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Interférences # 17 / “Leggete Karl Marx”: una cartografia

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di Frédéric Montferrand

traduzione di Davide Gallo Lassere e Andrea Inglese

 

(Si vuole dare il politico per morto, soprattutto in Italia. Intanto arriva la politica dei morti viventi, che riesumano ossame ideologico che pensavamo ormai polverizzato. D’altra parte, in Francia e nel Regno Unito, ma non solo, il marxismo è ancora un crocevia fondamentale per la formazione di generazioni che hanno voglia di comprendere come funziona e come si può cambiare il mondo a partire dai rapporti di dominazione e sfruttamento. Pubblichiamo questo articolo apparso sul numero speciale di Le Monde, collezione “Une vie, une œuvre”, Karl Marx, l’irréductible, edizione 2018. A. I.)

1968. Il maggio francese che cominciava a marzo

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di Daniel Bensaïd

 

Alexandre Kojève, filosofo spregiudicato e carismatico interprete di Hegel, nonché – nell’immediato dopoguerra – consulente diplomatico del Ministero francese dell’economia,  liquidò sarcasticamente l’esperienza di Mai 68 : «Personne n’est mort, donc rien ne s’est passé».  Kojève, invece, morì a giugno dello stesso anno, troppo presto, forse, per poter comprendere pienamente gli eventi di quella stagione. Daniel Bensaïd, tra i fondatori della Ligue Communiste Révolutionnaire con Alain Krivine, fu uno dei protagonisti del maggio francese impegnato, insieme a molti altri militanti della sua generazione, a produrre quelle “contaminazioni pericolose” tra movimento studentesco e movimento operaio, fabbrica e università, che restano a distanza di tempo, e a discapito di omissioni e revisionismi, uno dei tratti distintivi della rivolta del ’68, insieme alla spiccata vocazione internazionalista e anti-imperialista del movimento. Sous les pavés, la plage, certo, ma anche la grève et le luttes anticoloniales.

Qui sotto Bensaïd ricorda le capriole sui prati di Nanterre che segnarono l’inizio del maggio francese.

 

 

È scoccata l’ora…

La rentrée del 1967  aveva un sapore esplosivo. I bombardamenti americani in Vietnam s’intensificavano. In Francia, i decreti di De Gaulle provocavano un’impennata d’agitazione sociale. E dopo lo sciopero emblematico alla Rhodiaceta [una fabbrica tessile di Besançon], gli scioperi di Caen e Redon  scatenavano sommosse.

Noi militavamo a tempo pieno sul campus di Nanterre, dove la Jeunesse Communiste Révolutionnaire (JCR) era bien impiantata [1]. “Nanterre-la-Folie” era un nome che le si addiceva alla perfezione. All’epoca i giornali la dipingevano come una terra di nessuno avvolta dal fango e circondata dalle bidonvilles – che  Élie Kagan aveva fotografato durante gli anni della guerra d’Algeria – e da torri sparpagliate di case popolari. La stazione [di Nanterre] era una baracca fatiscente degna del Far West, perduta alle porte del deserto. Arrivati all’università trascorrevamo le giornate tra la caffetteria, la mensa e la casa dello studente, senza frequentare troppo gli anfiteatri; le riunioni si susseguivano.

Per la maggior parte del tempo facevamo causa comune con il gruppo degli anarchici di  Jean-Pierre Duteuil e Daniel Cohn-Bendit. Quando una banda di fascisti di Occident [una formazione di estrema destra fondata nel 1964] venne a fare selvaggiamente incursione sul nostro territorio, quasi del tutto epurato dai fascisti, Xavier Langlade e Jacques Tarnero predisposero l’autodifesa di questo santuario inespugnabile. E quando [il preside della facoltà di lettere Pierre] Grappin, in deroga allo statuto accademico [che impediva alle forze dell’ordine di entrare in università senza l’accordo dell’istituzione], consentì alla polizia di intervenire negli edifici del campus, i poliziotti subirono la stessa sorte degli invasori fascisti e vennero rapidamente respinti fuori dalle mura.

Tutte queste attività, diverse e debordanti, non lasciavano tempo per lo studio. [Alain] Brossat ed io scrivevamo la tesi con Henri Lefebvre. Alain si  confrontava coraggiosamente con « il concetto di cambiamento di terreno » in Althusser et Foucault. Io, invece, ispirato da un sesto senso politico, avevo scelto come tema « Il concetto di crisi rivoluzionaria  in Lenin ». Lefebvre accettò con benevolenza di seguire le nostre ‘ricerche’ eterodosse. Nel frattempo avremmo dovuto assistere al seminario di  Paul Ricœur su Cassirer e le forme simboliche, ma avevamo altro da fare che dilettarci con simili sottigliezze ermeneutiche, soprattutto considerando il fatto che all’epoca Ricoeur era percepito come il residuo fossile di un’epoca filosofica compiuta e condannata dalla storia a sparire per far spazio all’egemonia strutturalista. Quel poco che avevamo imparato, quell’anno, lo avevamo imparato per fatti nostri.

Brossat dispiegava le sue armi concettuali contro il “cambiamento di terreno”.  Denise Avenas annotava meticolosamente  Il Capitale per lanciare un gruppo di lettura sulla teoria del valore lavoro con alcuni liceali di Rueil [un comune ad ovest di Parigi, vicino Nanterre]. Alternando la lettura de L’Attrape-cœurs di Salinger e Les Choses di Perec, Martine [2]  si dedicava con moderazione alla sociologia, concentrandosi principalmente sul romanzo poliziesco. E io, come l’autodidatta de La Nausea, leggevo in ordine cronologico le Opere quasi complete di Lenin, comprate di volta in volta in blocchi da cinque volumi a fine mese alla libreria Racine.

Intanto il movimento studentesco cresceva in Italia e in Germania. In pochissimi (membri della JCR e anarchici, ancora una volta) protestavamo sulla spianata deserta degli Invalides contro la repressione di cui erano stati vittime K. Modzelewski e J. Kuron in Polonia, distribuendo in giro la loro Lettera aperta al partito [il  PZPR, Partito operaio unificato polacco] che avevamo tradotto. A febbraio 1968 partimmo nach Berlin per manifestare contro la guerra in Vietnam. Le manifestazioni internazionali non erano ancora all’ordine del giorno, ma Berlino, a cavallo tra le due Europe, era diventata la capitale della contestazione grazie all’« università critica » animata dagli studenti dell’SDS [3].  Il nome di Adorno non ci diceva un granché. Di Marcuse conoscevamo solo Eros e civiltà, tradotto da Boris Fraenkel per Les Éditions de Minuit; L’uomo a una dimensione sarebbe stato pubblicato solo in autunno. Invece  sapevamo dell’influenza che Lefebvre e la sua critica della vita quotidiana esercitavano sull’Internazionale Situazionista.

Avevamo riempito un pullman da Nanterre per l’escursione berlinese. C’erano anche Manuel Castells, all’epoca assistente di sociologia, Paolo Paranagua, giovane surrealista figlio di un diplomatico brasiliano, e Sophie Petersen. Il viaggio, attraverso le pianure ricoperte dalla neve di gennaio, durò più di 24 ore. Per ammazzare il tempo, intonavamo canti rivoluzionari e seguivamo alla radio le prodezze di Jean-Claude Killy ai Giochi [olimpici invernali] di Grenoble. Quando arrivammo al confine con la Germania-Est e spiegammo che stavamo andando a Berlino per una buona causa, fummo accolti piuttosto bene dai vopos [4].

Alain Krivine aveva stretto ottimi rapporti con l’SDS. Il suo leader carismatico, Rudi Dutschke, ci venne a trovare il giorno prima della manifestazione. Subivamo il fascino magnetico che sprizzava maliziosamente questo ragazzo. Il giorno dopo, a mezzo secolo o quasi dall’assassinio di Rosa Luxemburg, sfilavamo in decine di migliaia lungo  Kurfürstendamm. La folla di giovani scandiva allegramente: « Wir sind eine kleine, radicale Minderheit [5] ! ». Di ritorno a Parigi, la « piccola minoranza radicalizzata » raddoppiò d’entusiasmo. In questo clima di euforia diffusa, Xavier Langlade venne arrestato durante una manifestazione davanti alla sede dell’American Express. La mattina dopo, a colazione, Brossat suggerì di organizzare un’azione di solidarietà che rompesse la routine abituale. Invece di dispiegare ordinatamente i nostri striscioni, ci esercitammo a decorare con dei graffiti i muri delle aule e degli anfiteatri. In un’epoca in cui tag e stencil erano una rarità, quella semplice trasgressione grafica d’ispirazione situazionista ebbe un effetto detonatore. Sulle vetrate comparvero massime che inducevano a meditare : « La trasparenza non è trascendente ». Le mani anonime che avevano scritto queste parole non avrebbero mai immaginato che, trent’anni dopo, l’ideale della trasparenza sarebbe diventato il mantra del panopticon mediatico e che il « desiderio di trasparenza [transparition] [6] » avrebbe consumato la grande confraternita dei partigiani dell’apparire. Ma non importa: a maggio sarebbe scoppiata l’esplosione poetica sui muri.

Poco a poco, in un crescendo, la giornata culminò in apoteosi con la profanazione simbolica della sala del collegio docenti, occupata da una sessantina di ammutinati e ammutinate che avrebbero festeggiato l’impresa fino all’alba. Per dovere militante mi privai della gioia di partecipare a quell’evento: avevo organizzato una riunione con dei giovani lavoratori a Levallois. Sulla scia di quella giornata memorabile, decidemmo di lanciare un’iniziativa portes ouvertes all’universitàIl sole ci facilitò il compito. Le commissioni se la spassavano sui prati tra le erbacce. Il movimento del 22 marzo [la vera data d’inizio del maggio francese] nacque da queste capriole. Si proclamava anti-imperialista (a sostegno del popolo indocinese e del popolo cubano), antiburocratico (solidale con [le proteste de]gli studenti polacchi e la primavera di Praga) e anticapitalista (a fianco degli operai di Caen e Redon).

Alla JCR approfittammo delle vacanze di Pasqua per riunirci. Finimmo quasi per picchiarci a colpi di sedie per una questione irrilevante che riguardava le elezioni del sindacato studentesco. Appoggiato dai sostenitori del sindacalismo tradizionale (tra cui Guy Hocquenghem e Henri Maler), Henri Weber [alla Sorbona] rimproverava noi di Nanterre per la nostra compromettente alleanza con i libertari. I falsi amici (nemici) lambertisti [un gruppo trotskista fondato nel 1953 da Pierre Lambert] mi accusarono di aver paragonato i sindacati ai bordelli e di aver trattato l’Unef [l’Unione Nazionale degli Studenti di Francia, il principale sindacato studentesco creato nel 1907] da puttana. Erano pure calunnie perché, senza volermi dare arie da femminista della prima ora, quello non era un lessico che mi apparteneva.

Eravamo arrivati a fin qui, quando fu la volta dell’attentato contro Rudi Dutschke, colpito a fuoco mentre andava in giro in bicicletta per le strade di Berlino. Dutschke era in coma tra la vita e la morte, ma noi lo ricordavamo pieno di energie mentre galvanizzava la manifestazione per il Vietnam a Berlino. Con gli anarchici decidemmo subito di andare a manifestare davanti all’ambasciata tedesca. Il corteo, però, stentava a disperdersi, e  il passaparola fece circolare l’indicazione di un nuovo appuntamento sul Boulevard Saint-Michel. Qui la polizia intervenne per cercare di fermarci, ma  l’intervento ebbe solo il risultato di far crescere la rabbia dei manifestanti. All’angolo della rue des Écoles qualsiasi oggetto si trasformava in proiettile: nella terrasse del Sélect Latin, bicchieri, tazze, sedie e tavoli iniziarono a volare ovunque. I segnali stradali vennero divelti e rovesciati, le grate strappate dai piedi degli alberi [sui marciapiedi]. Era uno di quei momenti imprevedibili in cui la paura dei berretti militari e dei manganelli si dissolveva come per incanto. Improvvisamente ci sentivamo invulnerabili. Certi segni impercettibili che annunciano un cambiamento imminente del clima spesso si comprendono solo dopo. Così, la manifestazione di Berlino ci sembrava  a posteriori una sorta di prologo al Maggio 68, e le baruffe pasquali al Quartiere Latino ci apparvero come la prefigurazione delle barricate della rue Gay-Lussac.

Dopo questa fiammata, l’anno accademico sembrava doversi dispiegare a ruota libera. Era giunto il momento di pensare alla tesi su Lenin e la crisi. Con Martine partimmo in auto-stop per un ritiro studioso nella casetta di campagna di mia madre, a Saint-Pierre-la-Mer. Di passaggio a Tolosa, avevamo arringato un anfiteatro colmo di gente della facoltà Albert-Lautman (dal nome del logico Albert Lautman – zio di Alain Krivine – sterminato dai nazisti), raccontando per filo e per segno l’epopea di Nanterre. Su di giri, l’uditorio  si mise in moto per partire in manifestazione scontrandosi con un gruppo di Occident (di cui faceva parte senza dubbio Bernard Antony, il futuro “Romain Marie” del Front National)  per toglierlo di mezzo. Fratello minore del 22 marzo [parigino], era sorto il “movimento del 25 aprile”.

Poi partimmo per la costa dell’Aude con il sentimento di aver assolto al nostro dovere. Il tempo era splendido. Passavamo tante ore ad arrostirci sugli scogli annotando gli ingombranti volumi di Lenin. La mattina arrivavo in monopattino al porto di Brossolette per comprare Le Monde. Un giorno i titoli della prima pagina annunciavano che la Sorbona era stata invasa dalla polizia e che il Quartiere Latino era in sommossa. Rimpacchettammo rapidamente Lenin, i costumi da bagno e le creme solari.

La JCR aveva giudiziosamente riservato la grande sala della Mutualité per un incontro europeo il 9 maggio. Dovevo intervenire in qualità di militante del [movimento del] 22 marzo,  a fianco di Ernest Mandel, Massimo Gorla (futuro deputato del parlamento italiano), Paolo Flores D’Arcais (diventato poi uno degli animatori dei girotondi contro Berlusconi insieme a Nanni Moretti) e Henri Weber. Il pomeriggio si tenne un sit-in improvvisato in piazza della Sorbona, durante il quale Dany Cohn-Bendit disse che Louis Aragon era una canaglia stalinista. Dopo un’ora cominciammo a preoccuparci per le sorti del nostro incontro [alla Mutualité]. Weber allora ebbe l’idea di affidarlo al movimento, inaugurando la tribuna e facendo sparire (con un’operazione no logo assolutamente inedita) le sigle che decoravano la sala. Cohn-Bendit si unì agli oratori presenti. Il giorno dopo fu la notte blu delle barricate.

La manifestazione di protesta contro la chiusura della Sorbona che partiva dal [la statua del] vecchio leone di [Piazza] Denfert[-Rocherau] giunse all’incrocio del Luxembourg, esitando ma senza disperdersi. D’improvviso sentimmo dei colpi pesanti. Era lo scollamento dei pavés. Provocazione? Innovazione? Ripetizione simbolica spontanea di un gesto che evocava i gloriosi antecedenti della rue Saint-Merri, della rue de la Fontaine-au-Roi […], della rue Ramponeau […], dell’incrocio di Ledru-Rollin […]?

Avevamo la sensazione che la foga si sarebbe propagata di notte dopo il tramonto. Sbucarono delle seghe da qualche parte, senza che capissimo bene da dove, e gli alberi vennero abbattuti. Le macchine rovesciate diventavano bastioni, con tanto di piombatoie e feritoie. Gli artefici delle barricate rivaleggiavano in creatività, come se stessero partecipando al un concorso per l’edificio sovversivo più bello, decorando i pavés di vasi di fiori, tessuti e pezzi di antiquariato.

La barricata la più generosamente inutile fu, ironia della sorte, costruita – di proposito o per sbaglio – davanti all’impasse Royer-Collard [una strada senza uscita]! Quelli che la difendevano, però, si mostravano del tutto refrattari a ogni ipotesi di resa.

All’alba, con gli occhi arrossati e pieni di lacrime, ci siamo ritrovati con Alain Krivine e qualche decina di superstiti sfiniti nel cortile della Normale, in Rue d’Ulm. E gli studenti maoisti della Normale, che se ne erano andati a dormire la sera prima deridendo questa infatuazione per il “giardinaggio piccolo-borghese”, rinsavivano imbarazzati dai loro illusioni scarlatte.

Così cominciava il maggio 68.

 

Note

[1JCR, Jeunesse communiste révolutionnaire. Della nostra cerchia facevano parte Xavier Langlade, Bernard Conein, Jean-François Godchau, Nicole Lapierre, Marc Sandberg, Alain Frappard, Dominique e Florence Prudhomme, Camille Scalabrino, Alain Brossat, Denise Avenas, Martine ed io. Durante l’anno si unirono a noi Aron Barzman (figlio  d’un scénariste américain victime du maccarthysme), Pierrette Bourgoin (la fille du colonel), Sophie Petersen (future conseillère à l’Élysée sous Mitterrand), Raymond Piscor, Danièle Schulman, Jacques Rzepsky, Manuel Castells (réfugié espagnol, militant d’Action communiste, alors jeune chargé de cours de socio), Évelyne Haas (la compagne de Serge July qui cosigna avec Alain Geismar et lui le mémorable Vers la guerre civile. Brigitte Jacque et Pascal Bonitzer firent des apparitions furtives.

[2Martine Maurance, alors compagne de Daniel Bensaïd.

[3SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund) è la Lega tedesca degli studenti socialisti, vicina al Partito Socialdemocratico.

[4] La polizia nazionale  in Germania Est.

[5« Nous sommes une petite minorité radicale ! »

[6Michel Surya, De la domination, Tours, Farrago, 1999, p. 33.

*Questo articolo è la traduzione (mia) di un testo pubblicato sul sito danielbensaid.org e estratto da D. Bensaïd, Une lente impatience, Stock, Paris, 2004 (in italiano, Una lenta impazienza, Alegre, Roma, 2012).

 

Per una traduttologia del come: Emilio Mattioli

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[È uscito per Mucchi Il problema del tradurre (1965-2005), un’antologia di scritti di Emilio Mattioli a cura di Antonio Lavieri, con postfazione di Franco Buffoni. Il volume appare nella nuova serie della collana “Strumenti”, originariamente fondata da Mattioli e oggi diretta dallo stesso Lavieri. Ne pubblico l’introduzione, ringraziando il curatore e l’editore. ot]

 

di Antonio Lavieri

Per noi non si dà teoria senza esperienza storica

G. Folena

Un uomo dalla fisionomia generosa e il sorriso aperto, con due fessure limpide e luminose dietro grossi occhiali da vista: così mi apparve Emilio Mattioli quando lo incontrai per la prima volta nei corridoi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, nel 1992. Dalla sua voce avrei presto scoperto il senso etico dell’espressione «scienze umane»: rigore, sensibilità, apertura, competenza, entusiasmo. Nelle sue lezioni si parlava di Bodmer e Breitinger, Croce e Gentile, ma anche di Saussure, Benjamin, Grassi, Jakobson, Doležel, Kristeva, Apel, Valéry, Nida, Meschonnic, Eliot, Novalis, Steiner, Folena. Di teoria e storia delle traduzioni (il plurale è significativo). Una «cultura libera e spregiudicata[1]» che non temeva le ortodossie dei settori scientifico-disciplinari, che sapeva muoversi agevolmente fra le forme, gli interstizi e le congiunture di una varietà di pratiche estetiche, poetiche e retoriche con la consapevolezza di un esercizio critico votato alla provvisorietà intesa come conquista.

L’interesse per la traduzione appare prestissimo: fra il 1951 e il 1952 Mattioli traduce l’Anfitrione di Plauto[2] per il Teatro Universitario dell’Alma Mater. Quattro anni dopo si laurea in Lettere Classiche all’Università di Bologna, discutendo con Raffaele Spongano una tesi sulla ricezione di Luciano nell’Umanesimo[3]. Ma sarà il metodo di un altro Luciano, il metodo Anceschi, a orientare le sue ricerche «verso il nuovo senza rompere con la tradizione», e contro ogni dogmatismo. A partire dal 1956 un gruppo di giovani studiosi, fra cui lo stesso Mattioli, comincerà a raccogliersi intorno alla rivista il Verri: la capacità dell’estetica anceschiana di comprendere e indicare relazioni, la valorizzazione e l’interpretazione delle poetiche, la funzione della letteratura nei suoi legami con il pensiero e la realtà, l’osservazione interdisciplinare di metodi e fenomeni che producono cultura, fino al ruolo della avanguardie: sono questi i punti e gli strumenti che hanno consentito a Emilio Mattioli di reintrodurre nell’analisi il valore storico dell’esperienza estetica, e di porre l’attività traduttiva come «elemento cruciale» al centro della cultura contemporanea.

Nel clima culturale dell’epoca, dominato in Italia dalla filosofia idealistica e, in Francia come altrove, dai formalismi dello strutturalismo di matrice linguistico-semiotica, la traduzione continuava a subire il processo dell’obiezione pregiudiziale, o a essere ridotta a un mero trasferimento di contenuto, da codice a codice. La pubblicazione nel 1965 di «Introduzione al problema del tradurre» apre una prospettiva nuova, pioneristica:

Di fronte ad un problema come quello del tradurre per il quale nessuna conclusione si presenta come esauriente, perché la soluzione univoca (traducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto, la soluzione possibilista (possibilità e impossibilità del tradurre coesistenti) appare equivoca, pare di poter concludere che la risposta sul piano teorico non si può dare e che il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico (le molteplici risposte della storia alcune delle quali sono state sopra indicate). Molteplici risposte quindi, ma sul piano prammatico, il che implica ricchezza, non contraddittorietà; le traduzioni nate nel corso dei tempi in rispondenza alle loro esigenze profonde: queste le risposte che conosciamo. Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) seguiranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilire regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro. E cioè, per rendere il discorso il più chiaro possibile, alla tradizionale domanda: «si può tradurre?» proponiamo di sostituire altre domande: «Come si traduce?» e «Che senso ha il tradurre?»[4].

La trasformazione della domanda di tipo essenzialistico, metafisico, in domanda fenomenologica è un fatto inedito, importante, nel panorama internazionale degli studi sul tradurre di quegli anni: l’analisi di Mattioli chiarisce l’insufficienza epistemologica delle posizioni sul tradurre provenienti dal neoidealismo estetico (Croce e Gentile), dall’estetica materialistico-storica di Della Volpe, dalla linguistica teorica e applicata (da Terracini a Jakobson, da Nida a Mounin). Attraverso un primo esercizio di storia delle poetiche del tradurre, Mattioli recupera alcuni passaggi esemplari di Goethe, Novalis, Eliot, Leopardi, Benjamin, Pound, fino ad arrivare all’antologia dei Lirici Nuovi curata da Luciano Anceschi:

il grande interesse che ha per noi questa antologia sta nei discorsi sul tradurre che essa contiene. Intanto quello di Anceschi nella introduzione; respinta «l’ambizione sbagliata di ‘resa fotografica’ che sforza la lingua e testimonia solo di un’astratta scienza filologica» e «l’ambigua equivalenza col testo forestiero» Anceschi riproponeva per il tradurre «la parola imitazione»[5] […].

Nell’esame di Mattioli la nozione di equivalenza appare già ambigua, equivoca, poco euristica; seguendo i passi dell’«ἐποχή fenomenologica», la sospensione del giudizio che, sulla scorta dell’interpretazione banfiana di Husserl, Anceschi aveva trasformato in strumento critico-ermeneutico a partire da Autonomia e eteronomia dell’arte (1936), la definizione essenzialistica e normativa della traduzione appare a Mattioli del tutto analoga alla definizione essenzialistica e normativa dell’arte: la realtà delle esperienze traduttive, l’orizzonte storico e pragmatico aperto dalle poetiche del tradurre rappresentano la via privilegiata per indagare una delle pratiche simboliche più irriducibili e complesse a cui l’uomo si sia mai dedicato. Ciò malgrado, molti saranno ancora i teorici della traduzione che invocheranno il principio di equivalenza – «il mito della sua pertinenza» scientifica – nel corso degli anni a venire. A distanza di quasi trent’anni Mattioli si mostrerà fedele, in termini di metodo e di impostazione, al saggio precursore del 1965:

Introduzione al problema del tradurre, del 1965, è il mio primo scritto sull’argomento […], ma la impostazione fenomenologica che diedi allora alla ricerca mi sembra tutt’ora valida ed ha affinità con metodologie sviluppatesi autonomamente in seguito in altri contesti culturali […]. Oggi si è accentuata la consapevolezza che l’idea di una traduzione identica all’originale è un’ingenuità epistemologica e che sostenere l’impossibilità della traduzione su questa base è una petizione di principio. La copia non è l’ideale della traduzione[6].

D’altronde, Mounin stesso aveva più volte sottolineato che tutti gli argomenti contro la traduzione alla fine si riducono soltanto a uno: la traduzione non è l’originale. Lo ricorda anche Jean-Paul Vinay nell’incipit di un articolo pubblicato nel 1969[7]: una rapida occhiata all’appendice bibliografica ci fa scoprire accanto ad altri nomi, come quelli di Cary e Mounin, il Mattioli di «Introduzione al problema del tradurre»[8], segno dell’attenzione che il saggio di Emilio Mattioli aveva saputo suscitare da subito negli ambienti accademici francesi e d’oltreoceano[9]. D’altra parte, l’interrogativo posto nel titolo del contributo di Vinay – «La traduction littéraire est-elle un genre à part?» – si declinerà sotto forma di proposta in uno scritto di Mattioli del 1975: «La traduzione come genere letterario[10]». Caduta l’obiezione pregiudiziale delle filosofie neoidealiste, le critiche principali di Mattioli si indirizzano verso l’irrigidimento teorico della linguistica jakobsoniana e la riduzione essenzialistica della poesia alla paronomasia. Dalla trattatistica cinquecentesca di Sébillet, Mattioli riprende la nozione di «genere» nella prospettiva della nuova fenomenologia critica:

È in questa prospettiva che proporrei di considerare la traduzione come genere letterario. I vantaggi che ne derivano sono evidenti: 1) prima di tutto si sarà data attuazione concreta alla proposta di mutare la domanda sulla possibilità del tradurre in quella sul come si traduce; 2) poi si sarà in grado, applicando alla traduzione la nozione di genere inteso come simbolo di poetica, di scoprire le idealità e le intenzioni dei traduttori e di collocare quindi le traduzioni in rapporto alla storia culturale nel modo più efficacemente euristico; 3) si sarà data alla traduzione una collocazione tale da farle riconoscere una funzione autonoma nel sistema letterario, ma non irrelata[11].

Ancora una volta, è necessario trasformare la questione metafisica in questione fenomenologica: dal «si può tradurre?» al «come si traduce?», per Mattioli la traduzione diventa un «genere letterario di tipo particolare caratterizzato dal rapporto dialettico fra la poetica dell’autore tradotto e quella del traduttore[12]». La nozione di poetica non è certo quella elaborata in àmbito strutturalista, intesa come «una teoria della struttura e del funzionamento del discorso letterario[13]», ma quella avanzata da Luciano Anceschi: «nata con la poesia, la poetica […] rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali[14]». In opposizione alle teorie normative del tradurre, l’opzione per una traduzione libera o letterale, sourcière o cibliste, acquisirà valore solo rispetto alla poetica del traduttore. Sul piano traduttologico, le conseguenze sono di rilievo; accordare una poetica al traduttore vuol dire: a) che tradurre significa elaborare un’opera autonoma rispetto al testo di partenza; b) ridefinire le pratiche traduttive come un processo poietico, un rapporto dialogico e dialettico fra due momenti costruttivi di un’opera, e non fra due risultati; c) rimodulare il rapporto originale-copia attraverso la nozione di intertestualità, sottraendo il traduttore dall’obbligo della riproduzione totale; d) sottolineare la relazione traduzione-tradizione, mettendo in luce la pratica traduttiva come un atto critico e produttivo, in cui «si esercita la dialettica fra tradizione e innovazione[15]»; e) che una storia della letteratura non può fare a meno di una storia delle traduzioni. La traduzione come rapporto fra poetiche spiega anche, in parte, l’affermarsi nelle diverse lingue-culture di arrivo di alcune traduzioni diventate fra virgolette «canoniche», cioè quelle a cui una determinata tradizione assegna i valori fondanti di un classico (L’Eneide del Caro, l’Iliade del Monti, o ancora l’Enéide di Klossowski o le Bucoliques di Valéry), ma anche il successo delle traduzioni autoriali (Bonnefoy traduttore di Shakespeare, Pavese traduttore di Melville)[16].

Nel 1989, un anno dopo il convegno «La traduzione del testo poetico»[17], Emilio Mattioli e Franco Buffoni fondavano il semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria Testo a Fronte: sulle pagine della rivista Mattioli scriverà di Ricœur e Berman, di Apel, Etkind e Meschonnic, cominciando a introdurre in Italia alcune delle voci più significative della traduttologia internazionale[18]. In sintonia con la poetica del tradurre di Henri Meschonnic[19], la traduzione per Mattioli si configura sempre come creazione di nuove relazioni, come rapporto interpoetico e interdiscorsivo fra valore e significazione[20]. Nella solidarietà fra senso e forma, nel ritmo come organizzazione imprevedibile delle forme nella storia, «la traduzione di un testo letterario deve fare ciò che fa un testo letterario[21]»: attraverso il ritmo, la prosodia, la significanza, le scelte traduttive per le quali di volta in volta opteranno i singoli traduttori negano l’idea stessa di trasparenza, di annessione, di calco, permettendo alla riflessività traduttologica di cogliere la specificità e la storicità di ogni pratica teorica. Sarà dunque impossibile far coincidere l’operazione traduttiva con quella ermeneutica, perché se tradurre vuol dire solo comprendere, tutto diventa traduzione, in una mistificazione che non tiene conto delle implicazioni pragmatiche fra tempo e linguaggio, tempo e soggetto, linguaggio e soggetto.

Sarà ormai chiaro che la traduttologia del come di Emilio Mattioli tende a evitare l’autoreferenzialismo e il «mimetismo realistico»: i riduzionismi tutti, siano essi contenutistici o formalistici. In questa direzione, lo studio che chiude questa raccolta di saggi – riuniti per la prima volta in volume – preannuncia quello che è ormai diventato, da una decina di anni a questa parte, un vero e proprio campo di studi nella ricerca traduttologica contemporanea, l’indagine sui «racconti di traduzione» – sul rapporto fra letteratura, sapere traduttologico e immaginario del tradurre – , in un continuum euristico in cui l’enunciazione vale quanto l’enunciato, il cui la rappresentazione alimenta costantemente il dato empirico[22]:

Ci sono fondati indizi per affermare che un altro promettentissimo sviluppo si dà nel campo della traduzione letteraria e negli studi su di essa: intendo riferirmi a quei testi creativi, romanzi in particolare, che assumono come argomento centrale o anche parziale la traduzione […]. Adoperando il linguaggio della fenomenologia critica potremmo parlare di un’attenzione portata anche alle poetiche implicite del tradurre oltre che a quelle esplicite […]. A me sembra fin da ora che siano da fare due considerazioni.

  1. Che la traduzione con i suoi problemi diventi oggetto di romanzo (e ormai gli esempi sono così numerosi da poter parlare di un fenomeno consistente) è una prova ulteriore che essa sta dentro la cultura più vitale, che riguarda la creatività.
  2. All’interno di molti romanzi ci sono pagine sulla traduzione di cui si deve tener conto e considerarle come apporti rilevanti alla consapevolezza del tradurre[23].

Il mio rammarico personale è che l’improvvisa scomparsa non abbia consentito ad Emilio di apprezzare questi ulteriori passi compiuti verso una maggiore «consapevolezza del tradurre». Sono certo, però, che avrebbe gioito nell’apprendere che, sulla strada aperta da «Introduzione al problema del tradurre» più di cinquant’anni fa, è stata creata lo scorso anno a Palermo la prima Società italiana di traduttologia: linguisti, comparatisti, filosofi, antropologi, specialisti di lingue e letterature antiche e moderne, tutti riuniti intorno al tradurre, nella certezza che riflettere sulla traduzione significhi pensare la letteratura come rapporto fra le letterature, la lingua e la conoscenza come rapporto fra le lingue e i saperi, l’alterità e la differenza come condizione stessa della nostra identità culturale:

La nascita di questa disciplina è importante da due punti di vista: 1) perché segna il riconoscimento dell’importanza cruciale che ha la traduzione per molte discipline che vanno dalla filosofia alla linguistica, dalla teoria della letteratura all’estetica, dalla comparatistica alla psicoanalisi, dalla etnologia alla retorica etc.; 2) perché indica la necessità di trattare i problemi della traduzione in modo autonomo, riscattando l’attività traduttiva dalla posizione subordinata in cui è stata a lungo e dal disprezzo che l’ha spesso circondata.[24]

Note

[1] Cfr. S. Calabrese, «Lehrjahre modenesi: ricordando Emilio Mattioli», In Testo a fronte (per Emilio Mattioli), n. 38, 2008, p. 39. Segnalo, all’interno dello stesso numero, l’importante contributo di Franco Buffoni («Da traduttologia a ritmologia», pp. 10-29).

2 La traduzione verrà messa in scena al Piccolo Teatro di Modena, per la regia di Roberto Ronchini, il primo novembre 1952. Ringrazio Germana e Maria Mattioli per avermi trasmesso il dattiloscritto, ancora inedito. Per il Teatro Universitario, Mattioli tradusse anche testi di Molière e Beaumarchais (cfr. E. Mattioli, L’etica del tradurre e altri scritti, Mucchi, Modena 2009, p. 7).

3 Gli studi su Luciano confluiranno nel volume Luciano e l’Umanesimo (Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1980).

4 Cfr. Cap. I, p. 52-53.

5 Cfr. Cap. I. p. 50.

6 Cfr. E. Mattioli, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, Aesthetica Preprint, Palermo 1993, pp. 5-6.

7 Cfr. J.-P. Vinay, «La traduction littéraire est-elle un genre à part?», in Meta, vol. 14, n. 1, marzo 1969, pp. 5-21.

8Ibid., p. 21.

9 A dispetto di una lingua di pubblicazione, l’italiano, che oggi più di ieri soffre di visibilità nella letteratura traduttologica internazionale.

10 Cfr. Cap. II, pp. 55-74.

11Ibid., p. 70.

12Ibid., p. 74.

13 Cfr. T. Todorov, «Poetica», in AA.VV., Che cos’è lo strutturalismo?, ILI, Milano 1971 [1968], p. 108.

14 L. Anceschi, Progetto per una sistematica dell’arte, Mucchi, Modena 1983 [1962], p. 46.

15 Cfr. E. Mattioli, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, op. cit., p. 64.

16 Cfr. A. Lavieri, «Il canone della traduzione. Modelli, traduzioni e pratiche culturali», in R. Messori (a cura di), Tra estetica, poetica e retorica. In memoria di Emilio Mattioli, Mucchi, Modena 2012, pp. 217-226.

17 Cfr. F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Guerini e Associati, Milano 1989 (poi Marcos y Marcos, Milano 2004).

18 Dobbiamo a Emilio Mattioli l’edizione italiana di Literarische Übersetzung und Sprachbewegung di Friedmar Apel: cfr. F. Apel, Il manuale del traduttore letterario, a cura di E. Mattioli e G. Rovagnati, Guerini e Associati, Milano 1993 [1983]; F. Apel, Il movimento del linguaggio. Una ricerca sul problema del tradurre, a cura di E. Mattioli e R. Novello, Marcos y Marcos, Milano 1997 [1982].

19 H. Meschonnic, Pour la poétique II. Epistémologie de l’écriture. Poétique de la traduction, Gallimard, Paris 1973; H. Meschonnic, Poétique du traduire, Verdier, Lagrasse 1999.

20 Cfr. E. Mattioli, Ritmo e traduzione, Mucchi, Modena 2001. Mechonnic e Mattioli cureranno a quattro mani un numero monografico di Studi di Estetica dedicato al ritmo (n. 21, 2000); cfr. anche A. Lavieri, Esthétique et poétiques du traduire, Mucchi, Modena 2005.

21 Cfr. Cap. VIII, p. 165.

22 Cfr. A. Lavieri, Translatio in fabula. La letteratura come pratica teorica del tradurre, pref. di J.-R. Ladmiral, Editori Riunini, Roma 2007 (1a ristampa 2016). Cfr. anche S. Klimis, I. Ost, S. Vanasten (a cura di), Translatio in fabula. Enjeux d’une rencontre entre fictions et traductions, Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 2010; K. Kaindl, K. Spitzl (a cura di), Transfiction. Research into the realities of translation fiction, Benjamins, Amsterdam/Philadelphia 2014.

23 Cfr. Cap. X, pp. 192-193.

24 Cfr. E. Mattioli, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, op. cit., p. 7.

M.

0

di Hilary Tiscione

Dentro una gigantesca casa, ce n’era una molto più piccola. Al piano zero, sotto ad altri quattro piani enormi, che quasi la schiacciavano.
In quella casa, viveva un uomo nero di nome M.
Aveva quarant’anni e la pelle ancor più nera intorno agli occhi, tanto che M. sembrava un vecchio africano; il servo ammattito di una famiglia ammalata.
M., la sera, assumeva l’aspetto di quelle mele lasciate fuori dal frigo e poi dimenticate sulla mensola della cucina per giorni, dentro una ciotola sempre sporca con i rimasugli di altri frutti.
Il divano era la sua ciotola profonda. M. una mela putrefatta.
Una notte di giugno, guardava delle sagome muoversi lente dentro la televisione, non capiva cosa dicevano. Ruggivano, lontane.
Tracannava un sorso di whisky, poi respirava profondamente per raffreddare la gola e sistemava il bicchiere in mezzo alle cosce scarne.
Non aveva telefonato alla moglie. Costava troppo chiamare ogni sera. Non era neppure capace di parlare. Sua figlia chiedeva di lui? Un padre con dieci chili in meno, strinati dalla miscela macerata del malto, fermentato in botti di rovere esanime.
Era secco e scuro come un tronco d’acero sradicato dal mondo.
Sentì dei rumori venire da fuori, posò il whisky sul pavimento lurido, uscì nel piazzale lugubre, il cielo era foderato di nuvole, vide i due mastini corsi. Erano loro, pensò.
Uno dei due mastini, quello buffo, gli andò vicino contorcendosi un po’, l’altro lo guardava storto. Barcollava, si sentiva pesante e intanto leggero. Sedette in terra, sul cemento, con le gambe divaricate.
Aveva voglia di piangere. Fece dei singhiozzi, le lacrime non scendevano, ci provò ancora. Arricciò la fronte, strozzò gli occhi nelle arcate orbitali, la pelle divenne ancora più livida. Simulò il pianto come per ingannarlo o convincerlo a sgorgare. Gli girava la testa e più girava, più strizzava gli occhi come fossero pulsanti capaci di interromperla. Vedeva dei luccichii ad ogni battito di palpebre che sfregava più volte come un bambino appena sveglio.
I mastini lo lasciarono solo. Sembrava un’antilope sghemba col costato fracassato. Sentì degli uomini correre, cercò di muoversi senza cadere; ciondolava, un pezzo di strada la fece a carponi. Entrò in casa come un superstite.
Prese il whisky e ne buttò giù un bel sorso. Poi si fece coraggio, prese la mazza da baseball che teneva in camera da letto e uscì di nuovo passando dal garage. Fece un urlo e picchiò dei colpi in terra. “Andate via!”, gridò spiritato.
Disse altro, erano bestemmie. Scongiuri o formule.
Tornò sul piazzale e vide in terra delle chiavi, provò a prenderle ma erano troppe. Afferrava l’aria con una mano, mentre con l’altra si teneva in equilibrio con la mazza.
C’erano chiavi dappertutto.
I ladri hanno perso delle chiavi. No, sono le mie. Mi hanno rubato le chiavi e le hanno perse correndo. Non posso chiudermi dentro, le chiavi si sono spezzate. Le chiavi si sono liquefatte?
Rientrò. Chi c’è in casa? Su di sopra, la Signorina, la chiamava così. Dormirà? Non importa se dorme.
Sollevò la cornetta del telefono e compose il numero interno della sua stanza. La Signorina rispose al quarto squillo.
“Pronto?”.
“Signorina…”.
“Dimmi M. che ore sono?”.
“È notte, Signorina”.
“Cosa succede?”.
“Ci sono chiavi, chiavi ovunque”.
“Cosa stai dicendo?”.
“Chiavi in terra! Scenda giù. Può venire giù?”.
“Mi stai spaventando! Stai piangendo M.? Arrivo”.
La Signorina scese dal letto. Ricordava che suo fratello teneva una pistola nel comodino, una scacciacani che gli aveva dato suo padre per i momenti di bisogno. La terrorizzava più l’idea di tenere in mano una pistola, che affrontare M.
Mentre scendeva le scale, pestando i piedi per dichiarare l’angoscia, accese tutte le luci. Quelle del corridoio delle stanze da letto, più giù accese quelle lattescenti del secondo ingresso, quelle del salotto, della sala da pranzo.
Le luci del piano zero erano già vive.
Trovò M. in piedi davanti alla porta del suo appartamento, con le lunghe braccia penzoloni appoggiate ai fianchi e una camicia abbottonata in modo deforme.
“Cosa succede?”.
“Venga a vedere.”
“Ok. Cosa c’è?”.
M. la prese per un polso trascinandola dietro di sé.
“Lasciami, ti seguo”.
Uscirono. Costeggiarono la piscina mal illuminata per via dei fari rotti, attraversarono il prato fino al parcheggio. “Erano qui”, disse M. “Erano qui”.
“Cosa? Cos’era qui?”, gridò la Signorina.
“Le chiavi dei ladri. Sono davanti al cancello, laggiù!”.
“Puzzi d’alcol M. di quali chiavi parli?”, urlò.
Raggiunsero il cancello d’ingresso.
“Erano qui”, fece M. “Qui in terra”.
“Cosa dovrei dire a mia Madre, secondo te? Non so nemmeno dove sia mia Madre!”.
“Niente. La prego, non dica niente”.
“Sei ubriaco e hai le allucinazioni. Dovresti occuparti di questa casa, invece sei un danno. Vai a dormire M. Dormi!”.
La Signorina è cattiva. Ha ragione, ma è malvagia con me. Mi ordinerebbe di non piangere, se solo riuscissi a farlo, sarebbe capace di cacciare in dietro le mie lacrime. Se mi vedesse morto al tappeto, sono certo, mi pugnalerebbe ancora.
“Scusi”, disse M., ma non era sufficiente.
Erano mesi che lui non dormiva e dava fuoco alla solitudine con il whisky, quella benzina bronzea del supermercato, che gli scioglieva l’esofago. Era solo.
A Natale, a Capodanno, a Pasqua, tutte le domeniche nella sua baracca sudicia.
Non glielo avevano mai chiesto, gli esseri immondi per cui lavorava, quale fosse il giorno del suo compleanno. E cosa mangiava, la sera, abbandonato in quella tana, inondata di bottiglie vuote e di cibo guasto.
M. confessò in silenzio che non beveva da trentadue giorni. Il resto della stanza gli sorrise. Erano le 19.00.

L’amore a vent’anni

0

di Giorgio Biferali

Guardavo mia madre, con gli occhi nascosti nelle mani, con davanti il piatto che si freddava. Diceva che bisognava capirlo, che era preoccupato perché il medico aveva ricordato a mio padre delle sigarette, che fumava troppo, e c’era mancato poco che mio padre non lo prendesse a calci. Aveva usato quella parola, quella brutta parola che uno quando la sente un po’ si spaventa, anche se era solo per prevenzione, così diceva il medico, ma per mio padre non cambiava poi tanto, aveva usato quella parola, ed era tutto il giorno che se ne stava un po’ allucinato con gli occhi persi nel vuoto. I medici non lo capiscono che soprattutto loro devono stare attenti con le parole, diceva mia madre, io ne so qualcosa. Quella è stata una delle poche volte che me la sono presa con lei, e una delle tante volte che non sono riuscito a capire mio padre. Le ho detto che lo giustificava sempre, che proprio per averlo sempre giustificato adesso lui poteva fare il bambino, non aprire bocca, rispondere male. Non è mica colpa sua, le ho detto, ma tua. Da quant’è che è così? Da quando è andato in pensione? Perché non gli hai mai detto nulla? Lei cercava di spiegarmi, senza alzare la voce, con calma, come aveva sempre fatto. Mi diceva che nelle storie d’amore non è mai così semplice, bisogna cercare di capire, di accettare l’altro per quello che è, anche con dei compromessi. Non lo so com’è che potessi dirle quelle cose, in fondo non ne sapevo granché, delle storie che duravano per anni, dei matrimoni, della convivenza, dei figli, di quando si invecchia e si sta ancora insieme. Io l’avevo conosciuta che di anni ne aveva già quarantuno, sapevo solo che fumava, anche quand’era in classe e spiegava Hegel, che le piaceva fumare con me, che mi svegliava spesso la mattina quando io non sentivo la sveglia, che aveva dei capelli sottili, quasi neri, che quand’era giovane erano biondi, che le piaceva ascoltarmi, andare al cinema, ai concerti, che era forte, l’avevano operata tante volte nella pancia perché c’era una specie di morbo che ogni tanto tornava, che ci aveva ospitato dentro di lei, dentro a quella pancia, a me e ai miei fratelli, per ventisette mesi, nove per uno. Sapevo solo che era mia madre, ecco, che era diversa dalle altre madri, non so bene perché, lei non solo cucinava lavava puliva, ma aveva insegnato a scuola, filosofia, ci si era laureata, aveva fatto la supplente col pancione, accompagnava i figli dappertutto, a scuola, a nuoto, a calcio, a danza, li vestiva, li asciugava, li aiutava, li conosceva, sapeva come ascoltarli. Mio padre, invece, era diverso. Anche lui, come me, era un po’ una macchina da scrivere, che di mattina ricominciava tutto da capo, sembrava un altro uomo, diverso da quello che era andato a dormire qualche ora prima. Le mattine per me sono sempre appartenute a lui, un po’ come se le avesse inventate, come se lui e le mattine di tutto il mondo si conoscessero bene e nel tempo avessero costruito tra di loro un’intimità speciale. Anzi, a dirla tutta, a lui è sempre piaciuto anticiparle, si alzava prestissimo mentre il cielo schiariva e la notte piano piano si faceva da parte, come se in fondo facesse finta di dormire e ingannasse il tempo guardando fuori dalla finestra, sbirciando il futuro.

Tratto da: Giorgio Biferali, L’amore a vent’anni, Tunué 2017

L’enigma di Sasso di Castalda

4

di Nicola Fanizza

L’ombra della Montagna Sacra cominciò ad abitare nei mei pensieri sin da quando frequentavo la scuola elementare. Ricordo che quel pomeriggio nel gennaio del 1959 faceva davvero molto freddo. Il vento invernale aveva costretto Benedetto ad aprire la porta di casa sua a noi ragazzini che giocavamo nella strada. Appena fummo seduti intorno al braciere, Benedetto ci regalò dei tarallini zuccherati. Subito dopo iniziò il suo racconto che era incentrato sulla sua permanenza a Sasso di Castalda, un villaggio della Basilicata, che aveva lo stesso nome della montagna.

Disse che era stato lì, come confinato, per più di un anno. Vi era giunto da Mola, verso la fine del 1941, per aver pronunciato una battuta irriverente nei confronti del regime fascista: «Saluti al Duce. Di sera senza luce, di giorno senza pane, e la notte con l’areoplano!».

La Commissione provinciale di Bari, sulla scorta della denuncia di un delatore, era stata inesorabile nei suoi confronti. Per una sola battuta, lo aveva condannato a due anni di confino.

I diciotto mesi passati a Sasso di Castalda – così ci disse – erano stati tra i più belli della sua vita. Era rimasto incantato dal suo cielo, dai suoi boschi, dalle sue acque, dai suoi luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Aveva imparato ad amare la generosità dei contadini lucani, la loro disponibilità a ospitare persino lo straniero di cui non conoscevano neppure il nome.

I pastori gli avevano detto che la montagna era situata a una distanza pari fra l’Adriatico, lo Ionio e il Tirreno e che dalla vetta, quando il cielo era limpido, era possibile vedere scintillare insieme le tre marine!

Da qui il suo desiderio di raggiungere la sua sommità più alta. Un’esigenza che diventa comprensibile se si tiene presente che nel nostro immaginario la Montagna rimanda da sempre al legame fra la Terra e il Cielo.

Quando Benedetto arrivò in cima alla montagna, il cielo azzurro gli apparve così vicino da poterlo toccare. Vide scintillare insieme le tre marine e si rese subito conto che in quell’inedito spazio esistenziale non avvertiva più la differenza fra l’alto e il basso, fra il vero e il falso, fra la salita e la discesa.

Il racconto di Benedetto mi aveva a tal punto coinvolto sul piano emotivo da farmi dimenticare i dolci che avevo nelle mani. Cominciai a sognare ad occhi aperti. Salivo anch’io sulla cima di quel monte fantastico e vedevo da lontano lo scintillio delle tre marine. Mi ripromisi che, non appena ne avessi avuta la possibilità, sarei andato anch’io in Basilicata per salire sulla vetta di quella montagna meravigliosa.

Benedetto lo chiamavano «u fascianaise» (il fasanese), poiché era nato per l’appunto a Fasano. Si era poi trapiantato a Mola e abitava in via Pascasio, ossia nella stessa strada in cui era ubicata la casa dei miei genitori. Era un contadino benestante e senza figli. Possedeva un bellissimo sciaraballe* (calesse), impreziosito sulle sponde del cassone da due dipinti simmetrici in cui erano raffigurati, sullo sfondo celeste, due cesti di uva nera.

Mentre la moglie Francesca era piuttosto minutina – la chiamavano «a cordelécchie» (la piccolina) –, Benedetto, invece, era longilineo. Il suo viso era roseo sul fondo scuro della barba incolta; aveva gli occhi di poeta e parlava in modo frizzante e saporito. Era simpatico, carico di sorrisi e di cordialità, allegro e generoso con tutti.

Era un uomo che sapeva vivere. Ogni fine settimana organizzava delle feste, in cui si beveva a volontà, si discuteva di politica, si parlava del libero amore, si ascoltava la musica e si cantava.

Benedetto era anarchico e tuttavia non si perdeva mai una processione. Andava in giro con la giacca piena di «pizzini» su cui riportava gli aforismi dei pensatori anarchici e quando gli capitava l’occasione li tirava fuori e li leggeva.

D’altra parte, rivendicava la sua devozione per San Nicola, di cui raccontava un’antica leggenda: «San Nicola mentre si recava attraverso la steppa russa a un incontro con Dio, non poté impedirsi di arrivare in ritardo, poiché si era attardato a liberare dal fango la vettura impantanata di un mugik!».

Grazie agli insegnamenti di San Nicola – il santo della carità –, Benedetto era penetrato fino al midollo di quel senso universalistico della fraternità che si configura come ciò che accomuna tutte le religioni e che sta a fondamento di ogni cultura. La carità per Benedetto era coestensiva alla pietà. Era insomma una categoria antropologica.

Quando dopo alcuni anni feci notare a mia madre la sua contraddizione, lei mi disse che ero ancora troppo piccolo per capire certe cose e che «Benedetto era un uomo straordinario, un individuo che trovava il tempo e il modo per fare tante cose insieme!».

Benedetto era un individuo sovrano, un uomo che aveva fatto della sua vita un dono. Era, infatti, generoso con i poveri e, in modo particolare, con Ciccillo «u mamaune» (lo scemo), il quale era goloso di maccheroni.

Ricordo che quest’ultimo era anche egli altissimo, aveva una corporatura massiccia, l’andatura era callosa e si trascinava a passi lenti e pesanti. Viveva da solo e nell’ora di pranzo si recava ogni giorno dai suoi parenti per ricevere il «rancio» quotidiano, che consumava, però, a casa sua.

Ciccillo aspettava sempre con ansia le festività più rilevanti, poiché in quelle occasioni avrebbe mangiato i suoi adorati maccheroni. E tuttavia proprio nel giorno della festa patronale accadde l’imponderabile.

Ciccillo si recò come al solito dai suoi parenti per prelevare ciò che aspettava da diversi mesi, ma, quando tornò a casa, fu investito da una triste meraviglia: nel piatto non c’erano i maccheroni, bensì le fave!

Lo vidi fare avanti e indietro nella strada, e lo sentii manifestare la sua amarezza, ripetendo ad alta voce: «Nooo. Oggi è la festa della Madonna, io le fave non le mangio: voglio i maccheroni con la carne!».

I vicini uscirono in strada per commentare – divertiti – l’accaduto, ma solo mia madre e Benedetto recepirono la sua accorata richiesta. Ciccillo, però, accolse l’invito di Benedetto: sapeva che alla sua tavola non mancavano mai i maccheroni con la carne!

L’occasione per andare a Sasso di Castalda mi capitò solo dodici anni dopo, grazie a mia sorella Caterina, la quale conosceva il mio desiderio di salire sulla vetta della montagna di quel paese. Caterina si era sposata da appena due anni con Francesco, un funzionario del Banco di Napoli. Tuttavia, subito dopo il matrimonio, il marito fu inviato dalla sua banca presso la filiale di Senise in Basilicata, in provincia di Potenza, e Caterina era stata costretta a seguirlo. Da qui il suo invito a raggiungerla a Senise, che dista settanta chilometri dal paese in cui Benedetto era stato confinato.

Prima di giungere nel paese, vidi che stavano costruendo una diga in terra battuta, che frenando il corso del fiume Sinni creava un lago artificiale. Caterina aveva cominciato ad amare quel lago che era appena nato per l’azzurro delle acque, il giallo ocra della sabbia, il verde dei suoi boschi. Tutto ciò – mi disse Caterina – contribuiva a rendere quello specchio d’acqua un «angolo di pace e tranquillità».

Il giorno successivo al mio arrivo a Senise, ci mettemmo in cammino, con la macchina di mio cognato, per raggiungere Sasso di Castalda. La strada era sconnessa e tortuosa come un cavatappi. Da lontano vidi un pugno di case, abbarbicate a uno scoglio aspro, coperto a tratti dal muschio di colore verde.

Quando iniziammo la salita, si unì a noi un uomo che era già avanti negli anni. Capelli bianchi, corporatura esile, viso lentigginoso, occhi verdi, l’uomo che camminava, col passo lento, al nostro fianco sembrava un norvegese e, invece, ci disse che era francese. Senza che nessuno lo invitasse a parlare, asserì che quello per lui era un bel giorno. Aveva cercato per trent’anni il luogo in cui si trovava la Montagna Sacra e, finalmente, l’aveva trovata: era a Sasso di Castalda!

Dopo aver ascoltato le sue parole, gli chiesi di parlarmi del mistero di Sasso di Castalda e del perché la ritenesse una Montagna Sacra.

Il Francese rispose solo in parte alle mie due domande. Si limitò a dire: «ragazzo ricordati che ogni ascesa è anche una discesa!».

Eravamo giunti a un centinaio di metri dalla vetta, quando mi resi conto che il Francese non era più con noi. Rivolsi più volte il mio sguardo sia in alto sia in basso, ma non lo vidi più. Avrei voluto sapere come si chiamava. Avrei voluto parlare più a lungo con lui. Avrei voluto fargli altre domande … Niente. Il Francese senza nome era scomparso!

Ci fermammo, infine, su una radura e di lì, grazie all’assenza di nubi, vedemmo le tre marine inondate dalla stessa luce color verde-oro, iridescente. Era una luce meravigliosa. Una luce reale e, insieme, irreale!

Dopo quella salita sulla vetta di Sasso di Castalda, mi accadde di pensare più volte alle parole che il Francese senza nome aveva detto nel corso della nostra ascesa. Ma col passare del tempo la mistica dell’alpinismo si fece sempre meno pervasiva, fino a scomparire del tutto dai miei pensieri.

Ciò che riaccese in seguito il mio interesse per l’enigma di Sasso di Castalda fu il mio amico Federico La Sala. Quest’ultimo mi parlò di uno scritto autobiografico di don Giuseppe De Luca, il quale era nato proprio a Sasso di Castalda.

De Luca aveva svolto la sua funzione di «mediatore» fra la cultura profana e quella sacra, era stato amico e collaboratore di Giovanni XXIII, e va ricordato soprattutto per aver dato il via al progetto e al lavoro dell’«Archivio italiano per la storia della pietà».

Grazie anche alla sua scrittura ispirata, De Luca aveva attribuito una notevole valenza simbolica a Sasso di Castalda. Nella sua rappresentazione la vetta della montagna si trovava sul vertice di una piramide, la cui base era delimitata dai lati di un triangolo, su cui battevano le onde di tre mari diversi: il Tirreno, lo Ionio, l’Adriatico. Sul Tirreno, c’era Elea, la città in cui era nato Parmenide, il fondatore della metafisica (immanenza); sullo Ionio, Metaponto, la città in cui aveva vissuto Pitagora, il fondatore della filosofia religiosa (trascendenza).

E, tuttavia, De Luca aveva taciuto sul terzo tassello, capace di risolvere l’enigma di Sasso di Castalda!

E’ probabile che abbia taciuto volontariamente. De Luca era un uomo dotato di una grande cultura sapienziale. E come spesso accade, i sapienti non mettono per iscritto tutto ciò che sanno, per lasciare al lettore la possibilità e il piacere di svelare ciò che essi hanno volutamente taciuto o nascosto.

In seguito mi sono venute in mente le parole con cui il Francese senza nome mi aveva invitato a mediare fra ciò che sta in alto e ciò che sta in basso. Ho ripensato, inoltre, a Benedetto che voleva rinnovare lo spazio sociale con le pratiche che stazionano nell’atmosfera del dono. Ho rivolto, infine, l’attenzione alle città che sono disseminate sulla costa del Mar Adriatico e, in particolare, alla Terra che mi ha visto nascere. Qui i miei occhi si sono fermati – improvvisamente – sulla città di Bari, che custodisce le reliquie di San Nicola, il santo della carità

 

 

 

 

* Carro a un solo asse piuttosto elegante trainato da un cavallo, generalmente adibito al trasporto di persone. Il termine deriva dal francese «char à banc», che designava il carrozzino utilizzato, per lo più, dai proprietari terrieri per recarsi in campagna a controllare i loro poderi o per fare delle passeggiate con la famiglia.

 

 

 

Overbooking: Felice Piemontese e Renzo Paris

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Nota

di

Salvatore D’Angelo

su:

Felice Piemontese (Il lavoro rende liberi Stampa Alternativa collana Eretica, 2018 pagg.147 € 14,00)

e

Renzo Paris (Bambole e schiavi Elliot collana Scatti, 2018 pagg.185 € 18,50)

 

Raramente capita di leggere in successione due romanzi diversissimi per stile, impostazione e formazione degli autori, eppure simili per sottotesti.

È quanto mi è accaduto con Piemontese e Paris, autori rispettivamente di Il lavoro rende liberi e Bambole e schiavi.

Lo dico subito, due romanzi che catturano e si fanno leggere con interesse. Riporto qui le mie suggestioni, senza nulla dire delle trame per rispetto di chi volesse leggerli.

Stile e struttura de Il lavoro rende liberi sono quelli dell’ informe (relazione): otto capitoli, ciascuno dei quali intessuti di sequenze verbovisuali da discorso libero indiretto, ma in prima persona, che scorre asciutto e senza intoppi ad opera del protagonista, Stefano Rinaldi, cinquantino professore di letteratura alla Sorbona, esperto di Guy Debord, l’autore de La società dello spettacolo, teorico e fondatore dell’Internazionale Situazionista.

Rinaldi, inquieto, precario professore di origini pugliesi trapiantato a Napoli e poi trasferitosi in Francia, vive con disincanto i turbolenti avvenimenti politici parigini, in una sorta di esilio per disadattamento dalla realtà napoletana, avendoci comunque lasciato gli anni migliori della sua vita e alla quale ritorna per subito rifuggirne, dopo un viaggio-confronto con la realtà di parigino d’adozione, a pro di una narrazione che si sviluppa in un futuro quasi presente – siamo infatti nel 2022, nel periodo in cui si stanno svolgendo i due turni delle elezioni presidenziali francesi.

La referenza narrativa è l’apologo politico; contesto, trama e riferimento finzionale sono quelli di Soumission (Sottomissione) di Michel Houellebecq.

Piemontese, da seguace di Guy Debord, teorico del citazionismo dell’arte/nell’arte, ne utilizza ampiamente contesti, trama, personaggio e situazioni per ribaltarne però esiti e punto di vista, mutatis mutandis, in piena coerenza con quanto da lui prodotto come scrittore: penso a Epidemia (1989) romanzo con cui rileggeva/riscriveva La Peste di Albert Camus, riallocandolo a Napoli e nel micromondo radiotelevisivo napoletano dell’O.R.T.I. (Organizzazione Radio Televisione Italiana). Ma penso anche alle prove poetiche di La città di Ys e Il migliore dei mondi.

Il François protagonista di Soumission è anch’egli un (quasi) cinquantino docente universitario, appassionato fino all’ossessione di J.K. Huysmans (1848-1907), autore di Á Rebours, A ritroso (1884), romanzo epocale sulla crisi del vecchio, inerte mondo borghese, paralizzato sulle soglie del Novecento e della definitiva nevrotica industrializzazione; romanzo di un personaggio, Jean Desseintes che osserva controcorrente, a ritroso il flusso di un mondo in cui non si riconosce, ma da cui, in definitiva, non riesce ad isolarsi, accettandone la deriva. Giusto quello che accade – mutatis mutandis anche al François di Soumission e a Stefano Rinaldi, il personaggio del romanzo di Piemontese, ossessionato non da J.K. Huysmans, ma da Guy Debord (1931-1994), artista, pensatore e filosofo postmarxista, controcorrente autore dell’altrettanto epocale saggio de La società dello spettacolo (1967), sorta di must sessantottesco contro la società del danaro e dello spettacolo, cartina di tornasole della crisi del mondo post-industriale e dell’Occidente, i cui tratti sono nella spettacolarizzazione parossistica di ogni piega della vita quotidiana, sia nel micro che nel macro sociale. Toh, proprio l’epoca che c’investe in pieno, al tempo di facebook, di twitter, della società liquida e dei non luoghi. Un quadro di fondo, umano e sociale, che ritroviamo pari pari sia nel romanzo di Piemontese che in quello di Paris.

A leggere tra le pieghe del romanzo di Houellebecq e di Piemontese, referenze e sottili legami teorici non stanno solo nel riferimento letterario dei due protagonisti (Huysmans, Debord) ma anche in molto altro, che lascio individuare alla curiosità degli appassionati e/o dei potenziali lettori.

Direte, e Paris? E il suo romanzo, Bambole e schiavi? Che c’entra con Piemontese, esponente dell’avanguardia, seguace di Debord e delle sue rivoluzionarie teorie, sull’uso e riuso dell’arte in senso citazionista e in direzione ostinata e contraria alla classicità e alla tradizione, dal momento che Renzo Paris non è stato di sicuro un appassionato dell’avanguardia e del Gruppo 63?

C’entra, c’entra. Anche se l’apparenza di Bambole e schiavi direbbe di no.

Qui abbiamo tutt’altra trama, struttura e stile rispetto al romanzo di Piemontese. Trenta capitoli con intestazione illustrativa del contenuto, alla maniera del grande romanzo francese ed europeo del settecento; trenta capitoli serrati che contengono due romanzi e due narratori, giustapposti e/o intrecciati in maniera dialettica.

I personaggi principali sono Francesco Cosini (cognomen omen, come vedremo), attempato scrittore in visita alla casa di Freud a Vienna, nel cui aeroporto incontra Dana, ventenne e bella ragazza di un villaggio dei Carpazi rumeni, in fuga da Berlino e da  un misterioso delitto che avrebbe commesso e diretta a Roma. Ingredienti adatti a sviluppare una trama in cui vengono ibridati generi e stili, in ispecie il noir e il romanzo dell’eroina settecentesca alla Moll Flanders, ma anche il romanzo psicologico del Novecento europeo ed italiano via Joyce, Svevo e Moravia, con tocchi di classicità internazionale alla Philip Roth e Yasunari Kawabata (1899 -1972), giapponese autore de La casa delle belle addormentate (1962) pubblicato in Italia nel 1972 , premio Nobel per la letteratura nel 1968 ( appuntatevi l’anno), romanzo da cui Paris attinge, riportando lunghe citazioni che fanno da motivo conduttore dialettico e tematico in Bambole e schiavi .

Infatti siamo, col romanzo di Paris, alla dura e disincantata analisi di un tema ricorrente in letteratura: la vecchiaia, il decadimento, il desiderio senza desiderio.

Le epigrafi d’apertura, dànno subito la chiave al potenziale lettore:

Lasso! Che bramo ancor, che più voglio

Se nulla cosa da voler mi resta

E son, senza disio, pien di disio?

(Ludovico Ariosto)

 

La donna a me non piaceva intera…ma a pezzi

(Italo Svevo)

 

Non ci si mette l’animo in pace, mai

Per vecchio che uno sia.

(Philip Roth)

 

Il suo personaggio, l’attempato Francesco Cosini – scrittore, tre mogli e svariate amanti, alle prese con la giovane Elsina, che lo irretisce in una relazione estenuata, fatta di cupo, triste sesso sado-maso – ha lo stesso cognome di Zeno Cosini, il personaggio de La coscienza di Zeno, per non dire di Svevo come autore di Senilità. Francesco è ossessionato dal sesso: “Il sesso è la mia tragedia. Bambole e schiavi!” riferisce in un grido. E’ lui che narra in prima persona ed è lui che ci riporta le citazioni tratte da La casa delle belle addormentate di Kawabata, l’altro punto di riferimento letterario.

Paris ha già trattato il tema della vecchiaia, il tema dell’esser “senza disio, pien di disio” ne Il mattino di domani, volume di poesie uscito appena nel giugno del 2017, che ha preceduto di poco Bambole e schiavi; libri legati da uno stretto rapporto di filiazione, in quanto a temi. Nel primo c’è il riflettere del settantino Paris in quanto tale, attraverso la voce poetica, sulla vita personale nel corso della senilità, nel momento in cui la vive: ne vien fuori un ritratto in chiaro, organizzato strutturalmente nel ciclo delle stagioni, ma temi quadro di fondo e alcuni personaggi del reale sono, a ben vedere, gli stessi di quelli fittizi di Bambole e schiavi: una Roma decadente e decaduta, le strade frequentate dai colorati fantasmi delle etnie, la stazione Termini come una riva, sorta di Gange in cui si bagnano e/o approdano gruppi umani in cerca di salvezza, in fuga da mondi di fame, miseria e dannazione, fantasmi ai margini di un banchetto pullulante di accidiosi, sazi, disperati, assediati internamente da ben altre paure e fantasmi, in preda allo sradicamento, all’informe blob del presente fatto di luci e merci ormai asfittici. Su questo sfondo, che è anche europeo, si muovono, in flashes raccapriccianti, le ombre terribili e inquietanti dei terroristi islamisti, nuovi barbari le cui azioni e linguaggi violenti appaiono sempre più insensati, paralizzanti. En passant, questo è il medesimo sfondo che ritrovate ne Il lavoro rende liberi di Piemontese.

 Nel quadro ritroviamo Dana la Moldava, “…silenziosa, / anoressica, non guarda mai negli occhi/le persone, si difende/dai giovanotti/ russi che vorrebbero condurla/ a battere in via Palmiro Togliatti./ E’ di religione ortodossa. Vive/ con dieci euro a settimana bevendo latte. /Ti ho rivista con il tuo giubbetto bianco/ dietro i finestrini di un autobus. / Ho rincorso inutilmente il tuo sorriso/ ironico, meravigliata delle mie attenzioni. / E io sono ancora qui a ricordare/ quel tuo improvviso ridere brutale”(Il mattino di domani, pag.47).

Ecco un fantasma del reale che in Bambole e schiavi diviene la giovane co-protagonista e co-narratrice. Ecco, nelle terzine, il nucleo di uno dei due romanzi che formano il romanzo unitario di Bambole e schiavi, ecco il romanzo di Dana la Moldava, narrato in prima persona grazie a Francesco che ne registra, a pagamento, la storia e che noi possiamo leggere in presa diretta.

Dicevo del desiderio senza desiderio, della senilità e dell’ombra della morte. “(…) Il desiderio/ si accontenta di guardare la vita/ degli altri, nelle mie passeggiate/affollate di ricordi spuntano/guance arrossate, occhi complici, /svogliati. E quando la luce/ridiventa chiara, autunnale, / il desiderio grida tutto il suo dolore. / (Il mattino di domani pag. 88)

 “(…) Non mi piace/marcire in una nicchia per trent’anni/sfamando gli insetti voraci. Mi chiedo/ come ho fatto a credere nella vita, /perché ho amato la consolazione/della scrittura. Il corpo detta legge, /vuole essere nutrito, protetto, vuole fare/l’amore finché dura. Anche lo spirito/non dura. Fuggo come posso la pira/che giunge. Ricorda che anch’io non sono più chi ero. O luce della vita, /lascia che abbiano fine le mie canzoni. / (Il mattino di domani pag. 107)

 Tutto ciò confluisce in Bambole e schiavi, ma trasfuso in un ritratto in nero, per una struttura fatta di due romanzi, due protagonisti, due voci e due punti di vista. Lo sdoppiamento reiterato serve da filtro, come a mettere distanza tra l’autore e una materia e dei personaggi duri, orribili nel loro disfacimento e negatività. Ma è anche un procedimento per osservare, a contrappunto, i lati in ombra della vecchiaia, del decadimento del corpo e della vita, attraverso personaggi quali l’Architetto e l’avvocato Surace, con quest’ultimo che richiama il pittore Balestrieri, de La noia, uno dei romanzi più noti di Alberto Moravia, ma un Balestrieri decrepito, impotente e tuttavia psicologicamente vorace; entrambi condividono lo stesso destino finale per mano, pardon, per il corpo, è il caso di dire, di Cecilia ne La noia e di Dana in Bambole e schiavi.

E Kawabata, che c’entra Kawabata?

C’entra e come. Eguchi Yoshio, il protagonista di La casa delle belle addormentate è un sessantasettenne che si reca in una casa di piacere frequentata da vecchi senza più desiderio che pagano per coricarsi con giovanissime donne, senza tuttavia avere rapporti completi con loro. Dunque lo stesso tema della vecchiezza e della decadenza, del desiderio senza pulsione fisica; Kawabata, inoltre, è un raffinato scrittore che ha scandagliato in profondità le regioni della coscienza in cui si incontrano sesso e pulsione di morte, gioventù e vecchiaia, leggerezza e decadenza, vita e morte. Paris nel suo romanzo lo utilizza come termine di paragone alto, rispetto alla materia terribilmente negativa che sta rappresentando.

E Piemontese? E il suo Stefano Rinaldi de Il lavoro rende liberi? Che c’entrano con questi temi?

Anche qui, a leggere bene tra le righe della diversità di stili, generi e temi, c’è la sottile linea rossa della decadenza e della vecchiaia.

Nel romanzo di Piemontese autore e personaggio, sul tema, sono in rapporto dialettico, s’interrogano e si scandagliano l’uno attraverso l’altro. Ricorre spesso, nel flusso di coscienza del personaggio di Piemontese, il tema della solitudine, della vecchiaia e del decadimento, dall’inizio alla fine, in un crescendo che non è casuale ed è emblematico del significante ipertestuale, come si direbbe in termini specialistici.

“Tutto sta per finire, pensavo, presto ci sarebbero stati i primi segnali di marasma o di demenza, il venir meno delle funzioni vitali, insomma quello che il mio amico Spinelli definiva sprofondamento” considera Rinaldi, nel finale, in uno dei suoi abituali flussi di pensieri. E va qui detto che Spinelli, caro amico cumano che Rinaldi rivede nel breve viaggio di ritorno a Napoli, si suicida lasciandogli una lettera da cui emerge la disperazione e la solitudine, la caduta delle illusioni e il senso ineluttabile della fine.

Ripeto, quello che più colpisce, nei romanzi di Piemontese e Paris, al di là della psicologia dei protagonisti, entrambi vili, inetti, sostanzialmente conformisti, è un sentimento pervasivo di un mondo confuso, in disfacimento, un diffuso senso di vampirismo autistico e di caduta che tocca in profondità il tessuto sociale, la sua coesione.

A ben vedere, poi, sia Piemontese (1942) che Paris (1944), due settantini, imbevuti di Sessantotto da sponde letterarie diverse, sono accomunati dall’amore per la Francia, la sua cultura e letteratura (Corbière, Mallarmé, Apollinaire, Breton, Debord, l’école du regard e il romanzo sperimentale); l’uno ha eletto Parigi a sua seconda patria, risiedendovi per lunghi tratti dell’anno, l’altro per anni docente di letteratura francese all’Università di Salerno prima e di Viterbo poi.

Il 1968, inoltre, è l’anno in cui Yasunari Kawabata, riceve, primo giapponese, il premio Nobel per la letteratura. Anno fatidico per i due romanzieri di cui tratto. Il primo, sull’onda e nell’humus di quel periodo, buttandosi a capofitto nelle prove di romanzo sperimentale e dei saggi di rottura rispetto alla tradizione letteraria, il secondo, cantore del fallimento degli ideali di quell’epoca con Cani sciolti, diventato un classico. Insomma, tutto si tiene.

Ma qual è, nelle mie suggestioni di lettura, il significante ipertestuale che accomuna il romanzo di Piemontese e quello di Paris?

È l’affresco di un mondo in crisi, la decadenza inarrestabile di una civiltà (quella occidentale) che ha perso la spinta propulsiva. La vecchiaia dei personaggi, vissuta o paventata, come metafora della vecchiaia di un mondo, di un sistema ormai senza grandi coordinate, i cui valori sono come svuotati, un mondo che si trascina vampirizzando coloro che vi affluiscono, quelli che sono comunque esclusi e mai ammessi alla mensa del ricco epulone (il capitalismo), come si inferisce attraverso Dana, la co-protagonista di Bambole e schiavi e come si legge in trasparenza nel suicidio di Spinelli e nel conformistico accomodamento di Rinaldi, il protagonista di Il lavoro rende liberi.

A ben vedere, pur da sponde di stile e formazione diverse, Piemontese e Paris, sembrano suggerirmi un affresco in nero di un mondo confuso, aggrappato alle sue evanescenti certezze, roso dal cinismo, pronto a vampirizzare, divorare, masticare e sputare via popoli e persone in fuga dalla desertificazione: gli uni da quella geoeconomica, gli altri, abitanti della vecchia Europa/Occidente, da quella interiore.

 Sicché le convulsioni, la confusione politica e morale, la violenza parigina e francese dell’apologo di Piemontese, con gli esiti ribaltati rispetto a quello di Soumission di Houellebecq, il vile scivolamento del protagonista verso l’ineluttabile sottomissione ai nuovi vampiri del potere; lo sprofondamento dei Surace e dell’architetto, dello stesso Francesco assoggettato al gioco perverso di Elsina di Bambole e schiavi, emblemi di relazioni umane e sessuali segnate dalla violenza del potere, per quanto psicologico o economico e personale, e dalla sopraffazione, altro non sono che emblemi della vecchiezza di un mondo al capolinea, o quanto meno a un capolinea epocale, sullo sfondo del crollo delle grandi narrazioni ideologiche.

Il Rinaldi de Il lavoro rende liberi, aggirantesi col suo carrello per il centro commerciale (non luogo per antonomasia), contento di quel piccolo piacere di fronte alla gravità del disastro, che cinicamente/ciecamente riflette “ma mi piaceva l’idea che forse, col passar del tempo, avrei avuto almeno qualcosa da rimpiangere”, mentre la voce autoriale, qui e là nel romanzo, mimeticamente commenta, ora attraverso una quartina di Franco Cavallo, lasciata nello scritto del personaggio Spinelli – non c’è dunque un futuro,/non c’è rimasto più niente,/ solo un brusio che si spegne,/solo qualcuno che si pente- ora attraverso il flusso dei pensieri dell’ormai anestetizzato professore Rinaldi “Forse, come aveva detto qualcuno, Shakespeare credo, se il mondo significa qualcosa, è che non significa niente, tranne che esiste. E si tratta di farlo continuare ad esistere”.

 C’è poco spazio per l’ottimismo consolatorio, com’è giusto. Forse solo Dana e la sua amica, quintessenze dell’ingenuità, le cui violenze e corruzioni umane subite, la cui estraneità a una qualsiasi forma di consapevolezza intellettualistica di sé che non sia la pura vitalità di sopravvivere sempre e comunque al male, pur di tornare al proprio villaggio, in fuga dagli orrori del mondo ricco, dopo essere state in fuga da quelli del mondo povero, lasciano spazio a un barlume di speranza nel futuro.

Forse nel ribaltamento dell’esito dell’apologo di Soumission operato da Piemontese in Il lavoro rende liberi, proposto all’intelligenza del lettore, perché consideri con lucida amarezza “gli eterni ritorni” del “fascismo strutturale” insito nelle forme del potere, sta quel minimo di luce, Dal limite estremo e Sotto gli occhi dell’Occidente, postindustriale e finanziarizzato, cento e più anni dopo i romanzi di Conrad, l’altro grande apolide della letteratura decadente tra Otto e Novecento.

 E Huysmans di Á rebours, l’ossessione dell’intellettuale François di Soumission? Che c’entrano? Á rebours, a ben vedere, è il romanzo chiave della letteratura francese di fine ottocento: segna il vero e proprio inizio del decadentismo, la linea di confine con il romanzo naturalista e l’apertura al Novecento letterario.

Ecco, Huysmans, Joyce, Svevo, Conrad, Kawabata, Moravia, Roth, Debord, Paris, Piemontese, autori diversi tra loro, eppure, fatte le debite proporzioni e detto delle differenze di scuola e di stili, mi sembrano tutti uniti dalla sottile linea rossa della letteratura di tipo decadente o neodecadente, chi per vie classiche, chi per vie sperimentali. Tutto si tiene, alla fine.

Potenza e forza della letteratura. Pardon, potenza e forza delle sue suggestioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ultima notte di Antonio Canova

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di Edoardo Zambelli

 

Gabriele Dadati, L’ultima notte di Antonio Canova, Baldini + Castoldi, 2018, 341 pagine

Pur nella gravità del momento – una prima visita a un uomo in cui il male aveva operato con tanta tenacia – il medico sentì risalire per il tramite del braccio uno stupore non scientifico, ma piuttosto mondano, da chiacchiericcio: possibile che un lavoratore del marmo, che per tanti anni aveva trattato quella materia, abitasse dentro un corpo così snello? Dov’erano i muscoli che si sarebbero dovuti naturalmente sviluppare?

Antonio Canova, il più grande artista del suo tempo, sta morendo. Su questa immagine – il corpo di Canova ormai esausto, prossimo alla fine – si apre L’ultima notte di Antonio Canova, nuovo romanzo di Gabriele Dadati. Al suo capezzale c’è il fratellastro, Giovanni Battista Sartori, e proprio a lui Canova affiderà le sue ultime parole, i suoi ultimi ricordi e l’ultima confessione.

Rigorosamente scandito dalle didascalie che collocano tempo e spazio dell’azione, il racconto inizia il 10 Ottobre 1822 a Venezia e si conclude – sempre a Venezia – il 13 Ottobre 1822. Tra queste due date se ne rincorrono altre, precedenti di pochi anni, e in quelle si nasconde il cuore del romanzo.

Credo sia utile a questo punto segnalare che il titolo del libro rappresenta quasi un inganno, ma un inganno, se così posso dire, positivo. Mi spiego: se da un lato è vero che si parla di Canova e delle sue ultime ore di vita, dall’altro è anche vero che il libro racconta molto di più, e anzi trova il suo centro in vicende di cui Canova è più spettatore che attore.

Dalla Venezia del 1822 infatti si scende – e dico “scende” perché ho avuto l’impressione, leggendo, che il libro sia stato costruito come un’immersione – fino al 1810, nella Francia di Napoleone, periodo in cui Canova fu chiamato a corte per realizzare il ritratto della nuova regina, Maria Luisa d’Austria. E qui succede qualcosa che anni dopo, sul letto di morte, Canova avvertirà ancora come una colpa, una colpa che andrà cercata proprio nel rapporto che lo scultore instaura con la giovane regina all’ombra del grande imperatore.

C’era, nella narrazione del dolore, se non proprio un’allegrezza, almeno un brio. Canova si trovava a credere che questo fosse salvifico e spaventoso allo stesso tempo. Che non si potesse confidare in altro per salvarsi dalla persecuzione dei ricordi, dal progressivo sprofondamento negli incubi. Lo sapeva per certo, e da molto tempo. Ma che in questa pratica ci fosse, come dirlo?, un certo piacere, sì, un piacere della narrazione, del privilegio di essere stati non testimoni ma vittime del massacro, questo suscitava in lui un brivido che gli percorreva per il lungo la schiena.

Hanno del sorprendente la facilità e la grazia – mai parola fu adatta come in questo caso – con cui Dadati porta il lettore avanti e indietro nel tempo, senza mai fargli avvertire fatica o confusione, dipanando con calma – e un pizzico di suspense – gli avvenimenti passati, mostrandone gli effetti nel presente, e portando così il lettore ad avvertire lo stesso senso di pace che pian piano Canova trova nella sua confessione.

Nelle pagine del libro il grande scultore – e con lui l’autore – riflette sull’eredità di un’intera vita dedicata all’arte. Cosa resterà dell’uomo Antonio Canova alla sua morte? La risposta il lettore la troverà nello struggente finale, in un sogno che riporta Canova ad una giovinezza impossibile, in compagnia di una donna amata, per ammirare il lascito di un uomo che non solo ha passato una vita a fare arte, ma anche ad amare l’arte.

«E questi, tutti questi…» disse lui, ma si interruppe. Aveva infatti deciso di abbracciarla. E durante quell’abbraccio di baciarla, cosa che lei gli permise e anzi ricambiò. Fu un bacio lungo, poi ne vennero altri. Alla fine si sciolsero. Lei lo incoraggiò: «E questi?» «Questi», riprese lui, che ancora una volta le teneva la mano, mentre con l’altra indicava attorno, «tutti questi sono figli. Figli che staranno al mondo per sempre. Sono sorti dalla pietra, ma non per questo sono soltanto pietra.»

L’ultima notte di Antonio Canova è un romanzo storico che “abita” la Storia, non la ricostruisce, è fatto di personaggi che vi si muovono dentro semplicemente stando nel proprio tempo. Scritto con una lingua sempre chiara, perfettamente aderente alla materia narrata, conferma Gabriele Dadati come un bravissimo scrittore e un bravissimo narratore – e non sempre le due cose coincidono.

Verso uno spazio antilirico della lirica

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di Fabrizio Maria Spinelli

 

Nonostante la ricchezza e la varietà delle voci che costituiscono l’orizzonte proteiforme della poesia degli ultimi cento anni, pare ancora non del tutto tramontato uno dei miti più duraturi della modernità letteraria: che tutta la poesia sia da considerare poesia lirica e che la lirica sia, sostanzialmente, liricità, un’accezione tonale più che un genere letterario.

A fondamento di tale mito convergono numerose ricostruzioni storiche dello scorso secolo, dal libro di Marcel Raymond, Da Baudelaire al surrealismo, a La struttura della lirica moderna di Hugo Friedrich, passando per il primo Anceschi (Autonomia ed eteronomia dell’arte), Béguin (L’anima romantica e il sogno), Benn (Probleme der Lirik) etc.

Inutile dire che gran parte della produzione poetica del XX secolo (soprattutto a partire dalla conclusione del secondo conflitto mondiale) si sia sviluppata in senso opposto a questa traiettoria egemonica, secondo una linea oggettiva e antilirica (quanto mai paradigmatico è il rovesciamento prospettico anceschiaco che si registra a partire dalla pubblicazione di Poetica americana).

Civitavecchia non è solo un porto di mare

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Tutto quel che siamo si racchiude qui, in un sasso muto, una pietra di montagna calpestata da millenni, erosa dall’acqua piovana. Adesso, dove tutto è ricordo, ci risvegliamo alla periferia di un enorme città fotografata in negativo: le pareti nere, nero il pulviscolo della polvere accecato dai raggi che filtrano dalle pareti, bianca nitida l’ombra delle cose.

Siamo stanchi, il mondo  caduto in cui non ci ritroviamo continua a sanguinare, a darsi la caccia e non sono streghe: dall’alto, un uccello necrofago si getta a capofitto sui cadaveri dei bambini – e noi ce ne stiamo lì, fermi, non guardiamo nemmeno all’orizzonte, riusciamo solo a respirare, muoviamo le braccia come fossimo in un lago o forse in una piscina coperta dal vetro, da cui nessuno può sentirci.

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A Civitavecchia il sole era limpido e le lumache d’acqua continuavano a danzare sul porto. Un pescatore di molluschi mi si è avvicinato : “ti stai chiedendo cosa sono, vero?”

“sì” “non lo so il nome, sono però una scocciatura, e non vanno mangiate. Sembrano pipistrelli, non trovi?”

Non lo trovavo. Mi sembravano all’opposto delle creature meravigliose, venute dallo spazio infinito, cadute per meteora, cadute a caso, nell’anfiteatro di questa zona costiera. Mi sono alzata, ho rimesso il cappello, e sono sparita.

Non ho più notizie del pescatore da quando sono arrivata, l’ho solo intravisto un giorno, mentre le statue nelle vie si muovevano, contorcendo arti e volti in una massa multiforme e allucinata. Civitavecchia ha statue umane : un bacio sulla riva, il marinaio e la sua donna, una madonnina che ha perso sangue quattordici volte, un padre pio alla rotatoria maggiore. Appena prima del crepuscolo si animano, cominciano a vorticare separandosi dalla loro inquadratura statica. Passeggiare, a quell’ora, è terrificante. Centinaia di corpi grigioperla si muovono per le vie, escono dagli occhi e inondano le bocche : fa paura, molto più paura delle lumache d’acqua

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Il 26 dicembre, quando una mano si è allungata verso il mio petto, mentre le gambe correvano sulle punte come si fa sui davanzali, nuovamente, sono sparita.

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Ancora, in questa zona cava e remota in cui ci siamo intrufolati per passarci cosa che non sia cosa, sotto il vetro infrangibile che ci fa da tetto, il mondo tutto è rimasto in silenzio. Arrivano i secondini alle calcagna, si muovono penzolando l’arma di cui sono fatti – perché non c’è arma che si porta ma arma di cui si è costruiti, che rende la sola parola una mina o una minaccia.

Gli uccelli predatori, i lupi, gli orsi e gli avvoltoi hanno smesso di cibarsi delle carni minori. Ecco che allora  inizia lo sguardo : un vuoto è il pieno di cui siamo fatti quando ci dichiariamo umani.

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Passeggiare per la strada del pesce portava in seno qualcosa di stupefacente. Le casse scoperchiate, l’odore pungente emanato dal mare racchiuso nelle conchiglie, il male dentro il male, e poi i sorrisi accecati dei pescivendoli, con le maglie a righe e il grembiule sporco di sangue. Passeggiare per quella strada era come entrare in acquario, diventare un mollusco, o un’alga riccia ancora appicicata al resto del mondo.

Ero affacciata sul Tirreno. I giovani si baciavano e giocavano a calcio balilla sotto i tendoni, il vento si aggrappvaa alle palme della marina, le faceva muovere come fossero ali d’angelo o di farfalla – e mentre noi ci dedicavamo all’ultimo bicchiere prima di preparare il letto, programmare la sveglia, azionare la macchina del caffè, le poche anime che ancora restavano prima dell’animazione delle statue, si distraevano per un gruppo di omini neri che avanzavano con gli occhi bendati.
Civitavecchia non è solo un porto di mare.

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Tutte le cose accadute si prestano a un nuovo parlato, una lingua che non ci abita ma che decidiamo di abitare. Fare a patti con l’oscuro è una posizione di congedo : vedere e poi allontanarsi, piegare il buio in un cassetto, fare il movimento degli astri quando le stelle sono già cadute decine di milioni di anni fa e noi le vediamo solo adesso. All’alba del mondo nuovo non ci siamo travestiti da burattini, abbiamo piuttosto tolto la pelle vecchia per ricominciare in silenzio.

Avere una mina al posto degli occhi significa : saper far esplodere il primo senso, prepararne un secondo.

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Il piccolo uomo antico si trasportava con le sacche sul naviglio, si è messo in posa per una fotografia in bianco e nero, si è guardato, ha sorriso, ha detto “fallo ancora”. Ci siamo congedati con un pacchetto di sigarette e due birre chiare mentre il sole precipitava nel mare. Lo chiamavano Marietto, il matto di Civitavecchia.

Sono rientrata nella casa dalle pareti rosa per appendere un quadro alla parete sinistra, vicino ai fili di una lei che ha cucito volti e occhi e bocche e corpi senza piedi. La vera riconoscenza era parlarsi fino all’alba standocene in ammollo sul terrazzo, quando una nave passava e tu dicevi: “La vedi?” No. Dunque sei cieca. Sì, rispondevo: sono arrivata qui perché ho smesso di vedere.

Civitavecchia aveva un umore giallo e uno ambrato, le strade affollate delle statue diventavano un ricordo. Bevevamo vino rosso mentre attorno, tutto attorno, la pietra miliare si era posata sulle nostre teste, e la città piangeva.

Non avevo mai riso così tanto.

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Sentiamo sottopelle una grossa tumefazione, sono piccole sacche di dolore che ci è concesso di vedere per poterle togliere di mezzo, estrarle con la punta di un coltellino. Non siamo già stati, siamo ancora nel sempre stato, in ciò che fa dei resti la conoscenza martoriata di un presente da cui vogliamo sottrarci. Gli esseri umani hanno tutti un foro da cui entrano ed escono altri esseri umani, collocato appena sotto la nuca, dove nessuno può essere scoperto : esserci non è mai servito se non per dire : finiamo. E noi finiamo, come il fiore sfinisce nella sua corolla.

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Poi abbiamo dato l’avvio ai baci, alle lingue del nostro sapere, ci siamo accatastati all’interno di una tenda, o forse una pelliccia, ci siamo scoperti gli umori, scoperchiati le pelli. Eravamo tutto con la stellata, giorno o notte, notte e giorno a scambiarci umori e lacrime e risate. Di questo tutto resta un resto, un nucleo rosso centrale che fa uno con l’universo.
La città si era calmata sotto le nostre intemperie, e noi la guardavamo dall’alto : l’acqua, i fusibili, la noia. C’eravamo detti che i per sempre non avevano ragioni d’esserci, e la città lo confermava. Ho preso un biglietto di ritorno, l’ho scambiato con l’andata.

Rivedere Manhattan all’epoca del #metoo

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di Alberto Brodesco

Nel pieno dello scandalo Weinstein/#metoo, su Paris Review è apparso un importante articolo, intitolato “What Do We Do with the Art of Monstrous Men?” (www.theparisreview.org/blog/2017/11/20/art-monstrous-men), che chiama in causa Woody Allen, uno degli artisti attualmente sotto processo mediale. Claire Dederer, l’autrice, non si concentra troppo sulle accuse al regista, ma ragiona su come esse possano cambiare la nostra percezione delle sue opere. Dederer, una fan del regista newyorkese, parla in particolare del senso di fastidio o tradimento che ormai pregiudica la sua visione di Manhattan, ora che sappiamo cose sull’uomo che condizionano il ragionamento sull’artista. Ma non si tratta solo di questo: in Manhattan vediamo un regista con la passione per donne molto più giovani mettere in scena la storia di un uomo di 42 anni (Isaac, interpretato da Allen stesso) che ha una relazione con una diciassettenne, Tracy (Mariel Hemingway). Questa sorta di mise en abyme spingerebbe, persino al di là della volontà dello spettatore, a una lettura morale (o moralista) del film.

Il tema del giudizio sull’opera attraverso un giudizio sull’artista è stato in questi mesi abbondantemente affrontato e ripreso – ad esempio, proprio a commento dell’articolo di Paris Review, dalla voce autorevole di Jonathan Franzen. Si può affrontare la questione accennando all’ennesimo fallimento divulgativo della teoria della letteratura o della teoria del cinema (dalla “morte dell’autore”, alla “funzione autore”, alla “storia del cinema senza nomi”), incapaci di rendere scontate nozioni come quella dell’autonomia dei testi. O forse basterebbe solo dire che l’interpretazione di un’opera d’arte non può essere ridotta agli elementi più scontati, evidenti o ingombranti della trama.

Oltre all’uomo maturo che frequenta una ragazzina, nel film di Allen ci sono altre cinque coppie degne di attenzione: la coppia di amici sposati di Isaac, Yale (Michael Murphy) e Emily (Anne Byrne); la coppia di amanti – lo stesso Yale e Mary (Diane Keaton); la coppia Mary ed ex marito, Jeremiah (Wallace Shawn); la coppia lesbica costituita dall’ex-moglie di Isaac, Jill (Meryl Streep), e la sua nuova compagna Connie (Karen Ludwig); e infine la coppia Allen-Keaton, Isaac e Mary, costituita quando i due si liberano (provvisoriamente?) dalle relazioni in cui si trovavano a inizio film. La tipologia è quindi abbastanza diversificata: abbiamo coppie interstiziali, squilibrate, sposate, clandestine, divorziate, omosessuali.

Anche solo rimanendo concentrati su questo primo livello di lettura, esplicito, per parlare della trama bisogna tener conto di tutte queste relazioni. Il ragionamento sui personaggi, una volta iniziato, va portato avanti fino in fondo, in modo da poter vedere cosa il testo ci dice davvero. Uno sguardo appena meno superficiale sposta subito l’attenzione sul personaggio interpretato da Diane Keaton, che emerge in tutta la sua forza narrativa come il vero grande centro di gravità del film. È attorno a lei che ruotano tutti i personaggi di Manhattan. Anche se al primo incontro Mary appare insopportabile ad Isaac per la sicumera con cui liquida alcuni dei suoi idoli intellettuali (persino Bergman), è proprio questo eccesso (di confidenza? di spavalderia? di sfacciataggine? di coraggio? di intelligenza? di vita?) che la rende un personaggio dal fascino fatale, praticamente un sinonimo di libertà. Mary vede il mondo a modo suo. Prima parla ad Isaac del suo ex marito esaltandolo come un epico amatore; ma poi, quando Isaac e Mary lo incontrano in un negozio, l’uomo si rivela nelle sue apparenze fisiche di omettino, stretto e compito nel ruolo di accademico. “It’s amazing how subjective all that stuff is”, commenta Isaac.

Soggettività” vuol certo dire punto di vista, gusto, necessaria parzialità della visione, ma anche smarrimento soggettivo. E il film si spinge oltre, suggerendo che si tratti anche di perdita del soggetto nelle relazioni. I giochi di incastro fra coppie provocano un senso di spaesamento identitario. Dove si riposiziona, anche fisicamente, l’io nell’incontro con l’altro/a? Case private, ristoranti, bar, traslochi, il museo, il parco, il planetario: il quartiere di Manhattan, spazio per perdersi e ritrovarsi, è popolato da gente spostata dall’amore.

Il confronto tra oggettività e soggettività della percezione quando si tratta di analizzare (o persino giudicare) dei comportamenti d’amore è dunque uno dei temi portanti di Manhattan. Cosa sappiamo davvero, ad esempio, di quella corsa finale di Isaac verso la casa di Tracy, dopo esser stato lasciato da Mary, dopo aver pensato che il viso della ragazzina è una delle “ragioni per cui vale la pena vivere”? L’inutile pentimento di un pavido? La riscossa di un innamorato? Lo sfogo di un frustrato? La manifestazione fisica di un disagio interiore? La ricchezza dello spettro interpretativo ammette ma al contempo svilisce le letture più grossolane della trama. La forza di un film come Manhattan sta nel resistere alle semplificazioni, nell’inquietudine comica e grigia che trasmette mentre ci ritroviamo a specchiarci nella coscienza di un personaggio.

Quando la letteratura vampirizza i padri

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di Antonella Falco

Il 1816 passò alla storia come “l’anno senza estate”. Infatti gravi anomalie del clima – provocate da un insieme di concause quali imponenti eruzioni vulcaniche che immisero nell’atmosfera, di fatto raffreddandola, ingenti quantità di cenere, fenomeni astronomici come il “minimo di Dalton” (un periodo di bassa attività solare) e la “piccola era glaciale” che dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo produsse un brusco abbassamento della temperatura media terrestre – determinarono in Europa del Nord, ma anche in Canada e Stati Uniti d’America, grandi tempeste di neve, piogge torrenziali e inondazioni che si protrassero fino ai mesi estivi, distruggendo i raccolti e determinando carestie e incremento dei prezzi.

La situazione si rivelò essere particolarmente critica in Svizzera. Proprio qui, in una villa sulle sponde del lago di Ginevra, si trovò a soggiornare il poeta inglese George Gordon Byron, che vi giunse nel maggio del 1816 dopo aver definitivamente lasciato l’Inghilterra a causa dei molti debiti ereditati da un prozio e dagli scandali relativi al suo divorzio da Anne Isabella Milbanke e al rapporto incestuoso con la sorellastra Augusta, dalla quale nel 1814 aveva anche avuto una figlia, Medora.

Byron soggiornò nel villaggio di Cologny, prendendo dimora a Villa Diodati, insieme al suo medico personale John William Polidori; in una villa non molto distante, a Montalègre, soggiornarono Percy Bysshe Shelley e la sua futura moglie Mary Godwin Wollstonecraft, insieme alla sorellastra di lei, Claire Clairmont, con cui Byron aveva avuto una relazione a Londra e che riprese a frequentare in Svizzera.

Il piccolo cenacolo di intellettuali era solito trascorrere molto tempo insieme e fu proprio durante uno di questi protratti soggiorni nella villa di Byron – a causa della pioggia incessante rimasero chiusi in casa per tre giorni – che il gruppo si diede alla lettura di storie fantastiche, fra le quali figurano quelle contenute in una antologia nota col titolo di Fantasmagoriana. Era questa una raccolta di storie di fantasmi tedesca tradotta in lingua francese da Jean-Baptiste Benoît Eriès e pubblicata nel 1812.

Com’è noto queste letture ispirarono la composizione di due classici, capostipiti del genere gotico: Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley e Il vampiro di John William Polidori. Frankenstein venne pubblicato per la prima volta nel 1818; quest’anno, dunque, ne ricorre il duecentesimo anniversario. Nel corso di questi due secoli l’influenza che l’opera della Shelley ha esercitato in ambito letterario e cinematografico e sull’immaginario collettivo in generale è stata di notevole portata. Per la prima volta ci si trovò di fronte ad un mostro dotato di facoltà speculative: in questo essere abominevole l’orrido si fondeva al sublime. Ancora oggi il mito di Frankenstein non cessa di interrogarci, spingendoci a riflettere sui limiti della conoscenza e sull’eticità di taluni progressi scientifici e non smette di ispirare artisti e scrittori. Uno degli ultimi proseliti è un racconto di Michele Mari intitolato Villa Diodati e contenuto in Fantasmagoria, raccolta di racconti pubblicata nel 2012.

Il racconto è incentrato su una immaginaria conversazione tra John William Polidori e Mary Wollstonecraft, svoltasi “la sera dopo la conclusione del certame” e racconta la genesi delle opere dei due autori da un’angolazione a dir poco insolita: Polidori e la futura signora Shelley avrebbero immaginato ben poco, traendo invece ispirazione dalla realtà a loro più vicina, ossia la vera natura di lord Byron e di Percy Bysshe Shelley. Il primo sarebbe stato l’insospettabile dissanguatore di innocenti fanciulle, il secondo un essere tenuto insieme da punti di sutura e bulloni.

Un’affermazione che Mari mette in bocca a Polidori risulta particolarmente interessante: “d’altronde tutti i veri artisti succhiano la vita degli altri, da questo punto di vista il mio personaggio è una metafora del processo creativo”; lo stesso concetto, più volte teorizzato dall’autore milanese, trova una chiara formulazione anche in un testo critico contenuto ne I demoni e la pasta sfoglia. Si tratta del capitolo intitolato Letteratura come vampirismo: tra colui che narra e il contesto circostante esisterebbe una relazione “di tipo vampiresco”, lo scrittore ‘sugge’ dalla realtà le storie che racconta, trasfigurandole. Secondo Mari “esistono diversi gradi di vampirismo letterario, dal più semplice, consistente nell’appropriazione di bocconi mondani ma non nella loro digestione, fino al più mediato, paragonabile per forza trasfigurativa ai processi della cristallizzazione e della distillazione”, d’altronde diversa può essere “la natura della cosa succhiata”. Si può, ad esempio, attingere alla tradizione letteraria (operazione spesso compiuta da Mari nelle sue opere) e divenire pertanto “vampiro dei propri padri, cioè succhiatore di un sangue già mille volte succhiato”, oppure scegliere di affondare il proprio rostro nell’oscuro e denso magma delle consolidate idiosincrasie, dei terrori ancestrali, delle ataviche fobie del lettore, “chiamato in questo modo ad assaporare il proprio stesso sangue”. Altre volte il narratore attinge invece “al lutulento botro delle proprie angosce e ossessioni. […] è proprio lì dentro che lo scrittore sa di poter trovare in qualsiasi momento il sangue che gli è necessario a impastare la farina del mondo; voyeur e vampiro di se stesso, solo risucchiando quel plasma egli diventerà quel re Mida che tutto assimilando contagia”. I lettori più affezionati di Mari sanno bene che quest’ultima è una pratica cara all’autore che con cesello d’artista è più volte riuscito a trasfigurare il proprio vissuto in racconti e romanzi di mirabile pregio narrativo e stilistico.

Villa Diodati (che vuole essere un omaggio sui generis al capolavoro della Shelley, ma non è la prima volta che Mari, in una sua opera, fa riferimento al famoso romanzo gotico, era già accaduto infatti in Di bestia in bestia in cui l’episodio del rapimento e dell’uccisione di Teresa e Carlotta ricalca quello analogo del piccolo William in Frankenstein) è chiaramente uno di quei casi in cui l’autore si fa “vampiro dei propri padri”, ispirandosi alla tradizione letteraria che più ama e tessendo attorno alle storie ufficiali, attestate storicamente, una costellazione di apocrifi (è d’altra parte questo il principio cardine su cui poggia l’impianto di quasi tutti i racconti contenuti in Fantasmagonia): versioni prive di statuto a cui solo l’immenso potere della trasfigurazione fantastica conferisce una surreale verosimiglianza. Ai margini della storia letteraria perpetuata dai canoni esiste una landa inesplorata di (im)possibili percorsi alternativi in cui la libertà dell’autore vige sovrana. Lo scrittore, unico demiurgo di una realtà altra plasmata impastando dettagli tramandati a frammenti d’invenzione, può abbandonarsi all’ebbrezza di sfalsare i piani spazio-temporali, può raggiungere gli estremi confini del possibile e facilmente travalicarli, scorrazzare per gli sconfinati campi del sogno e le orride asperità dell’incubo, consapevole di essere l’artefice assoluto di un universo le cui geometrie sono il risultato di una “molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”, come ebbe a scrivere Marguerite Yourcenar a proposito delle Carceri d’invenzione di Giovan Battista Piranesi, altro stupefacente creatore di mondi paralleli, che nel magnifico gioco di labirinti e inganni prospettici delle Carceri seppe coniugare la solidità dei parametri matematici alla surreale levità degli scenari onirici.

ti saluto fino a perdere la mano

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testi e disegni di Elena Tognoli

 

 

 

Ricorrenza

 

Ogni anno

ti saluto

fino a perdere

la mano

Performative Arts today

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PERFORMATIVE ARTS TODAY: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star” Trinity College Dublin – 2 Febbraio 2018. Direttori: Dr Giuliana Adamo (Professor in Italian, School od Languages, Literatures and Cultural Studies, Trinity College Dublin) / Bianca Battilocchi (Ph.D. candidate). Direttori Artistici: Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi

di Giorgiomaria Cornelio

Prima parte

PERFORMATIVE ARTS TODAY: Like a Grave of a Stone, Like a Cradle of a Star”
Trinity College Dublin – 2 Febbaio 2018.
Direttori: Dr Giuliana Adamo (Professor in Italian, School od Languages, Literatures
and Cultural Studies, Trinity College Dublin) / Bianca Battilocchi (Ph.D. candidate).
Direttori Artistici: Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi

Il 2 febbraio si è tenuto, presso il Trinity College di Dublino, l’evento Performative Arts Today: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star”, luogo eletto a raccolta di “vicinanze, avvicinamenti, concatenazioni, carteggi, disgiunzioni, proposte d’etimo, corrispondenze tra l’Italia e l’Irlanda ordite nel segno del sasso e della stella, del labirinto e del tappeto.” Il programma della giornata è stato progettato come strategia di liquidazione di quelle divisioni tra discipline artistiche che piuttosto che favorire una geografia di comunanze e sconfinamenti continuano a ripararsi nei rispettivi dipartimenti di conforto. La giornata è stata pertanto orchestrata come partitura a più voci tra loro anche dissonanti e a presidio di un’idea del fare poetico vicina a quella di Emilio Villa (il cui volto disegnato da Vincenzo Consalvi compare nel manifesto come scompigliata etimologia della parola labirinto):

Il bene è una modesta proposta

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di Paolo Morelli

“A un certo punto, nell’educazione di mio figlio, ho cominciato a sostituire i concetti di buono e cattivo con quelli di reale e irreale, per quanto ciò possa sembrare arbitrario”. Nei suoi ultimi libri Filippo La Porta pare prendere il via da considerazioni di carattere pedagogico assai personale. Ma se nel precedente, Indaffarati, l’indagine riguardava la gioventù odierna e i suoi problemi d’adattamento, qui il critico letterario torna alla grande letteratura e alle sue possibilità di interpretazione ed integrazione nel vissuto quotidiano. Sarà per questo intento iniziale forse, educatore ed autobiografico che la lettura di quello che è pur sempre un saggio dantesco si presenta confortevole, amicale, familiare, con tutta evidenza cosa assai rara.

Sedici marzo mille novecento settantotto

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di Davide Orecchio

… ed entra marzo quando Giulio Andreotti promette a Leone la lista del nuovo governo, e la fa, sposta ad esempio Tina Anselmi alla sanità, e con Aldo Moro fa il conclave del partito di Dio per i sottosegretari, per il sottogoverno, lo fa alla Camilluccia e dice al diario Ho tenuto duro; e dice che Aldo Moro promette che l’aiuterà; e non resta che giurare e chiedere il voto alle camere,

ed ecco il sedici marzo quando le maestre si apprestano a scuola,

i bambini si apprestano a scuola,

vestono i grembiali e i fiocchi azzurri,

prendono le cuccume dalle madri e le nonne,

i macellai tritano carne, i fruttivendoli legano asparagi,

Giulio Andreotti porta il governo alle camere,

i pizzaioli sfornano la rossa con le olive e l’origano,

i bidelli aprono scuola,

i tranvieri aprono le porte dell’autobus,

le brigate rosse prendono Moro,

i giornalai alzano le saracinesche,

le tintorie avviano le lavatrici,

le brigate rosse uccidono due carabinieri,

i postini imbucano lettere,

i bancari incassano assegni,

gli architetti progettano,

le scrittrici fantasticano,

le brigate rosse uccidono tre poliziotti,

alcuni bambini hanno il morbillo e non vanno a scuola,

alcuni bambini hanno la varicella e non vanno a scuola,

i bambini di Monte Mario sentono spari e frenate,

una notizia corre da Monte Mario a Montecitorio (di parola in parola, di filo in filo),

un’automobile si divarica stuprata nel sangue,

Andreotti si piega e vomita, sviene a Palazzo Chigi, si sdraia sul divano e in fretta gli portano un abito da cerimonia pulito,

un’altra camicia, un’altra cravatta,

Andreotti si piega come la madre si piegò sul padre che muore,

il dolore è un atto geometrico nel tempo dell’indimenticabile morte,

giurano i sottosegretari del nuovo governo,

Aldo Moro scompare coi brigatisti

e vengono a Palazzo Chigi gli uomini del partito di Dio, i socialisti, i sindacalisti,

il partito della storia invia i suoi rappresentanti più degni;

e Andreotti dice al diario Emozione profonda;

e dice Tutti concordano nel non dare (spazio bianco); e dice Ma (spazio bianco) immediatamente la fiducia per il governo (spazio bianco);

e in poche ore le due camere votano;

e Giulio Andreotti raccoglie le forze, sigilla lo zaino.

Ora Giulio Andreotti vede Aldo Moro: i capelli leonati, sulla fronte una ciocca di bianco germoglia sul cespo d’argento, gli occhi del lemure timido, dentro la gabbia il volto è lungo, appeso alle tempie e alle sopracciglia come un ometto aggrappato alla balaustra prima del precipizio, il labbro superiore sottile, il labbro inferiore carnoso, la camicia aperta sconfitta, il giugulo è l’ultima trave che regge Aldo Moro, sul capo Aldo Moro ha un drappo di cielo e una sola stella, gli artefici annunciano il processo al “Responsabile primo della controrivoluzione”, ora Aldo Moro è in un telo.

E i bambini sono in ostaggio,

e gli agrimensori, e i macellai, e i netturbini coi giornalisti,

e le casalinghe, i lavascale sono in ostaggio,

e gli stagnini con gli sterratori,

e gli elettricisti e le rammagliatrici: sono tutti in ostaggio con Aldo Moro;

sbiancano le pagine dei libri di favole,

tacciono tutte le storie;

dalle ville, dai palazzi a cortina, dalle borgate, dai condomini, dai tuguri spruzza nero di seppia;

nel tempo di morte e vita sospesa;

loro controllano se hanno ancora uno zaino, e se sia colmo o deserto;

loro chiedono se hanno ancora un governo;

loro chiedono Chi governa l’Italia?, le Br o Andreotti?;

e non accade nulla, questa malattia paralizza i dischi invertebrali e i corpi vertebrali e i nervi spinali.

E si spengono le lavatrici nelle tintorie,

i bidelli chiudono scuola,

le maestre diventano mute,

le scrittrici non fantasticano più,

gli architetti non progettano più,

i bibliotecari non catalogano libri,

i sarti non rammendano gli abiti,

gli stenografi non consegnano i verbali,

i capibarca affondano,

i barbieri rompono le forbici,

gli infermieri gettano i camici,

i tassisti parcheggiano e dormono,

i cuochi consegnano pietanze crude ai camerieri,

i camerieri portano in tavola pietanze crude,

gli idraulici non spurgano più,

i geometri non tracciano segni,

gli elettricisti spruzzano nero di seppia,

i preti stringono al petto gli zaini.

E i bambini sono sempre in ostaggio,

e i capibarca galleggiano sul fondale del mare, tra le grotte e il nero di seppia,

e i camerieri supplicano i clienti Mangiate noi, perché non abbiamo più cibo;

e le macchine da scrivere chiedono asilo agli svizzeri, perché i giornalisti non hanno più nulla da dire,

e le edicole non alzano più le serrande,

e le maestre convocano i sarti e le rammagliatrici e supplicano Cucite le nostre bocche, perché non abbiamo più nulla da dire;

dalle fogne emergono idraulici imbrattati di nero di seppia,

gli stenografi verbalizzano il tempo della morte e dell’omicidio,

i bancari incassano assegni in nero di seppia,

gli scrittori friggono libri in padella e poi ridono,

i falegnami restituiscono i mobili ai boschi,

i tranvieri ripartono sigillando i convogli,

e che nessuno vi salga.

In principio era l’Ulisse

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di Romano A. Fiocchi

Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, Il Saggiatore, 2004.

In principio era l’Ulisse, l’Ulisse era presso Sylvia Beach e l’Ulisse era Sylvia Beach. Ecco, così si possono sintetizzare le 559 pagine di un libro che un cultore di Joyce non può evitare di leggere. È la storia di una giovane americana che il 17 novembre di novantanove anni fa aprì una libreria in rue de l’Odéon, a Parigi, sulla riva sinistra della Senna. Lei si chiamava appunto Sylvia Beach, la libreria era la Shakespeare and Company. Attenzione, non la Shakespeare and Company tuttora esistente in rue de la Bûcherie. Quest’ultima, fondata da George Whitman nel 1951 e oggi gestita dalla figlia, Sylvia Whitman, venne inaugurata con il nome di Le Mistral e diventò Shakespeare and Company in onore di Sylvia Beach nell’aprile del 1964, due anni dopo la sua scomparsa. Certo, anche nella libreria di George Whitman (qui il sito) i nomi dei frequentatori sono da brivido: Allen Ginsberg, William Burroughs, Anaïs Nin, Richard Wright, Julio Cortázar, Henry Miller, Lawrence Durrell, giusto per citarne qualcuno.

Ma lo splendido volume di Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce, non fa cenno della libreria di George Whitman, nonostante arrivi all’anno della morte di Sylvia Beach. La Fitch si concentra sulla ricostruzione meticolosa e approfondita della biografia della piccola libraia americana a partire dal suo ambiente familiare e culturale – era nata a Baltimora, figlia di un pastore presbiteriano di Princeton – sino all’incontro con quelli che chiama i suoi tre amori: Adrienne Monnier, James Joyce e la Shakespeare and Company. È attorno a questi tre amori che ruota tutto il libro.

Il primo è un amore discreto ma duraturo tra due appassionate di libri. Adrienne Monnier, scrittrice ed editrice, è la proprietaria della libreria La Maison des Amis de Livres, collocata sul lato opposto di rue de l’Odéon. Sylvia ne farà la sua compagna di vita per trentotto anni. Il secondo amore è uno scrittore conosciuto quasi per caso al ricevimento degli Spire nel luglio 1920. L’incontro è proverbiale: lo scrittore è seduto nella biblioteca, rifugiato lì per sfuggire all’imbarazzo di un pessimo scherzo che gli ha fatto Ezra Pound, anche lui presente al ricevimento. Sylvia gli si avvicina e chiede con timore:

Il grande James Joyce?

James Joyce, – risponde lui, porgendole con fermezza una fragile mano.

È l’inizio di un rapporto di amicizia e di stima reciproca, quella di Joyce talvolta un po’ opportunista, che porterà Sylvia Beach a pubblicare l’unico e il solo libro per cui la Shakespeare and Company darà il tutto per tutto e rasenterà più volte il fallimento: Ulisse.

Il terzo amore di Sylvia Beach è proprio questa, la sua libreria. La Shakespeare and Company era una semplice libreria con funzioni di biblioteca, di quelle che, come si usava allora, non solo vendevano ma prestavano i libri dietro una forma di abbonamento. Ma era anche e soprattutto un centro di aggregazione di artisti, di scrittori, di letterati, di semplici bibliofili. Nei mitici anni Venti parigini la frequentarono, attratti da una sorta di magnetismo, personaggi come Thomas Stearns Elliot, André Gide, Ernest Hemingway, Ezra Pound, Gertrude Stein, Paul Valéry, persino musicisti innovativi come George Antheil. L’elenco si estenderà negli anni Trenta a nomi del calibro di Samuel Beckett, Simone de Beauvoir, Walter Benjamin, anche se gli effetti della grande depressione seguìta al crollo di Wall Street del ’29 e i venti di guerra che inizieranno a soffiare con l’avvento di Hitler ridurranno drasticamente l’attività della libreria.

La libraia di Joyce è dunque anche la ricostruzione del clima artistico-letterario di quel periodo, di una Parigi diventata patria culturale di decine di migliaia di cittadini americani. Lo scopo della Shakespeare and Company, in tutti i suoi anni di esistenza, sarà sempre quello di promuovere lo scambio culturale e l’amicizia tra gli autori americani e quelli francesi ed europei in generale. E fa davvero specie, così come emerge dal libro, vedere questo crogiolo di straordinarie potenzialità implodere lentamente e dissolversi di fronte al dilagare del nazismo. Sylvia Beach sarà una dei pochi americani che non lasceranno la capitale francese neppure dopo l’occupazione tedesca. Sapeva che a rischiare erano più che altro i suoi amici, e lei sarebbe rimasta per aiutarli. Ma a darle davvero forza era probabilmente la carica di ottimismo accumulata dopo aver affrontato un’avventura credo unica nella storia editoriale: la pubblicazione nel 1922 del più impubblicabile dei libri, l’Ulisse.

Che non fu una passeggiata, specie per una libraia che non era mai stata editrice, lo testimonia una molteplicità di aspetti. Si trattava innanzi tutto di realizzare un libro di una certa dimensione, con particolari caratteristiche editoriali che andassero incontro ai desideri di uno scrittore esigente come Joyce. Un libro già sotto processo per pornografia negli Stati Uniti dopo una pubblicazione parziale a puntate sulla rivista newyorkese The Little Review, un libro che nessuno aveva più il coraggio di pubblicare. Per trovare una tipografia disponibile, Sylvia Beach dovette andare sino a Digione, da Maurice Darantière, con cui si accordò per la stampa di una prima tiratura di mille copie, di cui cento su carta a mano olandese e con copertina di carta blu rilegata in marocchino dello stesso colore. Lavoro immane anche quello delle bozze, continuamente rifatte con correzioni e integrazioni di intere pagine aggiunte all’ultimo momento dallo stesso Joyce e ricopiate da tipografi francofoni che non conoscevano una sola parola di inglese. Poi c’era il lavoro di segreteria. Joyce incominciò ad utilizzare la Shakespeare and Company, quindi Sylvia Beach e le sue collaboratrici, come se fosse una struttura a disposizione sua e del suo Ulisse: inviti, spedizioni, contatti, fermo posta, richiesta di recensioni, presentazioni, e così via. La Shakespeare and Company fu coinvolta anche nelle questioni legali dovute alla pubblicazione di copie pirata, a partire da quella clamorosa dell’editore americano Samuel Roth. O, viceversa, al contrabbando di copie originali in nazioni dove ne era vietata la vendita.

Dalla storia della pubblicazione dell’Ulisse emergono due immagini contrastanti dei protagonisti: la tenacia e la generosità di Sylvia Bech e la fragilità di un Joyce pieno di ossessioni e spesso dedito all’alcol, squattrinato ma sempre pronto a vivere oltre le sue possibilità a scapito di amici e conoscenti, arrivando al punto di sfruttare le risorse economiche della stessa Sylvia e di “tradirla”, dopo undici edizioni, cedendo i diritti ad un importante editore americano.

Sylvia accettò tutto senza risentimento. Amava Joyce e le sue opere nonostante tutto. La sua soddisfazione non era soltanto vendere o prestare libri, di Joyce o di altri, ma aiutare la creatività e intrecciare una rete di amicizie. Fra le numerose prove di altruismo, l’aiuto e l’ospitalità che insieme ad Adrienne diede alla fotografa Gisèle Freund, giovane rifugiata ebrea di Berlino espulsa dalla Francia. Ma anche a Gordon Craig e alla sua famiglia, rinchiusi dai tedeschi e salvati grazie all’intercessione di un cliente della Shakespeare and Company che fece da tramite con la Gestapo e assicurò che i Craig non fossero di origine ebrea.

Joyce, dopo varie incertezze, rifiuterà alla Shakespeare and Company persino la sua prima edizione del Finnegans Wake, che uscirà contemporaneamente in Inghilterra e negli Stati Uniti il 4 maggio 1939, mentre Hitler attuerà l’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia. Ma per mettere la parola fine all’esperienza della Shakespeare and Company e a tutto ciò che era stato bisognerà aspettare il 7 dicembre 1941, quando i giapponesi bombarderanno Perl Harbour e l’America entrerà in guerra. Lì Sylvia Beach incomincerà davvero a temere non tanto per sé, in quanto americana, ma per la sua libreria. E non avrà tutti i torti. Ecco come il libro della Fitch riporta le battute finali:

«Alla fine di dicembre (1941) l’ufficiale tedesco che voleva la sua unica copia di Finnegans Wake ricomparve alla porta della Shakespeare and Company. Chiese dov’era il libro e Sylvia gli rispose che l’aveva nascosto. Questa volta la sua resistenza fu vana: “Verremo a confiscare il suo negozio” annunciò l’ufficiale, tremando di rabbia. Non appena se ne fu andato, Sylvia corse dalla portinaia, che le concesse gratuitamente un appartamento libero al quarto piano. Sylvia si rivolse a Saillet, che le chiese se non poteva attendere l’anno nuovo per spostare le sue giacenze. Non poteva. Temeva la confisca di Shakespeare and Company più della prigione. A tempo di record (Sylvia racconta di averci messo due ore), usando scatole e cesti per la biancheria, lei, Adrienne, Saillet e la portinaia spostarono oltre cinquemila libri, migliaia di lettere, quadri, tavoli, sedie, insegne e perfino lampade, i fili per la luce e gli interruttori, portandoli al sicuro al quarto piano. Chiamò un falegname per smontare gli scaffali e un imbianchino per cancellare la scritta sulla facciata del negozio. Dopo anni di sogni, mesi di progetti e ventidue anni di ciò che lei chiamò “pilotare una piccola libreria attraverso due guerre”, Shakespeare and Company scomparve in un baleno».

Ciò che ripetuti assalti di difficoltà economiche non erano riusciti a ottenere, riuscì invece ai nazisti. Alcuni mesi più tardi, i tedeschi arrestarono Sylvia Beach e la internarono prima nello zoo del Bois de Boulogne, quindi a Vittel. Ma i tesori della Shakespeare and Company restarono nascosti sino al momento della liberazione. La libreria non venne mai più riaperta, neppure a distanza di anni.

Di Sylvia Beach, per chi volesse farsene un’idea anche fisica, restano delle interessanti interviste registrate, in inglese o in francese, da lei rilasciate durante l’ultimo periodo della sua esistenza, quello degli onori. Con l’avvio delle ricorrenze annuali del Bloomsday (termine da lei coniato) e il diffondersi di un vero e proprio culto per Joyce, il suo nome tornò alla ribalta. Qui, ad esempio, è un’intervista resa disponibile dagli archivi dell’INA, l’ente nazionale francese incaricato della conservazione delle documentazioni audiovisive. Sylvia parla ovviamente in francese, la sua lingua di adozione.

Alla sua morte, nonostante le obiezioni dei suoi amici francesi e i suoi quarantasei anni trascorsi a Parigi, le sue ceneri vennero sepolte a Princeton, nel New Jersey.

Le palme mozzate di Magliani

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di Marino Magliani

Boomerang

Quando ti penso è perché non ti vedo

non perché mi manchi.

E se da quassù getto uno sguardo

la tua bocca triste inventa un sorriso.

Liguria tutta vallate l’una afffianco all’altra

come un pettine rotto.

La vergogna non è di essermene andato via

dai tuoi costoni bruciati. Ma tornare

a questa fetta di anguria morsa male

e tornare a capire che era all’alba

quando dovevi salvarmi dal furore

del mare.

Pensa alla tua forma di boomerang,

alle rincorse nel rauco respiro di cicala,

la fronda dell’ulivo dinnanzi a un burrone.

Vuoi che te lo confessi? Sono io

che t’ho sempre rincorsa, scema.

Forse se durante i pomeriggi delle gabbie

azzurre, quelli dell’ombra al torrente,

solitudine fresca sotto gli olmi, fossi riuscita

in qualche modo a trattenermi,

invece di star lì a giocare con me

senza dirmi nulla. Invece di sorprendermi

ogni sera. Ogni sera. Invece di chiedermi di ubbidirti,

e non di lasciarti convincere.

A rotta di collo le mulattiere scivolose.

Dal fondovalle per guardar le cose

bisogna alzare gli occhi o inventarsi scemenze.

Invece di far finta di niente e accettare come buona

la fronte bagnata di rugiada e non di sudore.

E sbandare assieme nelle curve del portico,

il fruscio di canneti, una corrente magra ci ha trascinati

troppo presto in città, per ultimo il mare

e al fascio luminoso all’orizzonte

il faro si è voltato verso rami

di notte saccheggiata e ci ha mollato lì.

Eravamo già andati via. Ma solo io.

Ti rendi conto di come è andata.

Il cavernoso rantolo di altri moli ha messo a tacere

le campane a festa. Non le sentivo più. Per anni.

Solo le tue ombre tossivano ancora.

Lontano, nuotavo fino a una boa mi sdraiavo,

il mento sulle mani, e guardavamo la nuova costa.

Rotolavo sulle sabbie finte d’estate, in Costa Brava,

d’inverno era la pozzanghera spumosa

di un pugno di isole africane.

Abitavo le montagne svizzere.

Mi svegliavo davanti alle pampe

sulle panchine o in galera.

Mi rilasciavano con un foglio di via.

Ma via dove? Via c’ero già, ci sono andato

solo da te via.

E da dove mi spedivano, e dove cadevo

la verticalità che mi ricordava «lontanamente

qualcosa di troppo tuo» poteva essere giusto

un albero all’orizzonte. El ceibo, albero di corallo,

in fondo alla pampa fioriva d’estate, tra dicembre

e febbraio, le ombre sanguinavano.

E il resto?

Erano i golfi dei fiordi. Le dune del Nord.

I pesci congelati da scaricare dalle stive delle

barche frigo.

Zee, all’imboccatura del canale

rumbo Amsterdam, sta per mare.

Zeau, in dialetto sta per ghiacciato.

Ti piaceva giocarci e io non ci scherzavo:

una lingua senza passato remoto è una lingua

inutile. Ci dimenticavamo.

Che altro, un anno di piatti e pentole nei ristoranti

norvegesi, un anno a lavare.

Il detersivo, attraverso la cartina biografica

del mio continente, giungeva alle tue falde acquifere

per dirti ci sono. Forse. A volte, sono io.

Eppure ogni tanto giocavamo ancora a rincorrerci.

A chiederci le cose, anche ora.

Inizio io, dove sei stata?

Io qui, lo chiedo a te.

Io anche, non me ne sono mai andato. Il detersivo

era di un altro.

E poi domande intime.

In quale segreta tua parte del mondo cercarti,

ora che non ci sono più estati australi

e sono qui a torturarmi all’ombra delle palme tagliate.

Si nasce d’estate a giochi fatti e il resto della vita

si passa a ubbidire a qualcosa che la vita ci chiedeva

quand’era ora. Che sforzi, mi dici.

Sotto le pietre del paese a trafficare con il reticolato

delle parole che tiene assieme il respiro e manda,

manda dispacci dalla valle, ora che sono qui

nel bosco ulivato tra Prelà e Dolcedo, e li cerco,

dove sono sepolti i nostri ciottoli?

Li avevo lasciati in un orto, promettendomi

poi torno.

Hanno addirittura frantumato per noi

il tuo carruggio, ti rendi conto, che onore.

Tu con un compasso avevi pensato a un cerchio

e perché la circonferenza lambisse la spalliera

di Moro e la foce del Prino, avevi trovato un centro

e in quel punto hai voluto il nostro carruggio.

Non è giusto dire è passato così tanto tempo

che a volte rientro e mi rifiuto di percorrere

la tua vena di asfalto.

Non è questione di tempo, no, e uno non torna

neanche perché sa che torna da clandestino,

ma perché anche stavolta sai che poi tornerai

ad andartene da espulso.

Per questo, mi basta sfiorarti e fermarmi

in una stanza di albergo ai tuoi piedi,

e star lì alla finestra – starci bene lo ammetto –

come il geco di Palomar, posto nell’insolita posizione

di spalle a te, le dita come ventose ai vetri,

il silenzio da cui appare un molo che non è

più terra né mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdR: la poesia è tratta dalla raccolta “All’ombra della palme tagliate” (Amos Edizioni, 2018), illustrata da Sergio «Ciacio» Biancheri

 

I poeti appartati: Fernando Bandini

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Nota

di

Alida Airaghi

Fernando Bandini (Vicenza, 1931-2013) poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova, compose versi in italiano, latino e dialetto vicentino, e fu egregio traduttore di classici.
Mondadori giustamente pubblica ora Tutte le poesie, a cura di Rodolfo Zucco, con introduzione di Gian Luigi Beccaria e un saggio biografico di Lorenzo Renzi. Il volume ripropone, nelle sue 700 pagine, non solo le raccolte minori (a partire da Memoria del futuro del 1969 fino a Un altro inverno del 2012), ma anche poesie disperse, una scelta di traduzioni e di testi in latino, con un ricchissimo apparato di note e una dettagliata bibliografia.
Partendo proprio dall’affettuoso contributo di Lorenzo Renzi sulla vita dell’autore, veniamo a sapere della sua nascita – primogenito di quattro figli – in una famiglia modesta, della perdita precoce del padre, degli studi prima in un collegio religioso, quindi all’università patavina, allievo di Gianfranco Folena. Maestro per sedici anni in varie sedi della provincia vicentina, nel 1972 iniziò la carriera universitaria. Non lasciò mai Vicenza, pur vivendo con la città un rapporto ambivalente, «di odio verso l’ambiente provinciale e retrivo», e insieme di affetto e identificazione. Ad Aznèciv (come la chiamava spesso nelle sue composizioni, trasfigurandola ironicamente con un palindromo) frequentava intellettuali famosi come Piovene, Parise e l’editore Neri Pozza, che fu il primo a pubblicarlo nel 1962, animando in loro compagnia circoli culturali e associazioni politiche. Da un’iniziale vicinanza al cattolicesimo progressista, passò con la maturità a un impegno laico e socialista, nel costante richiamo di integrità e resistenza rispetto a una contemporaneità imbarbarita e disumanizzante.
Renzi si sofferma anche sul carattere dell’uomo, semplice e signorile, dotato di humor, rasserenante nel suo eloquio dolcemente segnato dalla cadenza veneta.

La poesia di Fernando Bandini, sebbene non abbia goduto del riconoscimento e del successo pubblico che meritava, sia a causa della sua atipicità e del severo virtuosismo formale, sia per il profilo discreto e riservato della persona, ebbe molti estimatori tra letterati e critici: Zanzotto e Raboni, in primis, e poi i più giovani allievi e seguaci Paolo Lanaro e Rodolfo Zucco. Andrea Zanzotto lo definì: «poeta eccezionale tra pacatezza e meditazione», e Giovanni Raboni commentò con ammirazione la sua «poesia percorsa da una sottile mobilità e inquietudine», e il suo «parlare sommesso e ragionativo». Dello stile di Bandini si occupa specificamente l’introduzione di Gian Luigi Beccaria, che evidenzia «la limpidità della lingua… la sensibilità e la perizia metrica… la piena sostanza sintattica… una medietà e colloquialità simulata» praticate da questo poeta che si muoveva «fuori da scuole o gruppi», consapevole però del valore di tutta la tradizione letteraria italiana, e contiguo agli esiti di Giudici e Raboni, piuttosto che alle dissacrazioni, agli ermetismi e ai tecnicismi delle avanguardie. In relazione ai contenuti della sua scrittura, Beccaria sottolinea l’«appartata / tenerezza», affettuosamente complice, con cui Bandini guardava agli affetti familiari e alla quotidianità domestica, alle presenze animali e vegetali della natura, alla «farragine di tetti» della sua piccola Aznèciv («questa città dove all’alba / riconosco alla voce ogni campana», «questa città / indotta e bigotta»). Un mondo che amava raccontare anche in dialetto ‒ lingua “subliminale”, che scava nei meandri mentali ‒, rievocando e ricostruendo una storia personale e collettiva, piena di sogni e di incubi: «Dove le càtito, ciò! le parole / che ghi n’è sempre manco? / Le cato te le spassaúre / che i descarga de sfròso in meso ai prà».

Dal microcosmo locale, Bandini riusciva poi ad innalzarsi fino alle quote eccelse di un’osservazione stupefatta dell’universo: «oltre i confini dei miei occhi verso / regioni dove non arriverò mai».
La cifra più evidente della sua poesia rimane comunque quella della memoria, della nostalgia per l’infanzia e la giovinezza, soprattutto a partire dalle ultime raccolte di versi, là dove impegno e indignazione civile, pur rimanendo intuibili in una sorta di risentimento ideologico, cedono il passo alla consolazione del ricordo, allo struggimento per il perduto: «Voi dove siete andate, / care voci alloglotte / che una volta sentivo / parlare dalla cavità dei muri?», «O primavera celeste / dei miei quattordici anni, / fughe, proiettili, fiori», «A vent’anni sognavo allori. / Dio, che sciocchezza! / Ebbro del fumo della mia sigaretta / andavo incontro ai galli / che cantavano sulla collina, / vedendomi famoso», «I gatti che ho amato / adesso dove sono, in che tranquillo Eliso / o miagolante Averno?»,
«I miei compagni morti, franati nell’Eterno / sotto le bombe come / ora evocarne il nome, come piangerli?».
Orgogliosamente il poeta difendeva la sua scelta di far rivivere nei versi il tempo trascorso: «Non si tratta di ritrovare il passato né di guardare il passato con lo sguardo degli eruditi o con l’atteggiamento dei conservatori. Ma solo di ricordare che il futuro è anche memoria».
Vorrei infine accennare, per quello che può essere consentito nell’ambito di una semplice recensione, all’attività di traduttore e di autore in latino di Bandini, che così si esprimeva al riguardo: «Dialetto e latino sono lingue-rifugio, camminamenti di talpa scavati sotto la terra per vedere le parole dalla parte della radice». Riferendosi alla prima delle due specifiche competenze, con fierezza ribadiva: «Tradurre una poesia è scrivere una poesia». Si cimentò con i testi di Virgilio, Orazio, Arnaut Daniel, Rimbaud e Baudelaire, arrivando addirittura a trasporre in latino alcune composizioni di Montale («Anguilla borealium / syrenen marium //… quidni credideris paene sororculam?»).
Relativamente alla sua straordinaria capacità di utilizzare una lingua morta per esprimere contenuti e sentimenti del tutto moderni, affermava che ricorrendo ad essa intendeva recuperare «sensi perduti, la capacità di evocare una qualche immagine paradigmatica dell’uomo nel frammentato panorama della poesia d’oggi»: pertanto rigettava con fastidio l’accusa di sentimentalismo e di un conservatorismo “pascolizzante”. Se tali pubblicazioni si segnalarono a livello internazionale per quantità e qualità a partire dagli anni ’70, fu soprattutto la produzione in «un limpido, saldo italiano» quella a cui demandava l’interesse e la volontà di essere ricordato come poeta, convinto che movente fondamentale della sua scrittura dovesse essere la «volontà di dire», la capacità di comunicare con nitida eleganza, come giustamente sottolinea Rodolfo Zucco, attento e appassionato curatore di questo volume.

 

Sette poesie

di Fernando Bandini

 

Ci vorranno giorni

Ci vorranno giorni e giorni per lavare questa colpa
che non è colpa né mia né tua
ma di chi diede gli ordini e di chi vi obbedì,

per tutto il fascismo che ci brulica sotto
come un formicaio nascosto dall’erba:
fascismo nell’occhio della quaglia tremante

e in quello del ragazzo che attraversa il grano.

Da Memoria del futuro, Mondadori 1969

 

Nessuna parola

Così abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la fa.
Tutto è silenzio dopo lo schianto dei rami,
nessuna parola aveva colto nel segno.

Da La mantide e la città, Mondadori 1979

***

Amnesia

Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia.
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.

E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.
Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?

Da La mantide e la città, Mondadori 1979

 

Desso i me spoia nuo

Desso i me spoia nuo.
I pensa
che la roba che i serca mi la sconda
soto i vestiti.
I dise che i me cavarà
le onge se no parlo,
i me mola na svèntola.
Desso i me verze
i denti co na méssola.
Quelo che i serca i pensa che lo sconda
soto la lingua.
No i sa che la xe solo
roba che se se insogna.

(Adesso mi spogliano nudo Adesso mi spogliano nudo. / Pensano / che la cosa che cercano io la nasconda / sotto i vestiti. // Dicono che mi caveranno / le unghie se non parlo, / mi mollano un ceffone. // Adesso mi aprono / i denti con una falce. / Quello che cercano pensano che io lo nasconda / sotto la lingua. // Non sanno che si tratta soltanto / di cose che si vedono in sogno).

Da Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994

 

Meridiano di Greenwich

Mi sembravi quasi un’estranea
Mentre eravamo tra la folla
A Piccadilly o nella sotterranea.
Ma qui nei recessi del bosco
di Greenwich dove il sole è una fioca corolla
dai baci, amore mio, ti riconosco.

Da Meridiano di Greenwich, Garzanti 1998

 

Voci serali

Adesso il mondo non è più remoto.
Sta tutto addosso a noi,
tutto pigiato nelle
stanze sgomente delle nostre case.
Ma ci sono giù in strada dei bambini
che si gridano «ciao».
Una volta, due volte – mentre l’uno
dall’altro si allontana – tre volte, quattro volte,
senza voltarsi indietro.
E le voci si librano nell’aria
finché l’azzurro della sera è solo
loro esclusiva eco.
Cinque volte, sei volte, sette volte.
Forse perché si accordano
ai battiti del tempo, ne scandiscono
la diastole e la sistole.
O forse il loro modo di contare
somiglia un poco al mio
quando conto le sillabe dei versi
stoltamente sperando che una grazia celeste
mi rimanga impigliata tra le dita.

Da Dietro i cancelli, Garzanti 2007

 

Ricevendo da Copenaghen nel mio ottantesimo compleanno
una cartolina di auguri raffigurante un paesaggio polare

Si vedono i pinguini sulla banchisa dell’Oceano Artico
che guardano lontano schierati lungo il lido
a centinaia, in piedi, presumo senza un grido,
in quello sconfinato bianco. Ma dove spazia
il loro vacuo sguardo non c’è più mondo ormai,
solo disabitate isole che hanno il nome
di sovrani d’imperi già tramontati come
Zemlya Frantsa Iosepha.

Io t’invoco, Signore, dal mio più mite Sud.
Non sottrarmi, ti prego, le voci della terra,
il chiassoso risveglio dei tuoi uccellini.
Quanto c’era di meglio l’ho già visto quaggiù,
mi annoierei, io temo, nel tuo paradiso.

Da Un altro inverno, Il Girasole 2012

Questi fantasmi di un autunno romano, tra Manganelli e Hitchcock 

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di Matteo Pelliti

Luca Ricci approda al romanzo, Gli autunnali (La Nave di Teseo, 2018) senza rinnegare il suo passo da raccontista convinto e, anzi, dedicando questo ultimo lavoro al suo nume Maupassant, l’autore che, a detta dello stesso Ricci, lo avviò sulla strada della scrittura durante una giovanile peregrinazione per i lungarni pisani in preda a una lettura capace di imprigionarlo fuori dal tempo fino a che non l’avesse conclusa. “Tornano, i morti?”, si chiede Maupassant nell’epigrafe del capitolo Ottobre. Evidentemente sì, se è vero che la letteratura è inesauribile dialogo coi morti (chi ha scritto prima di noi) e che questo romanzo è reincarnazione di alcune membra di racconti, smembrati (senza dolore) dell’autore per farne carne da romanzo. Specularmente a quanto aveva fatto appena poco tempo fa, sopprimendo romanzi per farne racconti (I difetti fondamentali, Rizzoli 2107) qui Ricci si auto-cannibalizza riusando suoi moduli propri (come dichiara esplicitamente nella nota a fine testo). Il risultato degli innesti è invisibile e riuscito (Il piede nel letto) e, dove in qualche punto qualche cicatrice pare riaffiorare sulla pagina (come nell’uso del racconto Amici immaginari), ciò costituisce un grumo narrativo posto a sbalzo, a render omaggio all’arte del racconto, come inserendo un quadro in un quadro. 

Il cosmo di Dante e il caos di Gombrowicz

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[Il saggio “Su Dante” di Witold Gombrowicz (trad. di Roberto Landau), tratto dai suoi diari, apparso per la prima volta in Francia e già edito da Sugar (Milano) nel 1969, è riproposto oggi da Dante & Descartes (Napoli). Pubblico la prefazione di Vittorio Celotto, ringraziando il curatore e l’editore. ot]

di Vittorio Celotto

Nei primi capitoli di Ferdydurke (1939), il protagonista, trasformato in bambino dal professore Pimko, viene trascinato a forza in una bizzarra scuola, dove le lezioni sono formule sclerotizzate ripetute fino alla nausea, e gli allievi sono letteralmente costretti a provare ammirazione per un certo poeta nazionale, per la semplice ragione che “era un grande poeta”. Quando uno studente osa confessare di far fatica a leggere anche solo due strofe dei suoi poemi, perché “quella roba non piace a nessuno”, Pimko, allarmato, infligge alla classe la pubblica declamazione della sua opera completa, concludendo che “la grande poesia, in quanto grande e in quanto poesia, non può non suscitare ammirazione, e quindi la suscita”.
L’opuscolo Su Dante, pubblicato nel 1966, si può immaginare come la replica ideale che Gombrowicz, a trent’anni di distanza da quel suo primo romanzo, rivolge a quel professore. Si tratta di un pamphlet polemico più che di un saggio di critica letteraria, lettura compromessa e deformante, gravida di memoria e personale ostinazione, che probabilmente ci parla di Gombrowicz più di quanto non ci aiuti a capire la Commedia. Ma pochi libri, come questo, obbligano a liberarsi della retorica ossequiosa che infetta ogni discorso su Dante, per riflettere sulla sua lunga durata nel canone delle nostre letture. Il tono corrosivo di queste pagine, la disarticolata architettura dei pensieri, rivelano l’applicazione ossessiva di chi ha rovistato nelle stesse maglie della poesia dantesca, e non altrove, per cercarne le ragioni della bellezza. Gombrowicz resiste a ogni tentazione apologetica, che anzi è il suo primo bersaglio polemico, e non elude, ma aggredisce frontalmente il dubbio che era stato anche dello scolaro di Ferdydurke: che cosa la Commedia, questo lungo poema in versi intriso di mentalità medievale, abbia ancora da dire al lettore del Novecento.
Dante viene sottoposto al tribunale del presente con uno spirito di provocazione e una carica eversiva del tutto inediti. La sua poesia viene rivoltata e scomposta attraverso molteplici punti di osservazione, perché sia essa stessa a fornire i mezzi per farsi comprendere e apprezzare. Si alternano così giudizi contrastanti, la cui apparente perentorietà è costantemente contraddetta da nuovi livelli di analisi, che partoriscono nuovi giudizi, denunciando una continua esitazione tra attrazione e rifiuto. Non è un caso che nessuna delle aporie sollevate dal libro venga risolta definitivamente e che la conclusione coincida con una serie di domande destinate a rimanere senza risposta. A Gombrowicz importa decisamente meno sostenere una tesi a forza di argomentazioni che esibire provocatoriamente il rovello della sua ricerca delle verità che la letteratura di ogni tempo è chiamata a esprimere.
È chiaro che queste pagine, al pari delle molte altre sparse nei suoi diari contro i poeti e contro la poesia, vanno riportate dentro il dibattito culturale in atto nel secondo dopoguerra in Europa. Vanno cioè lette come reazione ai miti letterari in auge in quegli anni, primo fra tutti quello della poesia pura e dell’estetismo borghese che dietro la sacralità del lirismo maschera la sua rinuncia a guardare agli orrori e alle bassezze della realtà. Gombrowicz passa tutta la vita a opporsi alla classe intellettuale europea (e non solo), che considera ridicolmente arroccata nell’autoreferenzialità e nell’autocelebrazione, riparata dietro vuote posture ideologiche, incapace di abbracciare la magmatica vitalità delle cose. L’opuscolo dantesco è perciò anche una critica al culto aristocratico del vate e, più in generale, alle impalcature fintamente oggettive imposte dalla recente critica strutturalista, tanto più sterili e inefficaci quanto più chiuse nella loro pretesa di imparzialità.
Osservate da questa prospettiva, queste pagine, apparentemente contro Dante, sono in realtà lo sforzo di instaurare un dialogo vivo con Dante, di recuperare l’uomo dietro e attraverso l’opera: sono un organo di resistenza al rischio che una tale personalità poetica finisca mummificata e convertita in puro nome, che di lui non sia più possibile dire o sapere altro che il nome.
Ci si può chiedere perché proprio Dante. Perché, tra i suoi tanti idoli polemici, Gombrowicz abbia scelto di approfondire la sua critica proprio su Dante. Non c’è dubbio che lo abbia letto fin dagli anni della sua formazione. Lo dimostrano ancora le prime pagine di Ferdydurke, dove sono citati i primi versi dell’Inferno, seppure per via di manipolazione: “nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai per una selva oscura. E il guaio era che si trattava di una selva verde“. Il cammino del protagonista non ha, non può avere più nulla dell’allegorico pellegrinaggio dantesco, ne è piuttosto la versione degradata: la selva è verde, tutta terrestre, il male ha tinte non più così facilmente riconoscibili, la guida è un pedante ciarlatano, la strada è intricata e non condurrà a nessuna salvezza.
Ma forse più ancora che nel primo romanzo, la chiave per comprendere il rapporto con Dante è in Cosmo (1965). Il titolo allude all’immagine, di matrice classico-cristiana, dell’armonia del mondo: cioè a un sistema di corrispondenze tra microcosmo mondano e macrocosmo trascendentale, che fa dell’universo lo specchio della perfezione e della bontà divine. Gombrowicz stesso lo definisce “un tentativo di organizzare il caos”, e si può credere senza troppe forzature che l’ordine metafisico rappresentato nella Commedia sia stato per lui un punto di riferimento. Ma l’ossessiva investigazione dei due protagonisti del romanzo non è che la ratifica definitiva della caduta di quell’ideale di armonia. I segni sono indecifrabili, le cose tragicamente irrelate, e il bisogno di trovare delle corrispondenze non porta ad altro che a confondere una banale crepa nel muro con una freccia che non porta da nessuna parte.
È un tema ricorrente nella narrativa di Gombrowicz. Ogni individuo è imprigionato in forme precostituite, nelle quali non può identificarsi perché ne limitano libertà ed espressione, costringendolo a una vita inautentica. Allo stesso tempo però non può fare a meno di ricercare spasmodicamente quelle stesse forme, che sono l’unico mezzo di cui dispone per comprendere sé stesso e la realtà circostante. Il bisogno di affermare, di supporre nelle cose un ordine maggiore, è contraddetto puntualmente da una realtà che si nega a ogni definizione, destinando ogni sforzo all’inanità.
Si capisce allora che la Commedia rappresenta per Gombrowicz proprio questo sforzo, sempre insufficiente eppure insopprimibile, che risiede nell’uomo quasi più come una condanna che come una possibilità conoscitiva. Da dentro l’insensatezza invalicabile e prepotente delle parole e delle cose, resta una qualche nostalgia di un tramontato ordine archetipico, di quando era possibile affidarsi a una divina architettura. Ma Gombrowicz non si accontenta di facili risarcimenti. Pretende da Dante una risposta sul presente, e questo spiega il suo atteggiamento agonistico, che lo spinge persino al paradosso di correggere e riscrivere i versi danteschi, come per scuoterli, scrostarli delle impurità accumulate in secoli di concilianti interpretazioni, e cavarci finalmente una via d’uscita: “spiegaci, o Pellegrino, come dobbiamo fare per giungere a te?”.
T.S. Eliot scriveva che per comprendere e apprezzare la Commedia non è necessario credere nelle idee filosofiche e teologiche in cui credeva Dante, bensì è sufficiente conoscerle. Che sia possibile giudicare ogni aspetto della realtà entro un disegno provvidenzialmente disposto, è per Dante una verità incontrovertibile. Gombrowicz non può più credere in questa verità, ma nel contempo non gli basta semplicemente conoscerla. Sa che il cosmo si polverizza inesorabilmente nel caos, l’ordine è compromesso dall’inferno dell’esistere, non lo spiega. Il suo Dante è la traccia rabbiosa di questo conflitto, la ferita inferta dal tragico compito di ammettere di essere nati per viver come bruti.