizzava.
Per quanto riguarda la storia letteraria d’Europa al volger del secolo, mi limiterò a proporre la seguente interessante citazione di Broch, che all’uscita dell’Ulisse (1922) dedicò grande attenzione, tratta dal saggio James Joyce e il presente, discorso per il suo 50° compleanno, ampliato per la scrittura e pubblicato per la prima volta nel 1936:

“Non si reca alcuna offesa alla teoria della relatività tracciando un parallelo tra essa e la poesia. Il romanzo classico si limitava alla osservazione delle condizioni di vita reali e fisiche, si limitava cioè a descrivere queste condizioni servendosi del mezzo linguistico [ … ] Ciò che Joyce fa è essenzialmente più complesso. In lui si agita continuamente la convinzione che non è possibile porre semplicemente l’oggetto sul piedistallo della rappresentazione per copiarlo e descriverlo, ma che, al contrario, il ‹soggetto della rappresentazione›, vale a dire il narratore come ‹idea del narratore› , e in egual misura il linguaggio con il quale questi descrive l’‹oggetto della rappresentazione›, sono entrambi media della rappresentazione. Ciò che egli cerca di creare è l’unità di oggetto rappresentato e mezzo di rappresentazione inteso in senso lato, e questa unità si presenta spesso come se l’oggetto venisse forzato, violentato dalla lingua e la lingua a sua volta dall’oggetto fino alla loro completa dissoluzione.”
(Hermann Broch, James Joyce und die Gegenwart – Rede zu Joyces 50. Geburtstag, Herbert Reichner Verlag, Wien 1936, ora in Geist und Zeitgeist, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Mein 1997, trad. it. di Saverio Vertone in Poesia e conoscenza, Lerici, Milano 1965, p. 248).

Piccolo esempio di come Broch ‹‹scrittore e teorico … come Proust e Musil, [era] ossessionato dal pensiero di utilizzare la poesia ai fini della conoscenza e di innalzare l’arte sul piano della scienza e la filosofia nella dimensione dell’arte››, (Walter Jens).

FRANZ KRAUSPENHAAR Sorpasso rituale

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(Nazione Indiana ha compiuto quindici anni a marzo, da allora molte persone e molte cose sono cambiate; testimonianza molto importante, e talvolta emozionante, di questa lunga storia è il suo archivio, del quale abbiamo deciso di ripubblicare alcuni post, che riteniamo significativi. Oggi proseguiamo con un brano di Franz Krauspenhaar, in passato redattore di nazione indiana. La redazione)
Questo articolo è stato pubblicato su Nazione Indiana da Franz Krauspenhaar il 16 agosto 2008.

di Franz Krauspenhaar

Il burrone della scogliera. Dove Roberto Mariani, il giovane studente di Giurisprudenza interpretato da Jean-Louis Trintignant, trova la morte nel finale de Il sorpasso. Rivendendolo per l’ennesima volta, mi chiederò perché. Perché a ogni ferragosto, da quasi dieci anni, vedo quel film, dovunque mi trovi. L’idea di questo rito in bianco e nero adesso mi sconvolge.

Le tenebre Conerotiche

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Valerio Adami - Dormire, dormire
Valerio Adami – Dormire, dormire

di Ezio Sinigaglia

Nota introduttiva di Giuseppe Girimonti Greco

Queste pagine sono tratte dal secondo capitolo del romanzo inedito Fifí, Sciofí e l’Amor, del quale sono già stati pubblicati due estratti su riviste cartacee: Rinaldo all’opera: un pastiche tassiano (“Fronesis”, 19, genn.-giu. 2014) e Sciadè Sulapí (“Nuovi Argomenti”, 81, genn.-mar. 2018).
Lo strano rapporto d’amore senza amore fra l’efebico, capriccioso Fifí e Aram (il Narratore, chiamato però Warum dal suo casto amante) è al centro della prima metà del romanzo, mentre la seconda metà si sviluppa intorno al ricordo di Sciofí, un enfant du peuple versiliese, tenero e vigoroso insieme, amato da Aram durante il servizio militare. Ma per tutto il corso del romanzo altri amori (donne e ragazzi), altri personaggi e altre storie vengono alla ribalta, richiamati in vita dalla memoria del Narratore.
Per la comprensione di questo breve testo è indispensabile sapere che le “cozze” sono, fin dalla prima pagina del romanzo, gli occhi di Fifí (“Gli occhi sempre più neri, e il bianco intorno lucente, denso, come un liquore. L’insieme è un frutto di mare d’una specie rara. Come una cozza alla rovescia: la carne nera e la conchiglia lattea”), e le “castagne”, più banalmente, quelli del Narratore.
L’episodio della vacanza al Conero, da cui è tratto questo brano, è un’occasione creata da un lavoro pubblicitario commissionato a Fifí, che lo realizza facendosi aiutare da Aram: un folder destinato alla promozione turistica del comune di Numana. Si tratta di dodici fotografie accompagnate da altrettanti headline fantasiosi: “Sempre caliente per chi la sabbia amare”, “Incontrare uno scoglio lungo il cammino fa benissimo alla vista”, “I baccanali perpetui dei vigneti”, e altri che rimangono ignoti. Il dodicesimo, mai citato integralmente, fa allusione alle “notti Conerotiche”.
Due donne dai soprannomi woolfiani hanno avuto grande importanza nella vita di Aram. La Ramsay (così chiamata perché inizialmente Aram la considerava “il suo faro”) è stata la sua docente di letteratura italiana (è una grande studiosa del Tasso), poi la sua amante e infine sua moglie per oltre due anni. La Dalloway, laureata in matematica e appassionata di astrologia, è stata la prima dopo la Ramsay, ma il Narratore preferisce dire che merita il suo soprannome perché è “fine e disperata”. [ggg]

Le nostre notti, al Conero, erano di una tenebra assoluta. Qualcosa che è raro gustare, al giorno d’oggi. Avevamo inforcato in pieno la settimana meno lunatica del mese: tre giorni di qui e tre di là, col novilunio in mezzo. La luna, quando c’era, stava in cielo di giorno, al colmo della sua inutilità. Se la si scovava di notte, era bassissima sull’orizzonte, spessa come una scorza di limone o al più come una fetta di melone dopo che la polpa te la sei succhiata. Sembrava in tutto e per tutto, per colore, forma, incurvatura e insignificanza, una bomboniera della prima comunione: un piattino arcuato capace di contenere i cinque confetti delle misteriose nozze col divino e poi nient’altro, a meno di voler incorrere nelle sanzioni post mortem che si comminano ai sacrileghi. Era sacra, certo, com’è nella natura di ogni corpo celeste: ma non ispirava alcun desiderio di venerarla, perché era troppo poca, e fatta molto più di ombra che di luce proprio come i corpi non celesti. A noi, come elemento mitigatore della tenebra in cui vivevamo, non serviva affatto. Il campeggio era stato scelto da Fifí per la sua posizione panoramica e per la parca disseminazione di elementi in muratura in mezzo alla fitta macchia e ai grandi ulivi. Era anche oltremodo parco di luci artificiali: un lampione qui e uno là, ben distanziati, fiochi e discreti, un’illuminazione appena sufficiente a evitare di schiacciare una ranocchia sotto i passi, ma certo non a distinguere il colore degli occhi della ranocchia quando, ferma davanti alla punta delle scarpe, ti gracchiava in faccia tutta la sua riconoscenza. Per di più noi ci eravamo fatti il nido proprio in cima in cima allo scoglio che faceva benissimo alla vista, forse nella speranza che ci facesse ancora meglio: la tenda si apriva verso il mare e, al momento di stabilire il punto dove conficcare il primo picchetto nel sottile strato di terriccio sabbioso e vagamente erboso sotto il quale stava la roccia impenetrabile, avevo suggerito a Fifí di retrocedere di almeno dieci passi dal ciglio dell’abisso perché non corressimo il rischio di precipitarvi nell’offuscamento del risveglio. […]

Sotto lo scoglio cui, orgogliosi dei costumi spartani delle nostre notti, avevamo dato il nome di Taigeto, c’era la sempre caliente per chi la sabbia amare, che ha la caratteristica, ben nota ai naviganti, di scintillare candida nei pleniluni, svelando agli occhi assetati e ai cuori inteneriti dei marinai il disegno divino della costa anche dalla distanza di molte e molte miglia, quasi splendesse di luce propria e fosse mossa dall’intento consapevole e femmineo di gonfiare di desiderio i loro grembi per persuaderli a ritornare a casa. Ma, per chi la sabbia amare come per chi non ne sia capace, non brilla di luce propria, una spiaggia: ha solo un talento straordinario di richiamare su di sé tutte le luci altrui per far soffrire i naviganti: di modo che, in quelle notti noviluniche e sapientemente Conerotiche per le coppie di colibrí strette nel nido, la spiaggia sotto il Taigeto era nera a un punto tale che, guardando nell’abisso, riusciva impossibile distinguere l’aria dalla terra. A volte, mentre eravamo là stretti nel buio nel nostro giaciglio di vibranti emozioni e di stupidità incommensurabili, industriosi nel separare senza tregua, sotto il ferreo taglio di una lama manichea, il sacro del voler bene dal profano dell’amare, ci prendeva, con una rarità statistica che sarebbe interessante sottoporre a indagini medico-scientifiche, il desiderio di fumare. […]

Si sganciavano tutti i bottoni, uno per uno, fino all’ultimo, indurito più di ogni altro da qualche sua contrarietà insondabile. Alla fine si sollevava tutto il telo, infilzandolo senza nessuna difficoltà al paletto anteriore di sostegno attraverso un foro apposito, orlato di un anello di metallo: perché a quella tenda nata per viaggiare faceva forse difetto qualche centimetro quadrato di superficie o cubo di volume ma nemmeno un grammo di umana intelligenza.
Allora era come alzare il sipario su uno spettacolo che, anche dopo centinaia di repliche sempre uguali o con minime e impercettibili varianti, lascia ogni volta stupefatti e ammutoliti. E noi, nati e cresciuti in una città dove i cieli notturni sono offuscati dal genio di Edison e tagliati in strisce sottili come nastri per capelli tra i canyon abissali dei palazzi, di quelle repliche ne avevamo viste molto poche. L’ultima volta che avevo contemplato un cielo paragonabile a quello per fittezza della trama e per lucentezza palpitante delle punte d’acciaio azzurrato delle stelle era stato ai tempi del campeggio militare nelle Prealpi Carniche. Ma là abitavo in una tenda larga almeno due volte quella di Fifí e, soprattutto, ci dormivo solo, cosicché le emozioni, quando scostavo il telo blu per invitare una delle costellazioni a me più familiari ad entrarmi in casa per farmi compagnia mentre fumavo, erano di qualità diversa. Forse più forti ancora, perché ero più giovane, più assetato, più felice, più eccitabile e ardente nella mia aspirazione all’assoluto, e perché la solitudine, dinanzi alla dimostrazione superba del mondo in cui è caduta, si espone con più abbandono all’estasi e al terrore. Eppure sentivo dentro di me, in quelle epifanie notturne sulla vetta del Taigeto, che non poteva esserci mai stata né esserci mai più su questa Terra un’emozione cosí stregonesca e prodigiosa come quella che vivevo sotto le stelle con Fifí e che Fifí viveva con me sotto le stelle. Sedevamo l’uno davanti all’altro, il primo con le gambe distese fino a posare i talloni appena oltre la soglia e imprigionato tra le ginocchia piegate del secondo, la schiena contro il petto. Uno sfruttamento razionale ed efficace dello spazio, che ci faceva apparire d’incanto il nostro nido fin troppo grande per due uccellini come noi […].

Quando ero io a stare davanti, Fifí mi posava la punta del mento sull’occipitale e guardavamo il cielo lungo due linee parallele e sovrapposte, una di cozze e una di castagne, come se avessimo inventato lí per lí un nuovo strumento ottico, il tetrocolo della simbiosi Conerotica. Quando le posizioni erano ribaltate, appoggiavo la linea arcuata della gola sulla sua clavicola e sentivo il suo trapezio forte e tenero guizzarmi tra il pomo d’Adamo e il velo pendulo come se, in uno slancio astronomico d’amore, Fifí me lo avesse dato da mangiare. Guardavamo, nient’altro: a volte ci dimenticavamo perfino di fumare. Restavamo là cosí, assisi nel creato, per una mezzora buona, con gli occhi spalancati e con le bocche chiuse, abbracciati, avvolti l’uno dentro l’altro come due bambini che si facessero coraggio di fronte alla rivelazione spaventosa della schiacciante immensità del fuori e della pulviscolare nullità del dentro. Ma non era, in verità, come condividere un’emozione, per quanto forte, con un compagno, per quanto amato. L’aspetto stregonesco del fenomeno stava nella sua capacità di essere osservato, o nella nostra capacità di divorarlo e assimilarlo, in perfetta solitudine pur essendo in due. Non sarebbe mai potuto accadere con nessun altro, questo mi fu chiaro fin dalla prima notte in cui la stregoneria ebbe luogo. Nessun essere umano che avessi mai amato, nemmeno la Dalloway, cosí sobria ed elegante e taciturna, nemmeno la Ramsay, perfino, cosí imbevuta di buon gusto e di cultura letteraria, cosí consapevole della superiorità dell’ineffabile, mi avrebbe permesso di scagliare la mia aspirazione all’assoluto su e giù per i sentieri della Via Lattea senza dire una parola. Parole scelte ed appropriate, come Ecco là Giove! da parte della Dalloway, o Lagrime dal notturno manto! da parte della Ramsay. E l’assoluto si sarebbe all’istante relativizzato: come può sopravvivere, la sete di assoluto, alla distinzione tra pianeti e stelle? come può rimanere ardente, se si inzuppa delle melodiose lacrime del divin Torquato?
Fifí restava muto e sembrava respirare la notte con i miei polmoni. O io coi suoi: la cosa era del tutto indifferente. La nostra era una comunione perfetta entro la quale il problema, pur cosí astratto e metafisico, del come e dove la lama manichea del voler bene dovesse separare i corpi dall’amare non riusciva a intrufolare neppure l’acume della punta. Che importava? Io pensavo: Lo amerò per sempre a modo suo, mi va benissimo. E pensavo di pensarlo con il cervello e il cuore di Fifí.

Se il futuro del lavoro assomiglierà alla gig economy, siamo spacciati

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di Davide Orecchio

Stiamo diventando “tutti più poveri”. È questo il sottotitolo di Lavoretti, l’ultimo libro (pubblicato da Einaudi a inizio 2018) di Riccardo Staglianò, giornalista del Venerdì di Repubblica, esperto di nuove tecnologie e, da diversi anni, molto attento alla loro relazione col mondo del lavoro. La sedicente sharing economy (economia della condivisione), foraggiata da piattaforme digitali e social media, elevata a mito e propaganda di vita negli anni dieci di questo secolo, altro non sarebbe che un sistema di redistribuzione di mansioni diminuite – “lavoretti” appunto – frantumate nel reddito, nella prestazione e nelle tutele. Un bel disastro, si direbbe, a scorrere i capitoli di questo saggio importante che ricostruisce le vicende dei protagonisti della storia, da Uber a Airbnb, passando per app e startup varie, alternandole ad analisi di lunga durata sulle ragioni economiche che dall’ultima parte del secolo scorso a oggi hanno determinato la situazione presente. Reportage, grido d’allarme, storia e riflessione, proposte concrete per uscire dall’imbroglio: è quanto troverete nell’opera. La conclusione (ultime pagine) può sembrare amara: “Non c’è più il futuro di una volta”. Ma Staglianò non rinuncia a sperare che un giorno la piattaforma comprenderà che il miglior lavoratore è il “lavoratore felice”. L’autore di Lavoretti ha accettato di conversare con noi intorno ai temi del libro. Di seguito le domande e le risposte.

Lavoretti è un atto d’accusa contro il sonno della ragione, contro la narrazione ideologica della gig economy che mistifica e occulta la vera realtà di impieghi sottopagati, troppo fragili per garantire un presente dignitoso e un welfare futuro. Mi sembra, forse, il tuo libro più importante. Ha molti avversari, ma certo uno non ce l’ha: la tecnologia. Lo scrivi sin dal primo rigo, che non sei un nemico della tecnologia. Ma per chi ti conosce la precisazione è davvero superflua. Godi di un’autorevolezza che deriva da un percorso più che ventennale “al fianco” delle nuove tecnologie. Hai raccontato la modernità e continui a farlo. Ma il tono del racconto è mutato. Non c’è più ottimismo. Cosa è cambiato dalla biografia di Bill Gates alle piattaforme di Kalanick (il fondatore di Uber) & Co.?

“Ti ringrazio, ma mi permetto di dissentire sulla conclusione: sono ancora fermamente convinto che possiamo pretendere un futuro migliore. Visto che la citi, anche la biografia di Gates era non autorizzata, critica, provava a mettere in guardia dall’eccessiva concentrazione di potere in una sola azienda. Kafka l’ha detto meglio di tutti: ‘Noi scrittori ci occupiamo del negativo’. Da allora lo scenario è cambiato. Quattro delle cinque compagnie con maggiore capitalizzazione di borsa al mondo sono tecnologiche: sono loro i nuovi padroni del capitalismo contemporaneo. Con l’aggravante, dal mio punto di vista, che hanno la pretesa di raccontarsi come un capitalismo diverso, dal volto umano, etico (dal Think outside the box di Apple al Don’t be evil di Google). E invece, se possibile, funzionano secondo modalità estrattive più inesorabili di quelle dei robber barrons del ’900. Per non dire del cinismo fiscale: con che faccia puoi affermare di voler rendere il mondo un posto migliore, il vero mantra della Silicon valley, quando poi escogiti scappatoie per pagare lo 0,0005 per cento di tasse in Irlanda? Per non dire di Uber, e del suo sventurato fondatore Kalanick, che senza alcun imbarazzo diceva che quando si ‘sarebbero liberati dell’altro tipo nell’auto’, l’autista, i prezzi sarebbero finalmente scesi al livello che auspicava”.

Ti cito: “Lavori contro lavoretti. L’importante è non confonderli e non trasformare, nella disattenzione generale e nell’ipnotico adescamento dello storytelling, i primi nei secondi. Perché sarebbe un grave errore”. È solo una delle tante pagine del libro che rivelano la volontà di smascherare la favola a cominciare dal suo grado zero, quello lessicale e letterale. Cominciamo dalle parole, dalle formule, dagli slogan. Cominciamo a chiamare le cose col loro nome. Non esiste alcuna “economia della condivisione”, sostieni. Chi inventa e possiede le piattaforme digitali che governano l’autista, l’affittacamere, il rater sui social, il fattorino di Amazon o Foodora è un datore di lavoro. Volendo: è proprio un padrone. E chi lavora per le piattaforme non è un “partner” ma un lavoratore, seppure non più dipendente. Ricominciare dalle parole non è irrilevante.. Penso a un vecchio slogan di molti anni fa, “diventa imprenditore di te stesso”, e a tutti i danni che ha fatto…

“Non potrei essere più d’accordo. Siamo di fronte a un sistematico sforzo di confondere, una cortina fumogena terminologica, soprattutto quando si parla di lavoro, che si rifugia nell’anglicismo facilissimamente traducibile per ammantare di modernità una regressione senza sosta sul versante dei diritti. Dal jobs act allo smart work gli esempi si sprecano. Una regoletta esperienziale ci dice ormai che quando battezzano in inglese qualcosa che riguarda il lavoro dobbiamo mettere mano al portafogli, per capire se non ce l’hanno già sfilato. Stando sul punto più specifico, nessuno si era spinto più oltre dei protagonisti della gig economy in questa mistificazione linguistica. Il laburista Frank Field, capo della commissione parlamentare di inchiesta britannica, ha parlato di gibberish, fuffa inintelligibile riferendosi ai capitolati che Uber propone ai suoi autisti. E i giudici degli Employment Tribunals di Londra che hanno decretato che gli stessi autisti erano lavoratori parasubordinati e non autonomi hanno smontato, prima di tutto, il linguaggio. Per finire, uno dei primi slogan usati da Airbnb si riferiva alla possibilità di ottenere un reddito supplementare, per arrotondare. Non otterremo mai risposte giuste se non cominciamo a porci le domande giuste. La prima delle quali è: perché, di colpo, abbiamo avuto bisogno di arrotondare? E questa toppa che ci propongono per tappare il buco nel medio periodo risolverà o peggiorerà il problema? Io temo che sia vera la seconda ipotesi”.

Ricostruisci, capitolo dopo capitolo, i “casi di studio” più eclatanti. Da Uber a Airbnb, da Foodora a Lyft o Mechanichal Turk, e ne cito solo alcuni. Piattaforme digitali che hanno rivoluzionato i lavori e le città, che governano il modo di lavorare e la sua valutazione e retribuzione, che fruttano miliardi a chi le possiede e non restituiscono quasi nulla alle comunità, agli Stati, perché la leva fiscale è spesso aggirata, impotente. Questi casi appartengono quasi tutti all’economia dei servizi, dove l’elemento ambiguo della “condivisione”, dove l’identità spuria tra consumatore-cliente-operatore-lavoratore è più manifesta. Mancano all’appello le manifatture, l’industria, e vorrei chiedertene la ragione. Nel terziario il connubio digitale + lavoretto può dare risultati devastanti. In altri settori più “ponderosi” (e con altri salari) cosa sta accadendo o potrebbe succedere? Penso a un operaio specializzato chimico o metalmeccanico e al suo incontro con l’algoritmo e la piattaforma. O in questo caso il problema riguarda più la robotica, di cui ti sei occupato in Al posto tuo, il tuo libro precedente?

“Mi sembrava che l’aspetto più nuovo, e preoccupante, fosse quello dei servizi e dei lavori a maggior coefficiente intellettuale. Una volta se uno perdeva il posto in manifattura perché la tecnologia l’aveva reso superfluo quella maggiore produttività si trasformava in maggiore ricchezza e quella persona ritrovava occupazione nei nuovi servizi creati, magari meno faticosi e meglio pagati. Adesso però anche i servizi sono sempre più automatizzati. Rischiamo, presto, di non avere più salvezza. ‘E non c’è spiaggia dove nascondersi, e non c’è porto dove scampare’, come canta il poeta. E allora bisogna intervenire prima che sia troppo tardi. Che non significa, in un rigurgito neoluddista, prendere a mazzate le macchine. Ma governare il fenomeno, sul serio però. Nel libro precedente faccio due esempi alternativi. Da una parte Foxconn, la più grande produttrice di elettronica di consumo al mondo, che ha licenziato in un colpo solo 60 mila operai sostituendoli con robot. Dall’altra un’azienda che produce macchine di precisione nell’Alto Palatinato, in Germania, che, a forza di migliorare grazie alla tecnologia, non solo non ha licenziato nessuno ma ha addirittura alzato il salario ai suoi dipendenti”.

“Noi da che parte vogliamo andare? Perché se non facciamo niente la tecnologia farà il suo corso, sostituendo sempre più operai. Fino a un anno fa, basandosi sulle stime e la fiducia che la storia si ripeta sempre uguale a se stessa, l’economista del Mit Daron Acemoglu e quello della Boston University Pascual Restrepo erano stati piuttosto rassicuranti sul fatto che la sostituzione non sarebbe avvenuta. Pochi mesi fa, basandosi sui dati reali, hanno pubblicato un paper che si legge come un colossale marcia indietro perché dimostra come negli Stati uniti dal ’90 al 2007 670 mila operai siano stati fatti fuori dai robot e come anche il reddito medio degli altri si sia ridotto come diretta conseguenza di questa concorrenza robotica. Eppure, senza citare alcun dato a supporto, in Italia c’è ancora chi giura che questo è il punto di vista degli allarmisti e misoneisti. È tutto molto puerile”.

Leggendoti, si arriva quasi naturalmente alla conclusione che la società umana non sia in grado di sopportare l’economia dei lavoretti esattamente come l’ambiente non può tollerare oltre il cambiamento climatico. Si percepisce uno stupore di fondo, da parte tua. Come a dire: ma non vedete? Non vi rendete conto? La stupefazione che si prova a salire su un ghiacciaio delle Alpi per trovarlo senza neve è analoga alla meraviglia che sorge dinanzi alla storia di Mary Joy – l’autista di Lyft che accetta fino all’ultima corsa di ride sharing, lungo il tragitto verso l’ospedale dove partorirà – e a tutte le altre che racconti. Mentre raccoglievi il materiale, fino a che punto ti accorgevi del tasso di tossicità e incompatibilità con la vita? Quando ha iniziato a suonare il campanello dell’allarme rosso? C’è stato un caso specifico, una lettura, una vicenda?

“Mi viene in mente la memorabile definizione di Francis Scott Fitzgerald su come avvengono i crolli, ‘prima lentamente, poi di colpo’. Il mio mestiere è, essenzialmente, leggere, connettere i puntini, poi andare a vedere e scrivere. Quindi, a partire da circa sette anni fa, ho cominciato a pensare che gli straordinari gadget e servizi online che usavo rendevano inutili un discreto numero di persone che prima facevano quel lavoro. Poi, per una serie di servizi nella Silicon Valley, ho affittato un’auto col navigatore e mi sono reso conto che sono stato un giorno intero senza parlare con nessuno perché, rispetto a prima, il grosso di informazioni che mi servivano me le dava il Gps o il telefono connesso a internet. Infine ho letto due cose illuminanti: Race Against the Machine, l’ebook autopubblicato di due ricercatori del Mit, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee che dava l’allarme (poi stupefacentemente ammorbidito nell’editio maior del libro secondo uno schema non nuovo: incendiari prima, pompieri poi) e You’re Not A Gadget Manifesto di Jaron Lanier in cui il papà della realtà virtuale si impegnava in una fenomenale decostruzione della narrazione tecnologica. Un esempio per tutti: ‘Se non paghi per un prodotto, il prodotto sei tu’. Da lì poi un diluvio di articoli che hanno tematizzato il problema, convincendomi che forse avevo visto giusto”.

Ricordo un vecchio saggio: Netslaves, dedicato agli schiavi della Rete. Uscì in Italia nel 2001. Raccontava i lavori sottopagati, usuranti, impersonali legati all’economia di internet. Quasi diciotto anni fa. Non possiamo dire che non eravamo stati avvertiti. E non abbiamo fatto nulla. Però se ci fermiamo alla cronaca, alla “next thing”, non ne verremo mai a capo. Non possiamo trascurare un quadro d’insieme che sia anche storico. Per questo, credo, il tuo libro alterna il reportage a capitoli dal respiro più lungo di analisi e riflessione sull’economia e la società. Sono le pagine dedicate alle grandi crisi mondiali che ci hanno modificati: il 1979, il 2000 e il 2008. Ne siamo usciti – questa la tua tesi – “finanziarizzati”, precarizzati, irretiti dal culto della gratuità, impoveriti, indeboliti nelle forme di organizzazione e lotta collettive, disposti ad accettare lavori e retribuzioni che le generazioni precedenti avrebbero rifiutato…

“Quanta nostalgia, il libro di Bill Lessard e Steve Baldwin fu pesantemente penalizzato da una copertina orrenda, rimasta inspiegabilmente inalterata nella versione italiana. Scherzi a parte, sì, i segni premonitori c’erano, ma prevaleva l’entusiasmo nei confronti della ‘cosa nuova’. Negli intermezzi storici provo a mettere in relazione tre snodi, tre momenti di crisi come maieutici della reazione che è avvenuta dopo. Come ha spiegato bene Naomi Klein in Shock Doctrine, non c’è niente peggio di un trauma per giustificarne altri di segno opposto. Così dopo gli shock petroliferi e il peak del consumismo post-bellico l’economia vira verso la finanza. Dopo l’esplosione della bolla della new economy si inventa il web 2.0, ovvero quello a basso costo perché il lavoro lo fanno gli utenti. Infine dopo la Grande recessione se ne vengono fuori con la cosiddetta sharing economy, dove non si monetizza più il cazzeggio (un lusso che non possiamo più permetterci) ma il lavoro vero e proprio, da espletare su piattaforme leggere, con pochi o punti costi fissi”.

Nelle pagine più toccanti del libro parli di tuo padre, rappresentante di una generazione perduta, se posso permettermi la definizione, sotto il profilo lavorativo: il posto fisso, lo stipendio adeguato, i contributi e infine una pensione che gli ha consentito di sostenere cure sanitarie per una malattia grave e difficile. Dal nostro futuro questa possibilità è già stata estromessa. Ma il presente è, e cito una tua definizione, la “perma-giovinezza”, dove bisogna farsi trovare sempre pronti per la prossima corsa. Il presente è – ci torno ancora – Mary Joy, la ride sharer di Chicago che partorisce nel suo ‘turno’. Come ne usciamo? In una pagina scrivi che bisogna “ritrovare la forza di farsi pagare”. Uscire dall’ideologia del gratis. Poi indichi altre soluzioni: politiche, fiscali (far pagare le tasse ai giganti dell’economia digitale), sindacali. Ma le soluzioni possono davvero essere nazionali? Non è tempo di fare un salto di livello anche nella risposta, di crescere a un piano sovranazionale nelle politiche, nelle istituzioni, nelle organizzazioni dei lavoratori? Visto che queste grandi aziende giocano nella Champions League della globalizzazione transnazionale, che senso ha ostinarsi a schierare oneste compagini di serie B destinate alla sconfitta?

“Il fatto che la battaglia sia dura non significa che non valga la pena combatterla. Dunque, sì: il livello principale è transnazionale a patto che ciò non funzioni come colossale alibi per le singole nazioni per non fare niente. La Gran Bretagna, con i suoi tribunali che sono intervenuti su Uber e a tutela di altri fattorini, sono un esempio lampante che più di qualcosa si può fare anche all’interno dei confini statuali. Lo stesso vale, sempre in quel Paese, per nuovi sindacati dal basso che hanno già ottenuto risultati ai quali i nostri sindacati confederali sono disabituati da anni. Ho fiducia nell’Europa. È Bruxelles ad aver eccepito ad Apple che non andava bene pagare un’aliquota omeopatica in Irlanda, multandola per 13 miliardi di euro. O a dire a Google che non può approfittarsi della sua posizione di monopolio. Però si può, e si deve, prendere delle contromisure anche a livello nazionale. Con Renzi la web tax era sbertucciata, con Gentiloni siamo diventati alfieri dell’idea presso le sedi comunitarie. E sì, il meno che si possa dire è che nei tre snodi che ripercorro, la sinistra sia stata debole, distratta, colpevolmente remissiva. La buona notizia è che, partendo da così in basso, può solo far meglio. Lo spero, almeno”.

Tutte le piattaforme che descrivi sono strumenti di governo dei servizi e di controllo del lavoro. Per non parlare dei braccialetti di Amazon, riguardo ai quali ti chiederei un commento. Ma la domanda è: non si può fare il contrario? Non si può usare la tecnologia anche per difendersi? Piattaforme e algoritmi non possono essere anche uno strumento di organizzazione, autotutela, liberazione, miglioramento delle condizioni di lavoro e produzione? Nel libro porti l’esempio dei software cooperativi, l’idea che i lavoratori possano possedere la piattaforma e non viceversa. Altre idee, ipotesi, suggestioni, utopie?

“Ci sono molti ottimi motivi per criticare Amazon, che non lesino nel libro precedente, tra i quali non includerei il braccialetto elettronico. Ha attirato così tante critiche bipartisan per il suo valore simbolico: il braccialetto è stato assimilato a delle manette elettroniche che spiavano il dipendente. Lo sdegno poteva già esserci per le pistole laser che usano da sempre e fanno le stesse cose del braccialetto, soltanto che uno deve tenerle in mano e non allacciarle al polso. A scanso di equivoci: è doveroso chiedere migliori condizioni di lavoro alla compagnia dell’uomo più ricco del mondo, ma è più utile concentrarsi sui bersagli giusti rispetto a quelli giornalisticamente più suggestivi. Per quanto riguarda gli usi alternativi delle piattaforme, certo che si possono fare. La piattaforma non è il Male in sé, sebbene incarni in maniera plastica un mercato quasi perfetto dove domanda e offerta si incontrano. La sua caratteristica speciosa è che i padroni delle piattaforme estraggono valore, il 25 per cento nel caso di Uber, da ogni transazione che avviene su di essa. E, per soprammercato, pagano solo una microscopica frazione di tasse su quanto guadagnano. Se gli introiti andassero tutti ai lavoratori sarebbe tutta un’altra cosa. Per onestà devo ammettere che, per il momento, anche gli esempi più avanzati di questa avanguardia (come la californiana Loconomics) sono piuttosto acerbi. Però niente vieta che migliorino e superino in efficienza le piattaforme più note”.

Protagonisti della gig economy e startup varie non mostrano troppa inclinazione a trattare bene chi lavora per loro. Conta anche l’aspetto generazionale e culturale. Questi imprenditori informatici sono nati dopo Reagan e Thatcher. Non mi stupisce, purtroppo, che abbiano una certa idea del lavoro. Eppure tu lanci un appello: trattare bene i lavoratori è utile alla stessa impresa. Ma credi davvero che qualcuno lo ascolterà? Non ti sembra che il neocapitalismo digitale soffra di una congenita irresponsabilità sociale che trova poi nella piattaforma, nell’algoritmo lo strumento per estrinsecarsi? Imporre condizioni di lavoro logoranti, retribuire poco la prestazione, non restituire nulla fiscalmente: sono sintomi gravi di immaturità e infantilismo, se non di misantropia. Mi viene in mente un bambino che tortura un animale domestico o perseguita il fratellino minore. Questo bambino diventerà mai adulto?

“Non lo sostengo io che convenga trattare bene i lavoratori. Henry Ford lo capi a metà del secolo scorso quando decise di raddoppiare – sì, avete capito bene – la paga oraria dei suoi operai. Non perché fosse un sincero democratico (non lo era), ma perché aveva capito che pagarli troppo poco aumentava pericolosamente il turnover, con i relativi costi economici per formare ogni volta i nuovi arrivati. La scommessa funzionò, dall’anno dopo l’emorragia si fermò e gli utili crebbero. A quanto pare i capitalismi odierni sono incapaci di questa minima lungimiranza. perché i cicli capitalistici si sono accorciati, da annuali/trimestrali sono diventati settimanali/giornalieri perché seguono l’andamento della Borsa”.

“Più di recente Zeynep Ton, nel suo The Good Jobs Strategy, spiega che pagare bene i dipendenti li rende più efficienti. In un paper di qualche anno fa Tito Boeri e Pietro Garibaldi ci spiegavano che nelle aziende con meno contratti a termine la produttività è più alta (purtroppo il loro contratto a tutele crescenti non è riuscito, sin qui, a battere la precarietà). Non so se, come tu sembri suggerire (“misantropia”), ci sia del dolo nel trattare male i dipendenti. Di certo c’è un cinismo inaccettabile, è forse un grado di ignoranza storica francamente sorprendente che non fa comprendere, ad esempio, ai due manager italiani di Foodora (uno laureato al Politecnico di Milano, l’altro alla Bocconi) il concetto di cottimo che, da un certo punto in poi, hanno di fatto imposto ai loro fattorini. Si limitano a ribattere: ‘Ma l’algoritmo dice che è altamente improbabile che non facciano almeno due corse all’ora, e con due corse all’ora guadagnano di più che con un pagamento orario’. Sarebbero usciti in strada, con la pioggia e il vento, facendo affidamento sulla generosità statistica del software per il pagamento? Io non credo. Ma per i loro dipendenti, che ovviamente chiamano riders, era perfettamente accettabile. Sarà una lunga lotta, culturale innanzitutto, per questo è importante iniziarla subito. Perché ora è solo un’avanguardia ma se il futuro del lavoro assomiglierà alla gig economy siamo spacciati. Tutti, non solo quelli che la praticano”.

(Articolo già pubblicato su rassegna.it il 26/2/2018)

Amleto, un intellettuale gramsciano ( in ricordo del ’68)

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 di Pierpaolo Rosati

 

 

L’interpretazione ivi proposta prende le mosse da un passo gramsciano che promette di svelare, per via analogica, valenze euristiche del tutto inopinate. Il nocciolo dell’argomentazione parla di Amleto che rinvia i propri disegni di vendetta non già perché trattenuto da ragioni psico-emotive più o meno inconsce, ma perché attardato dalla rimozione necessariamente lenta e faticosa dei condizionamenti culturali radicati nella sua esperienza; condizionamenti tali da esigere una preventiva e sofferta rottura epistemologica.

Un percorso del genere Antonio Gramsci lo sollecitava in un soggetto storicamente peculiare, da lui chiamato ad un ruolo organico e rivoluzionario. “Gli intellettuali si sviluppano lentamente” – così scriveva – perché oppressi dal peso di “tutta la tradizione culturale” che essi tentano di “riassumere e sintetizzare” e da cui restano schiacciati, a meno che non riescano a “rompere con il passato” per collocarsi “nel terreno di una nuova ideologia”.1

Ma veniamo alla materia e alle scaturigini del dramma.

Sono state le seconde nozze della regina-madre a turbare profondamente il principe di Elsinor, provocando in lui la crisi dei valori fino a quel punto felicemente vissuti; uno in particolare: quello dello “studente” (dell’intellettuale) che da poco ha lasciato Wittenberg e che chiede di potervi tornare. La stessa Ofelia, in punto di evocare le note caratteristiche dell’Amleto un tempo sereno e galante, ancora teneva conto del principe in quanto courtier, soldier e … scholar (III 1, 154). Da qui l’atteggiamento, si direbbe naturale e consueto, nella sua oleografica evidenza, di Amleto giovane con libro, tutto intento a leggervi “parole” che solo ora gli sembrano vane e insensate (II 2, 192). La corruzione morale dell’ideale materno lo ha sconvolto al punto da suscitare in lui pulsioni suicide; ciò che lo trattiene è il timore del castigo ultraterreno sanzionato nei confronti di chi compia un gesto tanto disperato (II 2, 198-203).2

L’Amleto che irrompe sulla scena è dunque un personaggio già immerso nel profondo del dramma. L’apparizione e le rivelazioni dello spettro – irrinunciabili perché di forte impatto per il pubblico elisabettiano –  poco soggiungono alla premonizione che, sin dal principio, gli balena nella mente:

 

Lo spirito del padre mio in armi! Non tutto è bene;

io sospetto qualche iniquità.

(I 2, 255 s.).

 

Le parole del fantasma, in realtà, non fanno che confermare i suoi presagi:

 

… O mia profetica anima!

Mio zio?

(I 5, 40 s.).

 

Né mai esse costituiranno, per sé prese, una prova decisiva:

 

… Lo spirito ch’io ho veduto

potrebbe essere un diavolo …

… Avrò motivi più rilevanti di questo. Il dramma è la cosa

in cui coglierò la coscienza del re.

(II 2, 594 s. e 600 s.).

 

A maggior ragione, nell’apparizione dello spettro è da vedersi solo un coup de théâtre. Molto più pregnante il commento a mezza voce con cui Amleto reagisce di fronte all’ingiunzione dell’ombra paterna:

 

… Ricordarmi di te?

Sì, tu povero fantasma, finché la memoria tien seggio

in questo globo impazzito. Ricordarmi di te?

Sì, dalla tavola della mia memoria

io cancellerò tutti i ricordi triviali e frivoli,

tutti i detti dei libri, tutte le forme, tutte le impressioni passate,

che la giovinezza e l’osservazione copiarono quivi;

e il tuo comandamento solo vivrà

nel libro e nel volume del mio cervello,

non commisto a più vile materia; sì per il cielo!

(I 5, 95-104).

 

Rinveniamo qui il bandolo del tormentato percorso che, d’ora innanzi, impegnerà Amleto in una drastica svolta esistenziale. La sua re-azione non sarà dettata da una emotività sconvolta, né dall’elaborazione inconscia di uno snodo evolutivo di tipo psicoanalitico (“il complesso di Edipo”); sarà frutto invece di una razionale ancorché ardua determinazione programmatica, annunciata con lucidità proprio nel passo appena citato, vera chiave di volta della tragedia. Lo “snaturamento dei tempi”, motivo peraltro ricorrente, dà corso al proposito risoluto di liberarsi da ogni sovrastruttura intellettualistica, e non solo dalle remore della religione o dalla paura inibitoria della vita ultraterrena. L’esigenza di concentrarsi su un unico obiettivo induce il nostro principe a voler fare tabula rasa di tutto il gravame culturale e libresco del passato, passibile di invischiare l’agire in una dilemmaticità irresoluta. Più che un’evoluzione ideologica, egli intraprende un processo di de-ideologizzazione volto alla liberazione della prassi e alla risoluzione in essa delle angustie di una coscienza infelice.

L’amore cortese – vissuto esso stesso nei modi stilizzati di un’esperienza letteraria – rappresenta la prima vittima che Amleto sacrifica alla causa: il colloquio con Ofelia e la denuncia delle proprie passate avences (III 1, 90-152) rappresentano per lui solo l’acconto del prezzo da pagare al compito che lo attende. Gli affetti privati, estranei alla sua missione, altro non sono che diversivi superflui.

Sarà proprio il pesante fardello di una decisione tanto sofferta a sgomentare l’animo del principe e ad intricarlo in una problematica indecisione la cui unica via di uscita sembra prospettare, inevitabile, il sacrificio di sé:

 

Essere, o non essere: questo è il problema;

s’egli sia più nobile soffrire nell’animo

le frombole e i dardi dell’oltraggiosa fortuna,

o prender armi contro un mare di guai,

e contrastandoli por fine ad essi. Morire, dormire,

nient’altro; e con un sonno dire che noi ponian fine

alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali,

che son retaggio della carne; è un epilogo

da desiderarsi devotamente, morire e dormire!

Dormire, forse sognare, sì, lì è l’intoppo,

perché in quel sonno della morte quali sogni possan venire,

quando noi ci siamo sbarazzati di questo terreno imbroglio,

deve farci riflettere: questa è la considerazione

che dà alla sventura una sì lunga vita …

(III 1, 56-69).

 

Nel più celebre dei suoi monologhi Amleto rielabora ancora una volta l’idea della morte, considerata come lo scotto necessario alla soluzione del problema; ma, a frenarne l’azione, continua a farsi avanti il pensiero dell’aldilà. Nondimeno, il linguaggio di Shakespeare, sublime per intensità lirica, non riesce a cancellare le tracce di una fonte antica che traspare in lontananza: si allude al Socrate dell’Apologia platonica il quale, discutendo anche lui della morte come di un sonno profondo o, altrimenti, di un sonno accompagnato da sogni,3 sembra emanare un alone che va ben oltre la citazione letterale (“morire, dormire, … forse sognare”).4

È in questa ultima formulazione che il bardo attinge un valore concettuale più ampio, un approccio all’argomento di una coloritura più laica (Socrates docet!).5 Difatti, la morte su cui il nostro protagonista ora si sofferma è sentita come l’esito di una pugnace rivolta, di una lotta eroica, in grado di aprire scenari passati al vaglio di una demitizzazione del metafisico. La vita ultraterrena – nulla più che un sonno turbato da sogni – si è ormai de-teologizzata, ponendosi alla stregua di un’intuizione generica che più non soffre della sanzione comminata dal giudizio divino. Amleto si avvia con sempre maggiore consapevolezza verso un’autonomia della coscienza che, alla fine, lo renderà in tutto padrone delle proprie scelte. Il senso del suo scavo interiore è riposto per l’appunto nello sforzo di rimuovere ogni fattore di eteronomia.

 

Perché non v’è nulla di buono o di cattivo,

che non sia il pensiero a rendere tale …

(II 2, 248 s.).

 

Queste parole, rivolte da Amleto a Rosencrantz, traducono una riflessione di alto profilo speculativo, ispirata anch’essa all’intellettualismo etico di Socrate. Il bene e il male non rappresentano entità a sé stanti, dotate di una propria valenza ontologica. È il pensiero individuale, nel suo relativismo soggettivistico, a definirne il carattere e a riconoscerne la specificità: è il pensiero di ciascuno che, nella sua attività conoscitiva, pone in essere i valori o i disvalori, determinando la volontà ad attuarli o a respingerli.

La “Fortuna”, in merito, potrà aggiungere ben poco alla scelta dell’animo forte:

 

… e beati son quelli

ne’ quali le passioni e il giudizio sono così ben mescolati

ch’essi non sono un flauto su cui il dito della Fortuna

possa premere il tasto che le piace …

(III 2, 66-69).

 

Eppure, Amleto continua ad adagiarsi nell’inerzia. Se, da un lato, la messinscena dell’assassinio di suo padre ha provocato nello zio una reazione che ne lascia trasparire la colpevolezza; dall’altro, la vista del re ormai solo e indifeso non basta a determinare il principe alla vendetta (III 3, 72 ss.).

Si tratta forse di una inesplicabile incoerenza?

Di certo, le motivazioni addotte da Amleto sembrano poco convincenti. Più che il destino ultraterreno di Claudio, a trattenerlo altro non v’è che la sollecitudine verso la madre. Nella circostanza, la sua disposizione d’animo suggerisce propositi non-violenti, senza nulla togliere agli aspri rimproveri che pure intende manifestare alla Regina.

 

… Calma! Ora andrò da mai madre.

O cuore non perdere il tuo affetto naturale; non lasciare mai

entrare l’anima di Nerone in questo petto risoluto;

ch’io sia crudele ma non snaturato:

io la pugnalerò con le parole, ma non con la mano.

(III 2, 382-86).

 

Ecco una considerazione ribadita poco oltre:

 

… Mia madre aspetta.

Questa medicina non fa che prolungare i tuoi [del re] giorni infermi.

(III 3, 95 s.).

 

Quella di Gertrude, d’altronde, è l’unica coscienza che il figlio, prima di agire contro l’usurpatore, tenta di redimere e di portare dalla propria parte. Da qui la priorità che egli attribuisce all’incontro con la madre e l’indugio nei confronti dello zio.

Ma un pressante incitamento all’azione Amleto lo riceve anche alla vista dei preparativi militari messi in atto dai soldati di Fortebraccio: uomini coraggiosi, motivati da una idealità che li induce ad affrontare una guerra il cui esito non promette altro che la morte o la conquista di un territorio forse insufficiente ad accogliere le tombe di quanti cadranno per esso (IV 4, 32-65). A tal punto, la sua indolenza ne resta scossa:

 

… Oh, da quest’ora innanzi,

i miei pensieri sian sanguinosi, o non valgano nulla!

(IV 4, 66 s.).

 

Se pure merita piena giustificazione il “contendere grandemente per una pagliuzza, quando sia in gioco l’onore” (greatly to find quarrel in a straw / When honour’s at the stake),6 l’ironia amara sulla sorte miseranda riservata indistintamente alle spoglie umane, fa da puntuale contrappasso a ogni vanità o puntiglio di casta. Eloquente, in tal senso, il dialogo che Amleto intrattiene con Orazio, di fronte al becchino che scava la fossa destinata alla tomba di Ofelia. Gli esempi passati in rassegna scherniscono tutta una serie di personaggi vanamente altezzosi (politician, courtier, lawyer, great buyer of land),7 senza risparmiare da ultimo il grande Alessandro (V 1, 107-14).

Solo un’eccentrica disputatio de rebus inlustribus? Direi di no! Piuttosto, una fase ulteriore dell’erosione progressiva che induce Amleto a liberarsi gradualmente della cultura libresca. Il contesto pone in gioco lo statuto della Storia, materia essa stessa da rileggere attraverso il filtro della demistificazione. Se contemporaneo, l’evento storico non manca di offrire un insegnamento morale, come suggeriscono le imprese di Fortebraccio; ma, quando il tempo l’avrà ammantato di mera retorica celebrativa, esso perderà irrimediabilmente ogni significato parenetico. Non c’è molto che valga la pena ricordare della storia dei popoli, quando sia il proprio passato a imporsi con prepotenza: quel vissuto che trova espressione negli affetti naturali (III 2, 96), contaminati in Amleto dalla “fragilità” della madre (I 2, 146). Del resto, la considerazione che il principe shakespeariano ha della Storia trova riscontro nei testi dell’epoca: nella storiografia rinascimentale, nella narrazione di tipo ciceroniano, intesa come opus oratorium maxime.

Ben altro senso assumerà il suo gesto finale, motivato da una consapevolezza non già storica ma rivoluzionaria, meritevole come tale di essere raccontata ai posteri. Null’altro Amleto morente raccomanda ad Orazio, se non di “narrare la sua storia” (To tell my story)8 e di divulgare le ragioni della sua “azione” (act):9

 

O buon Orazio, che nome ferito,

le cose restando così ignote, vivrebbe dopo di me!

(V 2, 336 s.).

 

Se ancora un compito Amleto pensa di poter assolvere nell’attimo di vita che gli rimane, esso è di carattere politico e si volge infatti alla designazione del successore. È il ruolo istituzionale ciò che il principe di Danimarca infine recupera, per esercitarlo con la forza morale del moribondo che detta le sue  volontà testamentarie:

 

… profetizzo che l’elezione scenderà

su Fortebraccio; egli ha il mio voto morente.

(V 2, 347 s.).

 

“Il resto è silenzio” (V 2, 349): le ultime parole di Amleto cancellano ogni remora ultramondana e legittimano la sua condotta alla luce di una prassi tutta terrena, sostenuta in articulo mortis dall’impegno civile. Gramsci avrebbe ravvisato in lui – principe “amato dalla moltitudine” (loved of the moltitude)10 – l’atteggiamento dell’intellettuale finalmente organico, investito del suo status regale e del sostegno del popolo:  machiavellico “Principe”, intellettuale gramsciano ante litteram.

 

 

 

NOTE

 

1)  La citazione è enucleata da Alcuni temi della questione meridionale: saggio che Gramsci scrisse nel 1926 e che comparve per la prima volta a Parigi nel 1930, in “Lo stato operaio”, la rivista teorica del PCd’I pubblicata in Francia dagli esuli italiani. In tempi più recenti lo scritto è stato inserito in varie riedizioni gramsciane, sempre riproposte dagli Editori Riuniti di Roma (parte oggi del Gruppo “Mimesis”).

2)  La traduzione italiana è quella di Raffaello Piccoli, in Shakespeare – Teatro, Amleto, Vol. 2, Sansoni, Firenze 1961. Quanto alla restituzione del testo inglese, da cui trarre qua e là ulteriori elementi di conoscenza, all’edizione oxoniense abbiamo preferito quella di Cambridge, con la relativa suddivisione in Atti, Scene e Versi.

3)  Cfr. Plato, Apol., 40 c-e.

4)   L’importante edizione parigina del Corpus platonicum, ad opera di Henri Estienne (Henricus Stephanus), risale al 1578. C’è poi una ragione supplementare per avvalorare l’ipotesi che Shakespeare abbia potuto e voluto leggere almeno le “opere giovanili” di Platone (nella traduzione latina del 1592 dovuta a Marsilio Ficino?), data la loro veste letteraria, non a caso dialogica, e la loro dimensione ‘teatrale’: esempio di ricerca filosofica trasposta in una drammatizzazione.

5)  Altro barlume di dottrine socratiche in V 2, 6-9, là dove si fa cenno alla “conoscenza di sé”.

6)  Cfr. IV 4, 70 s.

7)  Cfr. rispettivamente V, 1, v. 78, e poi 81, 96 e 101.

8)  V, 2, 339.

9)  V, 2, 326.

10)  IV, 3, 4. La stessa osservazione Claudio la ripete poco dopo, parlando con Laerte: IV, 7, 12 s.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La parisienne

4
di
Francesco Forlani
Alors que lo effeffe e pinzava à sta chose que les villes, les ciudades toutes, comme li cristiani, se lèvent et se couchent d’une manière différente, les unes des autres, c’est cela.
Que nun l’est mica vrai que s’est lo istisse arbeggiari du soleil, pour le sud e pello nord, pello est et pour le west, parfois, sine cunsiderari aqui, d’autres variables. Car nu cunto l’est si se trattassi de ciudad piccerella de campagne, lu paisiello quoi et n’artra la Mètropol, c’est cela! Et de même, puri si si limitassi à une seule ciudad, Paris, pour faire l’exemple, toulemòn sapi assez bien que lo primmo matin change de quartiè à quartiè, tout comme li cristiani.
A lo primmo arrò, qui tene lo Louvre, pell’existenza du bureau de la Poste Cintrali, le soleil se léve cum levée du courrier, et alors l’humori dependi daa cartuline, daa lettre qui se l’est recommandée, plaisir nun pode faciri no, hèlas au citoyen, ça alors.
Si parlons par contre de la Place de la Concorde, 8 arrò, située da na parte des Champs–Elysées et da l’artra du jardin des Tuileries, eh bien ça alors, la journée comenza quanno toutes les luz des lampàri qui l’entourent, tout au tour, s’arrêtent à l’entrasatte et làssari faceno au soleil le devoir de luminari les rues street et larges. Et l’est spectacle de ville lumière ‘o vere assaje.
Pour la Bastille, Bastoche quoi, l’aube c’est le café en face à l’obélisque qui paraît nu Meridiani cum l’hora exacte ca ce manque seulement le signal de l’heure exacte, lo cardelino daa Rai. Ce sta kela de la Gare du Nord du 10 arrò que te levi li oci ar celo pour rimirari la façade et l’horloge et manco fa deux pas que tout d’un coup te retrouve en quatre et quatròt à la Gare de l’Est et te confonds de pendulari tra kili qui vont et qui viennent de Londres et Picardie, de Calè et Lillà et los otros de Strasbù et Lorraine. Qui se portent apprès d’eux les nubila, nuages longues doo mare du nord et s’encanala lo rajo de Soleil tout le long le Canal St.Martin, quoi. Ou alors comment diminticari kela qui te sguverna er troto à Montparnàs, qui est à cheval du 6, du 14 et du 15 arrò et paraît nu sibilo, nu fisculo la Tour toute entière, nu missili de vitràl et de fero, que si puri te paraît incomparable kell’ata Eiffel te fait quand même l’aimer, et attendre que tu te ramène de pintura en pintura, de souvenir à souvenir comme les cafés sur le Boulevà, quoi, en compagnie de l’anema des écrivains de Cortazà ou Millè, et l’Ernest ça va sans dire. Faut pas rêver le reste.
Et lo primo matin ar 12 arrò du marché d’Aligre que l’alligrìa se stampa sur la bankarè étalages de fruits et de legumes, sur la circonspection du pikpokè qui contrôle el mouvement de grève générale da sacoche, ça alors, là oui que la esta commenza par de vrè et se reveille pure l’anema du paysan que ce traînons à spass avant et andrè. Peut – être aussi que, ammitten que te l’ere endurmentati à lo cimitièr du Père Lachaise dans le 20 arrò, et que au milieu des tombes de l’un et de l’autre, d’un Raymond Roussel, par exemple et qui te promène et walk jusqu’à Wilde, l’est matinée d’oscar ’o veramente, l’est nu scutuliament, secousse de tripes and stars, là–bas, et pinzann pinzann jusqu’à Menilmontà qui est 19 arrò et à ses collines pudiri faciri el plein de café turque ’n miezz à l’ate.
Que si t’arriza et bandes que si mascule ou si te gratte et prore ò maz, si sì fimina, allo Pigal du 18 arrò s’embosca la galina, et puri si les stripteaseuses se promènent cum vestalia et bigudì bigudà in da la capa, na bota de vie en rose puri se pode aqui, artròv je ne sais pas.
Le réveil intellectuel l’est sûre et certain à la Place de la Sorbonne, pequeña pequeña qui sta in da lo 5 arrò, comme les doigts de la main et sta puissance étudiantine te sbaracia de complexitude surtout quand l’est primavera et les vestes se font alors fine fine et l’esprit de finesse aussi, into the Panthéon de l’art et do metiè.
Ah la-la la place Monge et son marché qui strabuza li oci et les yeux des autres paresse se perdre dans le bailamme genérale des hurlements de killi da fruit et verdures, la criée du poisson ca lu piscispada se mete à tirer de floret avec les passantes. Fimine de toute grâce se transportent el caddie par aqui et par alah que ce sta lu libanais que prepare la piadine du midi cum herbes et tymo serpill olé. Et les arénes, ah çà alors d’une coté et la mosquée de l’autre que le jardin des plantes ne l’est pas loin de là cum scolaresk en file indienne au milieu des potagé. Et dans la selve des régards, la contrescarpe dérriere et son Mouffetà, tu respire la vie dans tous les sens,cinq en exactitude, car il s’agit du 5 arro’
Ah ça alors que moviri et bouger per lo 6 arrò catapère catapère à lo jardin du Luxe and Bourg, jusqu’à la fontaine, plata plata que ’n miezze e fronne d’arbres et le feuillage qui tremula à tout coup de vent, dans lo speculo d’aqua ar bon matin puri li barkete ce stano et les enfants cum les bakets de canne à spingiri et pousser, accà et allà, comme na bataille de Lepanto à priparà.
Si alors lo coeur est tout en âme et foco que nun se vidiri arriver les pompiers manco si la fumée se lève aussitôt mieux vaut alors d’e s’acheminer à la Place des Vosges, que li purtikati et ses formes toutes arrondies entre le trois et le quatre du quartè, ah la–la la la, s’enferma er core à toutes les heures, et le matin aussi. Ce sta na fièvre toute petite et console sta matina participata collective, ou alors en tête–à–tête cull’amata, la lacrima napolitaine, la table ronde fen er battù et lo café serrè, ma mica assaje po’, la sigareta na Gitane, en boca à la Prévert.
Il y a l’aube Glamù l’amour qui merite er salto de l’oie, à la À Venus Montaigne, cum Diòr en terre, l’Ongarò, Chanel et son numéro starlet et la moda qui te menacia, da na parte cum lo lèche–vitrine, d’arta te enchante lo parfum de roses et de fimmine belle assaje, et t’enarca al sol comme si voler putisse, volari oh oh, ’nzieme à li scupettari monnezzari, balayeurs que de premier matino scuràzan per los Champs Elizé et curre en frecia vers le triunf de l’Arc.
Et le réveil aussi des employés de Banque et de Bourse, into the 2 arrondissement, et l’opera Operà, ah les grands Boulevà, et curre curre guagliò, curre curre toulemòn qui parait qui dansent de la boca du metrò jusqu’au burò. Le soleil naissant tu le trouves aussi à la Porte a Paris qui est terre d’orient et d’Italie, 13 arrò qui porte fortuna lo nummero, et treize pè nu loto loto gagnant. Ce sta n’artro quartè pe se réveiller en toute calme et mesura, ma tene lo nummero skaramantique superstitieux et tique que te pasa la poisse et alors de sfika nun se ne parle aqui.
Et putisse fa d’autres exemples de lumina luminà pour chacun des 20 arrondissements, sauf l’un d’arrò, que le nombre innominable  porte poisse, et gratte et gratte pe scaramanzie de seche, quartè après quarté, et pour chaque quartè demonstrari que le même nun l’est manko de poncto à poncto du quarté, et que financo de maison à maison, de casa à la casa la chose la même nun l’est, nun se sumilia pennient, et même sur le palier, de pianirottoli à pianirottoli, ça change et parfois de càmmira à càmmira, salle en salle, de leto à leto, comme li cristiani quoi, maronites, ortodoxes, praticants, bigottes ou moderat cantabili.
’Nzomme, tout compte fait, la levée de soleil à Paris tene mènemo mènemo 1351 paroles différentes pour le diciri. Et Naples aussi.

restituzione

2

di Gian Piero Fiorillo

 

fra la vita e la norma c’è una tensione

quando il movimento che la esprime diventa legge

il crimine è compiuto

 

Ho davanti un centinaio di studenti fra sedici e diciotto anni, qualche insegnante, un preside. Siamo alla fine di un viaggio intorno alla follia e allo stigma che da sempre marchia i fuori norma. Ho immaginato più volte questo momento, mi sono chiesto cosa avrei potuto dire che non fosse scontato. Il mandato del dipartimento di salute mentale è: andare nelle scuole, parlare della Legge 180 che «ha chiuso i manicomi». Quest’anno ricorre il quarantennale. Ho cercato di sottrarmi ma il direttore è stato categorico: Tu sei un sociologo, chi può parlare di stigma meglio di te? Non mi ha dato scelta. Ho provato a fare il bartleby della situazione, ma non sono portato. Brontolo, mugugno, arretro. Ricorrenze, puah. Per le scale ho incontrato Vita, amica e fisioterapista: che ti succede? Niente, ricorrenze. E ti fanno tanto arrabbiare? Servono solo a schermare il presente: si ricorda ciò che non andava per tacere ciò che non va. Lei sorride: scandalizzarsi per il passato mette in pace la coscienza. Rumino: quest’anno ricorre anche il cinquantennale del 68, l’anno scorso era il quarantennale del 77; quest’anno è anche il quarantennale dell’uccisione di Aldo Moro, che se fosse morto nel suo letto nessuno saprebbe chi era. Accidenti, t’hanno fatto arrabbiare sul serio. Non che qualcuno lo sappia, a parte i familiari, i servizi americani e qualche dirigente DC. Un uomo è sempre un mistero per tutti, anche per se stesso. Un uomo di stato europeo del dopoguerra è molti misteri. Aldo Moro è moltissimi misteri, e forse quelli legati alla fine sono i meno importanti. Comunque è grazie a quei giorni di prigionia e martirio che resterà nella storia. Al pari di Cesare o Joseph K. vivrà molte reincarnazioni, sarà rappresentato in teatro, ispirerà molti film. Sta aspettando il suo Shakespeare, il mito fagociterà la storia. Mi dispiace vederti in questo stato.

 

Non è di Aldo Moro che devo parlare agli studenti, oggi 9 maggio 2018, devo «restituire» i dati di un questionario sullo stigma, la follia e la 180. Restituire, diciamo così noi sociologi: avete compilato un questionario e noi vi «restituiamo» i numeri, le percentuali, le interpretazioni: è il nostro modo di ringraziarvi e catturare la vostra benevolenza. La 180 venne approvata il 13 maggio di quarant’anni fa. Maggio è tempo di eventi irripetibili, mese Mariano, delle rose, del risveglio di primavera, dell’annuncio di un’estate ormai soltanto da cogliere. Ei fu siccome immobile. PRIMOMAGGIO: quando l’evento non era il concerto a San Giovanni e nemmeno il comizio della CGIL, efficace precursore delle nullità concertuali. Ninetta mia morire di maggio. Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio. Come prendere una rima abusata e farla splendere. Strofinarla in sidol maggiore. (Quando Ugo Gregoretti era nervoso prendeva una pezzetta imbevuta di sidol e strofinava le maniglie di casa per ore, trasformando lentamente l’incazzatura in lucida ispirazione) (Stefania Sandrelli – io la conoscevo bene – lucida nervosamente una maniglia poi lucidamente apre la finestra e si butta di sotto). Però il Maggio con la maiuscola resterà sempre il Mai 68. (Abbiamo vissuto di miti e di amori e ci siamo presi i nostri rischi) (Stucchevole retorica) (Tutto ciò che accadeva era benvenuto).

 

Non è del maggio ’68 che devo parlare oggi agli studenti, né dell’agosto di quell’anno quando, liceali di provincia, chiedemmo udienza a Marco Ferreri e lo invitammo a ritirare i suoi film da una rassegna per solidarietà con il movimento pacifista americano massacrato dalla polizia a Chicago. Ricevemmo un sonoro rifiuto: siete giovani, disse Ferreri, e i giovani tendono a fare di ogni cosa un piccolo Vietnam. Claro, amigo, queremos crear dos tres muchos Vietnam. Niente da fare. Ci restammo male ma poi andammo a vedere tutta la rassegna cavalcando la contraddizione e scavalcando le maschere che non volevano farci entrare perché minorenni e pure comunisti. Tutto questo oggi non ha importanza, è vano ricordo di febbri esantematiche. Sono venuto qui per celebrare il 13/5/1978, giorno in cui venne approvata la Legge Basaglia. Lui, a dire il vero, impiegò poche ore per prendere le distanze. Disse alla stampa che omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento al corpo, era come omologare i cani con le banane (perché proprio cani e banane è ulteriore mistero). Dovremmo smetterla di chiamarla legge basaglia, non rendiamoci colpevoli di regalare sempre di nuovo la follia alla medicina e Basaglia all’establishment. Dovrei dirlo ai ragazzi. Non lo farò. Cosa dire allora? Come togliermi dall’imbarazzo di pronunciare parole in cui non credo? Dovrò parlare della legge 180, certo, ma non sono qui per soddisfare le aspettative di chi a Basaglia accende un cero all’anno e canta il de profundis ogni giorno. Non posso pronunciare le solite banalità. Già troppi lo fanno, la banalità del banale non è solo una malattia dello spirito – è l’attualità del male dietro la maschera progressista. I dipartimenti di salute mentale stanno a Basaglia come la STASI a Marx.

 

Era una legge per imbavagliare il movimento e la chiamarono liberazione.

 

Gli studenti rumoreggiano. I bidelli hanno acceso lo stereo, collegato i microfoni: prendete posto, stiamo per iniziare. Il tecnico ha deciso di mandare una canzone di Loreena McKennith per ingannare l’attesa. Mistica nuvola avvolge la sala. Sono quasi pronto quando un sipario scende rapido davanti ai miei occhi: è la gigantografia di Giorgiana Masi, uccisa il 12 maggio del 1977. Nessuna rimembranza ufficiale: lo Stato ricorda le «sue» vittime, non le «sue» vittime. Serantini, Ceccanti, Lo Russo: chi erano? Oggi: Stefano Cucchi. Gabbo. Aldrovandi. Le «sue» vittime non quelle che miete. Lo Stato ricorda Aldo Moro, io ricordo una notte del ‘67 nella sede della federazione giovanile comunista, avevo quindici anni. Nella divisione dei compiti toccò a me realizzare uno striscione con una scritta blu su fondo bianco: MORO: ABBANDONA GLI ASSASSINI. Io mi richordo anchora quanto mi venne brutta la gamba della R: storta, a punta, mi vergognai di quello sgorbio per tutta la manifestazione anche se nessuno mostrò di accorgersene: con quello che accadeva nel mondo, la guerra sporca in Vietnam, quella fredda in Europa. VIA LA NATO DALL’ITALIA VIA L’ITALIA DALLA NATO. Ma cosa vuoi, a quindici anni e pieno di brufoli sei convinto che tutti guardano te. Forse è per questo che hai già deciso di abbattere tutti i cancelli e distruggere tutte le bombe del mondo. Pensavamo di farcela.

 

Mi sono perso in fantasticherie. Mi incalzano: quando parla il sociologo? Un momento, un momento, mandate ancora un po’ di musica. 13 maggio del 1978. Luccichini del potere democristiano dopo la notte cupa dell’uccisione di Moro. Il 9 lo Stato irremovibile abbandona un uomo al suo destino. Il 13 lo stesso Stato, lo stesso potere, lo stesso governo si scopre libertario, apre le porte dei manicomi e scarcera gli internati. Ferma così il movimento antipsichiatrico e antiautoritario che rischia di mostrare al paese non solo la disumanità degli ospedali psichiatrici ma quella di tutta la disciplina. Vorrei dire ai ragazzi. Quel giorno la psichiatria riprese il cammino trionfale verso la piena legittimità disciplinare, forte di un documento abusivo di libertazione: la 180. Falsche Bewegung. Passaporto falso grazie al quale le malefatte continuano senza chiamate ai danni. Questo vorrei dire and more, much more than this, say it my way. Non credete troppo agli insegnamenti, insegnatevi da soli. Siate autodidatti. Se tutti dicono la stessa cosa chiedetevi cosa non dicono. Se tutti fanno apertamente la stessa cosa chiedetevi cosa fanno di nascosto. Non fate i bulli con i compagni, non sono loro il nemico, il nemico marcia sempre alla vostra testa. Il nemico sono io. Se incontrate il Buddha per la strada, occhio.

 

Quello che non gli riuscì di imbrigliare lo massacrarono.

 

Sapete ragazzi, quello che vorrei davvero dirvi è che se state male, vi sentite infelici o agitati, non riuscite a studiare, pensate di farla finita o non riuscite ad abbandonare lo smartphone nemmeno un minuto, se vi sentite in pericolo e temete le vostre stesse azioni, non fidatevi degli psichiatri. È rischioso. Se andate male in matematica non credete a chi vi dice che avete la discalculia, è soltanto che andate male in matematica, non un dramma. Non credete alle parole brutte e difficili dei controller. Se vi dicono che avete l’ADHD non credeteci, l’ADHD non esiste. Non lasciatevi drogare dalle parole. Quando una parola diventa credenza è difficile toglierla dai vocabolari. Se siete dipendenti dal telefonino non siete dipendenti dal telefonino, ma dagli uomini che tessono il mondo, producono fatti sociali e su questi costruiscono poteri planetari. SIETE DIPENDENTI DAGLI ORCHI, NON DAI TELEFONINI. Tutte le relazioni che vi sembrano relazioni con le cose, le sostanze, gli apparati, sono relazioni con gli uomini e generano sofferenza. Le relazioni con gli uomini sono diventate relazioni con le cose e quelle con le cose relazioni con gli uomini, già lo diceva un oscuro pensatore dell’ottocento, un certo Karl Marx, nato a Treviri il 5 maggio 1818. Or sono duecento anni, la Terra nutriva ancora una speranza. Mi capite se vi dico questo, se vi parlo di rovesciamento della realtà?

 

cosa aspetta a iniziare?

non lo so, ho bisogno di tempo

ma sta per finire

cosa?

il tempo

no quello no, è il mondo che sta per finire il tempo no

no?

 

Mi mettono fretta, ragazzi. Vogliono che dica le solite quattro cose. Menzogne abituali. Non ci riesco. Non posso inneggiare a una riforma-non-riforma. Un fallimento. Le etichette della psichiatria, non solo il manicomio, sono la vera follia, il vero stigma. Il danno. Creano realtà che crea altra realtà. Se scrivo discalculia sul computer il programma non riconosce la parola. Ma la parola esiste ed è diventata fenomeno: se sei abbastanza bravo e inventi la parola e la fai circolare allora hai inventato il fenomeno e ci puoi fare una fortuna.

 

ma insomma, perché il sociologo non parla?

non so cosa dire

facciamo parlare qualcun altro

cosa potrebbe dire al posto mio

lo stigma, la 180…

no, parlo io

ma non è in condizioni

sì che lo sono

 

Discalculia, ADHD, schizofrenia: ragazzi, sono solo etichette stigma impronta bollo marchio timbro di fuoco sul corpo dei dissidenti. Giovani bambini adulti donne. Strega, il rogo ti aspetta. Supplizi psicofarmaci elettrochoc biotech. Il rogo sono i moderni inquisitori psichiatri insegnanti neuro-qualcosa ad accenderlo. Torturano dietro lo schermo della falsa scienza. Tutti, compresi quelli della 180. Lo stigma originario è la diagnosi psichiatrica. Le terapie servono a confermarlo. Restituiscono al medico la garanzia di una diagnosi corretta. Vizio circolare: se riconosci di essere malato ti darò i farmaci appropriati / se prendi i farmaci vuol dire che sei malato.

 

Dottore, sono i farmaci che mi fanno ammalare. Questa affermazione prova la tua malattia.

 

il sociologo sta poco bene

è svenuto

chiamate un’ambulanza

abbiamo problemi per restituire i risultati dei questionari

 

io mi richordo anchora che senthia musicha celthica

mentre la nave bianca scricchiolando

senza ammortizzatori su sconnessi

sampietrini romani trasportava

il corpo delirante all’ospedale

erano in atto tentativi di rianimarlo

confusioni, vanvera – né capo né coda

e venne l’ambulanza a trasportarlo

ma chi è questo?

è il sociologo;

che dice?

sapete ragazzi, vi fottono con le parole, dovete fare molta attenzione alle parole, le parole sono fatti, organizzano la realtà, non c’è realtà prima delle parole solo caos ma quando le parole hanno definito una cosa è difficile cambiarla, vince l’abitudine

avete sentito, ci chiama ragazzi

diglielo che ho cinquant’anni

vi racconterò una ricorrenza, il 12 dicembre del 69 a Chicago Allen Ginsberg testimoniava sui fatti di agosto 68 alla convention democratica, quando la polizia aveva massacrato i dimostranti senza preavviso

non avevano fatto nulla di pericoloso o violento, li aveva massacrati gratis

sta delirando, gli diamo qualcosa per calmarlo?

nello stesso tempo e nello stesso Stato, però a migliaia di chilometri di distanza, fra le Alpi e il Mediterraneo, esplose una bomba

di che parla?

delira

uccise sedici persone, ricorrenze?

perché parla di ricorrenze?

nel 1968 a Boston si riunisce il comitato di lotta dei sopravvissuti alla psichiatria

e che fanno?

parlano

è facile parlare se non si passa ai fatti

le parole sono fatti

ma che dice?

il presente è un’invenzione della memoria

 

ora riportatemi a scuola devo una restituzione agli studenti

qui facciamo un TSO altro che scuola

sta delirando, se ne rende conto?

ah, ma se deliro come faccio a rendermene conto

firmi questo foglio

io non firmo niente

predisponiamo il TSO

lasciatemi! devo andare dagli studenti, si aspettano una restituzione

ma che cosa deve restituire? non può farlo domani?

no, domani è troppo tardi

scade il tempo?

 

due giorni fa, mentre preparavo le tabelle da mostrare ai ragazzi, prendevo appunti, commentavo le loro risposte ai questionari, preparavo insomma la restituzione, hanno bruciato una strega, Erendira

non di questo ero venuto a parlare, ragazzi, ma non riesco a pensare ad altro, allora che faccio? me ne vado e vi lascio in balia di liete novelle sulla 180 che ha chiuso i manicomi e liberato i matti? non ci sono più i manicomi pubblici ma ci sono altri inferni, i circuiti obbligati della riabilitazione, i simulacri della psicoterapia, la libertà vigilata,  l’abbandono; il nostro paese, ma tutto il mondo è paese, no? è strano, chiude i bordelli e pensa di avere eliminato la tratta delle donne, chiude i manicomi e pensa di avere debellato la piaga dei maltrattamenti psichiatrici;

al dipartimento di salute mentale hanno sempre tanto da fare: cambiano spesso la carta intestata iniziando dal font, ah, il font! è così importante il font, e poi il logo, il logo! lunghe discussioni per decidere dove va messa la firma del direttore: a destra o al centro in fondo alla pagina? e la data? e il numero di protocollo? elettronico o manuale, il numero di protocollo va in alto a sinistra subito sotto il logo, sembra facile decidere la collocazione del numero di protocollo nella carta intestata, ma è una grande responsabilità!

sì, lo so, intanto c’è chi muore in un rogo, si butta nel fiume o si spiaccica in strada volando dalla finestra, ma pure un logo non è cosa da poco

c’è chi muore intossicato di psicofarmaci in una clinica o in ospedale, lo so, c’è chi muore come Erendira; s’è bruciata nel parco (due righe di cronaca e via) s’è uccisa (che ci puoi fare quando uno è malato di mente spesso s’ammazza) ha scelto un modo atroce per andarsene, cospargersi di solvente e darsi fuoco (è la malattia) (vuole manipolarci, fare leva sui nostri sensi di colpa)

non dite che è stata assassinata dal sistema, sono pensieri che non si fanno più da tanto tempo, non parlate di femminicidio di Stato, dimenticate in fretta Erendira – occhi impauriti sorriso timido intelligenza tagliente come un bisturi, Erendira vittima dell’indifferenza dei protocolli, del gelo terapeutico, del suo stesso carattere dimesso e ribelle, resistenza passiva difficile da domare, veicolare

due o tre cose so di Erendira, una donna è sempre un mistero, eppure pensavo di conoscerla – richordo le mani, le unghie cortissime rosicchiate dall’ansia dalla timidezza dalla paura – chi le ha strette quelle mani di recente? chi l’ha abbracciata? non rientra nei compiti del dipartimento, Erendira non è carta intestata, non possiamo farci carico dei sentimenti di tutti – richordo i saluti quando arrivava al centro di riabilitazione e quelli per le scale quando usciva – io la conoscevo bene? al dipartimento di salute mentale dobbiamo occuparci di molti, troppi, e poi anche dei quarant’anni della 180, della propaganda sui media e i social, dobbiamo decidere chi mettere a capo delle unità operative complesse e di quelle semplici, di come organizzare la carta intestata, suddividere il territorio, comporre le equipe, dobbiamo sapere chi farà carriera e chi no altrimenti saltano le alleanze

per Erendira, suicida in un parco là dove la città finisce, finisce che non c’è tempo – e adesso il tempo è finito – verrà seppellita in terra sconsacrata? verrà cremata per finire l’opera?

 

***

Roma, 23 luglio 2018

Un nuovo ruolo per il soggetto agli inizi del Novecento. Anche a proposito della relatività #3

2

di Antonio Sparzani

Conseguenze come vedrete piuttosto strane, quelle di cui si diceva qui, ma tale stranezza necessariamente deriva dalla stranezza dell’ipotesi iniziale. Siamo infatti io vredo tutti ben convinti che, se la velocità di un treno che corre sulle rotaie ha un certo valore, rispetto alle rotaie, mettiamo 130 Km/h (chilometri all’ora), rispetto invece ad un altro treno che corra su un binario parallelo, e nella stessa direzione, mettiamo a 100 Km/h (sempre rispetto alle rotaie) sia di 30 Km/h, no? E questo è certamente vero e misurabile con tutti gli strumenti di misura che possediamo. Invece la luce fa, per così dire, eccezione: la luce viaggia a 300.000 Km/s (chilometri al secondo) – valore approssimato – rispetto a qualsiasi riferimento, cioè vista da qualunque altro osservatore, su treni o razzi come si vuole; se io mi metto ad esempio su un razzo che viaggi – diciamo rispetto alla Terra dalla quale viene emesso un raggio di luce parallelo al mio moto – a 250.000 Km/s (cosa difficoltosa assai, con i mezzi che possediamo, ma facciamo finta) e se misuro la velocità di quel raggio di luce, trovo sempre il valore di 300.000 Km/s, e non, come ci si potrebbe aspettare, il valore di 50.000 Km/s.
Tenete presente che queste misure sono tutt’altro che facili, trattandosi di velocità così elevate, ma, a quel che sappiamo a tutt’oggi, le cose stanno proprio così, come avevano cominciato a scoprire Michelson e Morley, e come Einstein ipotizzò nel 1905.

Einstein fin da piccolo fantasticava su cosa si dovrebbe provare quando si cavalca un raggio di luce. Sentite cosa scrisse nella sua, peraltro scarna, autobiografia:

«Perdonami Newton, tu trovasti proprio l’unica via che alla tua epoca era possibile per un uomo dotato della più alta forma di pensiero e di creatività. I concetti che tu creasti guidano ancor oggi il nostro pensare nella fisica, anche se oggi sappiamo che, se vogliamo tendere a una comprensione più profonda delle interconnessioni, essi devono essere sostituiti da altri ben più lontani dalla sfera dell’esperienza immediata».

Einstein in questa fase della sua vita propose e sperimentò come non mai questo allontanamento, certo molto più di quanto non sia poi stato disposto a fare durante il successivo periodo di ulteriore grande fermento connesso con l’emergere della meccanica quantistica.
Egli semplicemente rovesciò la struttura logica della problematica esistente, ponendo assiomaticamente a fondamento della propria nuova teoria quanto prima andava invece spiegato.
Forse diede retta a un’aurea massima che il suo illustre conterraneo Wolfgang Goethe scrisse in una lettera del 1828 al compositore berlinese Carl Friedrich Zelter, con il quale intratteneva una fitta corrispondenza, e che suonava letteralmente così:

“L’arte più grande nella vita del mondo e della cultura consiste nel saper trasformare un problema in un postulato; così ce la si cava”.

Non è straordinario?

Bene, le conseguenze strane della stranezza iniziale sono ad esempio queste:

1. Se un osservatore inerziale O ha con sé un regolo di lunghezza assegnata L, allora un altro osservatore O’, che si muova rispetto ad O di moto rettilineo uniforme con una certa velocità v parallelamente alla lunghezza del regolo, e che voglia misurare la lunghezza del regolo di O, non trova più il valore L, trova bensì un valore un po’ minore che si ottiene moltiplicando il numero L per un fattore minore di 1 che dipende dal rapporto tra la velocità v e la velocità c della luce. Precisamente questo fattore, chiamiamolo β, è pari a ; tenete conto che, per tutte le velocità cui siamo abituati, il rapporto v/c è assai piccolo – ad esempio per la velocità di un missile che viaggi a 10 Km/s , pari a 36000 Km/h, v/c è pari a circa 0.0000333, così che il fattore β differisce da 1 per meno di un miliardesimo, cioè, su una lunghezza di un chilometro, per meno di un micron. È evidente dunque che si tratta di differenze che, a velocità ordinarie, non sono neppure misurabili; tuttavia una simile conclusione rappresenta in linea di principio un notevole sconvolgimento rispetto alla fisica classica, nella quale la lunghezza degli oggetti era un invariante per tutti gli osservatori, in moto l’uno rispetto all’altro in modo qualsiasi.

2. Se l’osservatore O ha un pendolo che scandisce il secondo del suo orologio e l’osservatore O’, sempre in moto rettilineo uniforme rispetto a O con velocità v, misura con il proprio orologio, beninteso identico a quello di O, ogni quanto tempo batte il pendolo di O, trova un valore un po’ maggiore; trova cioè che quando per O è passato un secondo per lui è passato un tempo leggermente superiore, e, anche in questo caso, secondo il fattore β. Dunque secondo O’ il tempo di O scorre un po’ più lentamente. Va anche subito detto che non vi è alcuna asimmetria in tutto questo: ogni osservatore osserva nell’altro, in moto rispetto a lui, gli stessi effetti: così come O’ vede il tempo di O leggermente rallentato, anche O vede il tempo di O’ altrettanto rallentato e così come O vede le lunghezze di O’ accorciate, anche O’ vede le lunghezze di O altrettanto accorciate. Nessuna contraddizione logica, né fisica, si dà in questa simmetria perché ha senso confrontare tra loro tempi e lunghezze misurate dallo stesso osservatore.

Dunque qualcos’altro è necessariamente cambiato nella nostra divisione iniziale tra aspetti oggettivi e soggettivi nella conoscenza. Sembra evidente che a questo punto è aumentato sensibilmente il bagaglio che va ascritto al soggetto osservante: quello che un soggetto vede L, un altro vede βL, e così per gli intervalli temporali. Le proprietà pertinenti al solo oggetto, indipendenti dall’osservatore, diminuiscono. In questo caso, ad esempio, c’è ancora qualcosa che rimane invariante per tutti gli osservatori, ma è qualcosa di un po’ più astratto, di meno intuitivo, è una certa espressione quadratica che contiene gli intervalli di tempo e le lunghezze che qui non mette conto di scrivere esplicitamente, ma che tuttavia costituisce qualcosa di più fondamentale, dal punto di vista di questa nuova teoria, che non le semplici lunghezze o gli intervalli di tempo.

Un altro notevole passo è dunque stato compiuto nella direzione che avevamo indicato inizialmente. Aggiungerei soltanto che su questa strada un ultimo passo, sembrerebbe definitivo, è stato compiuto con la cosiddetta teoria della relatività generale, sempre ad opera di Einstein, nel 1916, sui cui aspetti tecnici certo qui sorvolo, ma a proposito della quale sarà sufficiente indicare, come ormai è prevedibile, che lo spazio della conoscenza riconducibile al puro oggetto si restringe ancora una volta. I soggetti, cioè gli osservatori, “permessi” sono molto aumentati – in realtà sono tutti gli osservatori fisicamente possibili – e dunque più numerose sono le grandezze che possono variare.

Vista sotto questo profilo, dunque, l’evoluzione dell’idea di relatività presenta aspetti che, all’interno dell’ottica della scienza, appaiono inaspettati; essi sono tuttavia necessari non appena si riflette che l’esigenza principale che viene perseguita lungo il filo di questa idea è quella di dire cose della realtà il più intersoggettive possibili, il più possibile comuni a tutti gli osservatori, l’esigenza ultima cioè di non considerare alcun osservatore come privilegiato, né quello che dal Sole vede la Terra ruotargli attorno, né quello sulla Terra che vede il Sole ruotargli attorno, né quello situato al centro della nostra Galassia, che vede – oltre a milioni di altri oggetti celesti – il nostro Sole girargli attorno con una schiera di piccoli oggetti che a loro volta eseguono un moto ad elica attorno a tale Sole, né alcun altro mai.
Lo scopo ultimo della relatività — contrariamente a quanto il suo mal scelto nome potrebbe far pensare – è forse il modo della fisica di cercare la kantiana cosa in sé, l’essenza ultima e inattingibile di ciò che è altro da noi e di cui vogliamo conoscere ciò che da noi è completamente indipendente.
È con questo tipo di sviluppo che la fisica si inserisce in quel più generale contesto culturale che vede, al volgere del secolo, una più vasta e generalizzata espansione, o quanto meno una definizione più precisa, del ruolo del soggetto. La prossima volta parleremo di questi altri contesti.

(Nuove) vite indegne di essere vissute

6

di Mariasole Ariot  

Alla sera abbiamo preso un paio di birre,
e mangiato del chili; è stato magnifico, veramente magnifico.
E non ho scordato un solo istante di essere libera.*

                                                                                                                                                                                          
 

 

Non è novità : la legge 180 viene messa in discussione dalla sua nascita, nella sua alba dagli stessi medici, successivamente in piccole zone liminari, nei bar di periferia, tra le nuove forze di estrema destra e non solo : il pazzo  è un pericolo per la società!, dovrebbe essere internato, riaprano i manicomi!

Un cicaleggio,  frastornante per chi – già stigmatizzato – ne paga le conseguenze sulla propria pelle, nei propri organi interni, ma pur sempre un cicaleggio.

 

Ma il cicaleggio restava un rumore di fondo avvertito solo da chi aveva l’udito troppo fine o già riempito di un vociare continuo, avvertito da corpi in lotta che lottano per riaggiudicarsi uno statuto di dignità.

Quando invece è un Ministro dell’Interno a dirlo pubblicamente, non si tratta più di un rumore di sottofondo ma di un sottosuolo che riappare ed esonda, un rumore dato dalla voce di chi ha voce per imporsi e cavalcare il sottovoce di chi nel lamento ha bisogno di sempre nuovi capri espiatori.

La società psichiatrica ha risposto. Non solo a questa dichiarazione fintamente buonista (come se a Salvini importasse delle famiglie dei malati psichiatrici e dei malati stessi), ha risposto anche ad altre dichiarazioni fatte a voce dallo stesso che dicono “esplosione di aggressioni da parte di persone affette da disturbi mentali”.

 

(dunque i fatti degli ultimi giorni : le pistole alle finestre a sparare al migrante o alla bambina rom : malati psichiatrici?)

 

Eppure, anche questa risposta non basta, non basterà, è necessario aprire le bocche dal basso. Perché, sfortunatamente, nel tentativo lodevole di negare le parole del Ministro degli Interni, anche la società psichiatrica cede e si contraddice. Prima afferma che forse il ministro non sa che l’Italia in questo campo è un’eccellenza, poi, nella contraddizione, chiede che piuttosto vengano dati fondi dove fondi non ce ne sono, dove i fondi sono stati tagliati e continuano a essere tagliati, dove gli operatori addetti alla salute mentale sono troppo pochi per lavorare bene, e le risorse troppo poche per accogliere e prendersi cura di chi ne ha bisogno.

La realtà italiana non è un’eccellenza. Eppure vi sono delle sacche di resistenza che abbracciano la prospettiva basagliana in modo onesto e civile. Mancano i soldi, e questo purtroppo crea una lacerazione tra il voler fare e il poter fare.
Tagli alla sanità, e il taglio è ancor più profondo quando si ritiene che in fondo si ha a che fare con esseri umani di poche pretese, che possono accontentarsi di un pasto, 50 euro al mese per uno stage lavorativo per la reintroduzione al mondo del lavoro , farmaci, un letto, una sala del fumo.

 

Purtroppo esistono ancora i legacci attorno alle sbarre del letto. Le falle del sistema sono tante.

 

Ma il punto è : l’Italia più buona, per Salvini, non sarebbe quella di aiutare seriamente i servizi territoriali per permettere ai malati (specialmente a chi si affida ai servizi pubblici) cure dignitose e spazi di cura decenti, un incremento delle possibilità per i curanti di essere presenti in modo costante e continuativo. L’Italia più buona, per Salvini, è quella di retaggio fascista. Un’Italia in cui i soggetti più deboli vengono rinchiusi o fatti affondare. Un’Italia in cui quelle vite che nel programma Aktion t4 veninivano considerate indegne di essere vissute, per razza o per disabilità, vanno eliminate.

 

Certo – si dirà – nessuno ha parlato di eliminare fisicamente nessuno.
Ma riaprire i manicomi o gli OPG, mettere in discussione una delle poche leggi che hanno segnato un’apertura in questo paese, una fuga in avanti, un passo verso la restituzione della libertà e della soggettività a coloro ai quali era stata sottratta, non è forse, ancora una volta, l’ennesimo tentativo di questo governo di eliminazione, di epurazione?

Si tratti di ri-confinare o di alzare i confini, l’idea di fondo resta la stessa : un ritorno fascista e autoritario che decide come va trattato, operato chirurgicamente nell’esercizio biopolitico di un potere perverso, esseri umani a cui non dev’essere concesso il diritto di vivere una vita degna di essere vissuta.

*testimonianza tratta dalle note di campo di Erving Goffman per la stesura di Asylums

 

Lo straniero è colui che viene. Una nota al margine di Edmond Jabès

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di Giorgiomaria Cornelio

-Qual è l’idea che l’immigrato si fa dell’autoctono?

Quello di un patriota che lo incita a essergli somigliante affinché sia pienamente integrato nella collettività che il patriota stesso rappresenta; e questo, sia nel caso gli rinfacci la presenza, sia in quello che sia mosso dalla buona volontà più sincera. Per lo straniero, ebreo o scrittore, ma ciò vale per tutti gli emarginati (…) che la società, a suo dire per la propria salvezza, condanna in blocco, anche se loda o festeggia qualcuno di loro in nome del pensiero, dell’arte o della scienza, pensando in questo modo di darcela a intendere; ebbene, per lo straniero, quella società è la somiglianza della sua propria differenza, nella separazione, volontaria o temuta, che lo rafforza.

L’immigrato che è ansioso di non essere più considerato come uno straniero, sa che, una volta esaudito il suo desiderio, cessa di colpo di essere se stesso, non essendo ormai altro che una cattiva copia di un modello sospetto?

Lo straniero è forse colui che acconsente di pagare, modesto o esorbitante che sia, il prezzo della propria estraneità.

Dunque, il prezzo pagato per rimanere straniero; per ciascuno di noi, il prezzo pagato per essere se stessi.

Ti ricordi la storia, ad un tempo comica e drammatica, di quell’africano, entusiasta, sentimentale, il cui amore per la Francia era talmente espansivo, che la notte si coricava sulla nostra bandiera, fino al giorno in cui fu vilmente denunciato alle autorità di polizia da parte di alcuni vicini che avevano interpretato questo gesto come un oltraggio alla patria?

Ma, più che dell’immigrato, prototipo della più grossolana idea che si potrebbe avere dello straniero, è prima di tutto di noi che si tratta. […]

Edmond Jabès, “Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato”

 

Intanto lo studio delle strutture cave.

Se scrivo questa nota sul greto della pagina è per prendere congedo da un doppio fraintendimento sulla parola straniero, e per vivificarne il senso attraverso la scrittura di Edmond Jabès.

Integrazione: non sappiamo più che farcene dell’inquieta dolcezza di questa definizione. L’abuso ne ha soffocato la lateralità, e il groviglio di radici. Ugualmente per l’immigrato o l’emarginato, essa si è risolta con una duplice congiura alla sua estraneità: il rifiuto o l’assimilazione sociale.

Eppure lo straniero sembrava essere giunto soltanto per ribadire che l’identità è una regione disabitata, o piuttosto quanto perdura a trattenersi come dissomiglianza.

Per lo straniero che ha appreso la sua totale estraneità, e dunque il continuo divenire altro, fingere un’amnesia non è abbastanza quando tutto tradisce il marchio d’una antica registrazione. Ma è proprio l’obbligo a ricordare a costituire, per lui, un’esortazione alla dimenticanza.

Così, rivolgendosi ad esempio alla razza e al genere– questi toni dell’essere da lui dismessi e che tuttavia non zittiscono l’umore tumultuante della loro superficie – egli si chiede: che farne ora del loro perimetro ancora bruciante di riconfigurazioni e di fermenti, di formicolii tellurici e archetipici?

Risponde: giochiamoli come protesi per inventare la vita, come tinte da sviluppare in luogo di una trascolorazione, cioè come esperienza acrobatica e schizofrenica del bordo, dal quale sempre non si fa altro che partire e congedarsi.

Così, vigilando una concentrazione di visitazioni e sopravvivenze, lo straniero –perpetua sorgente di conversioni- va montando la propria modellatura vivente come fosse un praticabile per un corpo a venire, limine e “metafora di un inaccessibile”, di un infigurabile:

“-Lo straniero è colui che viene.
-È sempre colui che è sul punto di venire.”

Il nido

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di Gianni Biondillo

Tim Winton, Il nido, Fazi Editore, 2017, 442 pagine, traduzione di Stefano Tummolini

Trovarsi quasi a cinquant’anni, dopo una vita di successi personali frantumati: questa è la condizione di Tom Keely, rincantucciato all’ultimo piano del condominio dove abita, spesso riverso a terra, svenuto dopo sbronze colossali o uso eccessivo di farmaci. Per stordirsi, per annientarsi.

È la storia di un fallimento quella che ci racconta Tim Winton. Di come un ambientalista noto ai media australiani per le sue battaglie ideali, dopo aver calpestato un callo di troppo al potente di turno, venga messo all’angolo, abbandonato da tutti.

Conosciamo il protagonista de Il nido forse nel suo momento peggiore, quando le sue certezze sono ormai definitivamente sfaldate. Poi il caso (come ogni romanzo che si rispetti) ci mette lo zampino. Tom scopre che al suo stesso piano abita Gemma. Si conoscevano in gioventù, lei, più giovane di pochi anni, si rifugiava spesso a casa sua, scappando da un padre violento. Oggi è una donna che conserva a fatica la sua bellezza passata. Ha poco più di quarant’anni e un bambino di sei anni, Kai, intelligente e triste, curioso e autistico. Kai in realtà non è suo figlio. Gemma è la nonna. La giovane madre è in carcere, perduta in un giro di droga e con un marito più sballato di lei.

Il nido è la storia dell’incontro di tre fallimenti: l’idealista divenuto cinico, la ragazza invecchiata troppo in fretta, il bambino convinto che non conoscerà l’età adulta.

La scrittura di Winton appare dapprima zoppicante, colloquiale, antigraziosa. In realtà è inesorabile come un meccanismo ad orologeria, capace di porre il lettore di fronte a situazioni di grande intensità, evitando patetismi stucchevoli o triti espedienti romanzeschi. La paura qui è paura. L’ansia, l’angoscia, l’impotenza, la speranza, il disincanto sono veri. Il romanzo, chiusa l’ultima pagina, memorabile.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 5 del 31 gennaio 2017)

Il fascismo secondo Romain Gary

1

Lettera a Dominique de Roux

di

Romain Gary

(traduzione di Francesco Forlani)

Romain Gary mi scrive.

Ho letto il suo Gombrowicz. Contiene dei forti ‘pezzi di scrittura’.

Le dico allora… esiste in lei un autentico scrittore, indubbiamente degno di nota che però, me lo conceda, dà l’impressione di essere scampato soltanto per un banale inconveniente anagrafico, al vortice dei contraddittori eventi del ’45.

Leggendo Dominique de Roux, è impossibile non chiedersi cosa avrebbe provato nel ’41. La resistenza, forse umanamente, ma dal punto di vista letterario l’ira.

Non si tratta per nulla di una questione di fascismo di fondo:  è il gusto eccessivo della forma che sfiora il vuoto, l’aura del ‘detto’ che sembra esigere, reclamare, sbattendo e puntando i piedi per terra, il fondo fascista, il contenuto nazista.

Il fatto è che non esiste, né è esistito mai un contenuto fascista. Il fascismo è sempre stato un contenitore che soffre del vuoto interiore, del suo vuoto, ecco perché può trasformarsi facilmente in fossa comune. I cadaveri fanno sempre molto ‘contenuto’.

Che nel vostro caso si tratti solo di cadaveri letterari -J-J.S;-S, Nabokov o X,Y,Z, la musica non cambia.

Quando si è nel 1971 e si è troppo intelligenti per fare il Rebatet, ci si ammanta d’anarchia; è una nudità che immediatamente riveste. Quando si rifiutano del fascismo delle idee troppo vuote, in realtà le si sostituiscono con facce da prendere a schiaffi, anche quando non si prova niente per quelle facce: è questo che « fa contenuto ». Qualsiasi faccia andrà bene, poiché in base allo stile in questione, non sono le facce ad attirare gli schiaffi, ma gli schiaffi a creare e inventare le facce. A tutto ciò va aggiunta la sua mania di fare appello senza sosta alla faciloneria letteraria più vecchia del mondo, Céline o Gombrowicz: il nulla. Perfino il nulla -senza paradossi- fa “contenuto”. Eppure il nulla basta a tal punto a sé stesso da generare in filosofia o in letteratura  soltanto altro nulla.

Poiché reputo il talento del suo ‘scrivere’ degno di nota, e che da osservatore quale sono la trovo simpatico – mi piace starmene a guardare giovani talenti letterari che a ogni nuova generazione ricominciano questi balletti parigini, questi «Pomeriggi di un fauno» – e poiché l’avere sperimentato in svariate occasioni simili trabocchetti fa di me un esperto in materia, la metto semplicemente in guardia dal pericolo.

Lasci perdere questi regolamenti di conti personali per interposte personalità.

La vaghezza di contenuti che la mette in collera la spinge a riempire quel vuoto con facce che calpesta con l’impressione di sentire finalmente qualcosa di consistente sotto i tacchi.

Non ho mai conosciuto nessuno in letteratura che convinto di danzare sulla testa dell’ennesimo capro espiatorio della propria consapevolezza del vuoto interiore, dell’angoscia da derviscio turbinante, non si trovasse alla fine la propria faccia sotto i piedi.

Lei ha più talento di quanto non creda, e merita di più dell’essere il Tom Woolf delle piccole lettere francesi, del resto, come traspare nel suo Gombrowicz, lei passa per le armi Nabokov come il nano Woolf ha appena fatto con Leonard Bernstein in Radical chic.

In altre parole, lei dovrebbe affrontare non altri ma sé stesso con ferocia, coraggio e senza pietà.

Io è un contenuto che la chiama, il grande appuntamento letterario è con lui. Però non si va da nessuna parte se si è presi nel balletto intorno alla propria testa.

(21 octobre 1971.)

Nota al passo

Questo testo di Romain Gary è contenuto nel libro pamphlet Immédiatement di Dominique de Roux e che uscirà nella collana Tamizdat (ed Miraggi) quest’autunno. Di Dominique de Roux avevo già pubblicato su Nazione Indiana alcuni frammenti che è possibile leggere qui. Ho ritenuto importante pubblicare questa lettera in questi concitati giorni di furia post fascista perché con quasi mezzo secolo di anticipo sui nostri tempi, troviamo nelle parole del grande scrittore francese Romain Gary la migliore risposta a quanto sta accadendo in Italia. L’errore maggiore che si possa commettere  è allora quello di ostinarsi a pensare il fascismo come un contenuto e soprattutto tentare di riempire quel vuoto consustanziale al fascismo con la più fascista delle reazioni, ovvero, cercarsi delle facce da prendere a schiaffi.

La codardia e il silenzio

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di Michele Toniolo

Tu sei codardo, figlio mio. Non riuscirai mai a conquistarti un posto nel mondo. Tu sei codardo.

Mio padre è sconfitto. Queste parole iniziano la sua malattia. Si arrende alla sesta notte d’insonnia e le spinge verso di me. Lascia che accadano dopo averle trattenute in un esodo sterminato. La sua mano si solleva come una radice strappata e si aggrappa alla sbarra del letto, mio padre solleva il busto e mi guarda. Perché piangi? Sta dimenticando. Copro la sua mano con la mia. Mio padre allunga le gambe verso il fondo del letto, adagia la schiena, appoggia la nuca sul cuscino, tira le coperte e il lenzuolo fin sotto il mento, parla senza voce ora, a sé stesso, muovendo appena le mani, senza dolore né rassegnazione.

La malattia di mio padre mi ha impugnato senza tregua. Mi ha chiesto stretto al suo fianco per sei anni. L’ho aiutato a riconoscersi, dopo ogni caduta, di nuovo uomo. Tutto è accaduto nel silenzio di mio padre e nella sua immobilità. Riconosceva nella mia presenza il coraggio che le sue parole avevano negato, ma nella sua malattia mi sentivo giustificato. Mi ero aggrappato alla malattia di mio padre come un rampicante. L’avevo coperta con tutto me stesso e coprendola l’avevo tenuta viva, perché se si fosse spenta mi sarei spento an­ch’io. Avevo riempito il silenzio di mio padre con tutte le mie parole, agitato la sua immobilità con ogni mio gesto. Avevo avuto bisogno della sua malattia come una zecca di una pecora. Ma questo per mio padre non contava nulla. La sera in cui riconsegnò tra le mie braccia il suo respiro a Dio, mi parlò. Lo fece come se non fosse stato in silenzio per sei anni, quanto le notti d’insonnia che lo avevano costretto a letto. Non mi consegnò l’assoluzione da una colpa, né il perdono di un errore. Mi insegnò chi ero. Non temere, mi disse. Hai saputo ama­re. Sorrise e chiese le mie braccia per alzarsi, come se avesse finto anche l’immobilità, non solo il silenzio.

 

NdR: questo è il primo racconto della raccolta “La tentazione di Bonhoeffer”, di Michele Toniolo, pubblicata da Galaad (2018, 7 euro)

Altri consigli rilkiani ai poeti

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di Antonio Sparzani

Dodici anni fa pubblicavo qui una delle lettere di Rainer Maria Rilke a un giovane poeta, cercando di dare sollievo e conforto, e magari consigli, per l’appunto a tutti i giovani poeti. Adesso mi sono imbattuto nel Malte Laurids Brigge, dove ho trovato quest’altro testo, forse meno incoraggiante, o comunque con consigli assai più pesanti. Vedete voi.

Credo che dovrei cominciare a lavorare a qualche cosa, ora che sto imparando a vedere. Ho ventotto anni, e non è accaduto quasi nulla. Ricapitoliamo: ho scritto uno studio sul Carpaccio, cattivo, un dramma intitolato Matrimonio che vuole provare una tesi falsa con mezzi ambigui, e versi. Ma i versi, ahimè, significano così poco, se scritti presto. Si dovrebbe aspettare a farne, raccogliere saggezza e dolcezza per una vita intera, una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, alla fine, a scrivere dieci righe che siano buone. Perché i versi non sono, come si crede, sentimenti (che si hanno abbastanza presto) – sono esperienze. Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori s’aprono il mattino. Bisogna poter ripensare a cammini in contrade sconosciute, a incontri inattesi, e ad addii che si vedevano da tanto in arrivo, a giorni dell’infanzia ancora inesplicati, ai genitori che dovevamo amareggiare quando ci portavano una gioia che non capivamo (era una gioia per un altro…), a malattie infantili, che cominciavano in modo così singolare, con mutamenti tanto gravi e profondi, a giorni in stanze quiete e raccolte, e a mattini sul mare, al mare, ai mari, a notti di viaggio che frusciavano via alte e volavano con tutte le stelle – e non è ancora abbastanza, bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di donne con le doglie e di bianche, lievi puerpere addormentate, che si chiudono. Ma occorre anche essere stati vicino a moribondi, essere stati seduti accanto a dei morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori che entrano a folate. E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, bisogna avere la grande pazienza di attendere che tornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienze. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un’ora rarissima, s’alzi ed esca dal loro centro.
Ma i miei versi sono nati altrimenti, dunque non sono versi… E come m’ingannavo, quando scrissi il mio dramma. Ero un pazzo o un imitatore ad aver bisogno di un Terzo per raccontare il destino di due persone che se lo rendevano difficile a vicenda? Con che facilità caddi nel tranello.

[Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano 2001, pp. 20-22]

Do you remember Alessandro Leogrande?

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Perché rileggere Il naufragio di Alessandro Leogrande

 

di Fausto Maria Greco

 

Alla sua morte, il 26 novembre scorso, lo scrittore, giornalista e animatore culturale di origine tarantina Alessandro Leogrande è stato ricordato da tutti gli organi di stampa, televisivi ed in Rete.

Avremmo sentito la mancanza – dicevano – della penna di Leogrande, capace di produrre, in soli quarant’anni di vita, inchieste decisive sul caporalato nel sud Italia (il pluripremiato Uomini e caporali, 2008), sulla criminalità organizzata (Le male vite, 2003; Nel paese dei viceré, 2006), sui flussi migratori tra passato e presente (La frontiera, 2015), oltre ad aver curato interessanti antologie di narrativa e collaborato con numerosi giornali e riviste nazionali.

Eppure, nel corso di queste ultime settimane caratterizzate da una martellante propaganda politica condotta sulla pelle di oltre seicento migranti messi in salvo dalla nave Aquarius e di molti altri dispersi a est di Tripoli tra giugno e luglio, pochi sono stati i riferimenti, a nostro avviso emblematici, alla vicenda di cui Leogrande si è occupato in uno dei suoi libri più importanti, Il naufragio (2011). La tragedia della Kater i Rades (letteralmente “Battello in rada”), affondata la sera del 28 marzo 1997 nel Canale d’Otranto, contiene invece una lezione da non dimenticare. L’autore definisce tragico, perché assolutamente evitabile, il naufragio della motovedetta albanese, partita stracarica di migranti dal porto di Valona alle tre del pomeriggio. Le cause della morte di 57 persone, più 34 superstiti e 24 dispersi, sono state umane, non naturali.

Il racconto di Leogrande, frutto di una lunga ricerca condotta tra Italia e Albania, partiva dalla crisi politica apertasi nel paese balcanico nella primavera del ’97, in seguito al crollo delle società finanziarie a cui tantissimi albanesi avevano affidato i loro risparmi e dopo la rivolta del sud del paese, con lo scoppio di una guerra civile. Quando il presidente della Repubblica Sali Berisha decise di imporre il coprifuoco e di chiudere militarmente la partita con il sud, gli scontri a fuoco diventarono pressoché quotidiani e molti albanesi, impossibilitati a partire dall’aeroporto di Tirana e dai porti di Durazzo, Saranda e Valona (tutti chiusi dalle autorità), provarono a imbarcarsi clandestinamente verso l’Italia, salendo a bordo di qualsiasi natante. Sulla Kater i Rades, piccola motovedetta adatta a contenere non più di nove o dieci persone, trovarono posto circa centoventi tra uomini, donne e bambini. I clan di Valona, che organizzavano questi trasporti, avevano chiesto loro dalle cinquecentomila a un milione di lire a testa. Nel racconto di Leogrande, tra i passeggeri c’è Bardhosh, imbarcatosi con tutta la sua famiglia, alla quale sopravvivrà dopo il naufragio. C’è Fatmir, che nella tragedia perderà la madre, la sorella, il figlio della sorella e il cognato. C’è Ermal, che ha imparato l’italiano seguendo i programmi televisivi del nostro paese e che al momento dell’affondamento si trova nella stiva, insieme alle donne e ai bambini. Sua madre gli dice di salire sopra e lui obbedisce: non la rivedrà più perché, pochi secondi dopo, si ritroverà in acqua e raggiungerà con difficoltà, a nuoto, la nave militare italiana che si è scontrata con la motovedetta albanese.

 

Ermal ripensa spesso a quelle poche parole: “Va’ su. Non stare qui”. Anzi, quell’esortazione, che gli ha salvato la vita, non gli esce più dalla testa. E da allora, per sempre, per tutti gli anni a venire, sarebbe stata la prima frase che gli veniva in mente appena svegliato, e l’ultima a cui pensare prima di addormentarsi. La madre, quasi avesse intuito quello che sarebbe successo pochi secondi dopo, quasi parlasse già dal mondo dei morti, gli aveva salvato la vita. Lo aveva sottratto all’abbraccio del Mediterraneo. Va’ su. Non stare qui… Va’ su. Non stare qui…[1]

 

Fra i trentaquattro superstiti si conteranno due sole donne: una è Ismete, che voleva raggiungere il marito a Brescia e che nell’incidente perde la figlia dodicenne. A Valona, molte altre si ritrovano ignare della sorte dei loro mariti. Una di queste è Pushime, che ha visto partire a bordo della motovedetta albanese il marito Kastriot con sua sorella e due bambini.

Il reportage di Leogrande alterna le storie delle vittime e dei loro familiari, dei sopravvissuti e dei comitati in cui si sono riuniti, all’approfondimento del contesto politico e sociale di riferimento e alla ricostruzione delle difficili indagini giudiziarie e dei processi riguardanti la tragedia del Venerdì Santo. Il modello letterario è quello di A sangue freddo (In Cold Blood, 1965) di Truman Capote, ma tanto l’inchiesta quanto il saggio, per Leogrande, vanno «sventrati», come l’autore spiegò in un intervento a Gioia del Colle : alternare la prima persona alla terza, l’oggettività alla soggettività, l’approfondimento alla narrazione, si rende necessario per restituire non soltanto la complessa dimensione storico-politica della vicenda, ma anche e soprattutto quella umana, individuale, che altrimenti rischierebbe di sfuggire. L’esempio di Anatomia di un istante (Anatomía de un instante, 2009) dello scrittore spagnolo Javier Cercas, autore di un’inchiesta sul colpo di stato del 23 febbraio 1981 in Spagna, influenza poi la struttura del testo di Leogrande: la penna di Cercas si sofferma, infatti, sulle biografie dei soli tre parlamentari che, di fronte alle minacce del colonnello Tejero, restarono seduti ai loro posti sfidando i golpisti e finisce per tornare, pressoché in ogni capitolo, su quei secondi decisivi che restano impressi nella mente di tutti gli spagnoli e che furono trasmessi in televisione in lieve differita. Analogamente, il racconto di Leogrande torna più volte al momento del naufragio, alle concitate manovre che si svolsero sulla nave albanese e su quelle militari italiane che si trovavano, nel tragico Venerdì Santo del 1997, nel Canale d’Otranto. Un po’ alla volta, però, si allarga lo sguardo al contesto di riferimento e i dati che l’autore cita nel libro concorrono a motivare un giudizio critico sugli eventi narrati.

Tuttavia il senso del libro di Leogrande si dispiega già nelle prime pagine, quando le storie dei naufraghi lasciano il posto alla vicenda parallela del capitano di corvetta Angelo Luca Fusco. Il 28 marzo del 1997, Fusco si trovava al comando Maridipart di Taranto, la sala operativa che teneva i contatti con le navi dislocate nell’area di pertinenza (mar Jonio e Canale d’Otranto), in coordinamento con il Comando in capo della squadra navale (Cincnav) di Roma. Il processo che riguarda la strage si è basato proprio sulla testimonianza del militare, che ha ascoltato parte delle comunicazioni intercorse tra le navi e i comandi da terra prima di allontanarsi e venire a sapere, poche ore dopo, del naufragio. Fusco si è ritrovato, all’uscita dalla sala operativa, alle nove di sera, nel mezzo della processione dei Misteri, in corso di svolgimento a Taranto durante il Venerdì Santo. Tra i penitenti scalzi e incappucciati, mentre tenta di uscire dalla folla, Fusco si trova di fronte alla statua dell’Ecce Homo e vi riconosce il proprio stesso sconvolgimento:

 

Un Cristo triste con la corona di spine posta sulla testa insanguinata e una pezza rossa intorno al corpo nudo. […] Quell’uomo, scolpito nel legno tre o quattro secoli prima, non sta provando compassione per il mondo, ma stupore. Una profonda meraviglia, velata di tristezza, per la violenza, il non senso, l’indifferenza, l’ignavia, l’impossibilità di raddrizzare le cose. Quel Cristo dai lineamenti popolari sembra un innocente piombato improvvisamente in mezzo a una mattanza.[2]

 

Alla storia del capitano Fusco fa seguito, ne Il naufragio, la ricostruzione dell’iter processuale relativo al disastro della Kater i Rades. Con la seguente avvertenza:

 

Seguire parola per parola ciò che viene pronunciato in un tribunale produce spesso uno strano effetto. Si ha la sensazione che accanto alla corrente centrale di ogni azione penale, quella volta all’accertamento di questo o di quel reato (in tal caso, un naufragio), vi sia – ai margini – un’accanita battaglia delle idee e delle parole tesa a spostare ora un centimetro avanti, ora un centimetro indietro, l’interpretazione del contesto. E l’interpretazione del contesto altro non è, in fondo, che l’interpretazione dell’Italia, il paese in cui certe cose possono accadere. Il paese in cui ogni strage, quando non sia prodotta da un evento naturale, è avvolta da una insopportabile coltre di silenzio.[3]

Più ancora della coltre di silenzio che ha reso difficile l’accertamento delle responsabilità,[4] a Leogrande interessa però il piano dell’«esegesi del presente che ci circonda attraverso i suoi brandelli che si sedimentano in reperti, che lasciano traccia di sé nelle carte giudiziarie, oltre che nella vita dei sopravvissuti, degli esseri umani in carne e ossa»[5]. Un naufragio è infatti «solo apparentemente un fatto collettivo», è prima di tutto «la somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali è incommensurabile, intraducibile, mai pienamente narrabile»[6]. Il tentativo di raccontare, di dar voce a tutte queste prospettive individuali, andava fatto. In tal senso, diversi elementi sono intervenuti a confortare le scelte dello scrittore. Innanzitutto, nel caso della Kater i Rades, la richiesta dei familiari delle vittime e dei superstiti di ottenere giustizia è stata l’occasione per una consapevolezza che ha riguardato tanto il nostro Paese quanto l’Albania. Nel 2011 pareva dunque a Leogrande che quello della Kater i Rades fosse «forse l’unico naufragio recentemente accaduto nel Mediterraneo che abbia sedimentato, nel tempo, una comunità di sopravvissuti», i quali oggi vivono in ogni parte del mondo, non solo a Valona, e si riconoscono in quella tragedia. Una comunità, allargata anche ai parenti e conoscenti delle vittime, che prende forma già nei giorni successivi alla tragedia, ricostruiti da Leogrande con estrema attenzione. Nessun ministro italiano, allora, si reca a Brindisi. Il presidente del Consiglio Romano Prodi va a Valona solo il 13 aprile, più di due settimane dopo il naufragio, per promettere il recupero del relitto e ribadire la tesi sostenuta dallo stato maggiore della Marina: la colpa dell’incidente sarebbe da attribuire alla nave albanese, che ha accostato a destra improvvisamente, causando lo scontro con la corvetta della Marina militare italiana, ben più lunga e pesante, impegnata nel pattugliamento di quel tratto di mare. Intanto, nella stessa notte del disastro, l’ONU dà il via alla missione internazionale “Alba”: il contingente italiano avrebbe presidiato l’aeroporto di Tirana e le principali vie di comunicazione del paese.

Berlusconi, all’epoca capo dell’opposizione politica in Italia, arriva invece a Brindisi pochi giorni dopo l’incidente, incontra i sopravvissuti e promette di portarli nella sua villa di Arcore :

 

“Son cose che sono indegne di noi,” dice colui che undici anni dopo, da presidente del Consiglio, avrebbe firmato gli accordi di amicizia italo-libici per il respingimento dei migranti nel Mediterraneo. […] Vorrei che tutti gli italiani avessero avuto l’incontro che adesso ho avuto io con questa gente che perso tre figli, che ha perso la moglie, che sperava di venir qui a trovare un paese libero, democratico in cui poter lavorare, in cui potersi affermare”.[7]

 

Ma i sopravvissuti chiedono giustizia, non elemosina. Il comitato che riunisce i superstiti e i parenti delle vittime della Kater i Rades chiede innanzitutto il recupero della motovedetta e dei corpi. A sette mesi dal naufragio, il relitto viene effettivamente riportato alla luce e tocca le sponde pugliesi. Nella stiva non nasconde pistole, né altre armi o munizioni come qualcuno ha sostenuto, ma corpi di varia grandezza: «decine di corpi imprigionati, ammassati e sbattuti qua e là. Donne e bambini, nient’altro che donne e bambini, abbracciati tra loro. Con le bocche spalancate. Avvolti da una strana panna bianca, untuosa, viscida, gelatinosa. Dall’odore rancido».[8]

Ermal riconosce il cadavere di sua madre e torna a Valona. Lì lo raggiunge lo scrittore, interessato a conoscere da vicino la società albanese, a incontrare i parenti delle vittime del naufragio, a farsi raccontare le loro storie. Altri familiari sono in Italia: è il caso di Hasim, il quale vive a Roma e risponde così a Leogrande che lo intervista:

 

Fermare le navi? Mi chiedi se mio fratello quando è partito sapeva che l’Italia aveva deciso di fermare le navi? No, e che sapevamo noi? Ma tu sai che cos’è una guerra civile? Sai come si vive durante una guerra civile? Non ho mai visto in vita mia una roba del genere. La gente brucia le macchine per strada, durante una guerra civile. È armata, durante una guerra civile. Tu passi e loro ti fermano, e poi ti sparano senza motivo, per due soldi in tasca.[9]

A Valona, il 14 novembre del 1997, si svolgono i funerali delle vittime, a cui partecipano circa cinquantamila persone. Leogrande descrive il mausoleo eretto al centro del cimitero, con le tombe ai due lati (comprese quelle dedicate ai dispersi in mare), e racconta l’odissea di alcuni familiari, come quella di Xhiko Muçaj, il cui figlio, da un certo momento in poi, non figura più negli elenchi ufficiali dei dispersi, come se non fosse mai salito su quella nave. Di fronte alle loro storie, scrive: «Vorrei urlare, solo urlare, urlare contro tutto questo non senso, contro tutti questi rivoli di sofferenza, di vite spezzate, di vite andate a male, di cui in Italia non si sa più niente, o forse non si è mai saputo niente»[10]. Alla vista di quel che resta della Kater i Rades, nulla più che «un catorcio arrugginito» nei pressi del Forte a Mare, davanti al porticciolo turistico di Brindisi, la domanda è: «Quanti minuti impiega un bambino per morire affogato?».[11]

Per Leogrande, quel Venerdì Santo di morte non può che tornare in mente ogni volta in cui si parli e si parlerà di “respingimento di clandestini” in alto mare. «Per questo, – spiega – col tempo quella tragedia non la si è nominata più, fino a dimenticarla. Il paragone avrebbe orientato ogni dibattito politico sul contenimento dei flussi migratori in altro senso. Invece, buttando a mare quella che poteva essere la pietra angolare di ogni discorso, quel dibattito è tornato ogni volta vergine, esattamente allo stesso punto di partenza del 25 marzo 1997, tre giorni prima dello speronamento, quando Dini e il ministro albanese si sono scambiati le loro lettere»[12]. Le lettere a cui si fa riferimento sono quelle scambiate tra il ministro degli Esteri italiano di allora, Lamberto Dini, e il suo omologo albanese Starova, allo scopo di rafforzare la collaborazione tra i due governi e far fronte al crescente «flusso illegale di cittadini albanesi verso altri paesi»[13]. Il governo italiano offriva la propria assistenza per «il contenimento in mare degli espatri clandestini», compreso il fermo in acque internazionali e «il dirottamento in porti albanesi da parte di unità delle Forze navali italiane di naviglio battente bandiera albanese o comunque riconducibile allo Stato albanese»[14]. Di fatto, osserva Leogrande, lo scambio di lettere sanciva una sorta di blocco navale, le cui regole di ingaggio, emanate lo stesso 25 marzo del ’97, prevedevano anche azioni di disturbo e manovre intimidatorie volte a interrompere la navigazione verso le coste italiane (si trattava di operazioni di harassment, termine usato anche in un’altra sfera, quella delle violenze sessuali, per indicare le molestie esplicite).

Per Leogrande nel 2011, ma crediamo valga anche per noi in questo 2018, non molto sembra essere cambiato da quel marzo del 1997. Il mutamento è stato di carattere geografico: alla frontiera orientale (Albania-Salento) si è sostituita quella meridionale (Libia-Lampedusa), ma i termini della questione sono «simili a quelli posti negli anni dell’“emergenza albanese”»[15]: da una parte migliaia di esseri umani che provano a raggiungere le sponde dell’Europa; dall’altra i paesi dell’Unione che vorrebbero respingere i flussi o governarli, mentre proseguono le morti in mare.

Il naufragio della Kater i Rades costituisce, così, un paradigma imprescindibile per tutti i naufragi successivi, non tanto per il numero dei morti quanto perché non si è trattato di un evento naturale, ma di un prodotto delle politiche di respingimento e perché anche semplicemente ipotizzare l’idea di un blocco navale nel Mediterraneo significa correre il rischio di una strage. Ciononostante, già nel 2011 secondo Leogrande, il dibattito politico pareva impermeabile al ricordo del naufragio del Venerdì Santo. Ancora oggi, ogni volta che aumenta la pressione alle frontiere, l’espressione “blocco navale” torna sulla bocca di politici e commentatori, proprio come avveniva nell’anno in cui è stato pubblicato il reportage narrativo di Leogrande.[16]

Il naufragio della Kater i Rades è una pietra di paragone per tutti i naufragi successivi anche per un’altra ragione, che in parte abbiamo già accennato: perché è stato possibile raccontarlo, ricostruire le storie di chi è partito ed era a bordo della nave, di chi aveva salutato la motovedetta in partenza sul molo di Valona e di chi la attendeva all’arrivo in Italia. È merito anche dei superstiti, osserva il narratore: a differenza di quanto accade di solito, essi non hanno preferito dimenticare o chiudersi nel silenzio. «La richiesta di recupero del relitto, e poi quella dei risarcimenti, ha sedimentato una comunità di superstiti e famigliari»[17] che il 28 marzo di ogni anno si reca al molo di Valona a gettare fiori in mare. Alla memoria dell’evento hanno poi contribuito le testimonianze rese al processo, nonostante questo non abbia accertato, secondo l’autore, una parte delle responsabilità, in particolare quelle della politica e degli alti comandi militari. In ogni caso, raccontare la vicenda del naufragio significa provare a «rompere la cappa di assuefazione che avvolge tutte le morti in mare»[18]. Il ricordo non può prescindere da parole pronunciate sia in italiano che in albanese, dal racconto dei superstiti e degli anziani genitori delle vittime, dei figli e dei nipoti. Non basta che il relitto della Kater sia oggi divenuto un monumento, esposto presso il porto di Brindisi: «i monumenti […] rimangono sepolcri imbiancati, contenitori vuoti, se non vengono irrorati di storie e di ricordi, di rabbia e di redenzione».[19]

Ancora un’altra ragione ci suggerisce di rileggere il testo di Leogrande per coglierne attentamente la lezione. Secondo l’autore, gestire diversamente quei mesi del ‘97, con l’arrivo di poche migliaia di persone sul suolo italiano, soprattutto «senza farsi ricattare dalla questione sicurezza-immigrazione», avrebbe evitato la tragedia. Invece l’Italia non seppe gestire l’emergenza dei boat-people durante la guerra civile albanese e mise la propria Marina militare in una condizione molto difficile, stretta da un lato da accordi politici che tradivano una scarsa conoscenza delle reali dinamiche del mare (mentre oggi è la Guarda Costiera a mostrare imbarazzo)[20] e dall’altro da un clima politico surriscaldato. Uno dei grandi pregi del racconto di Leogrande è proprio la restituzione di quel clima politico, le cui parole d’ordine ricorrono ancora oggi nel dibattito pubblico, ma in modo più approssimativo e penoso:

 

Il 25 marzo 1997, tre giorni prima del naufragio, i vertici della Lega emettono un comunicato: «Il Governo provvisorio della Padania, esaminata la grave situazione di tensione e preoccupazione che si è venuta a creare in Padania, a causa delle irresponsabili decisioni del Governo di Roma sull’introduzione di migliaia di albanesi, di cui molti evasi dalle carceri di Tirana, ha decretato la costituzione dell’Associazione di protezione civile Ronde Padane con il compito di operare attivamente sul territorio della Padania per la prevenzione e per la difesa dei diritti dei cittadini minacciati nella loro incolumità, nel loro patrimonio, nella loro identità». Pochi giorni prima, Umberto Bossi ha gridato da un palco che è necessario istituire una Guardia nazionale composta da uomini armati di mitra. Si inizia così a parlare di ronde. Roberto Maroni, che è stato ministro dell’Interno, e che lo sarà ancora dal 2008, si affretta ad affermare che quello delle ronde è un movimento spontaneo. Non può essere arrestato. Deve essere solo riconosciuto. Fermare il volere del popolo è roba da leggi speciali.[21]

 

Si ricorda, poi, l’intervista rilasciata al “Corriere della sera” da Irene Pivetti, fino a pochi mesi prima Presidente della Camera, che sosteneva «che per fermare l’invasione sarebbe stato necessario “ributtare a mare” tutti profughi albanesi», mentre la campagna elettorale per le amministrative, in quel periodo, vedeva al centro dell’agenda proprio la linea della fermezza e le misure antialbanesi.[22] Per non parlare dell’«uso di donne e bambini come scudi umani» sulle navi e sui barconi degli albanesi: un’espressione che nei venti anni successivi sarebbe stata usata per provare a giustificare qualunque tipo di violenza nei confronti di civili inermi. Così, anche nella ricostruzione di un clima politico, del suo lessico, del linguaggio che lo sostanzia, Alessandro Leogrande ci aiuta a comprendere meglio l’eterno presente in cui viviamo fin dal 28 marzo del 1997.

 

 

 

 

[1] A. Leogrande, Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 115.

[2] Ivi, p. 53.

[3] Ivi, pp. 106-107.

[4] Già il processo di primo grado, apertosi a Brindisi nel maggio del 1999, ha avuto soltanto due imputati: il comandante della nave militare italiana e il timoniere della Kater i Rades; mentre quello di secondo grado, apertosi nel 2010, ha stabilito che il comandante italiano non avesse posto in essere le manovre di harassment che la sentenza di primo grado gli addebitava, eppure le responsabilità di parte italiana non sono state azzerate e la tesi della presunta “manovra suicida” del timoniere albanese è stata ancora respinta. Dopo la pubblicazione de Il naufragio, è giunta nel 2014 la sentenza della Cassazione. Cfr. http://www.brindisireport.it/cronaca/strage-del-venerdi-santo-i-due-comandanti-condannati-anche-in-cassazione.html.

[5] A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 170.

[6] Ivi, p. 180.

[7] Ivi, p. 61.

[8] Ivi, p. 118.

[9] Ivi, p. 132.

[10] Ivi, pp. 190-191.

[11] Ivi, p. 38.

[12] Ivi, p. 35.

[13] Ivi, p. 20.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 200.

[16] Cfr. A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 204.

[17] A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 206.

[18] Ivi, p. 207.

[19] Ivi, p. 211.

[20] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/pettorino-prestare-aiuto-a-chiunque-rischi-di-perdere-la-vita-in-mare

[21] A. Leogrande, Il naufragio cit., p. 88.

[22] Ivi, pp. 19-20.